giovedì 26 dicembre 2013

Racalmuto ai tempi del Vespro


domenica 8 dicembre 2013

Racalmuto durante il Vespro e subito dopo
Racalmuto durante i Vespri Siciliani
Dalle brume delle vaghe testimonianze scritte affiora solo qualche brandello delle locali vicende in quel gran trambusto che furono i Vespri Siciliani. Se non bastasse, vi pensò Michele Amari, tutto preso dalle sue passioni irredentiste, a fare del “ribellamento” del 1282, una fantasmagorica epopea della stirpe sicula eroicamente in armi contro ogni dominazione straniera. Niente di più falso: i siciliani (ed ancor più i racalmutesi) sono per loro natura remissivi, acquiescenti, indolenti, propensi a sopportare ogni autorità, la quale - straniera, o indigena, o paesana che sia - sempre sopraffattrice sarà; e va solo subita con il minore aggravio possibile, con il solo, incoercibile, diritto al mugugno (al circolo, o in chiesa, o presso il farmacista o nel greve chiuso della bettola).

Ancor oggi non si ha voglia di dar peso alle acute notazioni del francese Léon Cadier sull’amministrazione della Sicilia angioina.  Il Cadier prende le distanze dall’Amari e secondo Francesco Giunta esagera, specie là dove rintuzza quelli che considera attacchi e calunnie del grande storico siciliano dell’Ottocento: «la ragione di questi attacchi - scrive infatti il francese - e di queste calunnie è facile da capire. Il più bel fatto d’arme della storia di Sicilia è un orribile massacro; per farlo accettare dai posteri, per potere celebrare ancora il ‘Vespro Siciliano’ come un avvenimento glorioso dagli annali siciliani, si è fatto ricadere tutto ciò che questo atto aveva di orribile su coloro che ne erano stati le vittime. Per scusare i carnefici, i Francesi sono stati accusati di ogni sorta di crimini; l’amministrazione francese in Sicilia è stata descritta con le tinte più fosche; Carlo d’Angiò è diventato il più abominevole dei tiranni.»

Ed a noi Racalmutesi del Novecento, il culto dei Vespri ci è stato inculcato sin da bambini, specie con quel reliquario che è il brutto quadro raffigurato nel sipario del teatro comunale.  Leonardo Sciascia - che grande storico non lo fu mai - si produsse nel 1973 in una sua cerebrale superfetazione sul mito del Vespro.  Di rilievo l’inciso: «questo mito [quello del Vespro], che per lui non era un mito ma la storia stessa nella sua specifica oggettività, Amari difese sempre: ma certo rendendosi conto che più si confaceva al carattere della riscossa nazionale che si andava preparando ed al sentimento e al gusto del tempo, quell’altro della congiura dei pochi che accende il furore di molti.» Da parte sua, per Sciascia, era ovvio: «i miti della storia servono più della storia stessa - ammesso possa darsi una storia pura, oggettiva, scientifica.» Ad ogni buon conto, «dirò - è sempre Sciascia che parla  - che tra tutte le ragioni che adduce [l’Amari] per negare la congiura - di documenti, di circostanze concordanti e discordanti - la più persuasiva resta per me quella che dà come siciliano che conosce i siciliani: e cioè che nessuna cosa che è preparata, può avere successo in Sicilia. In quanto non preparato, ma improvviso e rapido e violento come una fiammata, il Vespro è riuscito.»

Se il Vespro fu quella “vampa” sciasciana, a Racalmuto non si avvertirono neppure le più lontane scintille. Non c’era motivo alcuno di ribellarsi. Al padrone Federico Mosca - siciliano, incombente, collerico, predatore - era subentrato Pietro Negrello di Belmonte - colto, lontano, fiducioso nei suoi messi partenopei. C’era da guadagnare, e di certo lucro vi fu: in termini di libertà, di astuzie, di evasione e di elusione. Scoppiato, dopo il Vespro, il grande disordine della generale ribellione, ai racalmutesi tornarono comodi il caos amministrativo e la rapida fuga dei  loro sovrastanti: dal marzo al 10 settembre del 1282, poterono lavorare i campi seminati, mietere, ‘pisari’, non spartire alcunché con il padrone, immagazzinare, alienare, incassare e per intero. Il 10 settembre 1282, arriva da Palermo una missiva  indirizzata “Universitati Racalbuti” [alias Racalmuti] ed è un perentorio ordine dell’aragonese re Pietro a svenarsi in tasse per armare e mandare 15 arcieri: una richiesta da sbalordire, visto che i locali non avranno capito neppure che cosa s’intendesse con quel termine latino di “archeorum”. Ma era una richiesta che un senso esplicito ce l’aveva: l’orgia della libertà era finita; i padroni ritornavano in sella; per i contadini di Racalmuto, gravami, imposte, angarie e sudditanze, non solo come prima, ma più di prima.

Racalmuto - si ripete - sorge dopo l’epurazione saracena di Federico II di Svevia. Federico Musca, o un suo antenato, importa nel nostro Altipiano un certo numero di famiglie, non si sa da dove; con tutta probabilità trattasi di marrani sfuggiti, con repentine conversioni, alle rappreseglie della persecuzione religiosa fridericiana. Sono famiglie di coloni, o divenuti tali per necessità mimetiche. Il Musca non ne dispone come “villani”, visto che quella specie di schiavitù è tramontanta, ma la loro condizione sociale ed economica è molto simile. Hanno giacigli poveri in casupole che spesso coincidono con la disponibilità offerta dagli ampi antri reperibili nel territorio a strapiombo sotto il vecchio Calvario. Ne vien fuori una suggestiva fisionomia di abitato trogloditico, per dirla alla Peri. Ma spesso era il pagliaio a sopperire alle necessità abitative; sorsero le case “copertae palearum” che qualche decina di anni dopo impressionarono l’arcidiacono du Mazel, mandato da Avignone a rastrellare tasse aggiuntive per assolvere da un incolpevole interdetto, comminato per le estranee vicende del Vespro. «Il pagliao - scrive il Peri non ad hoc ma pertinentemente  - non richiedeva scavo in profondità per le fondamenta; e quando erano in pietra le basi erano in grossi pezzi sovrapposti “a secco”, senza ricorso a materiale coesivo. La costruzione si alzava, quindi, con paglia e fogliame impastato con fanghiglia. Costituito abitualmente da un vano non ampio, che accoglieva la famiglia e le bestie collaboratrici e compagne, il pagliaio bastava a offrire riparo dalle intemperie e dava una pur limitata protezione dal freddo e dai raggi del sole. Gli hospitia magna e le mansiones fabbricate “a pietre e calce” (ad lapides et calces), anche nelle città erano e sarebbero rimasti per tempo oggetto di ammirazione nella loro rarità. Non si pretendeva dalle abitazioni durata secolare. E, del corso del tempo e dei tempi dell’esistenza, avevano nozione diversa dalla nostra quegli uomini che l’esposizione ai rigori, la fatica prolungata e l’assoluta mancanza di prevenzioni e di rimedi alle malattie, più precocemente offriva alla falce inclemente della morte. Corpi che la povertà escludeva anche dal rito pietoso della conservazione nella tomba insieme a qualcosa di caro e al viatico verso l’esistenza che non dovrebbe avere fine. Ritornavano, con rapidità, in polvere la debole carne e le fragili abitazioni di quelle generazioni.»

Il prisco insediamento - se ben comprendiamo i suggerimenti che i successivi riveli sembrano fornirci - avvenne in quella contrada che dopo ebbe a chiamarsi di Santa Margheritella, da sotto il Carmine all’antro di Pannella incluso, dalla Madonna della Rocca sino alle Bottighelle  dell’attuale corso Garibaldi, tra S. Pasquale e la Piazzetta. Poi, le abitazioni si estesero negli altri tre quartieri: San Giuliano, Fontana e Monte.

I racalmutesi tengono molto alla tradizione che vuole la chiesa di Santa Maria come la più antica, risalente addirittura al 1108: una chiesa - si dice - voluta dai Malconvenant, che si indicano come i primi baroni del casale. Non è facile farli ricredere. La ‘notizia’ ha per di più una fonte scritta: quella dell’abate Pirri. Gli storici locali la danno per certa, ed anche i restauratori della chiesa, negli anni ottanta di questo secolo, parlano di facciata “normanna”.

Il Pirri, palesemente, collega la notizia ad un paio di diplomi che si custodiscono tuttora negli archivi capitolari della Cattedrale di Agrigento. L’archivio fu oggetto di studio a cavallo tra il secolo scorso e quello corrente per la nota questione delle decime della mensa vesvovile agrigentina. Fu un feroce alterco fra giuristi incaricati di difendere le ragioni dei grossi agrari della provincia, riluttanti a riconoscere le antiche tassazioni ecclesiastiche, e giuristi, canonici e storici di parte cattolica, tutti alle prese con la dimostrazione che trattavasi di tasse dominicali e quindi di gravami ancora validi.

Nel 1960, il vescovo Peruzzo - ormai, nella quiete voluta dal concordato del 1929 e nella sudditanza alle autorità ecclesiastiche propinata dal consolidato regime democristiano - incaricava il grande paleologo Mons. Paolo Collura di uno studio obiettivo e serio dei tanti vecchi diplomi. La pubblicazione che ne è seguita è pietra miliare per ricerche del genere. Noi siamo andati a cercare quelli che riguarderebbero la chiesa di Santa Maria di Racalmuto ed abbiamo scoperto che non possono attribuirsi al nostro paese. Vi sono, sì, due diplomi del 1108 e vi si parla dei Malconvenant e della fondazione di una chiesa dedicata a S. Margherita, ma è evidente che la località nulla ha a che fare con la nostra Racalmuto .

Si riferisce evidentemente ad alcuni ben specifici di codesti diplomi, il Pirri per fornire notizie su Santa Margherita di Racalmuto, come d'altronde nota lo stesso Collura (). Ma come si può ben vedere, sia per le precisazioni del Collura sia per l'ubicazione dei fondi sia per i toponimi, qui ci troviamo a Santa Margherita Belice (o presso i suoi dintorni) e Racalmuto va senz'altro escluso. () E’, poi,  certo che Racalmuto non appare mai in modo incontrovertibile nel carte capitolari di Agrigento che vanno dalla conquista normanna al 1282. Non è chiaro se ciò sia dovuto ad un tardo affermarsi del toponimo arabo del nostro paese o ad una sua indipendenza fiscale nei confronti della curia agrigentina. Noi, come detto dianzi, propendiamo per la tesi della tarda fondazione del paese di Racalmuto, qualche decennio prima del diploma del 1271 su cui ci siamo soffermati sopra.

Caducata l'attendibilità della fonte documentale del Pirri, si sbriciola la narrazione del nostro Tinebra-Martorana sull'argomento. Il Capitolo II ed il III  che contengono notizie sulla "signoria dei Malconvenant" e su "Santa Margherita Vergine" che corrisponderebbe "alla nostra Santa Maria di Gesù" sono destituiti di fondamento storico. Il Tinebra-Martorana mostra solo un'indiretta conoscenza dell'abate netino. Egli si avvale dell'opera di «Padre Bonaventura Caruselli da Lucca, La Vergine del Monte a Racalmuto» e del «Lessico Topografico siculo di Amico - Tomo 2°, pag.393-4». L'Amico è esplicito nel dichiarare la fonte delle sue notizie sui Malconvenant e su Santa Margherita Vergine: è il Pirri della Not. Agrig.  Il Pirri fu sicuramente indotto in errore dai suoi corrispondenti del Capitolo agrigentino e nasce così la favola di Santa Maria chiesa del XII secolo.

L'avallo di Leonardo Sciascia al lavoro del Tinebra Martorana  ha ormai canonizzato tutte quelle 'pretese' notizie della storia di Racalmuto e non sarà facile a chicchessia rettificarle o raddrizzarle. Malconvenant e chiesetta vetusta di Santa Margherita-Santa Maria saranno usurpazioni storiche cui i racalmutesi non vorrano rinunciare, tant’è che, ancora nel 1986, il padre gesuita Girolamo M. Morreale ribadiva quel falso scrivendo  che, indubitabilmente, «frutto della rinascita normanna fu per Racalmuto il riordinamento del culto. Il conte Ruggero conferì l'investitura di signore delle terre di Racalmuto a Roberto Malcovenant che dopo venti anni dalla liberazione vi fece sorgere la prima chiesa sotto il titolo di S. Margherita vergine e martire, vicino l'attuale cimitero, dotandola di fondi agricoli che convertì in prebenda canonicale. Rocco Pirro colloca l'erezione della chiesa nell'anno 1108 e precisa che avvenne con licenza del Vescovo di  Agrigento, Guarino (+1108)» () Il mendacio storico è proprio duro a morire, se anche un colto ed avveduto gesuita vi incappa or non sono più di dieci anni fa.

Quanto a falsità storiche, ancor più salienti sono quelle che confezionate dal Tinebra Martorana, furono ribollite da Eugenio Napoleone Messana: sono le incredibili avventure della Racalmuto nel crogiuolo della rivolta del Vespro. Vuole il Tinebra Martorana  che nella lotta tra Manfredi di Svevia e Carlo d’Angiò si accodò ai baroni filofrancesi «Giovanni Barresi, signore di Racalmuto. Il quale raccolta quanta gente potè dai suoi vasti vassallaggi di Racalmuto, Petraperzia, Naso, Capo d’Orlando e Montemauro, volse le armi contro il seno della sua stessa patria.» Scoppiata la rivolta del 1282, «Giovanni Barresi, che palesemente aveva seguito la fortuna dei francesi, e durante il loro dominio era stato in auge, ebbe la peggio allorché vennero fra noi gli Aragonesi. Premio meritato, fu spogliato dei suoi domini, che passarono al reale patrimonio. Così la baronia di Racalmuto appartenne per qualche tempo al regio Fisco e poi fu concessa alla famiglia Chiaramonte.»

 

*   *  *

 

Il Fazello non mostra interesse alcuno verso quelli che dovettero apparirgli incolti e violenti nobilotti di campagna: i Del Carretto, appunto. Il colto storico è basilare nella storia di Racalmuto per avere ispirato due tradizioni che reggono imperterrite tuttora: la prima accredita Federico II Chiaramonte (+ 1313) padrone e barone del feudo, ove avrebbe fatto costruire l'attuale castello ("Lu Cannuni"), e ciò è congettura forse accettabile; la seconda tradizione è quella della signoria dei Barresi. Qui il Fazello è del tutto incolpevole. Si pensi che l'intera faccenda poggia - responsabili Vito Amico  ed il Villabianca, quello della Sicilia Nobile   -  su un'evidente distorsione di un passo dell'opera storica del Fazello.  Questi, parlando dei Barresi, aveva scritto  : Matteo Barresi succede ad Abbo, che aveva ricevuto da Re Ruggero l'investitura di Pietraperzia, Naso, Capo d'Orlando, Castania e molti altri "oppidula" (piccoli centri). Chissà perché tra quegli oppidula doveva includersi proprio Racalmuto. Così congetturarono i cennati eruditi del Settecento, non sappiamo su che basi, e così si racconta tuttora dagli storici locali che hanno in tal modo il destro per appioppare a Racalmuto le vicende avventurose di quella famiglia.

Non è questa la sede per digressioni erudite: tuttavia ci pare di avere fornito elementi sufficienti per comprovare la validità dei nostri convincimenti in ordine alla nessuna attinenza dei domini feudali dei Malconvenant e dei Barresi con Racalmuto, a ridosso del Vespro. Resta da vedere se possa parlarsi della signoria degli Abrignano.

Il solito Tinebra Martorana (pag. 56 op. cit.) ci propina questa successione:

«Alla morte del conte Ruggiero Normanno, sia perché questa famiglia [cioè i Malconvenant] si fosse estinta, sia perché fosse caduta la fortuna dei Malconvenant, noi vediamo essi perdere domini ed uffici. Ciò che è indubitato è che il figlio del conte conquistatore, il gran re Ruggiero, concesse la baronia di Racalmuto alla nobilissima famiglia degli Abrignano[Minutolo: Cronaca dei Re]. E da questa passò ai Barresi. Degli Abrignano però non è sicura notizia e di certo, se essi governarono Racalmuto, fu per breve tempo, perché molti cronisti non ne fanno alcun cenno.» E tanto è davvero un modo curioso di far storia: ciò che viene asserito come “indubitato”, diviene subitaneamente - con contraddizione che non dovrebbe essere consentita - “non sicura notizia”. E dire che Sciascia continuò a definire quella del Martorana “una buona storia del paese”.  Eugenio Napoleone Messana (op. cit. p. 49) non ha dubbi che «nella cronaca dei re di Minutolo leggiamo che il re Ruggero II concesse la baronia di Racalmuto ai nobili Albrignano o Alvignano prima e ad Abbo Barresi dopo. Della concessione agli Abrignano ne fa menzione solo il Minutolo, altri la omettono e riportano solo la concessione ad Abbo Barresi.» Evidentemente, né Tinebra Martorana, né Eugenio Napoleone Messana avevano letto il Minutolo, diversamente non sarebbero caduti nell’abbaglio. Forse avevano letto soltanto Vito Amico che nella versione del Di Marzo specifica: «Minutolo Memor. Prior. Messan. Lib. 8 attesta essersi [Racalmuto] appartenuto alla famiglia di Abrignano, dato poscia a’ Barresi.» Una certa eco vi è anche nel Villabianca: « e la tenne [Racalmuto] pur anche la Famiglia ABGRIGNANO, se diam fede a MINUTOLO - Mem. Prior. lib. 8, f. 273.» Francamente ci dispiace che nell’equivoco cadde anche il compianto padre Salvo - nostro stimato amico.  Egli sintetizza: «La famiglia Albrignano - Decaduta la famiglia Malconvenant, Ruggero II concesse la Baronia di Racalmuto agli Albrignano o Alvignano nel 1130. Tale concessione è un po’ dubbia nelle storia o, se vi fu, ebbe a durare pochissimo. Certo è che nel 1134 la Baronia di Racalmuto era già nelle mani dei Barresi.» Un’evidente sunto, con quella aggiunta della data che vorrebbe essere una precisazione e diviene invece una colpevole topica.

Il Minutolo fu un frate gerosolimitano di Messina  che nel 1699 scrisse le memoria del suo “gran priorato”  : raccolse le dichiarazioni dei vari suoi confratelli sulle loro ascendenze nobili. Essere nobili era indispensabile se si voleva essere ammessi fra quei frati cavalieri. Fra D. Alberto Fardella di Trapani nell’anno 1633 asserisce - in buona fede o fraudolentemente, non sappiamo - che un suo antenato era: «Hernrico Abrignano dei Signori di Recalmuto, nobile di Trapani, e Regio Giustiziero, e Capitano» nell’anno 1395. La falsità era talmente evidente da non doversi dare alcun credito al mendace frate, ma il Minutolo non se ne accorgeed incappa in una smentita a se stesso, quando trascrive l’albero genealogico dell’altro confrate, il nobile “Fra D. Alfonzo del Carretto, di Giorgenti, 1617”, il quale, in coincidenza della pretesa signoria di Racalmuto da parte di Enrico Abrignano nell’anno 1395, colloca , correttamente, al posto dell’Abrignano, il proprio antenato, il celebre barone Matteo del Carretto. Ma già un altro due monaci della famiglia Fardella (fra D. Martino Fardella di Trapani 1629) si era limitato a dichiarare quell’identico antenato come semplice nobile di Trapani  («Enrico Abrignano Nobile di Trapani»). In Appendice sub 3) forniamo la trascizione di quegli intriganti alberi genealogici, per i curiosi o per i diffidenti. Gli Abrignano con Racalmuto, dunque, non c’entrano affatto: forse una qualche parente di Matteo Del Carretto andò sposa al “mercante” Enrico Abrignano, attorno al 1391. 

Quanto ai Barresi, è arduo ritenere che costoro davvero abbiano avuto il dominio di Racalmuto, in tempi antecedenti al Vespro, anche se il padre Aprile, scrivendo in epoca moderna, era propenso alla tesi affermativa. Si disse che Abbo Barresi I o Senior ebbe concesse dopo il 1130 dal re Ruggero il Normanno vari feudi, Naso, Ucria ed altri Castelli. Da Abbo a Matteo; da Matteo a Giovanni, la successione in quei domini feudali. Il San Martino Spucches resta sconcertato dalla contraddittorietà delle notizie fornite dal Villabianca. Si limita allora a questa secca elencazione: «Il Villabianca, nella Sic. Nobile, dice che Ruggero re concesse Racalmuto ad Abbo Barresi (Sic. Nob., vol. 4°, f. 200). Lo stesso autore dice altrove che l’Imperatore Federico II concesse, dopo il 1222, Racalmuto ad Abbo Barresi che sarebbe stato figlio di Giovanni (di Matteo di Abbo seniore). A quest’ultimo successe il figlio Matteo: al quale successe Abbo ed a quest’ultimo il figlio Giovanni. Questi visse sotto Re Giacomo di Aragona e seguì il suo partito. Re Federico, fratello di Giacomo divenuto Re di Sicilia, dichiarò esso Giovanni fellone e gli confiscò i beni. Da questo momento comincia una storia certa e noi cominciamo da questo momento ad elencare i Baroni di Racalmuto con numero progessivo.»  Ma, così facendo, l’esimio araldista, allunga la teoria delle successioni, ricominciando il ciclo, per cui da Giovanni si passerebbe ad Abbo II iunior che avrebbe avuto dall’imperatore Federico II Racalmuto nel 1222 (per noi, a quell’epoca, ancora da fondare); da Abbo II a Matteo II e da questi ad Abbo III, cui sarebbe subentrato Giovanni Barresi che è personaggio storico distintosi nelle vicende del 1299, di sicuro signore di Pietraperzia, Naso e Capo d’Orlando.

Scettici sulle signorie pre-Vespro dei Barresi, non possiamo escludere che, con la restaurazione feudale di re Pietro, Giovanni Barresi possa essersi impossessato di Racalmuto, stante la latitanza di Federico Musca, cui invero sarebbe spettata la titolarità della baronia racalmutese. Con il passaggio tra le fila di re Giacomo d’Aragona - quando questi dichiarò guerra al proprio fratello, Federico III, che era stato proclamato re di Sicilia nella ben nota crisi di fine secolo XIII - potè essersi pur verificata la perdita da parte di Giovanni Barresi del recente feudo di Racalmuto alla stregua di quegli altri suoi possedimenti siciliani, finiti sotto confisca.

L’Amari, nella sua  guerra del Vespro siciliano, accenna ad un diploma del 28 dicembre 1300 (1299) tredicesima indizione, anno 15° di Carlo II d’Angiò, ove Racalmuto e Caccamo vengono concessi a Pietro di Monte Aguto.  Ovviamente si trattò di promesse dell’angioino che non ebbero seguito alcuno. Ma quella promessa sa di sonora smentita della tesi che vorrebbe feudatario di Racalmuto Giovanni Barresi: questi, ora, milita accanto all’angioino, sia pure sotto la bandiera di Giacomo d’Aragona; non è credibile che Carlo II d’Angiò arrivasse al punto di confiscare a sua volta il feudo già confiscato dal nemico Federico III. Credibile, invece, che nella cancelleria di Napoli figurasse ancora la concessione a Pietro Negrello di Belmonte  e che si pensasse di girare ora il feudo al milite alleato Pietro di Monte Aguto.

 

*  *   *

Nell’Agosto del 1282 Pietro d’Aragona sbarca in Sicilia con quel misto di albagia spagnola e di «avara povertà di Catalogna»: a Racalmuto - come detto - giunge la prima martellatta fiscale datata “Palermo 10 settembre”; il nuovo re esige subito che si paghi per l’armamento di 15 arcieri.

Sotto la stessa data, codesto re Pietro crede di addolcire la pillola inviando al nostro periferico casele un resoconto delle sue recenti imprese. Siamo sicuri che ai racalmutesi di allora (come d’oggi) non gliene importava nulla di sapere:

«Doc. X - Palermo 10 Settembre 1282 - Ind. XI.  Re Pietro dopo aver eenumerate al Baiulo, ai Giudici ed agli uoimini tutti di Adrano le ragioni, per le quali ha creduto intraprendere la spedizione di Sicilia; e raccontato del suo sbarco a Trapani, nonché del suo arrivo, per terra in Palermo, il venerdì 4 Settembre; ordina che, adunati in assemblea, eleggano due fra i più cospicui della loro terra; i quali, come loro sindaci, vengano a prestargli il debito giuramento di omaggio e fedeltà; più, che tutti i cavalieri, pedoni, balestrieri, arcieri, lanceri, scudati si rechino, con armi e cavalli, in Randazzo, pel 22 Settembre al più tardi.

«Simili lettere a tutti gli uomini di tutte le terre al di là del fiume Salso.»

«[......] Item et infra fuit scriptum eodem modo videlicet.

« [...]  Burgio, Sacca, Calatabellota, Agrigento, Licata, Naro, Delia, Darfudo, Calatanixerio, Rahalmut [corsivo ns.], Mulotea, Sutera, Camerata, Castronuovo, Sancto stephano, Bibona, Sancto Angilo, Raya, Busaxemo [Buscemi], Curiolono, Juliana, [...]»

 

Nel successivo mese di gennaio del 1283, Racalmuto viene chiamato - unitamente ad altri centri - ad una sorta di tassazione aggiuntiva: dovrebbe approntare altri quattro arcieri oppure dei fanti armati. La missiva parte da Messina il giorno 26 gennaio 1283, XI indizione. Ed è diretta al baiulo, ai giudici ed a tutti gli uomini Rakalmuti. Perché mai questa resipiscenza? Evidentemente, la base impobibile che era stata calcolata a caldo, il 10 settembre 1282, si appalesava errata per difetto: i racalmutesi tassabili erano di gran lunga più numerosi; se prima si era pensata ad una tassazione di 75 fuochi o famiglie abbienti, ora si sapeva che almeno altri 20 fuochi erano in condizioni economiche da fornire mezzi aggiuntive alla guerra che Pietro d’Aragona andava conducendo - più o meno indolentemente - contro l’Angioino. Se questa nostra tesi è accettabile, l’area degli abitanti racalmutesi riconducibile alla platea dei contribuenti saliva da 300 a 380 (calcolando, come si è soliti, il numero dei fuochi per la probabile consistenza media del nucleo familiare, pari al coefficiente 4). Ma non basta, bisogna aggiungere quelli che riuscivano a sfuggire a quel censimento fiscale e quelli che di solito erano esentati come preti, non abbienti, ebrei ed altri: una rettifica, dunque, che non si è lontani dal vero assumendo una maggiorazione dell’ordine del 20%; di talché perveniamo ad una popolazione stimata di circa 456.  (Nell’allegato n.° 5, forniamo ampi ragguagli su tali nostre ipotesi d’indole statistica.)

Re Pietro aveva voglia di scherzare quando il 10 settembre 1282 si rivolge ai racalmutesi - ed in latino - per dir loro che finalmente il tanto aspettatato suo arrivo si era verificato; che il suo aiuto era già in corso; che quindi potevano e dovevano abbandonarsi ad una “tripudiosa giocondità”. Fidelitati vestre feliciter nunciamus. «Felicemente l’annunciamo alla vostra fedeltà». Ma occorrono gli adempimenti burocratici, i formalismi. Pertanto, come è di diritto, l’ Universitas è chiamata a prestare fisici giuramenti “corporalia iuramenta”  della debita fedeltà e dell’omaggio al re. Nomini i suoi “sindici” si inviino davanti al cospetto della “celsitudine” regale. Il re vuole fermamente che il nemico lasci il paese pressoché annichilito e sterminato. Quindi si mandino cavalieri, balestrieri,  arcieri, uomini armati di tutto punto, di scudi o di altri tipi d’armatura e s vengano presso di noi Re Pietro in quel di Randazzo o là dove stabiliremo. E tutti dovranno avviarsi entro il 22 di questo mese di settembre proprio a Randazzo. Se qualcuno disobbidisce, incapperà nella nostra reale indignazione.

Non v’è storico che descriva quale stato d’animo abbia accorato quei siciliani del 1282 dinnanzi a quelle pretese del nuovo padrone. Neppure i letterati, ci risulta, hanno saputo evocare quelle angosce e quello sgomento. Neppure Tommasi di Lampedusa, neppure Leonardo Sciascia, neppure quando sembra farne accenno sminuendo ogni cosa con l’approssimativa chiosa sulla locale storia, appena “descrivibile”, «dell’avvicendarsi dei feudatari che, come in ogni altra parte della Sicilia, venivano dal nord predace o dalla non meno predace “avara povertà di catalogna”; col carico delle speranze deluse e delle rinnovate e a volte accresciute angherie che ogni nuova signoria apportava.»  E questo sarà un bel dire, ma di scarso senso per quello che davvero avvenne, per quella vita racalmutese che è più che “descrivibile”, che ci pare tanto “narrabile”, tanto angosciante, tanto rimarchevole “storia”.

Chi spiegò quel “latinorum” ai racalmutesi? Dove? Come? Quali decisioni furono prese? chi fu eletto per ‘sindico’ - che onore non era ma perico per la vita e per i beni dovendosi recare tanto lontano in tempi calamitosi e per strade impervie e cosparse di agguati da parte di ladri e “prosecuti”?

C’è da pensare che già sin d’allora, i notabili furono adunati in chiesa al suo della campana, come sarà costume alla fine del ‘500. Un prete avrà tradotto la missiva. A dirigere i lavori assembleari colui che si era autoproclamato Baiulo e quei due o tre maggiorenti - il notaio, il farmacista-medico - che lo affiancavano. Un paio di “burgisi” - che disponevano di giumente - avranno dovuto accettare l’incarico di recarsi dal re nella lontano Randazzo. Con la ritualità che riscontreremo nell’adunata popolare del 7 agosto del 1577.
La libera universitas di Racalmuto: 1282-1300 ca.
Ne siamo quasi certi: Racalmuto non ebbe soggiogazioni feudali per quasi un ventennio, dopo il Vespro. Crediamo di aver provato come non è da parlarsi di una baronia sotto i Barresi. Circa la promessa data a Piero di Monte Aguto, la cosa si risolse in una vacua promessa, non potuta in alcun modo realizzarsi. Si è pure detto come la notizia secentesca di una assegnazione feudale di Racalmuto a Brancaleone Doria, sia frutto di un plateale falso, ostando irrefutabili ragioni  cronologiche.

Una signoria del Doria a fine secolo è impensabile, dato che costui ebbe, sì, una qualche influenza su Racalmuto, ma dopo aver sposato la vedova, Costanza Chiaramonte, del conterraneo Antonio Del Carretto, attorno agli anni trenta del XIV secolo.

Nessuna fonte, invece, ci riferisce di un ritorno di Federico Musca, che - dome detto - preferisce andare a guerreggiare in quel di Calabria, sempreché si tratti dell’identico Musca, e l’antico proprietario di Racalmuto ed il milite, denominato conte di Modica, siano un solo personaggio. Di certo, un Federico Musca , comes Mohac, si rinviene tra i diplomi di Pietro I. (cfr. raccolta dei Documenti per servire alla storia di Sicilia, Vol. V. - Fasc. IX-XI - Appendice - Messina 30 dicembre 1282 - pag. 687). Su tale Federico Musca, araldisti e storici qualcosa ci dicono: Il Villabianca scrive:

«....[PAG. 4] entrati che furono  gli Aragonesi nel governo di questo Regno, appa re in tal tempo essere stato signore di questo Stato [Modica] Federigo MOSCA, quello stesso che  fu Governatore della Valle di Noto sotto il Rè Pietro Primo d'Aragona, e con 600 soldati pose a ferro, e fuoco gran numero di Franzesi nelle vicinanze di Reggio (d] d .

«Essendo stato anch'egli uno de' quaranta Cavalieri, che associarono Rè Pietro al famigerato duello di Bordeaux; così per fede del Dott. Placido CARAFFA nella sua Modica Illustr. f. 70. «Inter quos - egli dice - Modicae Federicus Musca interfuit, qui Regem Petrum ad monimachium provocatus est: Manfredus Musca fuit vir strenuus, et in arte bellica magnus a consiliis, et semel a Petro missus, ut Scalaeam oppidum reciperet.» Ma se sia stato costui discendente per linea retta da GUALTIERI testè mentovata, o forse da altro modo comissionario di differente Famiglia io non ardisco affermarlo. E' certo però, ch'egli fu l'ultimo Barone della Prosapia Mosca, e da potere di lui, o al certo dalle mani del suo figlio Manfredo, come scrivono   alcuni, passò esso Stato in potere di Manfredo Chiaramonte, e de' suoi successori, come si dirà appresso, vegnendogli conceduto dal Ser.mo Rè Federigo, con titolo di Contea in considerazione de' suoi segnalati servizi non meno, che per esser marito d'Isabella Mosca figlia di Federigo, e sorella di Manfredi sopravvisato, che secondo vogliono i detti Autori, fu dichiarato ribelle, e spogliato di essa Contea dal succennato Sovrano, per avere egli seguitato le parti del Rè Giacomo di Aragona di lui fratello (a) a.»

Esplosa la rivolta del Vespro, Racalmuto si ritrova, dunque, libero, ma subito soggetto, agli  appetiti tassaioli del sopraggiunto re iberico. Ricevuta la missiva del 10 settembre 1282, tutti i notabili racalmutesi del’epoca dovettero adunarsi per stabilire il da farsi. A presiedere quell’assemblea il baiulo con a fianco i giudici. Chi furono i due sindici  eletti per andare il giuramento e l’omaggio al nuovo re in quel di Randazzo, non sappiamo. Baiulo, giudici e sindici dovevano avere dei patronimici non molto differenti da quelli che incontriamo nelle prime fonti storiche racalmutesi: Liuni, mastro Rayneri, Sabia di Palermo, de Salvo, de Graci, de Bona, de Mulé, Fanara, Casucia, La Licata, de Messana, de Santa Lucia.

Ebbero a radunarsi in qualche chiesa: forse nella chiesetta dedicata alla Madonna, quella stessa ove nel 1308 officierà Martuzio Sifolone. Sappiamo di certo che, comunque, la chiesa di Santa Margherita o di Santa Maria - quella che ancor oggi si dice normanna - non era stata eretta, né dal Malconvenant né da qualche suo parente passato dalle armi alla milizia del Cristo: in quel tempo, come si disse, Racalmuto non era ancora sorto.

Intercolutoria ebbe, invece, ad essere la decisione sul riparto dei balzelli imposti dall’Aragonese: quindici arcieri non si sapeva dove reperirli fra quegli imbelli contadini, appena capaci di disseminare il suolo di tagliole per intrappolare i conigli selvatici. Frattanto, Berardo di Ferro di Marsala, viene nominato dal re giustiziere della Valle di Girgenti: nominiamo «te justiciarum nostrum in singulis terris et locis vallis Agrigenti» recita un documento in quel torno di tempo.   Il 17 settembre, il Giustiziere viene invitato a costringere le terre e i luogi di sua giurisdizione ad un celere invio del “fodro” (vettovaglie, vino, vacche, porci, castrati) a Randazzo: segno che le terre ed i luoghi non se ne davano ancora per intesi. Berardo de Ferro, milite giustiziario, è, invece, sollecito a far nominare Maestri Giurati di sua fiducia: il re, da Messina con lettera dell’8 ottobre 1282, gli ordina «di non volersi intromettere in quella elezione nelle terre demaniali, delle chiese, dei Conti e Baroni, elezione che si era riservata» (cfr. DSSS, vol. V, cit. p. 66 doc. n.° LXVIII). Per di più, il 20 ottobre 1282, il re deve intervenire contro lo stesso Berardo di Ferro, che aveva spogliato Errico de Masi e tutti i marsalesi dei loro beni: manda a Marsala il giudice Nicoloso di Chitari da Messina per reintegrare quegli abitanti nel possesso dei loro beni. (ibidem, pag. 131 - doc. n.° CXLI).

Occorre pagare, intanto, le quote della tassazione straordinaria di ottomila once: con decreto del 26 novembre 1282, emesso a Catania, «Re Pietro ... stabilisce che le [suddette] ottomila once promesse dai sindici delle terre al di là del Salso siano corrisposte ai regi tesorieri.» (ibidem, doc. n.° CCXXIX). Povero Racalmuto, ormai preda di voraci esattori! Con provvedimento del 17 novembre 1282 viene rimosso Ruggero Barresi, milite. Non risulta, però, cointeressato in qualche modo a Racalmuto (v. ibidem pag. 203).

Questi contadini dell’Agrigentino sono proprio riluttanti a pagare le tasse: da Messina, il 15 novembre 1282, ingiunge «a Berardo de Ferro, Giustiziere del Val di Girgenti, sotto pena di once 100, di far subito eleggere dalle Terre di sua giurisdizione sindici che si rechino a lui, Peitro, nel termine di 8 giorni per discutere, con gli altri sindici di Sicilia al di qua e al di là del Saldo, la controversia sorta in Catania fra i sindici delle due grandi circoscrizioni, circa alla promessa del sussidio.» (Ibidem pag. 231 - doc. n.° CCLXXVII). Ed il successivo 20 gennaio 1283, siamo ancora alle solite: inadempienze fiscali. Re Pietro «incarica Santorio Banala di sollecitare, recandosi sui luoghi, il versamento dalle Università al di là del Salso.» (Ibidem, pag. 293 - doc. n.° CCCXCIV). Racalmuto risulta tassato per 15 once (ibidem pag. 295), preceduto da:

•        Licata: unc. 238;

•        Delia unc. 3;

•        Naro unc. 166;

•        Calatarapetta (sic) Mons maior unc. 6;

•       Tusa unc. 2;

•        Misiliusiphus unc. 4;

•       Sciacca unc. 250;

•       Calatabellottum unc. 122;

•        Agrigentum unc. 380.

Il successivo 26 gennaio, come detto, si rincara la dose: Racalmuto è chiamato ad armare ed inviare altri quattro arcieri o fanti.

Dopo il Vespro, gli eventi della Sicilia fibrillano per una cinquantina d’anni. Non è questa la sede per rievocarli. Michele Amari, nella sua storia del Vespro, ne fa quasi una diuturna rievocazione. Ancor oggi è viva la polemica su quella temperie storica e studiosi di grande levatura dei tempi nostri continuano a cimentarvisi. Si pensi che Benedetto Croce, capovolgendo un indirizzo consolidato, ritenne la cacciata degli angioini dalla Sicilia una nefasta frattura. Abbiamo visto che persino Leonardo Sciascia ha voglia di essere originale su quello snodo della storia siciliana: una improvvisa e scomposta fiammata ribellistica del popolo palermitano, su cui si innesta una vorace conquista di un rappresenatnte dell’ «avara povertà di Catalogna». Certo, al papa quella faccenda non piacque: comminò scomuniche, che si ripeterono più volte per quasi un secolo. Solo nel 1276, 31 marzo, Racalmuto ne fu totalmente assolto. Che cosa abbia fatto di così irreligioso il nostro paese da meritarsi un quasi secolare interdetto, è tuttora un mistero. Ma noi ne siamo oltremodo sicuri: nulla. Così come per l’altra scomunica - quella del 1713 - le anime credenti racalmutesi patirono il terrore dell’inferno per ribellioni (al francese Carlo d’Angiò, fratello di San Luigi, re di Francia, nel 1282) e per diatribe tra vescovi ed autorità civili (insorte nel 1713 per una faccenda di tasse su un alcuni rotoli di ceci del vescovo di Lipari), di cui francamente non ebbero né coscienza e neppure significativa conoscenza.

Racalmuto, decentrato, non fu artefice in alcun modo della ribellione del Vespro; non capì cosa fosse venuto a fare re Pietro d’Aragona; non si rese conto - o non immediatamente - che entrava nell’orbita spagnola; subì passivamente la politica del nuovo re che si mise a foraggiare con feudi quei nobili che corsero in suo soccorso; seppe di certo che Pietro d’Aragona cessò di vivere il 10 novembre del 1285; capì ben poco delle faccende dinastiche del successore Giacomo e della sua rinuncia alla Sicilia nel gennaio del 1296; ebbe forse qualche simpatia per il ribelle fratello Federico (II o III) ma non riuscì a comprendere le ragioni che spingevano i du potenti fratelli (Federico E Giacomo) a combattersi fra loro. Quando giunsero gli echi delle scomuniche papali, in loco non sene  intuirono le ragioni; i racalmutesi non si ritennero colpevoli di nulla (non lo erano); si smarrivano nell’ascoltare i contorti ragionamenti che preti e francescani si sforzavano di propinare nelle loro infuocate prediche. Per fortuna, le tante guerre e guerricciole si combattevano lontano, vicino ai posti di mare, in Calabria, a Napoli: sì e no giungeva l’eco. Qualche vantaggio, sì: il frumento aveva un mercato; qualche guadagno si riusciva a conseguirlo; la pesante fatica dei campi non era ingrata. L'universitas si accresceva con nuovi immigrati e con con fertili nozze.

Nel 1308 e nel 1310 Racalmuto è tanto grande da consentire a due religiosi di riscuotervi pingui rendite. Da Avignone, il papa - colà rifugiatosi nel 1309 - arrivano ordini per la tassazione di quei due redditieri per quelle due precorse annate. L’Archivio Segreto Vaticano ci conserva le registrazioni di quei prelievi fiscali. A leggerli, vien fuori qualche dato sulla Universitas di Racalmuto del primo decennio del XIV secolo. Nel registro «Rationes Collectoriae Regni Neapolitani - 1308 - 1310», Collect. n.° 161 f. 96 abbiamo:

«Martutius de Sifolono pro ecclesia S. Mariae de Rachalmuto solvit pro utraque decima uncia J.»

In altri termini, Matuzio de Sifolono corrispose per la chiesa di S. Maria di Racalmuto un’oncia per entrambe le decime del 1308 e del 1310. E nel retro del foglio n.° 97 ( 97v):

«presbiter Angelus de Monte Caveoso pro officio suo sacerdotali, quod impendit in Casale Rachalamuti, solvit pro utraque tt. ix.»

Il che equivale a dire: il sacerdote Angelo di Monte Caveoso corrispose per il suo ufficio sacerdotale, che ha svolto nel Casale di Racalmuto, nove tarì. Racalmuto non viene segnato come castrum anche se il Castello doveva essere già costruito, stando al Fazello. Del resto, la grafia non del tutto corretta del toponimo (Rachalamuti) sta a segnalare l’approssimatività dello scriba pontificio.

Coteste ricerche d’archivio ci permettono di individuare due sacerdoti officianti a Racalmuto all’inizio del XIV secolo. Sono religiosi e non appaiono neppure autoctoni; l’uno, Martuzio de Sifolono, è titolare della chiesa di S. Maria, ed è chiamato  a corrispondere un’oncia per le decime di due anni (1308 e 1310); l’altro, è il “prete”  Angelo di Montecaveoso, ed è tassato per nove tarì  in relazione all’ufficio sacerdotale che esplicava nel Casale di Racalmuto. Del primo non sappiamo neppure se fosse un sacerdote. Ignoriamo anche dove era ubicata la chiesa di S. Maria - ed ogni attribuzione ad uno dei vari templi oggi dedicati alla Madonna è mero arbitrio. Il “presbiter”  Angelo de Montecaveoso  ha tutta l’aria di essere un frate: parroco di Racalmuto nel 1308 e nel 1310, non sembra indigeno; ricava proventi che dovevano essere di poco più di un terzo rispettp alle ricche prebende di chi è titolare della chiesa di Santa Maria (dopo, l’arcipretura di Racalmuto diverrà molto appetibile e la vorranno prelati di Messina, Napoli, Prizzi, S. Giovanni Gemini, etc.). 

La chiesa di Santa Maria rendeva dunque per tre volte rispetto alle primizie spettanti all’arciprete Angelo di Montescaglioso: troppo per essere soltano un luogo di culto; dovette essere quindi una chiesa dotata di feudi o di terreni allodiali. Il suo titolare fu forse un canonico agrigentino, e da qui potè nascere il beneficio di Santa Margherita che risulta documentato solo a partire dalla fine del secolo XIV. Ma potè trattarsi anche di un convento, forse di benedettini, insediatosi anche per lo sviluppo agricolo e per l’estensione della coltivazione granaria, divenuta molto richiesta dal mercato a causa dell’endemico stato di guerra.  Da qui, quel convento benedettino cui accenna Giovan Luca Berberi nei suoi Capibrevi dei BENEFICIA ECCLESIASTICA, «liber Capibr. Eccl. in Reg. Canc. fol. 211».  II Pirri descrive il Cenobio con annessa chiesa di san Benedetto che trovavasi nella via che congiungeva Racalmuto ad Agrigento. Credo che bisogna concordare con chi ritiene che quel convento sorgesse nel vecchio Campo Sportivo. Una volta tanto, ci soccorre fondatamente Eugenio Messana alle pag. 50 e 51 del suo volume su Racalmuto. «Il Pirri e Giovanni Luca Barberi parlano di un convento di s. Benedetto a Racalmuto, sulla via che conduce a Girgenti. Di questo monastero non rimane traccia, dei sospetti lo fanno ubicare dove ora c’è il campo sportivo. I sospetti si basano sulle fondamenta di un grande edificio con cortile e pozzo nel mezzo, che furono quivi trovati, quando la terra donata dal dott. Enrico Macaluso al comune, secondo la volontà del donatario (sic), fu spianata per adibirla a stadio.» Il Messana cita anche un testo di Illuminato Peri, (Manfredi Editore Palermo, 1963 - Vol. II, pag. 18 ) ove è pubblicato appunto il foglio 211 che recita «MONASTERIUM SANCTI BENEDICTI - 211 -Monasterium cum ecclesia sancti Benedicti prope iter inter Agrigentum et Rayhalmutum [Messana, erroneamente, trascrive in: Rayelmutum] existens de suffraganeis maioris agrigentine ecclesie». Il padre Calogero Salvo nel suo libro Ecco tua Madre riconsidera tutta la questione del monastero di S. Benedetto in termini del tutto critici nei confronti degli storici locali che hanno trattato l’argomento. Non sappiamo quanto di vero ci sia nel pregevole lavoro di padre Salvo.

I nove tarì corrisposti per due anni dall’arciprete Angelo di Montescaglioso dovettero essere un lieve aggravio sulle primizie corrisposti dai parrocchiani: un qualche riflesso demografico devono dunque averlo. Quattro tarì e mezzo per un anno sembrano riflettere appunto quel mezzo migliaio di abitanti che allora Racalmuto accoglieva sul suo suolo. Era un centro che non poteva non dispiegarsi nei pressi del nuovo fortilizio cilindrico, costruito da Federico II Chiaramonte pochissimi anni prima, secondo la versione tramandataci dal Fazello. Vicino sorgeva senza dubbio la nuova chiesa madre, pensiamo là dove verrà costruita poi la Matrice intitolata a S. Antonio e cioè, secondo noi, in piazza Castello, in quarterio Castri, come leggesi in taluni diplomi del ’500. I documenti vaticani spingono dunque ad una totale revisione della tradizione (per noi falsa) che gli storici locali, e non, hanno avallato in ordine a Racalmuto, per il periodo in discorso. E’ difficile sostenere che in quel tempo il paese sorgesse a Casalvecchio: una tesi questa che resiste imperterrita, sposata anche da studiosi valenti come il padre gesuita Girolamo M. Morreale .  A Casalvecchio, già alla fine del XIII secolo, c’erano solo ruderi dell’antico insediamento bizantino. Da rigettare in pieno quello che dopo l’avvento di Garibaldi si scrisse su Racalmuto e cioè:

«Antica è l'origine di Racalmuto: il suo nome è di origine arabica. Fu distrutto dalla peste del '300, indi nel ripopolarsi non occupò il luogo primitivo, che si trova ora alla distanza di un chilometro, e si chiama Casalvecchio. Nell'occasione dei lavori eseguiti ultimamente per stabilire una carreggiabile, si rinvennero ivi dei sepolcreti e ruderi di edifici. »

I dati che possiamo ricavare dalle ravole delle collette pontificie dle 1308-1310 non consentono fondate ipotesi sullo sviluppo demografico di Racalmuto in quel torno di tempo: nella comparazione con le altre località che riusciamo a desimere ( Agrigento, Butera, Caltabellotta, Caltanissetta, Cammarata, Castronovo, Delia, Giuliana, Licata, Naro, Palazzo Adriano, S. Angelo Muxaro, Sciacca e Sutera), il nostro paese aveva una certa rilevanza nell’approntare tasse e risorse finanziarie alla lontanissima corte papale di Avignone. Un’onza e 9 tarì nonerano poi pesi intollerabili, ma pur sempre era un prelievo dalla magra economia curtense racalmutese che veniva dirottato, senza contropartita di sorta, verso terre francesi di cui si sconoscevano persino le denominazioni.

Gli emissari pontifici si erano già recati nell’agrigentino per riscuotere laute decime per gli anni 1275-1280. Eravamo sotto il dominio di Carlo d’Angiò, fiduciario del papato. Eppure la resa non fu elevata rispetto a quello che il papa ebbe a pretendere immediatamente dopo il 1310 - in quella sorta di compromesso storico tra corte avignonese e potenza aragonese.

 

Ci sia di un qualche lume questo confronto:
 
Denominazione

Unciae

Tarini

Granae

Summa
 
Somme percette nell’intera provincia agrigentina per le decime degli anni 1308 - 1310 (due annualità)

 
261

 
4

 
8

 
261,4,8
 
Somme percette nell’intera provincia agrigentina per le decime degli anni 1275-1280 (cinque annualità)

 
87

 
22

 
10

 
87,22,10
 
Differenze

173

11

18

173,11,18
 
Differenza in percentuale







197,58%

        
 
 

Per due sole annualità si è dunque dovuto pagare quasi il doppio di quanto corrisposto subito dopo il 1280, in pieno regime angioino, per un quinquennio. Racalmuto figura tassato esplicitamente nel 1310; indirettamente nel 1280. Allora, collettori per Agrigento furono ilcanonico agrigentino Pasquale ed il notaio messinese Pellegrino. Il vescovo cassanese, il francescano Marco d’Assisi,  ebbe dal collettore Pasquale solo 20 onze d’oro. Che fine abbia fatto il resto non sappiamo. Nella pagina del 1280 abbiamo note che attengono allo stato dell’intera diocesi di agrigento: nulla che possa in qualche modo illuminarci direttamente sulla chiesa racalmutese. Questa doveva però avere un certo ruolo. In ogni caso era saldamente incardinata nella diocesi agrigentina, sotto l’egida del vescovo Ursone, almeno per il biennio 1275-76; dopo, pare sia subentrata la sede vacante, affidata al sostituto Gualterio. La vicenda dei vescovi agrigentini ha riverberi sulla storia di Racalmuto. Nel 1271 (28 gennaio) muore il vescovo Goffredo Roncioni. Subentra Guglielmo de Morina: fu una meteora. Sotto di lui abbiamo lo stravolgimento feudale racalmutese: il Musca viene privato del nostro casale che passa, per ordine dell’Angioino, al partenopeo Pietro Negrello di Belmonte. Nel 1273, (2 giugno), sale sulla cattedra di Gerlando, il cennato Guidone che vi rimane sino al 24 giugno 1276. Dal 1278 al 1280 abbiamo il citato sostitu Gualtiero. Dal 12 maggio 1280 al 23 agosto 1286 subentra tal Goberto, tarsferito alla sede di Capaccio il 23 agosto 1286. E’ quindi il tempo del lungo episcopato di Bertoldo di Labro (10 dicembre 1304-11 luglio 1326). In questo tratto, Racalmuto ha sconvolgimenti rimarchevoli: cessa l’autonomia comunale; i Chiaramonte spaccano il territorio in due parti: quella collinare attorno al Castelluccio viene trattenuto da Manfredi Chiaramonte; quella di nord-est - già sede dell’insediamento attivato dal Musca - viene requisita dal fratello cadetto Federico II (ma di ciò, più a lungo, dopo). L’organizzazione ecclesiastica - i cui riflessi sul vivere civile e sociale sono di tutta evidenza - si irrobustisce: cessa l’evanescenza dei primordi; ora abbiamo una potenza agraria attorno alla chiesa di S. Maria, oltremodo tassata dal papa (come si è visto); figuriamoci dal persule agrigentino; ed una pieve consistente, piuttosto facoltosa: il suo parroco (presbiter Angelus de Monte Caveoso) subisce l’angheria pontificia di un balzello di nove tarì; sborsa al suo vescovo l’aliquota (la quarta?) sulle sue decime o primizie. I racalmutesi vengono a subire l’incidenza di tanti oboli obbligatori d’indole ecclesiastica. Quelli d’indole feudale non li conosciamo. L’imposizione diretta pretesa dai nuovi regnanti è greve e di essa abbiamo solo gli echi di quella che fu la politica fiscale del re Pietro, il primo assaggio dell’avara povertà di Catalogna.
 
 
 
 

Racalmuto durante i Vespri Siciliani
 
 
 
Dalle brume delle vaghe testimonianze scritte affiora solo qualche brandello delle locali vicende in quel gran trambusto che furono i Vespri Siciliani. Se non bastasse, vi pensò Michele Amari, tutto preso dalle sue passioni irredentiste, a fare del “ribellamento” del 1282, una fantasmagorica epopea della stirpe sicula eroicamente in armi contro ogni dominazione straniera. Niente di più falso: i siciliani (ed ancor più i racalmutesi) sono per loro natura remissivi, acquiescenti, indolenti, propensi a sopportare ogni autorità, la quale - straniera, o indigena, o paesana che sia - sempre sopraffattrice sarà; e va solo subita con il minore aggravio possibile, con il solo, incoercibile, diritto al mugugno (al circolo, o in chiesa, o presso il farmacista o nel greve chiuso della bettola).
 
Ancor oggi non si ha voglia di dar peso alle acute notazioni del francese Léon Cadier sull’amministrazione della Sicilia angioina.  Il Cadier prende le distanze dall’Amari e secondo Francesco Giunta esagera, specie là dove rintuzza quelli che considera attacchi e calunnie del grande storico siciliano dell’Ottocento: «la ragione di questi attacchi - scrive infatti il francese - e di queste calunnie è facile da capire. Il più bel fatto d’arme della storia di Sicilia è un orribile massacro; per farlo accettare dai posteri, per potere celebrare ancora il ‘Vespro Siciliano’ come un avvenimento glorioso dagli annali siciliani, si è fatto ricadere tutto ciò che questo atto aveva di orribile su coloro che ne erano stati le vittime. Per scusare i carnefici, i Francesi sono stati accusati di ogni sorta di crimini; l’amministrazione francese in Sicilia è stata descritta con le tinte più fosche; Carlo d’Angiò è diventato il più abominevole dei tiranni.»
 
Ed a noi Racalmutesi del Novecento, il culto dei Vespri ci è stato inculcato sin da bambini, specie con quel reliquario che è il brutto quadro raffigurato nel sipario del teatro comunale.  Leonardo Sciascia - che grande storico non lo fu mai - si produsse nel 1973 in una sua cerebrale superfetazione sul mito del Vespro.  Di rilievo l’inciso: «questo mito [quello del Vespro], che per lui non era un mito ma la storia stessa nella sua specifica oggettività, Amari difese sempre: ma certo rendendosi conto che più si confaceva al carattere della riscossa nazionale che si andava preparando ed al sentimento e al gusto del tempo, quell’altro della congiura dei pochi che accende il furore di molti.» Da parte sua, per Sciascia, era ovvio: «i miti della storia servono più della storia stessa - ammesso possa darsi una storia pura, oggettiva, scientifica.» Ad ogni buon conto, «dirò - è sempre Sciascia che parla  - che tra tutte le ragioni che adduce [l’Amari] per negare la congiura - di documenti, di circostanze concordanti e discordanti - la più persuasiva resta per me quella che dà come siciliano che conosce i siciliani: e cioè che nessuna cosa che è preparata, può avere successo in Sicilia. In quanto non preparato, ma improvviso e rapido e violento come una fiammata, il Vespro è riuscito.»
 
Se il Vespro fu quella “vampa” sciasciana, a Racalmuto non si avvertirono neppure le più lontane scintille. Non c’era motivo alcuno di ribellarsi. Al padrone Federico Mosca - siciliano, incombente, collerico, predatore - era subentrato Pietro Negrello di Belmonte - colto, lontano, fiducioso nei suoi messi partenopei. C’era da guadagnare, e di certo lucro vi fu: in termini di libertà, di astuzie, di evasione e di elusione. Scoppiato, dopo il Vespro, il grande disordine della generale ribellione, ai racalmutesi tornarono comodi il caos amministrativo e la rapida fuga dei  loro sovrastanti: dal marzo al 10 settembre del 1282, poterono lavorare i campi seminati, mietere, ‘pisari’, non spartire alcunché con il padrone, immagazzinare, alienare, incassare e per intero. Il 10 settembre 1282, arriva da Palermo una missiva  indirizzata “Universitati Racalbuti” [alias Racalmuti] ed è un perentorio ordine dell’aragonese re Pietro a svenarsi in tasse per armare e mandare 15 arcieri: una richiesta da sbalordire, visto che i locali non avranno capito neppure che cosa s’intendesse con quel termine latino di “archeorum”. Ma era una richiesta che un senso esplicito ce l’aveva: l’orgia della libertà era finita; i padroni ritornavano in sella; per i contadini di Racalmuto, gravami, imposte, angarie e sudditanze, non solo come prima, ma più di prima.
 
Racalmuto - si ripete - sorge dopo l’epurazione saracena di Federico II di Svevia. Federico Musca, o un suo antenato, importa nel nostro Altipiano un certo numero di famiglie, non si sa da dove; con tutta probabilità trattasi di marrani sfuggiti, con repentine conversioni, alle rappreseglie della persecuzione religiosa fridericiana. Sono famiglie di coloni, o divenuti tali per necessità mimetiche. Il Musca non ne dispone come “villani”, visto che quella specie di schiavitù è tramontanta, ma la loro condizione sociale ed economica è molto simile. Hanno giacigli poveri in casupole che spesso coincidono con la disponibilità offerta dagli ampi antri reperibili nel territorio a strapiombo sotto il vecchio Calvario. Ne vien fuori una suggestiva fisionomia di abitato trogloditico, per dirla alla Peri. Ma spesso era il pagliaio a sopperire alle necessità abitative; sorsero le case “copertae palearum” che qualche decina di anni dopo impressionarono l’arcidiacono du Mazel, mandato da Avignone a rastrellare tasse aggiuntive per assolvere da un incolpevole interdetto, comminato per le estranee vicende del Vespro. «Il pagliao - scrive il Peri non ad hoc ma pertinentemente  - non richiedeva scavo in profondità per le fondamenta; e quando erano in pietra le basi erano in grossi pezzi sovrapposti “a secco”, senza ricorso a materiale coesivo. La costruzione si alzava, quindi, con paglia e fogliame impastato con fanghiglia. Costituito abitualmente da un vano non ampio, che accoglieva la famiglia e le bestie collaboratrici e compagne, il pagliaio bastava a offrire riparo dalle intemperie e dava una pur limitata protezione dal freddo e dai raggi del sole. Gli hospitia magna e le mansiones fabbricate “a pietre e calce” (ad lapides et calces), anche nelle città erano e sarebbero rimasti per tempo oggetto di ammirazione nella loro rarità. Non si pretendeva dalle abitazioni durata secolare. E, del corso del tempo e dei tempi dell’esistenza, avevano nozione diversa dalla nostra quegli uomini che l’esposizione ai rigori, la fatica prolungata e l’assoluta mancanza di prevenzioni e di rimedi alle malattie, più precocemente offriva alla falce inclemente della morte. Corpi che la povertà escludeva anche dal rito pietoso della conservazione nella tomba insieme a qualcosa di caro e al viatico verso l’esistenza che non dovrebbe avere fine. Ritornavano, con rapidità, in polvere la debole carne e le fragili abitazioni di quelle generazioni.»
 
Il prisco insediamento - se ben comprendiamo i suggerimenti che i successivi riveli sembrano fornirci - avvenne in quella contrada che dopo ebbe a chiamarsi di Santa Margheritella, da sotto il Carmine all’antro di Pannella incluso, dalla Madonna della Rocca sino alle Bottighelle  dell’attuale corso Garibaldi, tra S. Pasquale e la Piazzetta. Poi, le abitazioni si estesero negli altri tre quartieri: San Giuliano, Fontana e Monte.
 
I racalmutesi tengono molto alla tradizione che vuole la chiesa di Santa Maria come la più antica, risalente addirittura al 1108: una chiesa - si dice - voluta dai Malconvenant, che si indicano come i primi baroni del casale. Non è facile farli ricredere. La ‘notizia’ ha per di più una fonte scritta: quella dell’abate Pirri. Gli storici locali la danno per certa, ed anche i restauratori della chiesa, negli anni ottanta di questo secolo, parlano di facciata “normanna”.
 
Il Pirri, palesemente, collega la notizia ad un paio di diplomi che si custodiscono tuttora negli archivi capitolari della Cattedrale di Agrigento. L’archivio fu oggetto di studio a cavallo tra il secolo scorso e quello corrente per la nota questione delle decime della mensa vesvovile agrigentina. Fu un feroce alterco fra giuristi incaricati di difendere le ragioni dei grossi agrari della provincia, riluttanti a riconoscere le antiche tassazioni ecclesiastiche, e giuristi, canonici e storici di parte cattolica, tutti alle prese con la dimostrazione che trattavasi di tasse dominicali e quindi di gravami ancora validi.
 
Nel 1960, il vescovo Peruzzo - ormai, nella quiete voluta dal concordato del 1929 e nella sudditanza alle autorità ecclesiastiche propinata dal consolidato regime democristiano - incaricava il grande paleologo Mons. Paolo Collura di uno studio obiettivo e serio dei tanti vecchi diplomi. La pubblicazione che ne è seguita è pietra miliare per ricerche del genere. Noi siamo andati a cercare quelli che riguarderebbero la chiesa di Santa Maria di Racalmuto ed abbiamo scoperto che non possono attribuirsi al nostro paese. Vi sono, sì, due diplomi del 1108 e vi si parla dei Malconvenant e della fondazione di una chiesa dedicata a S. Margherita, ma è evidente che la località nulla ha a che fare con la nostra Racalmuto .
 
Si riferisce evidentemente ad alcuni ben specifici di codesti diplomi, il Pirri per fornire notizie su Santa Margherita di Racalmuto, come d'altronde nota lo stesso Collura (). Ma come si può ben vedere, sia per le precisazioni del Collura sia per l'ubicazione dei fondi sia per i toponimi, qui ci troviamo a Santa Margherita Belice (o presso i suoi dintorni) e Racalmuto va senz'altro escluso. () E’, poi,  certo che Racalmuto non appare mai in modo incontrovertibile nel carte capitolari di Agrigento che vanno dalla conquista normanna al 1282. Non è chiaro se ciò sia dovuto ad un tardo affermarsi del toponimo arabo del nostro paese o ad una sua indipendenza fiscale nei confronti della curia agrigentina. Noi, come detto dianzi, propendiamo per la tesi della tarda fondazione del paese di Racalmuto, qualche decennio prima del diploma del 1271 su cui ci siamo soffermati sopra.
 
Caducata l'attendibilità della fonte documentale del Pirri, si sbriciola la narrazione del nostro Tinebra-Martorana sull'argomento. Il Capitolo II ed il III  che contengono notizie sulla "signoria dei Malconvenant" e su "Santa Margherita Vergine" che corrisponderebbe "alla nostra Santa Maria di Gesù" sono destituiti di fondamento storico. Il Tinebra-Martorana mostra solo un'indiretta conoscenza dell'abate netino. Egli si avvale dell'opera di «Padre Bonaventura Caruselli da Lucca, La Vergine del Monte a Racalmuto» e del «Lessico Topografico siculo di Amico - Tomo 2°, pag.393-4». L'Amico è esplicito nel dichiarare la fonte delle sue notizie sui Malconvenant e su Santa Margherita Vergine: è il Pirri della Not. Agrig.  Il Pirri fu sicuramente indotto in errore dai suoi corrispondenti del Capitolo agrigentino e nasce così la favola di Santa Maria chiesa del XII secolo.
 
L'avallo di Leonardo Sciascia al lavoro del Tinebra Martorana  ha ormai canonizzato tutte quelle 'pretese' notizie della storia di Racalmuto e non sarà facile a chicchessia rettificarle o raddrizzarle. Malconvenant e chiesetta vetusta di Santa Margherita-Santa Maria saranno usurpazioni storiche cui i racalmutesi non vorrano rinunciare, tant’è che, ancora nel 1986, il padre gesuita Girolamo M. Morreale ribadiva quel falso scrivendo  che, indubitabilmente, «frutto della rinascita normanna fu per Racalmuto il riordinamento del culto. Il conte Ruggero conferì l'investitura di signore delle terre di Racalmuto a Roberto Malcovenant che dopo venti anni dalla liberazione vi fece sorgere la prima chiesa sotto il titolo di S. Margherita vergine e martire, vicino l'attuale cimitero, dotandola di fondi agricoli che convertì in prebenda canonicale. Rocco Pirro colloca l'erezione della chiesa nell'anno 1108 e precisa che avvenne con licenza del Vescovo di  Agrigento, Guarino (+1108)» () Il mendacio storico è proprio duro a morire, se anche un colto ed avveduto gesuita vi incappa or non sono più di dieci anni fa.
 
Quanto a falsità storiche, ancor più salienti sono quelle che confezionate dal Tinebra Martorana, furono ribollite da Eugenio Napoleone Messana: sono le incredibili avventure della Racalmuto nel crogiuolo della rivolta del Vespro. Vuole il Tinebra Martorana  che nella lotta tra Manfredi di Svevia e Carlo d’Angiò si accodò ai baroni filofrancesi «Giovanni Barresi, signore di Racalmuto. Il quale raccolta quanta gente potè dai suoi vasti vassallaggi di Racalmuto, Petraperzia, Naso, Capo d’Orlando e Montemauro, volse le armi contro il seno della sua stessa patria.» Scoppiata la rivolta del 1282, «Giovanni Barresi, che palesemente aveva seguito la fortuna dei francesi, e durante il loro dominio era stato in auge, ebbe la peggio allorché vennero fra noi gli Aragonesi. Premio meritato, fu spogliato dei suoi domini, che passarono al reale patrimonio. Così la baronia di Racalmuto appartenne per qualche tempo al regio Fisco e poi fu concessa alla famiglia Chiaramonte.»
 
 
 
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Il Fazello non mostra interesse alcuno verso quelli che dovettero apparirgli incolti e violenti nobilotti di campagna: i Del Carretto, appunto. Il colto storico è basilare nella storia di Racalmuto per avere ispirato due tradizioni che reggono imperterrite tuttora: la prima accredita Federico II Chiaramonte (+ 1313) padrone e barone del feudo, ove avrebbe fatto costruire l'attuale castello ("Lu Cannuni"), e ciò è congettura forse accettabile; la seconda tradizione è quella della signoria dei Barresi. Qui il Fazello è del tutto incolpevole. Si pensi che l'intera faccenda poggia - responsabili Vito Amico  ed il Villabianca, quello della Sicilia Nobile   -  su un'evidente distorsione di un passo dell'opera storica del Fazello.  Questi, parlando dei Barresi, aveva scritto  : Matteo Barresi succede ad Abbo, che aveva ricevuto da Re Ruggero l'investitura di Pietraperzia, Naso, Capo d'Orlando, Castania e molti altri "oppidula" (piccoli centri). Chissà perché tra quegli oppidula doveva includersi proprio Racalmuto. Così congetturarono i cennati eruditi del Settecento, non sappiamo su che basi, e così si racconta tuttora dagli storici locali che hanno in tal modo il destro per appioppare a Racalmuto le vicende avventurose di quella famiglia.
 
Non è questa la sede per digressioni erudite: tuttavia ci pare di avere fornito elementi sufficienti per comprovare la validità dei nostri convincimenti in ordine alla nessuna attinenza dei domini feudali dei Malconvenant e dei Barresi con Racalmuto, a ridosso del Vespro. Resta da vedere se possa parlarsi della signoria degli Abrignano.
 
Il solito Tinebra Martorana (pag. 56 op. cit.) ci propina questa successione:
 
«Alla morte del conte Ruggiero Normanno, sia perché questa famiglia [cioè i Malconvenant] si fosse estinta, sia perché fosse caduta la fortuna dei Malconvenant, noi vediamo essi perdere domini ed uffici. Ciò che è indubitato è che il figlio del conte conquistatore, il gran re Ruggiero, concesse la baronia di Racalmuto alla nobilissima famiglia degli Abrignano[Minutolo: Cronaca dei Re]. E da questa passò ai Barresi. Degli Abrignano però non è sicura notizia e di certo, se essi governarono Racalmuto, fu per breve tempo, perché molti cronisti non ne fanno alcun cenno.» E tanto è davvero un modo curioso di far storia: ciò che viene asserito come “indubitato”, diviene subitaneamente - con contraddizione che non dovrebbe essere consentita - “non sicura notizia”. E dire che Sciascia continuò a definire quella del Martorana “una buona storia del paese”.  Eugenio Napoleone Messana (op. cit. p. 49) non ha dubbi che «nella cronaca dei re di Minutolo leggiamo che il re Ruggero II concesse la baronia di Racalmuto ai nobili Albrignano o Alvignano prima e ad Abbo Barresi dopo. Della concessione agli Abrignano ne fa menzione solo il Minutolo, altri la omettono e riportano solo la concessione ad Abbo Barresi.» Evidentemente, né Tinebra Martorana, né Eugenio Napoleone Messana avevano letto il Minutolo, diversamente non sarebbero caduti nell’abbaglio. Forse avevano letto soltanto Vito Amico che nella versione del Di Marzo specifica: «Minutolo Memor. Prior. Messan. Lib. 8 attesta essersi [Racalmuto] appartenuto alla famiglia di Abrignano, dato poscia a’ Barresi.» Una certa eco vi è anche nel Villabianca: « e la tenne [Racalmuto] pur anche la Famiglia ABGRIGNANO, se diam fede a MINUTOLO - Mem. Prior. lib. 8, f. 273.» Francamente ci dispiace che nell’equivoco cadde anche il compianto padre Salvo - nostro stimato amico.  Egli sintetizza: «La famiglia Albrignano - Decaduta la famiglia Malconvenant, Ruggero II concesse la Baronia di Racalmuto agli Albrignano o Alvignano nel 1130. Tale concessione è un po’ dubbia nelle storia o, se vi fu, ebbe a durare pochissimo. Certo è che nel 1134 la Baronia di Racalmuto era già nelle mani dei Barresi.» Un’evidente sunto, con quella aggiunta della data che vorrebbe essere una precisazione e diviene invece una colpevole topica.
 
Il Minutolo fu un frate gerosolimitano di Messina  che nel 1699 scrisse le memoria del suo “gran priorato”  : raccolse le dichiarazioni dei vari suoi confratelli sulle loro ascendenze nobili. Essere nobili era indispensabile se si voleva essere ammessi fra quei frati cavalieri. Fra D. Alberto Fardella di Trapani nell’anno 1633 asserisce - in buona fede o fraudolentemente, non sappiamo - che un suo antenato era: «Hernrico Abrignano dei Signori di Recalmuto, nobile di Trapani, e Regio Giustiziero, e Capitano» nell’anno 1395. La falsità era talmente evidente da non doversi dare alcun credito al mendace frate, ma il Minutolo non se ne accorgeed incappa in una smentita a se stesso, quando trascrive l’albero genealogico dell’altro confrate, il nobile “Fra D. Alfonzo del Carretto, di Giorgenti, 1617”, il quale, in coincidenza della pretesa signoria di Racalmuto da parte di Enrico Abrignano nell’anno 1395, colloca , correttamente, al posto dell’Abrignano, il proprio antenato, il celebre barone Matteo del Carretto. Ma già un altro due monaci della famiglia Fardella (fra D. Martino Fardella di Trapani 1629) si era limitato a dichiarare quell’identico antenato come semplice nobile di Trapani  («Enrico Abrignano Nobile di Trapani»). In Appendice sub 3) forniamo la trascizione di quegli intriganti alberi genealogici, per i curiosi o per i diffidenti. Gli Abrignano con Racalmuto, dunque, non c’entrano affatto: forse una qualche parente di Matteo Del Carretto andò sposa al “mercante” Enrico Abrignano, attorno al 1391. 
 
Quanto ai Barresi, è arduo ritenere che costoro davvero abbiano avuto il dominio di Racalmuto, in tempi antecedenti al Vespro, anche se il padre Aprile, scrivendo in epoca moderna, era propenso alla tesi affermativa. Si disse che Abbo Barresi I o Senior ebbe concesse dopo il 1130 dal re Ruggero il Normanno vari feudi, Naso, Ucria ed altri Castelli. Da Abbo a Matteo; da Matteo a Giovanni, la successione in quei domini feudali. Il San Martino Spucches resta sconcertato dalla contraddittorietà delle notizie fornite dal Villabianca. Si limita allora a questa secca elencazione: «Il Villabianca, nella Sic. Nobile, dice che Ruggero re concesse Racalmuto ad Abbo Barresi (Sic. Nob., vol. 4°, f. 200). Lo stesso autore dice altrove che l’Imperatore Federico II concesse, dopo il 1222, Racalmuto ad Abbo Barresi che sarebbe stato figlio di Giovanni (di Matteo di Abbo seniore). A quest’ultimo successe il figlio Matteo: al quale successe Abbo ed a quest’ultimo il figlio Giovanni. Questi visse sotto Re Giacomo di Aragona e seguì il suo partito. Re Federico, fratello di Giacomo divenuto Re di Sicilia, dichiarò esso Giovanni fellone e gli confiscò i beni. Da questo momento comincia una storia certa e noi cominciamo da questo momento ad elencare i Baroni di Racalmuto con numero progessivo.»  Ma, così facendo, l’esimio araldista, allunga la teoria delle successioni, ricominciando il ciclo, per cui da Giovanni si passerebbe ad Abbo II iunior che avrebbe avuto dall’imperatore Federico II Racalmuto nel 1222 (per noi, a quell’epoca, ancora da fondare); da Abbo II a Matteo II e da questi ad Abbo III, cui sarebbe subentrato Giovanni Barresi che è personaggio storico distintosi nelle vicende del 1299, di sicuro signore di Pietraperzia, Naso e Capo d’Orlando.
 
Scettici sulle signorie pre-Vespro dei Barresi, non possiamo escludere che, con la restaurazione feudale di re Pietro, Giovanni Barresi possa essersi impossessato di Racalmuto, stante la latitanza di Federico Musca, cui invero sarebbe spettata la titolarità della baronia racalmutese. Con il passaggio tra le fila di re Giacomo d’Aragona - quando questi dichiarò guerra al proprio fratello, Federico III, che era stato proclamato re di Sicilia nella ben nota crisi di fine secolo XIII - potè essersi pur verificata la perdita da parte di Giovanni Barresi del recente feudo di Racalmuto alla stregua di quegli altri suoi possedimenti siciliani, finiti sotto confisca.
 
L’Amari, nella sua  guerra del Vespro siciliano, accenna ad un diploma del 28 dicembre 1300 (1299) tredicesima indizione, anno 15° di Carlo II d’Angiò, ove Racalmuto e Caccamo vengono concessi a Pietro di Monte Aguto.  Ovviamente si trattò di promesse dell’angioino che non ebbero seguito alcuno. Ma quella promessa sa di sonora smentita della tesi che vorrebbe feudatario di Racalmuto Giovanni Barresi: questi, ora, milita accanto all’angioino, sia pure sotto la bandiera di Giacomo d’Aragona; non è credibile che Carlo II d’Angiò arrivasse al punto di confiscare a sua volta il feudo già confiscato dal nemico Federico III. Credibile, invece, che nella cancelleria di Napoli figurasse ancora la concessione a Pietro Negrello di Belmonte  e che si pensasse di girare ora il feudo al milite alleato Pietro di Monte Aguto.
 
 
 
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Nell’Agosto del 1282 Pietro d’Aragona sbarca in Sicilia con quel misto di albagia spagnola e di «avara povertà di Catalogna»: a Racalmuto - come detto - giunge la prima martellatta fiscale datata “Palermo 10 settembre”; il nuovo re esige subito che si paghi per l’armamento di 15 arcieri.
 
Sotto la stessa data, codesto re Pietro crede di addolcire la pillola inviando al nostro periferico casele un resoconto delle sue recenti imprese. Siamo sicuri che ai racalmutesi di allora (come d’oggi) non gliene importava nulla di sapere:
 
«Doc. X - Palermo 10 Settembre 1282 - Ind. XI.  Re Pietro dopo aver eenumerate al Baiulo, ai Giudici ed agli uoimini tutti di Adrano le ragioni, per le quali ha creduto intraprendere la spedizione di Sicilia; e raccontato del suo sbarco a Trapani, nonché del suo arrivo, per terra in Palermo, il venerdì 4 Settembre; ordina che, adunati in assemblea, eleggano due fra i più cospicui della loro terra; i quali, come loro sindaci, vengano a prestargli il debito giuramento di omaggio e fedeltà; più, che tutti i cavalieri, pedoni, balestrieri, arcieri, lanceri, scudati si rechino, con armi e cavalli, in Randazzo, pel 22 Settembre al più tardi.
 
«Simili lettere a tutti gli uomini di tutte le terre al di là del fiume Salso.»
 
«[......] Item et infra fuit scriptum eodem modo videlicet.
 
« [...]  Burgio, Sacca, Calatabellota, Agrigento, Licata, Naro, Delia, Darfudo, Calatanixerio, Rahalmut [corsivo ns.], Mulotea, Sutera, Camerata, Castronuovo, Sancto stephano, Bibona, Sancto Angilo, Raya, Busaxemo [Buscemi], Curiolono, Juliana, [...]»
 
 
 
Nel successivo mese di gennaio del 1283, Racalmuto viene chiamato - unitamente ad altri centri - ad una sorta di tassazione aggiuntiva: dovrebbe approntare altri quattro arcieri oppure dei fanti armati. La missiva parte da Messina il giorno 26 gennaio 1283, XI indizione. Ed è diretta al baiulo, ai giudici ed a tutti gli uomini Rakalmuti. Perché mai questa resipiscenza? Evidentemente, la base impobibile che era stata calcolata a caldo, il 10 settembre 1282, si appalesava errata per difetto: i racalmutesi tassabili erano di gran lunga più numerosi; se prima si era pensata ad una tassazione di 75 fuochi o famiglie abbienti, ora si sapeva che almeno altri 20 fuochi erano in condizioni economiche da fornire mezzi aggiuntive alla guerra che Pietro d’Aragona andava conducendo - più o meno indolentemente - contro l’Angioino. Se questa nostra tesi è accettabile, l’area degli abitanti racalmutesi riconducibile alla platea dei contribuenti saliva da 300 a 380 (calcolando, come si è soliti, il numero dei fuochi per la probabile consistenza media del nucleo familiare, pari al coefficiente 4). Ma non basta, bisogna aggiungere quelli che riuscivano a sfuggire a quel censimento fiscale e quelli che di solito erano esentati come preti, non abbienti, ebrei ed altri: una rettifica, dunque, che non si è lontani dal vero assumendo una maggiorazione dell’ordine del 20%; di talché perveniamo ad una popolazione stimata di circa 456.  (Nell’allegato n.° 5, forniamo ampi ragguagli su tali nostre ipotesi d’indole statistica.)
 
Re Pietro aveva voglia di scherzare quando il 10 settembre 1282 si rivolge ai racalmutesi - ed in latino - per dir loro che finalmente il tanto aspettatato suo arrivo si era verificato; che il suo aiuto era già in corso; che quindi potevano e dovevano abbandonarsi ad una “tripudiosa giocondità”. Fidelitati vestre feliciter nunciamus. «Felicemente l’annunciamo alla vostra fedeltà». Ma occorrono gli adempimenti burocratici, i formalismi. Pertanto, come è di diritto, l’ Universitas è chiamata a prestare fisici giuramenti “corporalia iuramenta”  della debita fedeltà e dell’omaggio al re. Nomini i suoi “sindici” si inviino davanti al cospetto della “celsitudine” regale. Il re vuole fermamente che il nemico lasci il paese pressoché annichilito e sterminato. Quindi si mandino cavalieri, balestrieri,  arcieri, uomini armati di tutto punto, di scudi o di altri tipi d’armatura e s vengano presso di noi Re Pietro in quel di Randazzo o là dove stabiliremo. E tutti dovranno avviarsi entro il 22 di questo mese di settembre proprio a Randazzo. Se qualcuno disobbidisce, incapperà nella nostra reale indignazione.
 
Non v’è storico che descriva quale stato d’animo abbia accorato quei siciliani del 1282 dinnanzi a quelle pretese del nuovo padrone. Neppure i letterati, ci risulta, hanno saputo evocare quelle angosce e quello sgomento. Neppure Tommasi di Lampedusa, neppure Leonardo Sciascia, neppure quando sembra farne accenno sminuendo ogni cosa con l’approssimativa chiosa sulla locale storia, appena “descrivibile”, «dell’avvicendarsi dei feudatari che, come in ogni altra parte della Sicilia, venivano dal nord predace o dalla non meno predace “avara povertà di catalogna”; col carico delle speranze deluse e delle rinnovate e a volte accresciute angherie che ogni nuova signoria apportava.»  E questo sarà un bel dire, ma di scarso senso per quello che davvero avvenne, per quella vita racalmutese che è più che “descrivibile”, che ci pare tanto “narrabile”, tanto angosciante, tanto rimarchevole “storia”.
 
Chi spiegò quel “latinorum” ai racalmutesi? Dove? Come? Quali decisioni furono prese? chi fu eletto per ‘sindico’ - che onore non era ma perico per la vita e per i beni dovendosi recare tanto lontano in tempi calamitosi e per strade impervie e cosparse di agguati da parte di ladri e “prosecuti”?
 
C’è da pensare che già sin d’allora, i notabili furono adunati in chiesa al suo della campana, come sarà costume alla fine del ‘500. Un prete avrà tradotto la missiva. A dirigere i lavori assembleari colui che si era autoproclamato Baiulo e quei due o tre maggiorenti - il notaio, il farmacista-medico - che lo affiancavano. Un paio di “burgisi” - che disponevano di giumente - avranno dovuto accettare l’incarico di recarsi dal re nella lontano Randazzo. Con la ritualità che riscontreremo nell’adunata popolare del 7 agosto del 1577.
 
 
 
 
 
La libera universitas di Racalmuto: 1282-1300 ca.
 
 
 
 
 
Ne siamo quasi certi: Racalmuto non ebbe soggiogazioni feudali per quasi un ventennio, dopo il Vespro. Crediamo di aver provato come non è da parlarsi di una baronia sotto i Barresi. Circa la promessa data a Piero di Monte Aguto, la cosa si risolse in una vacua promessa, non potuta in alcun modo realizzarsi. Si è pure detto come la notizia secentesca di una assegnazione feudale di Racalmuto a Brancaleone Doria, sia frutto di un plateale falso, ostando irrefutabili ragioni  cronologiche.
 
Una signoria del Doria a fine secolo è impensabile, dato che costui ebbe, sì, una qualche influenza su Racalmuto, ma dopo aver sposato la vedova, Costanza Chiaramonte, del conterraneo Antonio Del Carretto, attorno agli anni trenta del XIV secolo.
 
Nessuna fonte, invece, ci riferisce di un ritorno di Federico Musca, che - dome detto - preferisce andare a guerreggiare in quel di Calabria, sempreché si tratti dell’identico Musca, e l’antico proprietario di Racalmuto ed il milite, denominato conte di Modica, siano un solo personaggio. Di certo, un Federico Musca , comes Mohac, si rinviene tra i diplomi di Pietro I. (cfr. raccolta dei Documenti per servire alla storia di Sicilia, Vol. V. - Fasc. IX-XI - Appendice - Messina 30 dicembre 1282 - pag. 687). Su tale Federico Musca, araldisti e storici qualcosa ci dicono: Il Villabianca scrive:
 
«....[PAG. 4] entrati che furono  gli Aragonesi nel governo di questo Regno, appa re in tal tempo essere stato signore di questo Stato [Modica] Federigo MOSCA, quello stesso che  fu Governatore della Valle di Noto sotto il Rè Pietro Primo d'Aragona, e con 600 soldati pose a ferro, e fuoco gran numero di Franzesi nelle vicinanze di Reggio (d] d .
 
«Essendo stato anch'egli uno de' quaranta Cavalieri, che associarono Rè Pietro al famigerato duello di Bordeaux; così per fede del Dott. Placido CARAFFA nella sua Modica Illustr. f. 70. «Inter quos - egli dice - Modicae Federicus Musca interfuit, qui Regem Petrum ad monimachium provocatus est: Manfredus Musca fuit vir strenuus, et in arte bellica magnus a consiliis, et semel a Petro missus, ut Scalaeam oppidum reciperet.» Ma se sia stato costui discendente per linea retta da GUALTIERI testè mentovata, o forse da altro modo comissionario di differente Famiglia io non ardisco affermarlo. E' certo però, ch'egli fu l'ultimo Barone della Prosapia Mosca, e da potere di lui, o al certo dalle mani del suo figlio Manfredo, come scrivono   alcuni, passò esso Stato in potere di Manfredo Chiaramonte, e de' suoi successori, come si dirà appresso, vegnendogli conceduto dal Ser.mo Rè Federigo, con titolo di Contea in considerazione de' suoi segnalati servizi non meno, che per esser marito d'Isabella Mosca figlia di Federigo, e sorella di Manfredi sopravvisato, che secondo vogliono i detti Autori, fu dichiarato ribelle, e spogliato di essa Contea dal succennato Sovrano, per avere egli seguitato le parti del Rè Giacomo di Aragona di lui fratello (a) a.»
 
Esplosa la rivolta del Vespro, Racalmuto si ritrova, dunque, libero, ma subito soggetto, agli  appetiti tassaioli del sopraggiunto re iberico. Ricevuta la missiva del 10 settembre 1282, tutti i notabili racalmutesi del’epoca dovettero adunarsi per stabilire il da farsi. A presiedere quell’assemblea il baiulo con a fianco i giudici. Chi furono i due sindici  eletti per andare il giuramento e l’omaggio al nuovo re in quel di Randazzo, non sappiamo. Baiulo, giudici e sindici dovevano avere dei patronimici non molto differenti da quelli che incontriamo nelle prime fonti storiche racalmutesi: Liuni, mastro Rayneri, Sabia di Palermo, de Salvo, de Graci, de Bona, de Mulé, Fanara, Casucia, La Licata, de Messana, de Santa Lucia.
 
Ebbero a radunarsi in qualche chiesa: forse nella chiesetta dedicata alla Madonna, quella stessa ove nel 1308 officierà Martuzio Sifolone. Sappiamo di certo che, comunque, la chiesa di Santa Margherita o di Santa Maria - quella che ancor oggi si dice normanna - non era stata eretta, né dal Malconvenant né da qualche suo parente passato dalle armi alla milizia del Cristo: in quel tempo, come si disse, Racalmuto non era ancora sorto.
 
Intercolutoria ebbe, invece, ad essere la decisione sul riparto dei balzelli imposti dall’Aragonese: quindici arcieri non si sapeva dove reperirli fra quegli imbelli contadini, appena capaci di disseminare il suolo di tagliole per intrappolare i conigli selvatici. Frattanto, Berardo di Ferro di Marsala, viene nominato dal re giustiziere della Valle di Girgenti: nominiamo «te justiciarum nostrum in singulis terris et locis vallis Agrigenti» recita un documento in quel torno di tempo.   Il 17 settembre, il Giustiziere viene invitato a costringere le terre e i luogi di sua giurisdizione ad un celere invio del “fodro” (vettovaglie, vino, vacche, porci, castrati) a Randazzo: segno che le terre ed i luoghi non se ne davano ancora per intesi. Berardo de Ferro, milite giustiziario, è, invece, sollecito a far nominare Maestri Giurati di sua fiducia: il re, da Messina con lettera dell’8 ottobre 1282, gli ordina «di non volersi intromettere in quella elezione nelle terre demaniali, delle chiese, dei Conti e Baroni, elezione che si era riservata» (cfr. DSSS, vol. V, cit. p. 66 doc. n.° LXVIII). Per di più, il 20 ottobre 1282, il re deve intervenire contro lo stesso Berardo di Ferro, che aveva spogliato Errico de Masi e tutti i marsalesi dei loro beni: manda a Marsala il giudice Nicoloso di Chitari da Messina per reintegrare quegli abitanti nel possesso dei loro beni. (ibidem, pag. 131 - doc. n.° CXLI).
 
Occorre pagare, intanto, le quote della tassazione straordinaria di ottomila once: con decreto del 26 novembre 1282, emesso a Catania, «Re Pietro ... stabilisce che le [suddette] ottomila once promesse dai sindici delle terre al di là del Salso siano corrisposte ai regi tesorieri.» (ibidem, doc. n.° CCXXIX). Povero Racalmuto, ormai preda di voraci esattori! Con provvedimento del 17 novembre 1282 viene rimosso Ruggero Barresi, milite. Non risulta, però, cointeressato in qualche modo a Racalmuto (v. ibidem pag. 203).
 
Questi contadini dell’Agrigentino sono proprio riluttanti a pagare le tasse: da Messina, il 15 novembre 1282, ingiunge «a Berardo de Ferro, Giustiziere del Val di Girgenti, sotto pena di once 100, di far subito eleggere dalle Terre di sua giurisdizione sindici che si rechino a lui, Peitro, nel termine di 8 giorni per discutere, con gli altri sindici di Sicilia al di qua e al di là del Saldo, la controversia sorta in Catania fra i sindici delle due grandi circoscrizioni, circa alla promessa del sussidio.» (Ibidem pag. 231 - doc. n.° CCLXXVII). Ed il successivo 20 gennaio 1283, siamo ancora alle solite: inadempienze fiscali. Re Pietro «incarica Santorio Banala di sollecitare, recandosi sui luoghi, il versamento dalle Università al di là del Salso.» (Ibidem, pag. 293 - doc. n.° CCCXCIV). Racalmuto risulta tassato per 15 once (ibidem pag. 295), preceduto da:
 
•        Licata: unc. 238;
 
•        Delia unc. 3;
 
•        Naro unc. 166;
 
•        Calatarapetta (sic) Mons maior unc. 6;
 
•       Tusa unc. 2;
 
•        Misiliusiphus unc. 4;
 
•       Sciacca unc. 250;
 
•       Calatabellottum unc. 122;
 
•        Agrigentum unc. 380.
 
Il successivo 26 gennaio, come detto, si rincara la dose: Racalmuto è chiamato ad armare ed inviare altri quattro arcieri o fanti.
 
Dopo il Vespro, gli eventi della Sicilia fibrillano per una cinquantina d’anni. Non è questa la sede per rievocarli. Michele Amari, nella sua storia del Vespro, ne fa quasi una diuturna rievocazione. Ancor oggi è viva la polemica su quella temperie storica e studiosi di grande levatura dei tempi nostri continuano a cimentarvisi. Si pensi che Benedetto Croce, capovolgendo un indirizzo consolidato, ritenne la cacciata degli angioini dalla Sicilia una nefasta frattura. Abbiamo visto che persino Leonardo Sciascia ha voglia di essere originale su quello snodo della storia siciliana: una improvvisa e scomposta fiammata ribellistica del popolo palermitano, su cui si innesta una vorace conquista di un rappresenatnte dell’ «avara povertà di Catalogna». Certo, al papa quella faccenda non piacque: comminò scomuniche, che si ripeterono più volte per quasi un secolo. Solo nel 1276, 31 marzo, Racalmuto ne fu totalmente assolto. Che cosa abbia fatto di così irreligioso il nostro paese da meritarsi un quasi secolare interdetto, è tuttora un mistero. Ma noi ne siamo oltremodo sicuri: nulla. Così come per l’altra scomunica - quella del 1713 - le anime credenti racalmutesi patirono il terrore dell’inferno per ribellioni (al francese Carlo d’Angiò, fratello di San Luigi, re di Francia, nel 1282) e per diatribe tra vescovi ed autorità civili (insorte nel 1713 per una faccenda di tasse su un alcuni rotoli di ceci del vescovo di Lipari), di cui francamente non ebbero né coscienza e neppure significativa conoscenza.
 
Racalmuto, decentrato, non fu artefice in alcun modo della ribellione del Vespro; non capì cosa fosse venuto a fare re Pietro d’Aragona; non si rese conto - o non immediatamente - che entrava nell’orbita spagnola; subì passivamente la politica del nuovo re che si mise a foraggiare con feudi quei nobili che corsero in suo soccorso; seppe di certo che Pietro d’Aragona cessò di vivere il 10 novembre del 1285; capì ben poco delle faccende dinastiche del successore Giacomo e della sua rinuncia alla Sicilia nel gennaio del 1296; ebbe forse qualche simpatia per il ribelle fratello Federico (II o III) ma non riuscì a comprendere le ragioni che spingevano i du potenti fratelli (Federico E Giacomo) a combattersi fra loro. Quando giunsero gli echi delle scomuniche papali, in loco non sene  intuirono le ragioni; i racalmutesi non si ritennero colpevoli di nulla (non lo erano); si smarrivano nell’ascoltare i contorti ragionamenti che preti e francescani si sforzavano di propinare nelle loro infuocate prediche. Per fortuna, le tante guerre e guerricciole si combattevano lontano, vicino ai posti di mare, in Calabria, a Napoli: sì e no giungeva l’eco. Qualche vantaggio, sì: il frumento aveva un mercato; qualche guadagno si riusciva a conseguirlo; la pesante fatica dei campi non era ingrata. L'universitas si accresceva con nuovi immigrati e con con fertili nozze.
 
Nel 1308 e nel 1310 Racalmuto è tanto grande da consentire a due religiosi di riscuotervi pingui rendite. Da Avignone, il papa - colà rifugiatosi nel 1309 - arrivano ordini per la tassazione di quei due redditieri per quelle due precorse annate. L’Archivio Segreto Vaticano ci conserva le registrazioni di quei prelievi fiscali. A leggerli, vien fuori qualche dato sulla Universitas di Racalmuto del primo decennio del XIV secolo. Nel registro «Rationes Collectoriae Regni Neapolitani - 1308 - 1310», Collect. n.° 161 f. 96 abbiamo:
 
«Martutius de Sifolono pro ecclesia S. Mariae de Rachalmuto solvit pro utraque decima uncia J.»
 
In altri termini, Matuzio de Sifolono corrispose per la chiesa di S. Maria di Racalmuto un’oncia per entrambe le decime del 1308 e del 1310. E nel retro del foglio n.° 97 ( 97v):
 
«presbiter Angelus de Monte Caveoso pro officio suo sacerdotali, quod impendit in Casale Rachalamuti, solvit pro utraque tt. ix.»
 
Il che equivale a dire: il sacerdote Angelo di Monte Caveoso corrispose per il suo ufficio sacerdotale, che ha svolto nel Casale di Racalmuto, nove tarì. Racalmuto non viene segnato come castrum anche se il Castello doveva essere già costruito, stando al Fazello. Del resto, la grafia non del tutto corretta del toponimo (Rachalamuti) sta a segnalare l’approssimatività dello scriba pontificio.
 
Coteste ricerche d’archivio ci permettono di individuare due sacerdoti officianti a Racalmuto all’inizio del XIV secolo. Sono religiosi e non appaiono neppure autoctoni; l’uno, Martuzio de Sifolono, è titolare della chiesa di S. Maria, ed è chiamato  a corrispondere un’oncia per le decime di due anni (1308 e 1310); l’altro, è il “prete”  Angelo di Montecaveoso, ed è tassato per nove tarì  in relazione all’ufficio sacerdotale che esplicava nel Casale di Racalmuto. Del primo non sappiamo neppure se fosse un sacerdote. Ignoriamo anche dove era ubicata la chiesa di S. Maria - ed ogni attribuzione ad uno dei vari templi oggi dedicati alla Madonna è mero arbitrio. Il “presbiter”  Angelo de Montecaveoso  ha tutta l’aria di essere un frate: parroco di Racalmuto nel 1308 e nel 1310, non sembra indigeno; ricava proventi che dovevano essere di poco più di un terzo rispettp alle ricche prebende di chi è titolare della chiesa di Santa Maria (dopo, l’arcipretura di Racalmuto diverrà molto appetibile e la vorranno prelati di Messina, Napoli, Prizzi, S. Giovanni Gemini, etc.). 
 
La chiesa di Santa Maria rendeva dunque per tre volte rispetto alle primizie spettanti all’arciprete Angelo di Montescaglioso: troppo per essere soltano un luogo di culto; dovette essere quindi una chiesa dotata di feudi o di terreni allodiali. Il suo titolare fu forse un canonico agrigentino, e da qui potè nascere il beneficio di Santa Margherita che risulta documentato solo a partire dalla fine del secolo XIV. Ma potè trattarsi anche di un convento, forse di benedettini, insediatosi anche per lo sviluppo agricolo e per l’estensione della coltivazione granaria, divenuta molto richiesta dal mercato a causa dell’endemico stato di guerra.  Da qui, quel convento benedettino cui accenna Giovan Luca Berberi nei suoi Capibrevi dei BENEFICIA ECCLESIASTICA, «liber Capibr. Eccl. in Reg. Canc. fol. 211».  II Pirri descrive il Cenobio con annessa chiesa di san Benedetto che trovavasi nella via che congiungeva Racalmuto ad Agrigento. Credo che bisogna concordare con chi ritiene che quel convento sorgesse nel vecchio Campo Sportivo. Una volta tanto, ci soccorre fondatamente Eugenio Messana alle pag. 50 e 51 del suo volume su Racalmuto. «Il Pirri e Giovanni Luca Barberi parlano di un convento di s. Benedetto a Racalmuto, sulla via che conduce a Girgenti. Di questo monastero non rimane traccia, dei sospetti lo fanno ubicare dove ora c’è il campo sportivo. I sospetti si basano sulle fondamenta di un grande edificio con cortile e pozzo nel mezzo, che furono quivi trovati, quando la terra donata dal dott. Enrico Macaluso al comune, secondo la volontà del donatario (sic), fu spianata per adibirla a stadio.» Il Messana cita anche un testo di Illuminato Peri, (Manfredi Editore Palermo, 1963 - Vol. II, pag. 18 ) ove è pubblicato appunto il foglio 211 che recita «MONASTERIUM SANCTI BENEDICTI - 211 -Monasterium cum ecclesia sancti Benedicti prope iter inter Agrigentum et Rayhalmutum [Messana, erroneamente, trascrive in: Rayelmutum] existens de suffraganeis maioris agrigentine ecclesie». Il padre Calogero Salvo nel suo libro Ecco tua Madre riconsidera tutta la questione del monastero di S. Benedetto in termini del tutto critici nei confronti degli storici locali che hanno trattato l’argomento. Non sappiamo quanto di vero ci sia nel pregevole lavoro di padre Salvo.
 
I nove tarì corrisposti per due anni dall’arciprete Angelo di Montescaglioso dovettero essere un lieve aggravio sulle primizie corrisposti dai parrocchiani: un qualche riflesso demografico devono dunque averlo. Quattro tarì e mezzo per un anno sembrano riflettere appunto quel mezzo migliaio di abitanti che allora Racalmuto accoglieva sul suo suolo. Era un centro che non poteva non dispiegarsi nei pressi del nuovo fortilizio cilindrico, costruito da Federico II Chiaramonte pochissimi anni prima, secondo la versione tramandataci dal Fazello. Vicino sorgeva senza dubbio la nuova chiesa madre, pensiamo là dove verrà costruita poi la Matrice intitolata a S. Antonio e cioè, secondo noi, in piazza Castello, in quarterio Castri, come leggesi in taluni diplomi del ’500. I documenti vaticani spingono dunque ad una totale revisione della tradizione (per noi falsa) che gli storici locali, e non, hanno avallato in ordine a Racalmuto, per il periodo in discorso. E’ difficile sostenere che in quel tempo il paese sorgesse a Casalvecchio: una tesi questa che resiste imperterrita, sposata anche da studiosi valenti come il padre gesuita Girolamo M. Morreale .  A Casalvecchio, già alla fine del XIII secolo, c’erano solo ruderi dell’antico insediamento bizantino. Da rigettare in pieno quello che dopo l’avvento di Garibaldi si scrisse su Racalmuto e cioè:
 
«Antica è l'origine di Racalmuto: il suo nome è di origine arabica. Fu distrutto dalla peste del '300, indi nel ripopolarsi non occupò il luogo primitivo, che si trova ora alla distanza di un chilometro, e si chiama Casalvecchio. Nell'occasione dei lavori eseguiti ultimamente per stabilire una carreggiabile, si rinvennero ivi dei sepolcreti e ruderi di edifici. »
 
I dati che possiamo ricavare dalle ravole delle collette pontificie dle 1308-1310 non consentono fondate ipotesi sullo sviluppo demografico di Racalmuto in quel torno di tempo: nella comparazione con le altre località che riusciamo a desimere ( Agrigento, Butera, Caltabellotta, Caltanissetta, Cammarata, Castronovo, Delia, Giuliana, Licata, Naro, Palazzo Adriano, S. Angelo Muxaro, Sciacca e Sutera), il nostro paese aveva una certa rilevanza nell’approntare tasse e risorse finanziarie alla lontanissima corte papale di Avignone. Un’onza e 9 tarì nonerano poi pesi intollerabili, ma pur sempre era un prelievo dalla magra economia curtense racalmutese che veniva dirottato, senza contropartita di sorta, verso terre francesi di cui si sconoscevano persino le denominazioni.
 
Gli emissari pontifici si erano già recati nell’agrigentino per riscuotere laute decime per gli anni 1275-1280. Eravamo sotto il dominio di Carlo d’Angiò, fiduciario del papato. Eppure la resa non fu elevata rispetto a quello che il papa ebbe a pretendere immediatamente dopo il 1310 - in quella sorta di compromesso storico tra corte avignonese e potenza aragonese.
 
 
 
Ci sia di un qualche lume questo confronto:
 

Denominazione

Unciae

Tarini

Granae

Summa
 
Somme percette nell’intera provincia agrigentina per le decime degli anni 1308 - 1310 (due annualità)

 
261

 
4

 
8

 
261,4,8
 
Somme percette nell’intera provincia agrigentina per le decime degli anni 1275-1280 (cinque annualità)

 
87

 
22

 
10

 
87,22,10
 
Differenze

173

11

18

173,11,18
 
Differenza in percentuale







197,58%

        
 

 
 
Per due sole annualità si è dunque dovuto pagare quasi il doppio di quanto corrisposto subito dopo il 1280, in pieno regime angioino, per un quinquennio. Racalmuto figura tassato esplicitamente nel 1310; indirettamente nel 1280. Allora, collettori per Agrigento furono ilcanonico agrigentino Pasquale ed il notaio messinese Pellegrino. Il vescovo cassanese, il francescano Marco d’Assisi,  ebbe dal collettore Pasquale solo 20 onze d’oro. Che fine abbia fatto il resto non sappiamo. Nella pagina del 1280 abbiamo note che attengono allo stato dell’intera diocesi di agrigento: nulla che possa in qualche modo illuminarci direttamente sulla chiesa racalmutese. Questa doveva però avere un certo ruolo. In ogni caso era saldamente incardinata nella diocesi agrigentina, sotto l’egida del vescovo Ursone, almeno per il biennio 1275-76; dopo, pare sia subentrata la sede vacante, affidata al sostituto Gualterio. La vicenda dei vescovi agrigentini ha riverberi sulla storia di Racalmuto. Nel 1271 (28 gennaio) muore il vescovo Goffredo Roncioni. Subentra Guglielmo de Morina: fu una meteora. Sotto di lui abbiamo lo stravolgimento feudale racalmutese: il Musca viene privato del nostro casale che passa, per ordine dell’Angioino, al partenopeo Pietro Negrello di Belmonte. Nel 1273, (2 giugno), sale sulla cattedra di Gerlando, il cennato Guidone che vi rimane sino al 24 giugno 1276. Dal 1278 al 1280 abbiamo il citato sostitu Gualtiero. Dal 12 maggio 1280 al 23 agosto 1286 subentra tal Goberto, tarsferito alla sede di Capaccio il 23 agosto 1286. E’ quindi il tempo del lungo episcopato di Bertoldo di Labro (10 dicembre 1304-11 luglio 1326). In questo tratto, Racalmuto ha sconvolgimenti rimarchevoli: cessa l’autonomia comunale; i Chiaramonte spaccano il territorio in due parti: quella collinare attorno al Castelluccio viene trattenuto da Manfredi Chiaramonte; quella di nord-est - già sede dell’insediamento attivato dal Musca - viene requisita dal fratello cadetto Federico II (ma di ciò, più a lungo, dopo). L’organizzazione ecclesiastica - i cui riflessi sul vivere civile e sociale sono di tutta evidenza - si irrobustisce: cessa l’evanescenza dei primordi; ora abbiamo una potenza agraria attorno alla chiesa di S. Maria, oltremodo tassata dal papa (come si è visto); figuriamoci dal persule agrigentino; ed una pieve consistente, piuttosto facoltosa: il suo parroco (presbiter Angelus de Monte Caveoso) subisce l’angheria pontificia di un balzello di nove tarì; sborsa al suo vescovo l’aliquota (la quarta?) sulle sue decime o primizie. I racalmutesi vengono a subire l’incidenza di tanti oboli obbligatori d’indole ecclesiastica. Quelli d’indole feudale non li conosciamo. L’imposizione diretta pretesa dai nuovi regnanti è greve e di essa abbiamo solo gli echi di quella che fu la politica fiscale del re Pietro, il primo assaggio dell’avara povertà di Catalogna.
 
 
 
 
 
 


   

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