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Introduzione
Forse risponde al vero che un tale Antonino del
Carretto, un avventuriero ligure, ebbe a circuire la giovane Costanza
Chiaramonte e farsi sposare - lui vecchio e prossimo a morire - spendendo
l’altisonante titolo di marchese di Finale e di Savona negli anni di esordio
del turbolento secolo XIV. Forse davvero Costanza Chiaramonte, figlia
primogenita del rampante cadetto Federico II Chiaramonte, era bella, anzi
bellissima - secondo quel che la pretesca fantasia del pruriginoso Inveges ci
ha propinato nel suo Cartagine
Siciliana. Forse davvero il matrimonio fu fecondato dalla nascita di un
ennesimo Antonino del Carretto. Forse è attendibile che - non tanto la baronia
di Racalmuto, di sicuro inesistente a quel tempo - ma almeno fertili lembi di
terra alla Menta, a Garamoli, al Roveto furono dati in dote come beni
“burgensatici” da Federico II Chiaramonte a codesto nipotino, mezzo siculo e
mezzo ligure. Il solito Inveges lo attesta: ma era un falsario come il grande
storico Illuminato Peri ampiamente dimostra.
Di questi oscuri esordi della signoria dei del
Carretto su Racalmuto, quel che di certo abbiamo è un processo d’investitura -
la cui datazione sicura deve farsi risalire al 1400 - che il prof. Giuseppe Nalbone,
solo negli anni ’novanta di questo secolo, ha avuto il destro di riesumare dai
polverosi archivi di Stato di Palermo.
Scopo,
intento, occorrenza ed altro sono talmente trasparenti e svelano in modo così
esplicito la voglia di accreditare titoli nobiliari dinanzi gli Aragonesi che
resta particolarmente ostico travalicare i limiti di una fioca credibilità a
quel vantare ascendenze altisonanti da parte di Giovanni, figlio del cadetto
Matteo del Carretto, rapace esattore delle imposte dei Martino, i noti
avventurieri dell’ “avara povertà di Catalogna” che piombarono sull’imbelle
Sicilia allo spirare del XIV secolo.
A noi - racalmutesi - quegli intrighi
matrimoniali esattoriali predatori e via discorrendo interessano perché sono la
nostra storia, quella vera e non quella oleografica che dal Tinebra Martorana
ai vari storici locali, non escluso Leonardo Sciascia, sembra deliziare i
nostri compaesani e deliziarli tanto maggiormente quanto più cervellotico è il
costrutto fantasioso.
Giuseppe Nalbone ha speso tempo e denaro per
raccogliere presso gli archivi di Palermo la documentazione veridica sui del
Carretto. Quella documentazione più vetusta ed originale - la documentazione
dei processi d’investitura - viene qui riprodotta, sia pure nell’interno dell’accluso
cd-rom. Carta canta e villan dorme: non si può fantasticare quando ostici
diplomi vengono - ed è arduo - disvelati. Addio del Carretto alle prese con
vergini violate prima di passare a giuste nozze per un inesistente ius primae
noctis; addio servi fedifraghi strumenti di uxoricidi a comando di principesche
padrone dalle propensioni all’adulterio irridente con i propri giovani
stallieri; addio frati omicidi; addio preti in “alumbramiento; addio terraggi e terraggioli vessatori; addio
secrete ove innumeri villici sparivano e morivano come cani. Addio storielle
che Tinebra e Messana ci hanno fatto credere come verità inoppugnabili. Addio
moralismo sciasciano.
Un quadro - ora inquietante, ora banalmente
normale, ora esplicativo, ora feudalmente complesso - affiora con tasselli
variamente policromi a testimoniare una vita a Racalmuto sotto il dominio
consueto per l’epoca dei baroni del Carretto che verso la fine del Cinquecento
dopo un paio di secoli di egemonia (a dire il vero spesso illuminata) hanno
voglia di farsi attribuire un’arma ancor più prestigiosa, di farsi nominare
conti di Racalmuto, mancando però l’obiettivo di aver riconosciuto titolo di
marchesato che infondatamente in esordio avevano contrabbandato.
Certo se Eugenio Napoleone Messana aveva in
qualcuno fatto sorgere un familiare orgoglio per un nobile matrimonio tra
Scipione Savatteri ed un’improbabile figlia dei del Carretto, la documentazione
che andiamo a pubblicare spazza via ogni briciola di credibilità di una tale
ingenua favoletta.
E quel
che si scrive su data e struttura del Castello chiaramontano svanisce
miseramente, come diviene commiserevole ogni sicumera sulla storia del
Castelluccio.
Già, carta canta e villan dorme!
Parte Prima
UN
EXCURSUS DELLA STORIA RACALMUTESE FINO ALL’ASSUNZIONE DEL TITOLO DI CONTE DA
PARTE DEI DEL CARRETTO
Dai barlumi dell’archeologia locale affiora,
flebile ma con contorni alquanto netti, l’insediamento sicano di quattromila
anni fa lungo l’intero arco collinare sud est e sud ovest racalmutese.
Verso il 13° secolo a.C., quella civiltà sembra
eclissarsi, forse per l’esodo, dovuto a paura per i naviganti micenei, verso le
più protettive montagne di Milena, Bompensiere e Montedoro. Arrivano quindi i
greci, ma Racalmuto è ancora deserta ed impervia per attirare i coloni
agragantini. Solo verso il VII secolo la moneta con il granchio di Agragas
sembra far capolino nelle fertili plaghe del nostro altipiano. Poi, si diventa
meri subalterni della potente polis, così come per tutta l’epoca romana. Tra il
II ed il IV secolo d.C., da Commodo in poi, le risorse solfifere vengono
apprezzate e sfruttate, come stanno a documentare le tegulae o tabulae
sulfuris, che l’avv. Giuseppe Picone ebbe la ventura di scoprire per primo
verso la fine del secolo XIX.
Allo spirare dell’Impero romano, la feracità
del suolo racalmutese sembra avere attirato sia pure fugacemente le brame
espoliatrici di Genserico e dei suoi Vandali; ma tocca ai Bizantini stabilire
insediamenti significativi in località Grotticelle e dintorni. Monete di
Tiberio II e di Heracleone saranno poi rinvenute, nel 1940, in contrada
Montagna, ma per caso ed in luogo che all’epoca era forse disabitato: un
nascondiglio, dunque, sicuro e lontano da occhi indiscreti.
Giungono gli Arabi: sono guerrieri, disdegnosi
di sede fissa, violenti e ladroni. A Racalmuto trovano ben poco e subito si
dileguano. Subentrano i Berberi, contadini e pacifici: ebbero forse a convivere
con i mansueti bizantini del luogo.
I Normanni del Conte Ruggero, 600 cavalleggeri
- pare, depredarono il territorio dell’altipiano ove sembra sorgesse un imprecisato Racel... a dire del Malaterra. Nel
XII secolo, il gaito saraceno Chamuth, signore della vicino Naro, con molta
probabilità aveva il dominio del nostro Altipiano e forse vi eresse un
fortilizio, un Rahal: da qui il
toponimo Rahal Chamuth, a
seguire l’acuta congettura del Garufi. I Saraceni furono, specie sotto Federico
II, ribelli e violenti: imprigionarono persino il vescovo agrigentino Ursone.
Federico II non fu tenero verso di loro, deportò a Lucera i caporioni; gli
altri - i più pavidi ed i meno appariscenti - si dispersero assumendo nomi
latineggianti o fingendo antica professione di fede cattolica. Per uno o due
decenni Racalmuto rimase comunque deserta. Un tale della famiglia Musca - forse
Federico Musca - poté appropriarsi del territorio, portarvi fuggiaschi,
verosimilmente ex saraceni, dotarli di terra e mezzi di lavoro e far sorgere un
nuovo casale. Il suddetto Federico Musca finì però con l’osteggiare il
vincitore Carlo d’Angiò e costui lo spogliò di quel casale assegnandolo nel
1271 a tal Pietro Negrello di Belmonte: un diploma degli archivi angioini ne
specificava - prima di esser distrutto dai nazisti nel 1943 - termini, modalità
e dettagli. Finiva, per altro verso, quella che possiamo considerare la
preistoria racalmutese: un periodo buio ed incerto che ebbe a protrarsi per
circa 33 secoli. Quel che per tal periodo si è scritto - ed è tanto ed anche
dalla penna più illustre del luogo - è solo cervellotica congettura. Possiamo
solo credere a quei radi reperti archeologici di cui si ha conoscenza ed a quel
poco, spesso nulla, che riescono a svelarci di tanto defluire umano degli
antichi racalmutesi.
Con i Vespri Siciliani, il casale di Racalmuto
acquisisce importanza e ruolo perché può fornire tasse e balzelli alla famelica
pirateria di un Pietro d’Aragona. Il centro abitato non contava più di 75
fuochi (circa 265 abitanti). Nel 1376 i fuochi erano aumentati a 136 (circa 480
abitanti). Frattanto, Racalmuto - a dire del Fazello - era stato requisito da
Federico di Chiaramonte che pare vi abbia costruito le torri del castello nella
prima decade del 1300. Si sa che Costanza Chiaramonte, unica figlia di
Federico, fu l’erede universale. Che abbia sposato prima il girovago ligure
Antonio del Carretto e poi, divenuta vedova, l’avventuriero Brancaleone Doria -
forse quello dannato all’inferno da Dante - si dice e qualche documento degli
archivi di Stato palermitani sembra confermarlo. Resta comunque certo che sino
al 1396 Racalmuto è dominio dei Chiaramonte, in particolare del celebre figlio
illegittimo Manfredi Chiaramonte - lo attestano le carte dell’Archivio Segreto
Vaticano.
Tocca a Matteo del Carretto rimpossessarsi del
feudo, farne una baronia e farsene riconoscere titolare dal re Martino,
naturalmente previo esborso di sonanti once. Il figlio Giovanni primo del
Carretto è ancor più rapace del padre.
Nel 1404, Racalmuto è ancora fermo a 150 fuochi
(540 abitanti). Un secolo dopo nel 1505, al tempo della “venuta” della Madonna
del Monte, la sua popolazione sale a 473 fuochi (1670 abitanti). Ora domina il
barone di Racalmuto Ercole del Carretto. Il figlio Giovanni II esordisce con un
delitto: commissiona a tal Giacchetto di Naro la strage dei Barresi di
Castronovo per vendicare l’uccisione del fratello Paolo, antenato di Vincenzo
di Giovanni che nei primi decenni del 1600 scriverà una complessa trattazione
su Palermo Restaurato, ove
rammenterà quei truci e letali eventi. Dopo, rimorsi e crisi religiose
spingeranno quel del Carretto a costruire chiese e conventi ed a chiamare a
Racalmuto carmelitani e francescani per una redenzione spirituale sua e del suo
popolo. Certo, mero e misto impero, terraggio e terraggiolo ed una pletora
d’imposte e tasse feudali fioccarono sui racalmutesi. Un notaio venne chiamato
da Agrigento per i tanti atti del barone (e dei suoi vassalli): era quel tale
Jacopo Damiano che alla morte di Giovanni II del Carretto finì sotto
l’Inquisizione.
A metà del secolo, nel 1548, la popolazione
sale a n.° 896 fuochi (3163 abitanti), segno che la politica del barone non era
poi così devastante come sembra voler far credere Leonardo Sciascia.
Quello che non fa il barone, lo fa invece la
peste del 1576: la popolazione racalmutese viene decimata. Se crediamo ad un
documento del fondo Palagonia, dai 5279 abitanti del 1570 si sarebbe passati ad
appena n.° 2400 abitanti nel 1577. Ciò non è credibile e si deve alla voglia
tutta fiscale di impietosire il viceré per una contrazione delle “tande” in
mora e di quelle in atto. Di sfuggita, va detto che la tentata evasione fiscale
del 1577 non ebbe effetto. Le “tande” si basavano sulla tassa del macinato: la
drastica contrazione della popolazione non consentiva un gettito bastevole a
fronteggiare la soffocante tassazione del governo spagnolo. Questo non ebbe
pietà e la Universitas fu
costretta ad indebitarsi con gli stessi esattori, al contempo strozzini.
Sia come sia, nel 1593 Racalmuto sembra
risorta: gli abitanti ora sono in numero di 4448: ovviamente molti fuggiaschi
erano rientrati e, soprattutto, si doveva trovare conveniente emigrare dai
centri viciniori per sistemarsi nella neo-contea di Racalmuto, le cui
condizioni sociali, economiche e giuridiche in definitiva tornavano appetibili.
La questione
feudale racalmutese
Si attaglia perfettamente a Racalmuto quanto
ebbe a teorizzare Francesco De Stefano nel 1948, [1] specie allorché afferma: «.. nemmeno, ci fu
in origine, un baronaggio esigente ed esorbitante, perché né Ruggero I, né
Ruggero II lasciarono impiantare la grande feudalità.» Se è vero che in Sicilia
vi fu un processo inverso rispetto all’organizzazione feudale anglosassone, e
se questo processo inizia con un baronaggio “tarpato”, baronaggio che solo dopo
il 1154 poté sfrenarsi, altrettanto deve congetturarsi per il nostro paese. Ed
a ben vedere, bisogna aspettare la metà del Cinquecento per vedere Racalmuto
quale centro totalmente feudale, con un barone prima, e un conte dopo,
veri domini, forti ormai del
mero e misto impero (invero ambiguamente comprato a suon di once attorno al
1550).
Quando nel 1282, Racalmuto è una “universitas”, è proprio come asserisce il De Stefano[2]:
faceva parte delle “universitates” cioè a dire di quegli organismi riconosciuti come
tali nel diploma del 1268, per cui «ai giustizieri era ordinato che “magistri
iurati” e “judices in singulas partes regni creari debeant” e che le universitates delle terre
demaniali judices, e le feudali
ed ecclesiastiche iuratos “in
magistros juratos de communi voto omnium eligant.”» Alla luce di tale
insegnamento, dai diplomi dei Vespri possiamo desumere questa veste giuridica
del casale di Racalmuto: esso era demaniale, non aveva baroni ed eleggeva i
suoi giudici (judices) con voto unanime
dei suoi abitanti. Eccone una fonte: ci riferiamo al passo del 26 gennaio 1283
ind. XI, sopra illustrato, in cui «scriptum est Bajulo Judicibus et universis hominibus
Rakalmuti pro archeriis sive aliis armigeris peditibus quatuor». Se il paese ha
giudici e non giurati, vuol dire dunque che non è ancora feudale, oppure, per
la latitanza di quel Negrello di Belmonte napoletano, il casale da baronia è
stato derubricato in terra demaniale.
La dizione del documento è anche tale da
suggerirci l’ipotesi che il “castrum” (il castello) non fosse ancora sorto. E
ciò porta acqua alla tesi del Fazello che vuole le due torri feudali edificate
da Federico Chiaramonte poco prima del 1311.
Come e perché Federico Chiaramonte si fosse
impossessato di Racalmuto e che cosa l’abbia spinto a costruire quelle due
inutili torre cilindriche è sinora un mistero. L’Inveges, lo storico secentesco
che ci tramanda testamenti e cenni al riguardo, è relativamente attendibile,
avendo più interesse ad accattivarsi il favore dei potenti del tempo che voglia
di rispettare la verità storica. Ebbe o non ebbe gli originali di quegli atti
notarili che dichiara di possedere? O non si trattò di una falsificazione,
visto che nessuno è riuscito dopo a rintracciare quelle fonti?
Federico Chiaramonte va comunque considerato il
primo feudatario di Racalmuto, almeno dopo il trambusto avvenuto a cavallo dei
Vespri. Da espungere dalla verità storica le varie apocrife baronie dei
Malconvenant, degli Abrignano, dei Barresi ed ancor di più di Brancaleone Doria
che lo pseudo Muscia fa nostro barone addirittura prima di essere nato e cioè
nel 1296.
Il primo riconoscimento ufficiale della baronia
di Racalmuto è del 1396 e riguarda un diploma dei Martino a favore di Matteo
del Carretto. Al di là delle incertezze delle fonti diplomatiche del XIV secolo
- che si avranno modo di scandagliare - il nostro paese è incontrovertibilmente
terra feudale baronale solo a partire da tale data: prima sono solo fantasie e
sprovvedutezze di autori e scrittori locali, ivi compresi il sommo narratore di
Regalpetra e gli avveduti ecclesiastici dediti alla storia paesana.
GENESI ED
AFFERMAZIONE DELLA BARONIA DEI DEL CARRETTO A RACALMUTO
Dalle brume degli esordi racalmutesi della
schiatta dei Del Carretto affiora qualche piccola scisti veritiera: chi fosse
davvero quell’Antonio I Del Carretto che da Savona giunge ad Agrigento per
sposare Costanza, quest’unica figlia del cadetto Federico Chiaramonte, non
sappiamo. Possiamo escludere ogni effettiva egemonia sul feudo di Racalmuto.
Non sappiamo neppure se il figlio Antonio II del Carretto sia stato davvero
investito della baronia o se, alla morte di Matteo Doria, il titolo sia
pervenuto ai carretteschi. E ad investigare sugli intrecci nobiliari di quel
tempo, ci perderemmo in congetture di nessuna fondatezza storica. Il padre
Caruselli, Tinebra Martorana, Eugenio Napoleone Messana, questo l’hanno già
fatto e chi prova diletto nelle fantasiose enfiature araldiche può farvi
ricorso.
E’ fragile l’ipotesi secondo la quale esistette
un Antonio I Del Carretto - andato sposo a Costanza Chiaramonte – e neppure è
indubitabile che la coppia abbia avuto un figlio, Antonio II Del Carretto. Vi è
una sola fonte e sono le carte dell’investitura di Matteo Del Carretto, che,
tutte vere o totalmente o parzialmente falsificate che siano, risalgono allo
spirare del quattordicesimo secolo, circa 100 anni dopo il succedersi degli
eventi.
Su quelle carte torneremo in seguito per le
nostre esigenze narrative: qui ci basta richiamare l’attenzione sulla
circostanza di un Antonio II Del
Carretto trasmigrato a Genova (e non a Savona) e lì vi ha fatto fortuna in
compagnie di navigazioni. Strano che costui non ritenga di rivendicare la sua
quota del marchesato di Finale e Savona e non dare fastidio - neppure con la
sua presenza fisica - agli altri coeredi della sua stessa famiglia che continua
nell’egemonia di quei luoghi liguri senza neppure un coinvolgimento formale di
codesto figlio di un sedicente legittimo titolare.
Quasi certo che i Del Carretto provengano dal
marchesato di Finale e Savona: i tre fratelli Corrado, Enrico ed Antonio sembra
che si siano divisi quel marchesato in tre parti; a Corrado andò Millesimo, ad
Enrico Novello e ad Antonio Finale. Ciò secondo un atto che sarebbe stato
stipulato dal notaio Aicardi nel 1268. I tre “terzieri” succedevano, pro quota,
al padre Giacomo del Carretto, marchese di Savona e signore di Finale, che è
presente dal 1239 al 1263. Sposato con tale C... contessa di Savona, morì nel
1263. [3]
Su Antonio del Carretto, il Silla fornisce questi
ragguagli: «marchese di Savona e signore di Finale, conferma il decreto del
padre emesso nel 1258 circa l’abitato in Ripa-Maris; fiorì nel 1263; nel 1292
stipula ancora le famose convenzioni con Genova. Da Agnese ebbe Enrico, che
sposa Catterina dei M.si di Clavesana; Antonio che sposa Costanza di
Chiaramonte.» Se bene intendiamo quell’autore, Antonio Senior del Carretto
avrebbe generato anche Giorgio che diviene marchese di Savona e signore di
Finale. E’ presente nel 1337, anno in cui gli uomini di Calizzato gli
prestarono giuramento di fedeltà. Ottenne l’investitura dei feudi nel 1355. Da
Venezia del Carretto ebbe quattro figli dei quali costei appare tutrice nel
1361. Gli succede il figlio Lazzarino I. E’ quindi la volta del nipote
Lazzarino II operante alla fine del secolo, come da atto del 1397.
A seguire questa ricostruzione araldica, ben
tre Antonio del Carretto si succedono dal 1258 al 1390 c.a. Quello che abbiamo
indicato come Antonio del Carretto I - quello andato sposo a Costanza
Chiaramonte - sarebbe in effetti il secondo di tal nome; poi Antonio II, cui si accredita la prima baronia di
Racalmuto.
Ma tornando al nostro Antonio II Del Carretto,
questi nasce qualche anno dopo il 1307, se crediamo all’Inveges. Diviene orfano
di padre molto giovane (poco tempo prima del 1320?). Erediterebbe dalla madre
Racalmuto nel 1344 per atto del
Notar Rogieri d'Anselmo in Finari à 30 d'Agosto 12. Ind. 1344, stando alle
notizie dell’Inveges.
L’atto di permuta tra i fratelli Gerardo e
Matteo del Carretto vuole codesto Antonio del Carretto emigrato ad un certo
punto a Genova, come detto. Là si sarebbe arricchito con partecipazioni in
compagnie navali ed altro e là sarebbe morto (forse attorno al 1370).
La svolta del
1374
Si accredita autorevolmente la tesi di un
Manfredi Chiaramonte, bastardo, nelle cui mani «per via di fortunate
combinazioni, si [venne] a riunire .. l’ingente patrimonio della casa.» [4] Non
sembra potersi revocare in dubbio che «al 1374 in fatti egli [Manfredi
Chiaramonte] ereditava dal cugino Giovanni il contado di Chiaramonte e Caccamo;
dal cugino Matteo, al ’77, il contado di Modica; inoltre le terre e i feudi di
Naro, Delia, Sutera, Mussomeli, Manfreda, Gibellina, Favara, Muxari,
Guastanella, Misilmeri; in fine campi, giardini, palazzi, tenute in Palermo,
Girgenti, Messina ...». Racalmuto non viene nominato, ma si dà il caso che in
documenti coevi che si custodiscono nell’Archivio Vaticano Segreto anche il nostro
paese appare sotto la totale giurisdizione del potente Manfredi.
Nel 1355 dilagò in Sicilia una peste che, «se
non fu con certezza peste bubbonica o pneumonica, fu pestilentia nel senso allora corrente di gravissima
epidemia». [5] Già
vi era stata un’invasione di locuste che provocò forti danni nell’Isola.
Racalmuto ne fu certamente colpita, ma pare non in modo grave. Maggiori danni
si ebbero per un ritorno dei focolai epidemici, una ventina d’anni dopo.
Operava frattanto la scomunica per i riverberi del Vespro. Preti, monaci e
bigotte seminavano il panico facendo collegamenti tra le ire dei papi che in
quel tempo erano emigrati ad Avignone e la vindice crudeltà della natura: era
facile additare una vendetta divina, ed anche il potente Manfredi Chiaramonte
era propenso a credervi.
I nostri storici locali raccolgono gli echi di
quei tragici eventi ed imbastiscono trambusti demografici per Racalmuto: nulla
di tutto questo è però provabile. Un fatto eclatante viene inventato di sana
pianta: un massiccio trasferimento da Casalvecchio all’attuale sito della
residua, falcidiata popolazione.
I traumi che la Sicilia ebbe a soffrire tra il
1361 ed il 1375 ebbero indubbiamente a coinvolgere Racalmuto, ma in che modo
non è possibile documentare su basi certe. Gli scontri tra le parzialità - solo
vagamente definibili latine e catalane - continuano a scoppiare nel 1360.
L’anno successivo giunge in Sicilia Costanza d’Aragona per sposare Federico I,
il quale, sfuggendo a Francesco Ventimiglia che lo teneva sotto sequestro, può
solo nell’aprile convolare a nozze in quel di Catania. Manfredi Chiaramonte con
9 galee attacca nel maggio la piccola flotta catalana (6 galee) che aveva
scortato Costanza e ne cattura una parte presso Siracusa. Nel 1362 Federico IV
si dà da fare per rappacificare e rappacificarsi con i potentati del momento:
nell’ottobre ratifica la pace di Piazza fra Artale d’Alagona ed i suoi seguaci
da una parte e Francesco Ventimiglia e Federico Chiaramonte (che sono a capo di
nutrite fazioni) dall’altra. Nel biennio 1262-1363 si registra una
recrudescenza della peste. Nel 1363 muore la regina Costanza. Nel 1364 si
riesce a recuperare il piano di Milazzo e di Messina e finalmente nel 1372 si
può parlare di pace con gli Angioini di Napoli.
Quando agli inizi del 1373 Palermo e Napoli
ebbero per certe le condizioni di pace, divenne più agevole definire il
concordato con il papato che manteneva sulla Sicilia il suo irriducibile
interdetto.
E qui la minuscola vicenda racalmutese si
aggancia ai grandi eventi della storia medievale di quel torno di tempo.
Affiora, ad esempio, un nesso tra papa Gregorio XI e la reggenza di Racalmuto
nel 1374. Gregorio XII era in effetti Pietro Roger de Beaufort nato a Limoges nel
1329; morirà a Roma nel 1378. Eletto papa nel 1371, ristabilì a Roma la
residenza pontificia ponendo fine alla cosiddetta "cattività
avignonese".
E così da Avignone il papa dovette tornarsene a
Roma. E’ questo un momento culminante di una gravissima crisi. Ed in questa
congiuntura, cade appunto la remissività papale verso la Sicilia. In cambio di
un obolo supplementare si può procedere alla revoca di un interdetto, frutto di
potenza, arroganza ed al contempo di remissività verso la Francia.
La meridiana della storia passa allora anche
per il modesto, gramo paesotto di Racalmuto. Altro che isola nell’isola,
nell’isola - scrivemmo una volta in pieno disaccordo con Sciascia.
Le decime del
1375
Nel contesto della politica fiscale di papa
Gregorio XI un personaggio acquisisce contorni di rilievo e diviene memorabile
nell’ambito nostro, cioè della microstoria racalmutese del XIV secolo: Bertrand
du Mazel. Il suo destino si lega a
quello della Sicilia ed investe Racalmuto ove ebbe a recarsi il 29 marzo del
1375. La sua carriera in Sicilia si dispiega lungo gli anni dal 1373 al 1375.
Svolge diligentemente i suoi compiti e fra l’altro redige come collettore
apostolico carte e registri contabili che, conservati negli Archivi del Vaticano,
sono giunti sino a noi. Vi troviamo Racalmuto.
La visita in Sicilia (e a Racalmuto) di du
Mazel si colloca nel quadro di grandi eventi storici. In particolare occorre tener presente che
all’inizio del 1373, dopo laboriosi negoziati, il re Federico IV di Sicilia e
la Regina Giovanna di Napoli concludevano la pace sotto l’egida del papato.
Riconosciuto come sovrano legittimo della Trinacria, Federico IV accettava la
signoria di Giovanna I, e quella di Gregorio XI. Egli si impegnava a pagare un
censo di 3.000 once alla regina che doveva trasmettere alla Santa Sede questo
canone. I siciliani dovevano giurare la pace e prestare giuramento di fedeltà
al re. La Chiesa riacquistava tutti i diritti e privilegi che godeva prima dei
Vespri del 1282. Il papa prometteva di levare l’interdetto che gravava
sull’isola da lunghi anni.
In Sicilia la riscossione di tale sussidio fu
decisa prima della ratifica della pace, nel dicembre del 1372; la promessa di
abolire l’interdetto è uno strumento di pressione fiscale. Vengono chiamati
anche i laici a contribuire. Si decidono modalità di esazione contemplanti
censure ecclesiastiche per gli evasori o per i riottosi. Le bolle del dicembre
del 1372, chiedendo un aiuto per la
lotta contro i nemici della Chiesa in Italia, imponevano che questo venisse
dato “prima dell’abolizione dell’interdetto”. Evidente l’intento dissuasivo. In
virtù di una clausola apparentemente anodina, i delegati pontifici potevano
esigere da chi si voleva liberare dall’interdetto, non solamente il giuramento
di rispettare la pace e d’essere fedele al re, secondo i termini del trattato,
ma anche un aiuto pecuniario alla Chiesa. Il sussidio “caritativo” e volontario
si trasformava in imposta pura e semplice. Bertrand du Mazel non esita a
parlare della tassa riscossa “ratione amotionis interdicti”, come nel caso di
Racalmuto, ove invero si parla ancora più esplicitamente di “subsidio auctoritate
apostolica imposito” .
E ci siamo dilungati proprio perché in definitiva ciò ci illumina sulla storia
“narrabile” del nostro paese.
«Il sussidio fu ripartito in ciascun abitato
per case, in rapporto alla condizioni economiche: 1 tarì per le famiglie
povere, 2 per le “mediocri”, 3 per le agiate (“qualsiasi fuoco di ricchi
abbondanti in facoltà”). Si computarono in ciascuna località metà delle
famiglie nella categoria inferiore, ¼ nella mediana, ¼ tra le benestanti: se le
condizioni economiche fossero state omogenee, sarebbe stata distribuzione equa.
Furono esentati i preti, i giudei e i tatari “che sono nell’isola infiniti” e
le “miserabili persone” che non era prefigurato quali fossero.» [6]
Intensa è la fase preparatoria del sussidio. Il
papa scrive a destra e a manca per spingere i notabili siciliani ad accedere
alle nuove istanze impositive della Santa Sede. Da Avignone invita, nel 1372,
giurati ed università a recarsi presso “Federico d’Aragona” - non lo chiama re
- perché lo convincano a fare pace con “la regina di Sicilia”, cioè Giovanna di
Napoli. Gli inviti sono mandati a Calascibetta, Licata, Agrigento e
Sciacca (reg. Vat. 268, f. 295-297).
Il 9 febbraio 1375, da Caccamo, Manfredi
Chiaramonte, nella sua qualità anche di ammiraglio di Sicilia ordina ai suoi
ufficiali di percepire nelle sue terre il denaro del sussidio dovuto alla
Chiesa e di consegnare il frutto della loro raccolta al collettore apostolico
che subito toglierà l’interdetto. Il precedente 18 novembre 1374, Manfredi è a
Mussomeli nel suo castello che ora si denomina dal suo nome “Manfreda”: là si
redige un processo verbale che attesta che egli, ammiraglio del regno di
Trinacria, presentandosi davanti al re Federico III gli ha prestato fedeltà e
devoto omaggio. Il ribellismo del conte, di illegittimi natali, si era dunque
quietato. Al vescovo di Sarlat, nunzio apostolico, che accompagnava il re,
Manfredi ha solennemente promesso sul Vangelo di osservare il trattato di pace,
come è stato steso nelle lettere reali sigillate con una bolla d’oro.
Egli ha
promesso di fare versare il sussidio dovuto alla Chiesa dagli abitanti delle
sue terre di Spaccaforno, Scicli, Modica, Ragusa, Chiaramonte, Comiso, Dirillo,
Naro, Delia, Montechiaro, Favara, Racalmuto, Guastanella, Muxaro, Sutera,
Gibellina, Castronovo, Mussomeli, Camastra, Bivona, Prizzi, S. Stefano,
Caccamo, Misilmeri, Cefalà, Palazzo Adriano, Calatrasi, Cazonum (?), Camarina,
la torre di Capobianco, Pietra Rossa e Misilendino. Osserva il Glénisson: «si è
potuto dire delle proprietà dei Chiaramonti che esse formavano un piccolo regno
nel grande. Le proprietà di Manfredi Chiaramonte colpiscono veramente per la
loro estensione. Esse sono distribuite in quattro gruppi principali: 1) Esse
comprendono buona parte dell’attuale provincia di Ragusa, con Ragusa stessa,
Modica, Spaccaforno, Scicli, Comiso, Camariano, Dirillo; 2) Nella regione di
Agrigento e di Caltanissetta, Manfredi possiede Mascaro, Racalmuto,
Montechiaro, Camastra, Naro, Delia, Favara, Sutera. 3) Le località del centro:
Mussomeli, S. Stefano, Castronovo, Prizzi, Cefalà, Palazzo Afriano ... 4) Le
proprietà della regione di Palermo: Misilmeri, Caccamo ...» [7]
Dalla lettera circolare che Manfredi
Chiaramonte dirama da Caccamo il 9 febbraio 1375 riusciamo a cogliere alcuni
tratti della veridica storia di Racalmuto: esclusa ogni effettiva ingerenza dei
Del Carretto, il casale è evidentemente assoggettato al Chiaramonte,
nell’occasione conte di Chiaramonte, signore e ammiraglio del regno di
Trinacria. L’Universitas ha un
suo governo locale che fa capo ad un capitano, ad un baiulo, a dei giudici, a
degli ufficiali subalterni ed ha una popolazione che costituisce un soggetto
giuridico (universi homines). Rientra
tra le terrae nostrae, cioè di
Manfredi. Se dovessimo credere agli araldisti (ed agli storici locali), Racalmuto
sarebbe dovuta essere terra di Antonio II del Carretto, ma così non è.
Le singole università devono nominare tre
probiviri (tri boni homini) i quali
devono assolvere il poco gradito compito di spillare denari a tutti gli
abitanti (nelle diverse misure che prima abbiamo detto). Non sappiamo chi siano
stati i prescelti di Racalmuto: ma sappiamo che vi furono e svolsero a puntino
la ficcante tassazione.
L’elenco delle università ha una sua logica:
Racalmuto si trova in mezzo ad un itinerario che, partendo da Gela (Terranova)
punta su Naro, da qui a Delia e da lì si torna a Favara (ammesso che si tratti
dell’attuale Favara e non di un centro nel nisseno); da Favara a Palma di
Montechiaro, quindi a Licata per convergere sul nostro Racalmuto. Da qui a
Guastanella (una rocca sul monte omonimo a poco più di 2 km. a Nord di
Raffadali), per toccare S. Angelo Muxaro. Da qui per una località vicina: Gibillini
(Glubellini) che non può essere
Gibellina (come si ostinano a dire anche storici di alto livello) ma che
potrebbe essere davvero il nostro Castelluccio, al tempo chiamato Gibillini. Se
è così, la storia del paese si arricchisce di un altro importante tassello. Da
Gibillini si va a Sutera e quindi a Mussomeli. Si passa a Camastra. Ma subito
dopo tocca a Castronovo e quindi a Bivona, Santo Stefano, Prizzi, Palazzo
Adriano. E’ quindi la volta di Caccamo e di altri centri, ma a questo punto il
nostro interesse per la dislocazione trecentesca dei paesi scema del tutto.
Fin qui si è trattato di maneggi burocratici:
ora è il tempo delle tasse vere. L’arcidiacono du Mazel decide di tassare
l’agrigentino a partire dai primi di marzo del 1375. Inizia da Palma di Montechiaro
(6 marzo); il 18 dello stesso mese può
togliere l’interdetto a Bivona; il 19 a Santo Stefano; il 20 a Pietra d’Amico;
il 21 a S. Angelo Muxaro; il 29 a Guastanella.
Lo stesso giorno è la volta di Racalmuto. Dal nostro paese si passa a Castronovo (8
aprile 1375). La raccolta del sussidio s’interrompe e verrà ripresa l’8 giugno
con la rimozione dell’interdetto che incombeva su Castellammare del Golfo:
altra regione, lontana da Agrigento. Per noi ha particolare rilievo ovviamente
Racalmuto.
Disponiamo di un paio di annotazioni che
riguardano il nostro paese e che naturalmente svelano tratti storici
diversamente ignoti. Il Reg. Coll. N. 222 dell’Archivio Segreto Vaticano ci
degna della sua attenzione al foglio 249 con questa nota:
«Item
eadem die fuit amotum interdictum in casali Rahalmuti dicte Diocesis in quo
fuerunt domus coperte palearum CXXXVI que ascendunt et quas habui VII uncias
XXVII tarinos.» Traducendo: «Del pari lo stesso giorno (29 marzo 1375) fu
rimosso l’interdetto nel casale di Racalmuto della predetta diocesi, nel quale
furono rinvenute 136 case coperte di paglia; queste hanno reso una tassa da me
percetta che ascende ad onze 7 e 27 tarì.»
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