venerdì 1 aprile 2016


Caro Carmelo,

 

ti parlavo della realtà sociale di Favara in un documento del vescovo di Agrigento del 1699. Te lo riporto con qualche annotazione.

Trattasi di una “relatio ad limina” che si conclude con queste annotazioni su Favara e quindi s.Anna:

Favaria

Oppidum sexmillequingentarum sexaginta animarum (ed altri dati);

 

quindi è la volta di Sanca Anna chiamata “oppidulum quingentarum animarum” e dopo quattro righe e mezza s’inizia con un capoverso che sembra rientrare tra i ragguagli sell’oppidulum dell’oppidum di Favaria . A dire il vero è il curiale del papa che vi casca per primo tanto da fargli annotare:

«in clero saeculari oppiduli Sanctae Annae hoc malum  …” e quindi un provvedimento che sembrò attagliarsi solo, non tanto a Sant’Anna quanto a Favara.

Da lì la diceria di Favara centro di raccolta di  rifugiati in odore di alta mafia.

 

Eccoti il passo, liberamente tradotto, con alcune note di una memoria al giornalista del Corriere della Sera Felice Cavallaro ( racalmutese, se non lo sapessi)[1]:

 


 

 

Il 20 settembre del 1699 il vescovo Ramirez – quello esiliato per le sue intemperanze al tempo della controversia liparitana – licenziava una pagina agghiacciante sullo stato della diocesi di Agrigento: vi sono tutti i geni della endemica piaga siciliana della mafia. E’ una pagina [2] ignota alla pubblicistica sulla mafia ma per questo non significativa. Il vescovo fa sapere alla Santa Sede alla fine del ’600 che, dopo una visita in lungo e in largo per l’intera diocesi di Girgenti, ha riscontrato una virulentissima piaga sociale di cui i protagonisti sono taluni sacerdoti. Dato il particolare regime feudale che rende despoti i baroni in quasi tutto il regno di Sicilia, un abuso si accresce ogni giorno di più: codesti baroni assoldano degli individui insigniti del carattere sacerdotale per l’amministrazione delle cose temporali. Costoro vengono denominati sacerdoti “secreti”, nome prescelto a testimonianza del particolare ministero ufficiale a fronte delle incombenze effettive che sono quelle di un esattore di frumento, orzo, vino olio e degli altri frutti della terra spettanti ai baroni. E di codesti baroni tali preti “secreti” dividono le terre tra i villani per le coltivazioni con tanta ingiuria ai poveri, mentre li costringono alla conduzione di quelle terre, terre che devono coltivare non tanto per il loro sostentamento sibbene per il tornaconto dei baroni. I preti “secreti” diventano i custodi della giurisdizione laicale, tanto civile, quanto criminale. E sebbene vi siano i ministri laici, nel cui nome si giudica, tuttavia costoro non emettono sentenza alcuna senza l’intervento o il beneplacito di siffatti sacerdoti, che sovrintendono sia ai Capitani sia ai Birrari: e, per esempio, questo carcerano, quello liberano dal carcere; a questo o quello infliggono le pene o concedono la grazia. Spesso con le loro stesse mani liberano dalle carceri pericolosi criminali, con sommo pericolo per l’ordine pubblico.
Si aggirano armati di tutto punto, sono dediti alla caccia ed a chiassate venatorie e come soldati armati accompagnano i baroni quando questi hanno necessità di recarsi qui o là.
I “segreti” spessissimo angustiano gli altri sacerdoti o gli altri ecclesiastici dei villaggi, così come abbiamo detto per i villani, quando costretti a coltivare le terre non tanto per il loro interesse quanto per il tornaconto dei baroni. Si adoperano per la riscossione delle gabelle, specie quelle che i baroni impongono. Codesti speciali sacerdoti s’ingeriscono persino nelle sacre funzioni, prescrivono riti e cerimonie entro le chiese. Molti sono quelli che non permettono la somministrazione dei sacramenti nei loro casali se non da parte di quei sacerdoti che sono loro graditi, diversamente vengono minacciati e vessati, anche con la carcerazione o l’esilio dei parenti e congiunti sino alla rinuncia del ministero.
Similmente operano contro i vicari foranei, se non si conformano ai loro desideri. A nessuno è concesso di rivolgersi al vescovo per qualche affare, se non si è ottenuto il benestare di questi preti “secreti”. Questi spesso decidono le cause ecclesiastiche direttamente o tramite ministri amici. Perseguitano sacerdoti ed ecclesiastici ed arrivano persino ad incarcerarli. Amministrano a loro piacimento i beni delle chiesa e degli altri luoghi pii, dirimono le liti insorgenti, quel che viene lasciato ad una chiesa viene dirottato ad altra o per altro ministero e si è riscontrato che beni stabili delle chiese sono stati affidati a laici per le migliorie. Né gli ecclesiastici vessati possono ricorrere al vescovo, perché verrebbero a mancare le prove di legge quando avverse ai potenti signori o anche ai ministri laici di costoro. I vassalli non possono deporre in nessun modo, allorché i prelati indagano su qualche affare: subito nascerebbe il sospetto che agirebbero ispirati dagli ecclesiastici, anche quando la controversia è in favore del fisco. E così gli imminenti mali sono peggiori della misera condizione servile.
Spesso abbiamo voluto – scrive il vescovo Ramirez – mettervi mano a difesa degli ecclesiastici, ma questi, inginocchiandosi, ci hanno supplicato di lasciar perdere, consapevoli che quella difesa si sarebbe risolta in una peggiore rovina di quelli che cercavamo di affrancare: e così tollerano un miserrimo servaggio.
I baroni si atteggiano come se fossero nelle loro terre i padroni assoluti delle cose sia profane sia religiose. »
 
Non può certo concedersi al Ramirez troppa fiducia; egli è quel vescovo fazioso, ambizioso, subdolo che i funzionari sabaudi ci descrivono al tempo della famigerata vertenza liparitana. Eppure come negarsi un valido fondamento al fenomeno inquietante che il vescovo stigmatizza pur trattandosi di suoi sacerdoti. Le stigmate di una insorgente cultura mafiosa affiorano riconoscibilissime. Inquieta il carattere sacrale, persino sacerdotale di preti capimafia che agiscono con crudeltà in difesa e per l’arbitrio dei loro referenti, baroni avidi e sopraffattori. Una strana cupola emerge ante litteram: i referenti insospettabili e distaccati; gli aguzzini di non spregevole condizione, dei mammasantissima insigniti persino dell’ordine sacerdotale per un’autorevolezza sacrale (omnis auctoritas a Deo, sembra quasi che sia), “uomini di rispetto”, insomma; e quindi un mondo contadino vessato e sfruttato; una giustizia privata che si consuma nell’ambito dell’organizzazione mafiosa, senza possibilità di appello alcuno presso estranei tribunali, siano pure quelli episcopali. Lo schioppo sempre a portata di mano, apparentemente per le diversificazioni venatorie o per la scorta del tronfio barone, all’occorrenza strumento di morte, lupara omicida. E si badi: siamo nel 1699, siamo in Sicilia, siamo ad Agrigento, siamo a Racalmuto.
Il vaticano non capì questa valenza regionale: il burocrate romano annotò frettolosamente «in clero saeculari oppiduli Sanctae Annae [est] hoc malum». Per Roma era dunque un fenomeno estremamente marginale di quel minuscolo “oppidilum” che era il villaggetto di Sant’Anna. Bastava mandare circolari e disposizioni «ne permittant Sacerdotes immisceri officiis et servitiis laicalibus». Cioè bastava vietare quel tipo di ministero “secreto”, a metà tra il sacerdozio e la vessazione mafiosa. Anche allora ci si affidava a vuote leggi ed ad esangui strutture dell’antimafia per debellare culture criminali profonde e radicate, con connivenze altolocate e con interessi economici devastanti.
L’inquinamento mafioso suffragato da preti a mezzo tra l’aspersorio e la lupara ci pare che a Racalmuto ebbe a rarefarsi con l’avvento di un arciprete racalmutese DOC d. Fabrizio Signorino sin dal 1697. Prima vi era stato l’arciprete Lo Brutto in rapporti cordiali sia con il conte sia con il vescovo Rini. Il conte Girolamo terzo del Carretto se ne stava ora lontano a Palermo alle prese con il figlio Giuseppe e con la giovane seconda moglie. Non crediamo che avesse voglia di accreditare “padrini-preti” in quel di Racalmuto. Con il clero non era stato tenero specie per quella controversia delle terrae nulliter possessae da parte della crestomazia sacerdotale locale. Ciò non esclude che qualche “prete burduni” si atteggiasse a fiduciario del conte Girolamo  taglieggiando i vassalli contadini.
Don Fabrizio Signorino ebbe certamente a cuore le sorti dei suoi compaesani e cercò di difenderli durante le temperie militari, religiose, economiche e sociali del primo quindicennio del Settecento. E’ ossequiente ma non troppo nei confronti della curia del Ramirez; rispetta l’interdetto ma cerca di attenuarne i rigori. Seppellisce fuori dalle chiese, ma basta un appiglio anche improbabile per derogare. Il suo omonimo d. Pietro Signorino palesa tutta l’ostilità che sempre vi è stata tra il basso clero racalmutese e la saccente e prepotente curia di S. Gerlando. Nel lasciare beni e denari per la ricostruzione (o ampliamento) della chiesa del Monte nel 1737 è categorico: niente intrusioni della “Generale Curia vescovile di Girgenti”; il “testatore” ha solo fiducia nei fidecommissarii da lui prescelti e cioè don Baldassare Biondi, don Melchiore Grillo ed il rev. Sac. Don Elia Lauricella. La fiducia non è però totale, il “testatore vuole ed espressamente comanda che si dovesse depositare nel monte della pietà di Girgenti” il capitale “fintanto che dalli detti fidecommissari si ritroverà l’impiego”.
 
La mafia di “preti secreti” sembra dunque affievolirsi a Racalmuto con il nuovo secolo dei lumi. La crisi feudale della contea, connessa alla fine della dominazione carrettesca, disperde i referenti della cupola.  Il subentrante duca di Valverde, del ceppo dei Gaetano di Naro, si ritrova contro tutte le forze clericali per questioni di terraggio e soprattutto di terraggiolo. Quando, poi, ritorna l’influenza degli eredi dei Del Carretto, i Requisenz, un qualche prete esattore con licenza di lupara pare allignare nel paese. Se crediamo al Tinebra ed a Sciascia, dovremmo annoverare il prete Savatteri. Noi, che non abbiamo uzzoli anticlericali, riteniamo però – e crediamo con fondamento – personaggio positivo e rimarchevole don Giuseppe Savatteri e Brutto. Ma di ciò, dopo.
 
 
 
Confesso che ritenevo basilare quel passo:
Hos Sacerdotes secretos appellant, nomen impositum ad significandum ministerium, nempè, ut sint exactores frumenti, hordei, vini, olei, aliarumque frugum ad Barones spectantium.
 
Ecco, mi ero detto: la genesi sacro-criminale del peculiare fenomeno dell’omertà siciliana. Ho dovuto però ammettere che “secretus” è nel diritto feudale siciliano (che si trascina sino ai primi anni dell’800) l’equivalente del nostro esattore dell’imposte, un affiliato agli esattori Salvo – tanto per intenderci. Spero di spingere il mio amico Virgilio – attualmente presidente del CGA di Palermo – studioso intelligentissimo di cose del diritto pubblico e tributario – di darmi una mano, ma essendo un collerico difficilmente ci riuscirò.


 

 

Il 20 settembre del 1699 il vescovo Ramirez – quello esiliato per le sue intemperanze al tempo della controversia liparitana – licenziava una pagina agghiacciante sullo stato della diocesi di Agrigento: vi sono tutti i geni della endemica piaga siciliana della mafia. E’ una pagina [3] ignota alla pubblicistica sulla mafia ma per questo non significativa. Il vescovo fa sapere alla Santa Sede alla fine del ’600 che, dopo una visita in lungo e in largo per l’intera diocesi di Girgenti, ha riscontrato una virulentissima piaga sociale di cui i protagonisti sono taluni sacerdoti. Dato il particolare regime feudale che rende despoti i baroni in quasi tutto il regno di Sicilia, un abuso si accresce ogni giorno di più: codesti baroni assoldano degli individui insigniti del carattere sacerdotale per l’amministrazione delle cose temporali. Costoro vengono denominati sacerdoti “secreti”, nome prescelto a testimonianza del particolare ministero ufficiale a fronte delle incombenze effettive che sono quelle di un esattore di frumento, orzo, vino olio e degli altri frutti della terra spettanti ai baroni. E di codesti baroni tali preti “secreti” dividono le terre tra i villani per le coltivazioni con tanta ingiuria ai poveri, mentre li costringono alla conduzione di quelle terre, terre che devono coltivare non tanto per il loro sostentamento sibbene per il tornaconto dei baroni. I preti “secreti” diventano i custodi della giurisdizione laicale, tanto civile, quanto criminale. E sebbene vi siano i ministri laici, nel cui nome si giudica, tuttavia costoro non emettono sentenza alcuna senza l’intervento o il beneplacito di siffatti sacerdoti, che sovrintendono sia ai Capitani sia ai Birrari: e, per esempio, questo carcerano, quello liberano dal carcere; a questo o quello infliggono le pene o concedono la grazia. Spesso con le loro stesse mani liberano dalle carceri pericolosi criminali, con sommo pericolo per l’ordine pubblico.
Si aggirano armati di tutto punto, sono dediti alla caccia ed a chiassate venatorie e come soldati armati accompagnano i baroni quando questi hanno necessità di recarsi qui o là.
I “segreti” spessissimo angustiano gli altri sacerdoti o gli altri ecclesiastici dei villaggi, così come abbiamo detto per i villani, quando costretti a coltivare le terre non tanto per il loro interesse quanto per il tornaconto dei baroni. Si adoperano per la riscossione delle gabelle, specie quelle che i baroni impongono. Codesti speciali sacerdoti s’ingeriscono persino nelle sacre funzioni, prescrivono riti e cerimonie entro le chiese. Molti sono quelli che non permettono la somministrazione dei sacramenti nei loro casali se non da parte di quei sacerdoti che sono loro graditi, diversamente vengono minacciati e vessati, anche con la carcerazione o l’esilio dei parenti e congiunti sino alla rinuncia del ministero.
Similmente operano contro i vicari foranei, se non si conformano ai loro desideri. A nessuno è concesso di rivolgersi al vescovo per qualche affare, se non si è ottenuto il benestare di questi preti “secreti”. Questi spesso decidono le cause ecclesiastiche direttamente o tramite ministri amici. Perseguitano sacerdoti ed ecclesiastici ed arrivano persino ad incarcerarli. Amministrano a loro piacimento i beni delle chiesa e degli altri luoghi pii, dirimono le liti insorgenti, quel che viene lasciato ad una chiesa viene dirottato ad altra o per altro ministero e si è riscontrato che beni stabili delle chiese sono stati affidati a laici per le migliorie. Né gli ecclesiastici vessati possono ricorrere al vescovo, perché verrebbero a mancare le prove di legge quando avverse ai potenti signori o anche ai ministri laici di costoro. I vassalli non possono deporre in nessun modo, allorché i prelati indagano su qualche affare: subito nascerebbe il sospetto che agirebbero ispirati dagli ecclesiastici, anche quando la controversia è in favore del fisco. E così gli imminenti mali sono peggiori della misera condizione servile.
Spesso abbiamo voluto – scrive il vescovo Ramirez – mettervi mano a difesa degli ecclesiastici, ma questi, inginocchiandosi, ci hanno supplicato di lasciar perdere, consapevoli che quella difesa si sarebbe risolta in una peggiore rovina di quelli che cercavamo di affrancare: e così tollerano un miserrimo servaggio.
I baroni si atteggiano come se fossero nelle loro terre i padroni assoluti delle cose sia profane sia religiose. »
 
Non può certo concedersi al Ramirez troppa fiducia; egli è quel vescovo fazioso, ambizioso, subdolo che i funzionari sabaudi ci descrivono al tempo della famigerata vertenza liparitana. Eppure come negarsi un valido fondamento al fenomeno inquietante che il vescovo stigmatizza pur trattandosi di suoi sacerdoti. Le stigmate di una insorgente cultura mafiosa affiorano riconoscibilissime. Inquieta il carattere sacrale, persino sacerdotale di preti capimafia che agiscono con crudeltà in difesa e per l’arbitrio dei loro referenti, baroni avidi e sopraffattori. Una strana cupola emerge ante litteram: i referenti insospettabili e distaccati; gli aguzzini di non spregevole condizione, dei mammasantissima insigniti persino dell’ordine sacerdotale per un’autorevolezza sacrale (omnis auctoritas a Deo, sembra quasi che sia), “uomini di rispetto”, insomma; e quindi un mondo contadino vessato e sfruttato; una giustizia privata che si consuma nell’ambito dell’organizzazione mafiosa, senza possibilità di appello alcuno presso estranei tribunali, siano pure quelli episcopali. Lo schioppo sempre a portata di mano, apparentemente per le diversificazioni venatorie o per la scorta del tronfio barone, all’occorrenza strumento di morte, lupara omicida. E si badi: siamo nel 1699, siamo in Sicilia, siamo ad Agrigento, siamo a Racalmuto.
Il vaticano non capì questa valenza regionale: il burocrate romano annotò frettolosamente «in clero saeculari oppiduli Sanctae Annae [est] hoc malum». Per Roma era dunque un fenomeno estremamente marginale di quel minuscolo “oppidilum” che era il villaggetto di Sant’Anna. Bastava mandare circolari e disposizioni «ne permittant Sacerdotes immisceri officiis et servitiis laicalibus». Cioè bastava vietare quel tipo di ministero “secreto”, a metà tra il sacerdozio e la vessazione mafiosa. Anche allora ci si affidava a vuote leggi ed ad esangui strutture dell’antimafia per debellare culture criminali profonde e radicate, con connivenze altolocate e con interessi economici devastanti.
L’inquinamento mafioso suffragato da preti a mezzo tra l’aspersorio e la lupara ci pare che a Racalmuto ebbe a rarefarsi con l’avvento di un arciprete racalmutese DOC d. Fabrizio Signorino sin dal 1697. Prima vi era stato l’arciprete Lo Brutto in rapporti cordiali sia con il conte sia con il vescovo Rini. Il conte Girolamo terzo del Carretto se ne stava ora lontano a Palermo alle prese con il figlio Giuseppe e con la giovane seconda moglie. Non crediamo che avesse voglia di accreditare “padrini-preti” in quel di Racalmuto. Con il clero non era stato tenero specie per quella controversia delle terrae nulliter possessae da parte della crestomazia sacerdotale locale. Ciò non esclude che qualche “prete burduni” si atteggiasse a fiduciario del conte Girolamo  taglieggiando i vassalli contadini.
Don Fabrizio Signorino ebbe certamente a cuore le sorti dei suoi compaesani e cercò di difenderli durante le temperie militari, religiose, economiche e sociali del primo quindicennio del Settecento. E’ ossequiente ma non troppo nei confronti della curia del Ramirez; rispetta l’interdetto ma cerca di attenuarne i rigori. Seppellisce fuori dalle chiese, ma basta un appiglio anche improbabile per derogare. Il suo omonimo d. Pietro Signorino palesa tutta l’ostilità che sempre vi è stata tra il basso clero racalmutese e la saccente e prepotente curia di S. Gerlando. Nel lasciare beni e denari per la ricostruzione (o ampliamento) della chiesa del Monte nel 1737 è categorico: niente intrusioni della “Generale Curia vescovile di Girgenti”; il “testatore” ha solo fiducia nei fidecommissarii da lui prescelti e cioè don Baldassare Biondi, don Melchiore Grillo ed il rev. Sac. Don Elia Lauricella. La fiducia non è però totale, il “testatore vuole ed espressamente comanda che si dovesse depositare nel monte della pietà di Girgenti” il capitale “fintanto che dalli detti fidecommissari si ritroverà l’impiego”.
 
La mafia di “preti secreti” sembra dunque affievolirsi a Racalmuto con il nuovo secolo dei lumi. La crisi feudale della contea, connessa alla fine della dominazione carrettesca, disperde i referenti della cupola.  Il subentrante duca di Valverde, del ceppo dei Gaetano di Naro, si ritrova contro tutte le forze clericali per questioni di terraggio e soprattutto di terraggiolo. Quando, poi, ritorna l’influenza degli eredi dei Del Carretto, i Requisenz, un qualche prete esattore con licenza di lupara pare allignare nel paese. Se crediamo al Tinebra ed a Sciascia, dovremmo annoverare il prete Savatteri. Noi, che non abbiamo uzzoli anticlericali, riteniamo però – e crediamo con fondamento – personaggio positivo e rimarchevole don Giuseppe Savatteri e Brutto. Ma di ciò, dopo.
 
 
 
Confesso che ritenevo basilare quel passo:
Hos Sacerdotes secretos appellant, nomen impositum ad significandum ministerium, nempè, ut sint exactores frumenti, hordei, vini, olei, aliarumque frugum ad Barones spectantium.
 
Ecco, mi ero detto: la genesi sacro-criminale del peculiare fenomeno dell’omertà siciliana. Ho dovuto però ammettere che “secretus” è nel diritto feudale siciliano (che si trascina sino ai primi anni dell’800) l’equivalente del nostro esattore dell’imposte, un affiliato agli esattori Salvo – tanto per intenderci. Spero di spingere il mio amico Virgilio – attualmente presidente del CGA di Palermo – studioso intelligentissimo di cose del diritto pubblico e tributario – di darmi una mano, ma essendo un collerico difficilmente ci riuscirò.
 


Le segnalo, poi, che in un locale del prof. Macaluso – il padre del giornalista suo collega – è provvisoriamente depositato l’archivio comunale: proprio quello su cui Sciascia ebbe a scrivere una sua pungentissima nota su Malgradotutto. Quando si trovava al castello chiaramontano, ho riscontrato che sia pure illegittimamente vi erano i diari giornalieri dei carabinieri di Racalmuto dalla fine dell’Ottocento sino alla chiusura della Pretura.

Vi ho trovato inchieste penali contro il famoso don Calogero Vizzini, contro il “pericoloso comunista” Edoardo Romano. Ho sbirciato anche i verbali quotidiani del carabinieri dell’epoca allorché vi fu il confino di notissime famiglie mafiose racalmutesi in quel di Roma (celebre quella insediatasi al Governo Vecchio) all’epoca del fascismo. La sensazionale esecuzione del famigerato nidale vi è indagata giorno per giorno più e meglio di un romanzo giallo.

 

Quanto ad altri aspetti, non mancherò di tediarla (sempreché lo ritenga del caso)

 

Con viva cordialità

 

Dott. Calogero Taverna

Via Lorenzo Rocci, 68

00151 R O M A


tel. 0665742876


N.B. Ho tentato di inviare il documento tramite la E-Mail che mi aveva dato stamattina [fcavallaro@ics.it] e mi è tornata indietro. La prego di  inviarmi alla mia E-Mail [racalmuto@libero.it] la trascrizione corretta della sua.



[1] ) Butto giù come mi viene. Se lo riterrai opportuno può partire da qui una discussione tra noi due.
[2] ) In Clero Seculari hoc malum inter alia reperimus, quod cum totum ferme[quasi] Regnum, eiusque oppida sub immediata iurisdictione Baronum, abusus inolevit[da inolesco: si accrebbe], quod hi assumunt sibi viros sacerdotali caractere insignitos pro temporalium rerum administratione. Hos Sacerdotes secretos appellant, nomen impositum ad significandum ministerium, nempè, ut sint exactores frumenti, hordei, vini, olei, aliarumque frugum ad Barones spectantium. Præfatorum Baronum terras dividunt inter Oppidanos ad excolendum,ut plurimum non sine pauperum iniuria, dum eos cogunt ad conducendas terras præfatas,  non quas possunt excolere, nec pro pensione, super qua deberent  pacisci [pattuirsi], sed pro beneplacito Baronum.
Custodes sunt Iurisdictionis Laicalis, tam Criminalis, quam Civilis. Et quamvis designatos teneant Laicos Ministros, quorum nomine causæ iudicantur: nihil tamen illi disponunt absque interventu, aut certe dispositione præfatorum Sacerdotum, qui tam Capitaneis, quam Birruarijs præcipiunt [prendono anticipatamente]; hunc, verbi causa, modo carceribus addicendum, illum e carceribus extraendum, hunc aut illum, hac vel illa pæna plectendum[punendo], sive ab ea absolvendum, atque sæpius homines criminosos proprijs ipsorum manibus capiunt carceribus mancipandos, non sine irregularitatis periculo. Incedunt armis onusti, venationibus clamosis [pieno di clamori], et venationibus dediti sunt, atque ut milites sclopis (?), alijsque similibus armati comitantur Barones, quando iis hinc inde [hinc inde, da una parte e dall'altra] commigrari contingit. Hinc plura audent contra Ecclesiasticas personas, et Iurisdictionem Ecclesiæ, sicut et contra locorum Sacrorum Immunitatem, quibus in gratiam Baronum infestissimi sunt.
Cogunt sæpissime cæteros Sacerdotes, at alias Ecclesiasticas personas oppidorum, sicut diximus de Vassallis laicis, ad acceptandum terras ad seminandum pro pensione sibi benevisa, atque solvere gabellas, ad minus eas quas in sui favorem imponunt Barones. Horum Sacerdotum ministerio usque ad Sacratissimas functiones Ecclesiasticas se ingerunt, præscribunt Ritus, et Cæremonias intra Ecclesias. Plurimi sunt qui nec permittunt Sacramenta administrare in illorum oppidis, nisi illis Sacerdotibus, de quibus sciunt omnia ad beneplacitum eorum ordinaturos; aliter tot mala contra eosdem machinatur, etiam per carcerationem, et exilium parentum, vel coniunctorum, quod compelluntur Ministerio renunciare. Atque similiter faciunt contra Vicarios foraneos, si omnia ad eorum  nutum non moderentur. Nulli licet pro negotio aliquo ad Episcopum recurrere, non obtenta prius ab eis venia. Ipsi Causas Spirituales sæpius decidere faciunt per se, vel per suos ministros oretenus. Sacerdotes, et alias Ecclesiasticas personas mulctant et carceribus addicunt. Ecclesiarum bona, et aliorum piorum locorum pro illorum placito administrantur, lites insurgentes dirimunt, quod relictum fuit pro una Ecclesia, vel pro aliquo opere  applicant alteri Ecclesiæ, vel pro alio ministerio, atque inventi sunt qui bona stabilia Ecclesiarum concesserunt Laicis ad meliorandum. Nec audent ita vexati Ecclesiastici ad Prælatum recurrere, tum quia impossibiles sunt iuridicæ probationes, cum contra dominos, et potentes, quin etiam eorum ministros laicos, Vassali ullo  pacto ad deponendum adigi non possint; tum quia si aliquam super negotio inquisitionem faciant Prælati, statim suspicio oritur quod querelis Ecclesiasticorum permoti hoc agant, quamquam pro Fisco Causa formetur, et tunc mala, quæ imminent, graviora sunt hac misera servitute. Sæpe voluimus  mittere manum pro Ecclesiasticorum defensione; at  vero illi poplite flexo rogaverunt, ut manum retraheremus, scientes quam certo  defensionem cessuram in maximam illorum ruinam, quorum libertati consulebamus: unde miserrimam tolerant servitutem; tutant enim, et iactant Barones se in proprijs Oppidis esse rerum tam prophanarum, quam ecclesiasticarum, ut supremos  moderatores.
His accedit quod anno proxime elapso  per omnes Civitates, et Oppida promulgatum fuit Laicale proclama, quo monebantur omnes  ministri Iurisdictionis Temporalis, nullum familiarem aut        ministrum Laicum Episcoporum  debere gaudere privilegio fori Ecclesiastici; Et cum oporteat  tenere ad minus ministros  inferiores, quales sunt Birruarij, Laicos; ut primum isti pro defensione Iurum Ecclesiarum, vel Ecclesiasticorum, nomine Curiæ Spiritualis monent aliquem, ut desistat ab offensione, vel citant  pro præfata tuitione, carceribus mancipant, si monitio, aut citatio sit contra aliquem Laicum Ministrum, aut contra ab eis dependentes. Nec datur (tam longe, lateque in hoc Regno gravaminum patet campus)  in propriam defensionem  aliquid moliri; cum non solum actus iuridicos efformare, sed  nec verbum quidem proferre liceat, quod statim aditum non  præstet gravamini  decidendo … Iudice qui pro Regula Iudicandi habet præfatum laicale proclama.
Hinc Ecclesiastica disciplina prolapsa, Prælatorum Iurisdictio enervis, Subditorum audacia petulantior, in quibus nec obedientia, nec modestia, personarum Deo Sacratarum propriæ reperiuntur, quippe sæpissime in delinquendo seculares facinorosos enormiter excedunt. Augentur hæc  mala ex nimia facilitate obtinendi  exemptionem … Prælatis, quæ tanta promptitudine occurrit, ut nullus eam pro libito non consequatur. Si autem nolit exemptionem  generalem circa omnes causas, et in aliquo delinquat, sufficit ut non possit corrigi … Prælato, dicere se esse gravatum. Vel oportebit Prælatum in alio Trubunali facere partes actoris tot causarum quot habet subditos. Unde modo Prælati nihil agere possunt præterea, quæ ut in plurimum facere possunt alibi, in villulis Vicarij foranei Episcoporum.
Regularium Virorum res non fælicius se habent, quia similia patiuntur, vel potius eadem tam subditi, quam Superiores illorum: Patiuntur tamen Regularium res aliud notabile malum contra Regularem Observantiam, et disciplinam quam, etiam si vellent amplecti, non possent ad præscriptum Regulæ vivere ob paucitatem fratrum commorantium in Conventibus. Plures enim sunt Conventus in quibus duo tantum habitant fratres, in alijs tres, aut quatuor ad summum. Unde nec Ecclesiæ decenter tenentur, neque horæ Canonicæ in Choro in similibus domibus recitantur, et sæpius potius scandalo, quam exemplo populi sunt; Quapropter prudentiores, laicorum, immo et Regularium  putant,  putant consultissimum fore, si præfati supprimerentur conventus, et Fratres in eisdem existentes ad alios, in quibus ob maiorem numerum posset institui Regularis Observantia,  trasferrentur. 
 
[3] ) In Clero Seculari hoc malum inter alia reperimus, quod cum totum ferme[quasi] Regnum, eiusque oppida sub immediata iurisdictione Baronum, abusus inolevit[da inolesco: si accrebbe], quod hi assumunt sibi viros sacerdotali caractere insignitos pro temporalium rerum administratione. Hos Sacerdotes secretos appellant, nomen impositum ad significandum ministerium, nempè, ut sint exactores frumenti, hordei, vini, olei, aliarumque frugum ad Barones spectantium. Præfatorum Baronum terras dividunt inter Oppidanos ad excolendum,ut plurimum non sine pauperum iniuria, dum eos cogunt ad conducendas terras præfatas,  non quas possunt excolere, nec pro pensione, super qua deberent  pacisci [pattuirsi], sed pro beneplacito Baronum.
Custodes sunt Iurisdictionis Laicalis, tam Criminalis, quam Civilis. Et quamvis designatos teneant Laicos Ministros, quorum nomine causæ iudicantur: nihil tamen illi disponunt absque interventu, aut certe dispositione præfatorum Sacerdotum, qui tam Capitaneis, quam Birruarijs præcipiunt [prendono anticipatamente]; hunc, verbi causa, modo carceribus addicendum, illum e carceribus extraendum, hunc aut illum, hac vel illa pæna plectendum[punendo], sive ab ea absolvendum, atque sæpius homines criminosos proprijs ipsorum manibus capiunt carceribus mancipandos, non sine irregularitatis periculo. Incedunt armis onusti, venationibus clamosis [pieno di clamori], et venationibus dediti sunt, atque ut milites sclopis (?), alijsque similibus armati comitantur Barones, quando iis hinc inde [hinc inde, da una parte e dall'altra] commigrari contingit. Hinc plura audent contra Ecclesiasticas personas, et Iurisdictionem Ecclesiæ, sicut et contra locorum Sacrorum Immunitatem, quibus in gratiam Baronum infestissimi sunt.
Cogunt sæpissime cæteros Sacerdotes, at alias Ecclesiasticas personas oppidorum, sicut diximus de Vassallis laicis, ad acceptandum terras ad seminandum pro pensione sibi benevisa, atque solvere gabellas, ad minus eas quas in sui favorem imponunt Barones. Horum Sacerdotum ministerio usque ad Sacratissimas functiones Ecclesiasticas se ingerunt, præscribunt Ritus, et Cæremonias intra Ecclesias. Plurimi sunt qui nec permittunt Sacramenta administrare in illorum oppidis, nisi illis Sacerdotibus, de quibus sciunt omnia ad beneplacitum eorum ordinaturos; aliter tot mala contra eosdem machinatur, etiam per carcerationem, et exilium parentum, vel coniunctorum, quod compelluntur Ministerio renunciare. Atque similiter faciunt contra Vicarios foraneos, si omnia ad eorum  nutum non moderentur. Nulli licet pro negotio aliquo ad Episcopum recurrere, non obtenta prius ab eis venia. Ipsi Causas Spirituales sæpius decidere faciunt per se, vel per suos ministros oretenus. Sacerdotes, et alias Ecclesiasticas personas mulctant et carceribus addicunt. Ecclesiarum bona, et aliorum piorum locorum pro illorum placito administrantur, lites insurgentes dirimunt, quod relictum fuit pro una Ecclesia, vel pro aliquo opere  applicant alteri Ecclesiæ, vel pro alio ministerio, atque inventi sunt qui bona stabilia Ecclesiarum concesserunt Laicis ad meliorandum. Nec audent ita vexati Ecclesiastici ad Prælatum recurrere, tum quia impossibiles sunt iuridicæ probationes, cum contra dominos, et potentes, quin etiam eorum ministros laicos, Vassali ullo  pacto ad deponendum adigi non possint; tum quia si aliquam super negotio inquisitionem faciant Prælati, statim suspicio oritur quod querelis Ecclesiasticorum permoti hoc agant, quamquam pro Fisco Causa formetur, et tunc mala, quæ imminent, graviora sunt hac misera servitute. Sæpe voluimus  mittere manum pro Ecclesiasticorum defensione; at  vero illi poplite flexo rogaverunt, ut manum retraheremus, scientes quam certo  defensionem cessuram in maximam illorum ruinam, quorum libertati consulebamus: unde miserrimam tolerant servitutem; tutant enim, et iactant Barones se in proprijs Oppidis esse rerum tam prophanarum, quam ecclesiasticarum, ut supremos  moderatores.
His accedit quod anno proxime elapso  per omnes Civitates, et Oppida promulgatum fuit Laicale proclama, quo monebantur omnes  ministri Iurisdictionis Temporalis, nullum familiarem aut        ministrum Laicum Episcoporum  debere gaudere privilegio fori Ecclesiastici; Et cum oporteat  tenere ad minus ministros  inferiores, quales sunt Birruarij, Laicos; ut primum isti pro defensione Iurum Ecclesiarum, vel Ecclesiasticorum, nomine Curiæ Spiritualis monent aliquem, ut desistat ab offensione, vel citant  pro præfata tuitione, carceribus mancipant, si monitio, aut citatio sit contra aliquem Laicum Ministrum, aut contra ab eis dependentes. Nec datur (tam longe, lateque in hoc Regno gravaminum patet campus)  in propriam defensionem  aliquid moliri; cum non solum actus iuridicos efformare, sed  nec verbum quidem proferre liceat, quod statim aditum non  præstet gravamini  decidendo … Iudice qui pro Regula Iudicandi habet præfatum laicale proclama.
Hinc Ecclesiastica disciplina prolapsa, Prælatorum Iurisdictio enervis, Subditorum audacia petulantior, in quibus nec obedientia, nec modestia, personarum Deo Sacratarum propriæ reperiuntur, quippe sæpissime in delinquendo seculares facinorosos enormiter excedunt. Augentur hæc  mala ex nimia facilitate obtinendi  exemptionem … Prælatis, quæ tanta promptitudine occurrit, ut nullus eam pro libito non consequatur. Si autem nolit exemptionem  generalem circa omnes causas, et in aliquo delinquat, sufficit ut non possit corrigi … Prælato, dicere se esse gravatum. Vel oportebit Prælatum in alio Trubunali facere partes actoris tot causarum quot habet subditos. Unde modo Prælati nihil agere possunt præterea, quæ ut in plurimum facere possunt alibi, in villulis Vicarij foranei Episcoporum.
Regularium Virorum res non fælicius se habent, quia similia patiuntur, vel potius eadem tam subditi, quam Superiores illorum: Patiuntur tamen Regularium res aliud notabile malum contra Regularem Observantiam, et disciplinam quam, etiam si vellent amplecti, non possent ad præscriptum Regulæ vivere ob paucitatem fratrum commorantium in Conventibus. Plures enim sunt Conventus in quibus duo tantum habitant fratres, in alijs tres, aut quatuor ad summum. Unde nec Ecclesiæ decenter tenentur, neque horæ Canonicæ in Choro in similibus domibus recitantur, et sæpius potius scandalo, quam exemplo populi sunt; Quapropter prudentiores, laicorum, immo et Regularium  putant,  putant consultissimum fore, si præfati supprimerentur conventus, et Fratres in eisdem existentes ad alios, in quibus ob maiorem numerum posset institui Regularis Observantia,  trasferrentur. 
 

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