martedì 2 gennaio 2018


Da tempo gli eruditi locali hanno tentato di colmare i vuoti storici del fascinoso periodo arabo racalmutese con ipotesi, presunte tradizioni, fantasticherie. La silloge più completa si rinviene nel lavoro di Eugenio Napoleone Messana. Spigolando a pag. 35 e segg. di quel suo libro - che dileggiarlo si può, ma ignorarlo, no - apprendiamo che vi fu una tradizione riportata da un non precisato cultore di storie sacre che avvalorava l’esistenza di una moschea a Casalvecchio che sarebbe stata riconsacrata all’Arcangelo. Secondo presunte memorie popolari racalmutesi, l’ultimo arabo che lasciò il Castelluccio (Al ’Minsar), non portò con sé il tesoro ma ve lo lasciò seppellito. Al Raffo - toponimo ritenuto arabo - vagherebbero di notte «li signureddi cu l’aranci d’oro»: «nelle notti di luna, se dopo un temporale succede la schiarita, escono gli incantesimi ed offrono arance d’oro a chi va ad attingere acqua alla sorgente omonima, ma chi tocca le arance però impazzisce.» E naturalmente trattasi di fantasmi “arabi”.

 

I Normanni a Racalmuto

 

Conquistata Agrigento nel 1087, i lancieri di Ruggero d’Altavilla si impadroniscono di tutto il terrirorio limitrofo sino ad Enna. Racalmuto viene dunque liberata - si suol dire - dalla schiavitù islamica per divenire pia terra agli ordini dei vescovi di Agrigento. Dopo l’obbrobrio dell’islamica sudditanza, durata quasi  due secoli e mezzo, si ha la normanna restituzione alla veridica religione del Cristo. I normanni giungono a Racalmuto per un ritorno al cristanesimo.

Ma chi erano questi normanni?

Il giudizio storico moderno resta ancora contraddittorio e, spesso, prevenuto. A seconda delle ascendenze razziali e delle convinzioni religiose, questi uomini del Nord - provenienti dalla Scandinavia e dalla Danimarca ed attestatisi per quasi un secolo nelle terre di Normandia in Francia - vengono ora dileggiati per il loro essere degli avventurieri e dei saccheggiatori, ora esaltati per il loro maschio rinvigorimento delle popolazioni latine cadute in mani bizantine o peggio saracene. Va da sé che i normanni avventuratisi in Sicilia per liberarla dal giogo infedele hanno avuto il possente encomio della letteratura confessionale. A dire il vero, in tempi molto postumi. In vita, il conte Ruggero ebbe con i papi atteggiamenti di distacco con punte di indifferenza, patteggiando e pretendendo benefici e concessioni come, ad esempio, i poteri di 'legato apostolico'. Sorge la famosa "legazia" che qualche spregiudicato religioso sembra, a dire il vero, avere inventato in tempi smaccatamente postumi. In proposito Benedetto Croce non mancò di avere espressioni pungenti. «La Legazia apostolica - scrisse - dava alla persona del re di Sicilia diritti ecclesiastici paragonabili solo a quelli dello Czar in Russia sulla Chiesa ortodossa.»

L'Amari, si è visto, parteggia per gli arabi ed avversa i normanni, almeno quelli della prima ora. Poi, sarà per la poderosa personalità di Ruggero II.  Il Pontieri, nella elegante premessa alla revisione del testo del Malaterra di cui in precedenza, esprime giudizi equanimi. Denis Mack Smith nella sua Storia della Sicilia Medievale e Moderna non è molto tenero con i Normanni: li chiama «avventurieri provenienti dalla Normandia francese che si guadagnavano da vivere con profitto come soldati di mestiere nell'Italia del sud. Alcuni di questi erano semplici mercenari; altri preferivano la vita di capo brigante e depredavano i mercanti, rubavano il bestiame e infliggevano terribili devastazioni come combattenti salariati, cambiando parte a volontà, o persino combattendo per entrambe le parti contemporaneamente. Bisanzio ne assunse alcuni per la spedizione di Maniace in Sicilia; talvolta, con l'incoraggiamento del papa, attaccavano i cristiani greci dell'Italia meridionale; e talvolta, trovavano più vantaggioso fare incursioni negli Stati Pontifici». Di Ruggero, lo Smith dice cose elogiative ma con qualche tono di scherno inglese. Geniale «sia nei combattimenti, sia nell'amministrazione», viene giudicato il conte normanno. Ma la velenosa aggiunta tende a descrivercelo come colui che «con spietati saccheggi [accumulò] quelle ricchezze su cui sarebbe stata edificata una famosa dinastia».

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Che cosa ne è stato della Sicilia musulmana? di Racalmuto saracena? Gli storici indulgono troppo sulla grandezza della Sicilia normanna e non si curano abbastanza delle sofferenze e della prostrazione dei popoli indigeni, dei nostri antenati in definitiva. La tragedia di quella conquista normanna ai danni dei saraceni (quali erano gli abitanti della Racalmuto di allora) non ha avuto rogatori e fonti storiche. Supplisce il poeta. Ibn Hamdis ha pianto anche per noi racalmutesi, almeno quelli che vantiamo sangue arabo nelle vene. Sciascia in testa. «Sciascia è un cognome propriamente arabo .. Dunque il mio è un cognome diffusissimo nel mondo arabo, in Sicilia e persino in Puglia dove Federico II deportò tanti arabo-siculi.»

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Dopo i primi cedimenti il Granconte Ruggero si avviò verso un potere unitario ed una sovranità personale. La tendenza a dilatare il demanio pubblico prevalse. Ma Racalmuto, come altre terre profondamente intrise di islamismo, sembrò sottrarsi  sia  al fenomeno  normanno del feudalesimo sia a quello  accentratore  e demaniale  dell'Altavilla. Se feudo divenne, ciò maturò qualche tempo dopo. Crediamo che nei primi decenni del XII secolo, ai tempi del geografo arabo EDRISI, l’abitato di Racalmuto fosse ancora in mano degli indigeni saraceni, addetti  all'agricoltura ed  abili nelle colture arboree e negli ortaggi.  Per quello che diremo dopo, il nostro paese è forse da collegare alla località GARDUTAH di Edrisi che era appunto «un grosso casale e luogo popolato; con orti e molti alberi e terreni da seminare ben coltivati.»

Gli storici stanno ritornando sul controverso tema dei rapporti tra Ruggero e il papato. Il risultato è quello di rinverdire più che dissolvere i dubbi sui tanti diplomi a vantaggio di chiese e conventi che puzzano di falso e di manipolazione. Anche l'attribuzione della stessa LEGAZIA APOSTOLICA desta nuove perplessità.

 

 Del resto in Sicilia, mancava da tempo ogni forma di organizzazione della Chiesa. Il suo quadro religioso era diverso da quello in cui gli Altavilla erano abituati ad operare.  La religione cristiana di rito latino era pressoché inesistente. A Racalmuto praticavano - solo o in maggioranza, ci è ignoto - la religione islamica. Qualche residuo cristiano poteva esserci ad Agrigento e comunque era di rito greco. Qualcosa vi era a Palermo, la cui chiesa episcopale era relegata ad una stamberga.

 

Ruggero in un primo tempo si mise a favorire i monasteri greci, talora rifondandoli, qualche volta dotandoli di beni.  Si rese, però, subito conto che ciò non bastava. Era di fronte ad una chiesa di frontiera, lui in fondo laico. Bisognava avviare un «processo portatore di scelte di fondo capaci di dar vita, in termini che superassero i limiti gravi e le insufficienze accumulati in secoli di preminenza musulmana, a funzionali e organiche strutture ecclesiastiche. Le sole in grado di  coordinare  le manifestazioni di pratiche religiose e quindi di vita  quotidiana della gente e di riconfermare e rendere operativa l'alleanza  fra Chiesa  e  politica che affidava un ruolo  di  protagonista  agli Altavilla  e  rappresentava  un dato  strutturale  della  società normanna.»

Ruggero non ebbe certo tra le sue preoccupazioni l'evangelizzazione del popolo conquistato. Subordinarlo a vescovi di sua fiducia, fu idea politica e perspicace. Una religione di Stato, cristiana ma non unica, serviva al suo progetto politico e forniva in definitiva un apparente rispetto degli accordi di Melfi col papa latino. Le preoccupazioni politiche erano ad ogni modo preminenti. Istituire diocesi ma mettervi a capo uomini di fiducia, allogeni,  chiamati  dalla natia Normandia,  fu  - ripetiamo - il  taglio adottato  da  Ruggero nella instaurazione della Chiesa  di  Roma nelle  terre  della Sicilia musulmana. Così il Normanno fondò i vescovati di Troina, Agrigento, Catania, Mazara e di altre città isolane.

Un casale quale Racalmuto, periferico ed ancora tutto saraceno, nulla ebbe ad avvertire della rivoluzione religiosa messa in atto da Ruggero.  Dubitiamo persino che ebbe notizia  di  essere incluso nelle pertinenze della neo diocesi di Agrigento, affidata al  vescovo  francese Gerlando. Nell'anno 1092,  dopo cinque anni dalla conquista del territorio di Racalmuto da parte normanna, giunge, dunque, ad Agrigento il novello vescovo Gerlando.  I confini della diocesi sono stati definiti  da  Ruggero  in persona. Il documento, in latino, può così tradursi:

«Io, Ruggiero, ho istituito nella conquistata Sicilia le sedi vescovili, di cui una è quella di Agrigento al cui soglio episcopale viene chiamato  GERLANDO. Assegno alla sua giurisdizione quanto rientra nei seguenti confini: da dove sorge il fiume di Corleone fin su Pietra  di  Zineth [Pietralonga];  indi  sino ai confini di Iatina [Iato]  e  Cefala [Cefaladiana]  e quindi ai limiti di Vicari; indi fino  al  fiume Salso,  che  costituisce il discrimine tra Palermo e  Termine,  e dalla foce di questo fiume là dove cade in mare si estende questa diocesi  lungo  il mare sino al fiume Torto; e da  qui,  da  dove sorge,  si  estende verso Pira, sotto Petralia;  quindi  sino  al monte  alto [Pizzo di Corvo] che trovasi sopra Pira; poi verso il fiume Salso, nel punto in cui si congiunge con il fiume di Petralia  e da questo punto i confini della diocesi seguono  il  corso del fiume Salso sino a Limpiade (Licata). Questa località divide Agrigento  da  Butera.  Lungo la costa i  confini  della  diocesi corrono dal Licata sino al fiume Belice, che costituisce i confini  con Mazara, e da qui raggiungono Corleone, da dove inizia  la delimitazione, che ad ogni modo esclude Vicari, Corleone e Termini.»

Se  il lettore è stato paziente nel seguire lo zig zag dei  confini avrà subito colto che Racalmuto, quale centro al  di  qua  del Salso,  venne in quella bolla assegnato a GERLANDO, un  vescovo santo ma sempre un padrone, un feudatario.

Per esser, comunque, normanno, venne  descritto dalla pur tardiva storiografia  secondo  il consunto stereotipo di uomo  di  nobile prosapia, bello, alto, biondo e di gentile aspetto. Tale  versione risale al secentesco Pirro ed il Picone la  riecheggia con questi tratti descrittivi: «Gerlando, quel sant'uomo, nato  in  Besansone, città della Borgogna,  di  copiosa  dottrina fornito,  eruditissimo nelle chiesastiche discipline ed  eloquentissimo,  trasse alla fede gran numero di Ebrei e  di  Musulmani.[p. 454]»

 I padri bollandisti ci appaiono più  circospetti. In base alle loro attente letture dei vari 'privilegi' escludono  che Gerlando fosse il gran cappellano del  conte  Ruggero, carica  che  fu  di GEROLDO, e quanto al resto  si  rifanno  alle postume  storie del FAZELLO e del PIRRO.

I privilegi, che, in parte, abbiamo anche citato e che riguardano il  vescovo  Gerlando, sono postumi e  secondo  l'ultima  critica paleografica del COLLURA risalgono per lo meno alla seconda  metà del  sec. XII. Quattro tra i primi sei più antichi documenti  della Cattedrale di Agrigento accennano a tale vescovo di nome Gregorio e  sulla sua esistenza storica non sembra lecito  nutrire  dubbi.

Il  personaggio non  è dunque inventato e questo è già molto. E il vescovo ebbe subito fama di santità, come può  arguirsi  dal Libellus  custodito nello stesso Archivio Capitolare ove si  parla dell'anima  benedetta del beato Gerlando che,  discioltasi  dalla umana carne, ebbe a riposarsi nel Signore «beati Gerlandi anima, carne soluta, quievit in Domino».

Quello che, invece, lascia increduli noi laici è quella sua facondia trascinatrice di Ebrei e Musulmani. Nell'agrigentino - ed a Racalmuto per quel che ci riguarda - si parlava da  secoli arabo  e solo arabo. Forse residuava un uso del greco  nei  ceppi più tenaci.  Questo vescovo borgognone che chissà  quale  lingua parlava (pensiamo a quella natìa di Normandia e magari masticava di latino) dovette disperarsi nel cercare di capire i suoi sudditi che, come ancor oggi si dice, parlavan turco, di certo, per lui,  incomprensibilmente. E le sue prediche inventate dal Pirro, se davvero vi  furono, dovettero lasciare di stucco i 'fedeli' musulmani.   

Eppure nella favola della facondia salvifica del vescovo normanno in  mezzo ai saraceni dell'agrigentino un nucleo di  verità  deve pur esservi: forse GERLANDO ebbe qualche successo nello stabilire un  certo  colloquio con i potentati locali di lingua  araba.  In particolare fu forse capace di chiamare scribi e letterati poliglotti che poterono stabilire alcuni contatti, specie di  natura diplomatica e notarile. Di certo Agrigento era divenuta cosmopolita. Il primo documento dell'Archivio  Capitolare di Agrigento (1° settembre - 24  dicembre 1092) - una falsificazione  in  forma originale, secondo il Collura  -  accenna  a nobilati  francesi già presenti in Agrigento, a  concanonici  che officiano  in una chiesa dedicata a S. Maria, a parenti  francesi da  beneficiare con diciassette villani, due paia di buoi  ed  un cavallo.  Su  tutto  vigila il vescovo Gerlando,  mandato  da  un ROGERIUS  che  ci avrebbe redento da 'demonicis ...  ritibus'  da riti  demoniaci (che pure era la grande religione di Allah).   Emerge il nome di un francese: Pietro de Mortain (nell'originale,  invero, Petrus Maurituniacus). Vi  è un teste: Pagano de Giorgis ma scritto con una gamma  greca nel bel mezzo della grafia latina. Principalmente, a  colpirci, è il richiamo allo  strumento  giuridico  del PRIVILEGIUM che  viene firmato in presenza di testi e davanti  ad un vero e proprio notaio 'Rosperto notarius'. Al vescovo Gerlando viene riconosciuta 'probitas', probità, ed il suo consiglio viene giudicato 'justus'.  Francesi, notai, prebende  ecclesiastiche, canonici,  vescovi probi ed assennati, ma anche interessati alle cose terrene, tutto il mondo della burocrazia ecclesiastica romana  vi traspare, ed era passato appena un  quinquennio  dalla conquista  normanna sui saraceni, che ora sono, come si è visto,  villani, schiavi ed oggetto di pii legati.

 

 

 

AL TEMPO DEI NORMANNI E DEGLI SVEVI

 

Ruggero il Normanno tiene saldamente in mano l’intera diocesi di Agrigento sino alla sua morte, avvenuta nel 1091. Racalmuto non esiste ancora: solo, nei pressi, due centri appaiono di una qualche consistenza, Gardutah e Minsar. Ci pare di poter sospettare che il primo si trovasse nel circondario di Naro; il secondo andrebbe identificato in un feudo nel territorio di Bompensiere, a meno che non si tratti di Gargilata come recentissimi ritrovamenti cominciano a far pensare. Nelle precedenti pagine abbiamo illustrato quanto la coeva letteratura ci ha tramandato: resta l’amaro in bocca di non potere fantasticare su un casale corrispondente a Racalmuto, prospero o derelitto sotto i Normanni. Anche la incrollabile tradizione di una chiesetta dedita a Santa Maria fatta costruire da un locale barone, il Malconvenant, crolla al primo impatto con una critica storica appena avvertita.

Quando le campagne di scavi e le ricerche archeologiche nel nostro territorio metteranno alla luce i resti di quegli insediamenti medievali, potranno aversi elementi per una chiarificazione e per il dilaceramento del fitto buio che oggi ci angustia. 

Non andiamo molto lontani dalla realtà se affermiamo che con la conquista normanna s’inverte la sopraffazione dei locali “villani”: prima erano i berberi a dominare i bizantini; ora sono i normanni a sfruttare gli arabi, che vengono denominati saraceni.  Esistesse o meno una terra fortificata di nome Racel (ad utilizzare le cronache del Malaterra), per Racalmuto fu il tempo del villanaggio saraceno che durò sino al greve riordino sociale di Federico II. Che cosa è stato il “villanaggio”? Non è questa la sede per spiegare l’istituzione contadina che vedeva il subalterno colono come una “res” del “dominus”, quasi alla stregua di uno schiavo. (Vedansi, da parte di chi ne voglia sapere di più, gli studi di I. Peri).  Contadini islamici, miseri e schiavi da una parte; padroni cristiani, lontani e socialmente insensibili, dall’altra. L’istituzione di un beneficio a favore di canonici agrigentini, mai racalmutesi, con le decime del feudo facente capo ad un falso diploma del 1108 (non foss’altro perché non si riferiva a Racalmuto), svela i misteri della colonizzazione di nuove terre sotto i Normanni. Tanto avvenne per il beneficio di Santa Margherita, che per l’avallo del Pirri, costituì poi la saga della nostra chiesa di Santa Maria di Gesù.

I saraceni si ribellarono in modo devastante negli anni venti del 1200. Federico II li represse, deportandoli in Puglia. Racalmuto diventa deserta. Tocca a tal Federico Musca farvi fiorire un nuovo casale. Nel 1271 le testimonianze sulla vita e le vicende del risorto centro urbano cominciano ad avere dignità di fonti documentali. Sotto il Vespro, la terra è Universitas così bene organizzata che il nuovo padrone aragonese Pietro può esigere tasse ed armamenti, demandando ai locali sindaci l’ingrato compito esattoriale, persino con la vessatoria condizione di doverne rispondere con il proprio patrimonio in caso di insolvenza. Una sorta di ‘solve et repete’ ante litteram.

La cattolicissima Spagna esordiva  con spirito depredatorio nel regno che gli era stato regalato da taluni maggiorenti siciliani. E così anche la ‘meschinella’ Racalmuto iniziava a pagarne lo scotto. Roma, il papato, dissentiva. Sarà questa una scusa buona per esigere dai fedeli di Racalmuto, che nel 1375 abitano in case coperte di paglia, una tassa pesante onde liberarsi dell’antico interdetto, che secondo il nuovo padrone feudale Manfredi Chiaramonte era la causa della ‘mala epitimia’ distruttrice di uomini e cose.

 

FEDERICO II CHIARAMONTE ALLA CONQUISTA DI RACALMUTO - L’EREDITA’ DEI DEL CARRETTO

 

I Chiaramonte si sono impossessati di Racalmuto all’inizio del secolo XIII. Federico Chiaramonte - un cadetto della famiglia - aveva fatto costruire, secondo il Fazello, nel primo decennio del Duecento, l’attuale fortezza, forse una, forse tutte e due le torri oggi esistenti. Il territorio era divenuto ‘terra et castrum Racalmuti’. Vi giunsero preti e monaci forestieri. Nel 1308 e nel 1310 costoro vennero tassati dal lontano papa: un piccolo prelievo - si dirà - dalle pingue rendite che un prete ed un monaco riuscivano a cavare dai poveri coloni infeudati dai Chiaramonte. Sono ad ogni modo pagine non gloriose della storia ecclesiastica racalmutese.

Nel 1392 giunge in Sicilia il duca di Montblanc. E’ un cinico, infido, ma astuto e determinato personaggio, protagonista in Sicilia ed in Spagna di grandi svolte storiche. Martino, secondogenito di Pietro IV e duca di Montblanc, viene dagli storici siciliani indicato come Martino il vecchio; ebbe la ventura non comune - scrive Santi Corrente - di succedere al proprio figlio sul trono di Sicilia. Resta l’artefice della sconcertante condanna a morte del vicario ribelle Andrea Chiaramonte, e non cessò di combattere la nobiltà siciliana, salvo a remunerarla oltremisura appena ciò gli fosse tornato utile.

Ne approfitta Matteo del Carretto per farsi riconoscere il titolo di barone di Racalmuto, naturalmente a pagamento. L’intrigo della genesi della baronia di Racalmuto dei Del Carretto è tuttora scarsamente inverato dagli storici.

All’inizio del secolo XIII un marchese di Finale e di Savona - a quanto pare titolare di quel marchesato solo per un terzo - scende in Sicilia e sposa la figlia di Federico Chiaramonte, Costanza. Ha appena il tempo di averne un figlio cui si dà il suo stesso nome, Antonio, e muore. La vedeva convola, quindi, a nozze con un altro ligure, il genovese Brancaleone Doria - un personaggio che Dante colloca nell’Inferno - e ne ha diversi figli, tra cui Matteo Doria che morrà senza prole: costui pare che abbia lasciato i suoi beni (in tutto o in parte, non si sa) agli eredi del suo fratellastro Antonio del Carretto.

Antonio frattanto si era trasferito a Genova. Aveva procreato vari figli, tra cui Gerardo e Matteo. Matteo, in età alquanto matura, scende in Sicilia: rivendica i beni dotali di Agrigento, Palermo, Siculiana e soprattutto Racalmuto. Parteggia ora per i Chiaramonte ora per Martino, duca di Montblanc ed alla fine gli torna comodo passare integralmente dalla parte dell’Aragonese.  In cambio ne ottiene il riconoscimento della baronia. Certo dovrà vedersela con le remore del diritto feudale. Inventa un negozio giuridico transattivo con il fratello primogenito Gerardo, che se ne sta a Genova, ove ha cointeressenze in compagnie di navigazione, e finge di acquistare l’intera proprietà della “terra et castrum Racalmuti”.

Martino il vecchio si rende subito conto del senso e della portata dell’istituto tutto siculo della cosiddetta Legazia Apostolica. Deteneva il beneficio racalmutese di Santa Margherita l’estraneo canonico “Tommaso de Manglono, nostro ribelle al tempo della secessione contro le nostre benignità” - come scrive Martino da Siracusa, l’anno del Signore VII^ Ind. 1398. Quel beneficio gli viene tolto per essere assegnato ad un altro estraneo “al reverendo padre Gerardo de Fino arciprete della terra di Paternò, cappellano della nostra regia cappella, predicatore e familiare nostro devoto”. Altra ignominia della storia ecclesiastica racalmutese.

 

 

 

 

 

 

GIBILLINI

 

Feudo, Racalmuto, lo fu parzialmente. A fine del ‘600 la sua dimensione era di 705 salme, 15 tumoli, tre mondelli e due quarte, tra area urbana e quella villica. Ce lo dice l’ultimo conte del Carretto, Girolamo, quello sopravvissuto al figlio Giuseppe, in un atto giudiziario che tra l’altro recita:

«Item ponit et probare intendit non se tamen obstringens etc. qualmente il fegho nominato di Racalmuto sito e posto in questo Regno di Sicilia nel Val di Mazzara consistente in salme setticentocinque tummina quindeci, mondelli tre e quarti dui cioè in salme seicento cinquantadue, tummina undeci e mondelli uno di terre lavorative e salme cinquanta trè, tummina dui e mondelli dui di terre rampanti, valloni, trazzeri ed altri inclusi in dette salme cinquanta tre, tummina dui e mondelli dui, salme undeci di terra nel circuito, delle quali e sita e posta la terra [134] che tiene il nome da detto fegho è posto in menzo delli feghi nominati:

1.                  delli Gibillini e feghi

2.                  delli Cometi;

3.                  e fegho delli Bigini;

4.                  del fegho di Zalora;

5.                  del fegho di Scintilìa;

6.                  del stato e ducato delli Grotti;

7.                  del fegho e principato di Campofranco;

8.                  e fegho della Ciumicìa

e altri confini quale olim tennero e possiderono la quondam Constanza Claramonte ed Antonio del Carretto e Chiaramonte e doppo Mattheo del Carretto come veri signori e padroni ed al presente e de presenti parte di detto fegho come sopra situato e confinato lo tiene e tossiede l’illustre don geronimo del Carretto e Branciforte come vero signore e padrone per la forma dell’antichi privileggij et altre scritture stante che il remanente si ritrova licet nulliter et indebité dismembrato e diviso da detto fegho di Racalmuto come il tutto fù ed è la verità notorio e fama publica et nihilominus dicant testes quicquid sciunt, sentiunt, viderunt vel audiverunt etiam extra capitulum ad intensionem producentis et -   -   -  

Item ponit et probare intendit non se tamen obstringens etc. qualmente le contrate nominate di Bovo seu Montagna, Pinnavaira, della Rina seu Scavo Morto, della Difisa, Jacuzzo, Zimmulù, Caliato, Serrone, Pietravella, Saracino seu Molino dell’Arco, menziarati e Culmitelli sono delli membri e pertinenze del fegho e stato di Racalmuto ed intra li limini e confini di detto fegho di Racalmuto come sopra stimato e confinato conforme fù ed è la verità, notorio e fama publica et nihilominus dicant testes quicquid sciunt, sentiunt, viderunt vel audiverunt etiam extra capitulum ad intensionem producentis et -   - - ».

Emerge come il feudo di Gibillini sia cosa ben diversa dalla contea racalmutese. Per Gibillini, s’intende il territorio degradante tutt’intorno al castello - oggi denominato Castelluccio - e non soltanto la contrada della omonima miniera, che forse un tempo non faceva neppure parte di quella terra feudale.

Il primo accenno storico a Gibillini risale al 21 aprile 1358 ; il diplomatista così sintetizza il documento che non ritiene di pubblicare:

«Il Re concede al milite Bernardo de Podiovirid e ai suoi eredi il castello de GIBILINIS, vicino il casale di Racalmuto e prossimo al feudo Buttiyusu [feudo posto vicino SUTERA n.d.r.], già appartenuto al defunto conte SIMONE di CHIAROMONTE traditore, insieme a vassalli, territori, erbaggi ed altri dritti; e ciò specialmente perchè il detto Bernardo si propone a sue spese di recuperare dalle mani dei nemici il detto castello e conservarlo sotto la regia fedeltà: riservandosi il Re di emettere il debito privilegio, dopoché il castello sarà ricuperato come sopra.»

Pare che Bernardo de Podiovirid non sia riuscito a prendere possesso di Gibillini: il feudo ritorna prontamente in mano dei Chiaramonte. Simone Chiaramonte è personaggio ben noto e fu protagonista di tanti eventi a cavallo della metà del XIV secolo. Michele da Piazza lo cita varie volte. Il fiero conte ebbe a dire recisamente a re Ludovico «prius mori eligimus, quam in potestatem et iurisdictionem  incidere catalanorum»: preferiamo morire anziché finire sotto il potere e la legge dei catalani. Mera protesta, però; il Chiaramonte è costretto a fuggire in esilio presso gli angioini. Scoppia la guerra siculo-angioina che si regge sull’apporto dei traditori. Secondo Michele da Piazza, i chiaramontani, non contenti né soddisfatti di tanta immensa strage, da loro inferta ai siciliani, si rivolsero agli antichi nemici della Sicilia per spogliare dello scettro re Ludovico.

Nel marzo del 1354 i primi rinforzi angioini pervennero a Palermo e Siracusa. In tale frangente fame e carestia si ebbero improvvise in Sicilia, favorendo gli invasori. Ne approfittò Simone Chiaramonte “capo della setta degl’italiani - secondo quel che narra Matteo Villani -   [promettendo] ai suoi soccorso di vittuaglia e forte braccia alla loro difesa: i popoli per l’inopia gli assentirono”. Prosegue Giunta  «queste premesse spiegano il rapido inizio dell’impresa dell’Acciaioli, il quale accanto a 100 cavalieri, 400 fanti, sei galere, due panfani e tre navi da carico, si presentò “con trenta barche grosse cariche di grano e d’altra vittuaglia”, sì da ottenere  festose accoglienze da parte dei Palermitani “che per fame più non aveano vita”, nonché il rapido dilagare della insurrezione a Siracusa, Agrigento, Licata, Marsala, Enna “e molte altre terre e castella”». Tra le quali possiamo includere tranquillamente Racalmuto e Gibillini.

Simone Chiaramonte muore a Messina avvelenato nel 1356, un paio d’anni prima del citato documento. Ma da lì a pochi anni, Federico IV, detto il Semplice riuscì a riconciliarsi con i Chiaramonte e nel febbraio del 1360 accordava un privilegio tutto in favore di Federico della casa chiaramontana.

Il feudo di Gibillini appare sufficientemente descritto nell’opera del San Martino de Spucches . Secondo l’araldista il feudo di Gibillini, quello di Val Mazara, territorio di Naro, da non confondersi con l’altro ancor oggi chiamato di Gibellina, appartenne, “per antico possesso” alla famiglia Chiaramonte. Fu Manfredi Chiaramonte a costruirvi la fortezza, quella che ora è denominata Castelluccio. L’ultimo della famiglia a possedere il feudo fu Andrea Chiaramonte, quello che, dichiarato fellone, ebbe la testa tagliata  a Palermo nel giugno del 1392, nel palazzo di sua proprietà, lo Steri.

Re Martino e la regina Maria insediarono quindi Guglielmo Raimondo Moncada, conte di Caltanissetta. Il feudo divenne ereditario,  iure francorum, con obbligo di servizio militare e cioè con due privilegi, il primo dato in Catania a 28 gennaio 1392 (registrato in Cancelleria nel libro  1392 a foglio 221) ; col secondo diploma, dato ad Alcamo, li 4 aprile 1392 e registrato in Cancelleria nel libro 1392 a foglio 183, fu dichiarato consanguineo dei sovrani, ebbe concessi tutti i beni stabili e feudali, senza vassalli, posseduti da Manfredi ed Andrea Chiaramonte, dai loro parenti e dal C.te Artale Alagona, beni siti in Val di Mazara, eccetto il palazzo dello Steri ed il fondo di S. Erasmo e pochi altri beni. Nel 1397 ad opera del cardinale Pietro Serra, vescovo di Catania e di Francesco Lagorrica, il Moncada  fu deferito come reo di alto tradimento, avanti la gran Corte, congregata in Catania; ivi con sentenza 16 novembre 1397 fu dichiarato fellone e reo di lesa maestà ed ebbe confiscati tutti i beni. Morì di dolore nel 1398.

Subentrò Filippo de Marino, fedelissimo vassallo del Re (1398); non abbiamo la data precisa della concessione; per quel che vale il de Marino figura possessore del feudo di Gibillini nel ruolo del 1408 dello pseudo Muscia. 

 Il feudo pervenne successivamente a Gaspare de Marinis, forse figlio, forse parente. Da questi, passa al figlio Giosué de Marinis che ne acquisì l’investitura il 1° aprile 1493 more francorum,   per passare quindi a Pietro Ponzio de Marinis, investitosene il 16 gennaio 1511 per la morte del padre  e come suo primogenito.   Costui sposò Rosaria Moncada che portò in dote i feudi di   Calastuppa, Milici, Galassi e Cicutanova, membri della Contea di Caltanissetta, come risulta dall'investitura presa  dalle figlie Giovanna e Maria il  22 settembre 1554 (R. Cancelleria, III Indizione f.96).

Succede Giovanna De Marinis e Telles, moglie di Ferdinando De Silva, M.se di Favara con investitura del 15 gennaio 1561, come primogenita e per la morte di Pietro Ponzio suddetto (Ufficio del Protonotaro, processo investiture libro 1560 f. 271).

 

Maria De Marinis Moncada s'investì di Gibillini il 26 dicembre 1568, per donazione e refuta fattale da Giovanna suddetta, sua sorella (Ufficio del Protonotaro, XII Indiz. f.479) .

Beatrice De Marino e Sances  de Luna s'investì di due terzi del feudo il 17 ottobre 1600, per la morte di Alonso de Sanchez suo marito, che se l'aggiudicò dalla suddetta Giovanna suddetta, M.sa di Favara (Cancelleria libro dell'anno 1599-1600, f. 15); peraltro v’è pure un’investitura di questo feudo, datata 7 agosto 1600, a favore di  Carlo di Aragona de Marinis, P.pe di Castelvetrano, figlio di detta Maria de Marinis (R. Cancelleria, XIII Indiz., f.160); un’altra investitura la troviamo in data 28 agosto 1605 a favore di Maria de Marinis per la morte di Carlo suo figlio (R. Cancelleria, III Indiz. , f. 491); dopo non ci sono investiture a favore dei Moncada.

Diego Giardina s'investì di due terzi il 24 gennaio 1615, per donazione fattagli da Luigi Arias Giardina, suo padre, a cui le due quote furono vendute da Beatrice suddetta, agli atti di Not. Baldassare Gaeta da Palermo il 5 dicembre 1608 (Cancelleria, libro 1614-15, f. 265 retro). Vi fu quindi una reinvestitura in data 18 settembre 1622, per la morte del Re Filippo III e successione al trono di Filippo IV (Conservatoria, libro Invest. 1621-22, f. 283 retro).

 

Subentra - sempre nei due terzi - Luigi Giardina Guerara con investitura del 28 febbraio 1625, come primogenito e per la morte di Diego, suo padre (Cancelleria , libro  del 1624-25, f. 214);  viene quindi reinvestito il 29 agosto 1666 per il passaggio della Corona da Filippo IV a Carlo II (Conservatoria, libro Invest. 1665-66, f. 119). Il Giardina  morì a Naro il 24  novembre 1667 come risulta da fede rilasciata dalla Parrocchia di S. Nicolò.

Diego Giardina da Naro, come primogenito e per la morte di Luigi suddetto, s'investì dei due terzi il 7 ottobre 1668  (Conservatoria, libro Invest. 1666-71, f. 89).

Luigi Gerardo Giardina e Lucchesi prese l’investitura il 9 settembre 1686  dei due terzi, per la morte e quale figlio primogenito di Diego suddetto (Conservatoria, libro Invest. 1686-89, f. 17).

 

Diego Giardina Massa s'investì il 26 agosto 1739, come primogenito e, per la morte di Luigi Gerardo suddetto, nonché come  rinunziatario dell'usufrutto da parte di Giulia Massa, sua madre, agli atti di Not. Gaetano Coppola e Messina di Palermo, del 1° ottobre 1738 (Conservatoria, libro Invest. 1738-41, f. 58).

 

Giulio Antonio Giardina prese l’investitura dei due terzi il 3 dicembre 1787, come primogenito e per la morte di Diego suddetto (Conservatoria, libro Invest. 1787-89, f. 25).

 

Diego Giardina Naselli s'investì dei due terzi del feudo di Gibellini il 15 luglio 1812, quale primogenito ed erede particolare di Giulio suddetto (Conservatoria vol. 1188 Invest., f. 124 retro); non ci sono ulteriori investiture o riconoscimenti.

Ma a questo punto scoppia il caso Tulumello. Il San Martino de Spucches non segue bene le vicende feudali di Gibillini.  Comunque nel successivo volume IX - quadro 1454, pag. 221 - intesta: “onze 157.14.3.5 annuali di censi feudali - GIBELLINI - Cedolario, vol. 2463, foglio 204” ed indi rettifica:

«Giulio GIARDINA GRIMALDI, Principe di Ficarazzi s'investì di due terzi del feudo di GIBELLINI a 3 dicembre 1787 come figlio primogenito ed indubitato successore di Diego GIARDINA e MASSA (Conservatoria, libro Investiture 1787-89, foglio 25).

1. - Quindi vendette agli atti di Not. Salvatore SCIBONA di Palermo li 22 luglio 1796 a D. Giovanni SCIMONELLI, pro persona nominanda annue onze 157, tarì 14, grana 3 e piccioli 5 di censi sopra salme 57, tumoli 11 e mondelli 2 di terre, dovute sul feudo di Gibellini; e ciò per il prezzo in capitale di onze 3500 pari a lire 44.625. Il detto Scimoncelli dichiarò agli atti di Notar Giuseppe ABBATE di Palermo che il vero compratore fu il Sac. D. Nicolò TOLUMELLO. Per speciale grazia accordata dal Re a 29 aprile 1809 fu confermato lo smembramento di dette onze 157 e rotte dal feudo di GIBELLINI già effettuate senza permesso Reale (Conservatoria, libro Mercedes 1806-1808, n. 3 foglio 77).

 

2. - D. Giuseppe Saverio TOLUMELLO s'investì a 7 giugno 1809 per refuta e donazione a suo favore fatte dal Sac. D. Nicolò sudetto agli atti di Notar Gabriele Cavallaro di Ragalmuto li 22 aprile 1809 (Conservatoria, libro Investiture 1809 in poi, foglio 40). Questo titolo non esce nell'«Elenco ufficiale diffinitivo delle famiglie nobili e titolate di Sicilia» del 1902. L'interessato non ha curato farsi iscrivere e riconoscere.»

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