La “buona tecnica” e l’ipotattico
scrivere; favole antiche e questioni d’oggidì.
Recupero finalmente il pacco con
i libri rari speditomi a fine novembre da Agato Bruno. Risultava introvabile il
volume di Pier Maria Rosso di San Secondo “Tutto il Teatro – la dimensione
europea”. Il secondo volume ero riuscito a procurarmelo a Roma presso la
specializzata IBS di via Nazionale.
L’altro volumetto ormai ancora
più introvabile è “La Sicilia, il suo cuore – Favole della dittatura” del
nostro grande Leonardo Sciascia, l’Adelphi l’ha ceduto alla Bompiani ed ha tolto
di circolazione il dignitoso libretto che ospitava al n° 400 della Piccola
Biblioteca. Perché ciò non si sa o io non so o se non so questo non vuol dire
che non sospetti, e di grosso. Debbo notiziare che la casa Editrice dopo pensamenti
mi diffida dal chiosare con splendide pitture di Agato Bruno quelle favolette
scritte da Sciascia prima del 1950. Senza mezzi termini mi invia un post ove si
ardisce interdire opere d’ingegno altrui e non si accordano non richieste
autorizzazioni. Ho avuto voglia di pensare che la simonia non è solo nelle cose
della chiesa cattolica, ma alberga anche tra i mercanti delle opere di ingegno
e tra i locupletanti ereditieri dei sommi e Sciascia sommo lo fu.
Resta singolare che le pagg.
67-71 accolgano un saggio del 1951 di Pier Paolo Pasolini, il terzo volume
della Bompiani, no. Cosa sia successo non mi è dato di sapere. Anche qui
sospetti .. buoni per eventuali dispetti.
Come qualcuno sa, mi sono
adoperato per far desumere opere pittoriche dal testo delle favole edite nel 1950 dalla Baldi,
pronubo quel Mario dell’Arco che venne a Racalmuto per piazzare per poche lire
alcune sue favole al Circolo Unione. In cambio, Sciascia pubblicò il suo primo
lavoretto presso la tipografia del Parlamento, Baldi. Di quella edizione
posseggo le fotocopie degli omaggi a pagamento che Sciascia fece del suo primo
successo editoriale a Giuseppe Gregorio Delfino (in Racalmuto il 28/11/1950)
ed al suo fido e valido parente Jachino Farrauto. Il gusto scabro ed elegante
della stampa Sciascia ce l’ha già tutto, e se l’Adelphi con la sua Piccola
Biblioteca non scantona troppo, non altrettanto può dirsi della inelegante pingue
edizione della Bompiani. Pervenuto il libretto Adephi, leggo il Pasolini. Qui
il sommo Pier Paolo bleffa alquanto. Elegia ma fuori campo. Il testo sciasciano
esordisce con il latino sempliciotto di Fedro (superior stabat lupus), cosa da
quarta ginnasiale. Ma Sciascia non credo che sia stato un ginnasiale. Fino a
quindici anni scribacchiava da cane le cartoline “fascistissime” a don Piddu
Tulumello. Esaltava e si esaltava per le adunate che aveva potuto ammirare a
Trieste, meta di uno dei suoi giovanili viaggi a spese di zii federali e di zie
maestre elementari. Povere cose – diceva – quelle di Racalmuto, a confronto. Ma
qui almeno la maestra Taibi faceva sfilare fanciulle in fiore di quella che
sarà Regalpetra e tra queste v’era una tale innominata dal petto straripante che
eccitava entrambi i due corrispondenti. La grammatica a quel tempo era per
Nardu un optional. E tale restò anche nell'immediato dopoguerra per quello che
gli rimbrottava un autorevole firma vaticanesca, come rammento di aver letto.
Dice Pasolini: “queste favole hanno
la chiusura di brevi liriche, e richiamiamoci pure al quadretto di genere
alessandrino, alla maiolica orientale, o alla lirica popolare (e magari proprio
siciliana), tanto per dare al lettore un’idea di questo linguaggio”. “Troppo garante
di non volgare attualità è questa lingua così ferma e tersa”. Comunque “questi
improvvisi bagliori, queste gocce di sangue rappreso, sono assorbiti nel
contesto di questo linguaggio, così puro che il lettore si chiede se per caso
il suo stesso contenuto, la dittatura, non sia stata una favola”.
L’alato scrivere è fuori
discussione, ma il concetto non dovette essere “tenace” duraturo, se Sciascia a
quasi un decennio dopo sente il bisogno di puntualizzare, gradire eppure
contrapporsi, specificare in un commento al suo riuscitissimo pamphlet “ La Parrocchie di Regalpetra” e scrivere note
come queste: “debbo confessare che proprio sugli scrittori ‘rondisti’ - Savarese, Cecchi, Barilli – ho imparato a
scrivere”; “tengo a dichiarare che avendo cominciato a pubblicare dopo i trent’anni,
cioè dopo avere scontato in privato tutti i possibili latinucci che si
imponevano a quelli della mia generazione, da allora non ho avuto problemi di
espressione, di forma se non subordinati all’esigenza di ordinare razionalmente
il conosciuto più che il conoscibile e di documentare e raccontare con buona
tecnica”. Lode a Pasolini dunque ma per sola buona educazione (e i malevoli
direbbero per convenienza) ma Sciascia non poteva accettare stilemi non
congeniali; non accettabile, dunque, che “la sua ricerca documentaria e
addirittura la sua denuncia”, potessero concretarsi “ in forme ipotattiche, - a dire di Pier Paolo – sia pure semplici e
lucide: forme che non soltanto ordinano il conoscibile razionalmente (e fino a
questo punto la richiesta marxista del nazional-popolare è osservata) ma anche
squisitamente: sopravvivendo in tale saggismo il tipo stilistico della prosa d’arte,
del capitolo”. In questo tirar di fioretto tra due antitetici “intelletti” quel
che di sicuro emerge è che Sciascia non era ”marxista”, v’è persino stizza in
lui ed i sofismi tra il conoscibile (che è poi fantasia) e il conosciuto (la
galassia della memoria) sfumano nel “saper
raccontare con buona tecnica”. Con sapiente sintesi, con brevità, canoni cui mi
pare Leonardo Sciascia si adeguò con crescente e mirabile puntiglio.
Mi pare quindi disallineata la pagina che il
professore Antonio Di Grado ci regala nell’introdurre “gli amici della Noce”.
Paratassi oltre i limiti, apparire eruditi citando (un richiamo colto ogni due
righe), avventurarsi solo nel conoscibile, elusivi nella memoria e nella
contemplazione. Il magistero cade su “confrerès”; gli affetti e le intelligenze
sono un grumo intorno ai ricchi silenzi; le citazioni, allusive; il carisma,
sobrio. Si citano le “conversazioni in Sicilia”, ma non Elio Vittorini: il
magistero intellettuale del grande scrittore non avrebbe gradito: e chiarisce
ora il perché, spandendo fuoco nel mare in dispregio dei desiderata del caro
estinto, Paolo Squillacioti (pagg. 186-187).
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