lunedì 7 gennaio 2013

Squarci dell'antica storia di Racalmuto


La libera universitas di Racalmuto: 1282-1300 ca.

 

 

Ne siamo quasi certi: Racalmuto non ebbe soggiogazioni feudali per quasi un ventennio, dopo il Vespro. Crediamo di aver provato come non è da parlarsi di una baronia sotto i Barresi. Circa la promessa data a Piero di Monte Aguto, la cosa si risolse in una vacua promessa, non potuta in alcun modo realizzarsi. Si è pure detto come la notizia secentesca di una assegnazione feudale di Racalmuto a Brancaleone Doria, sia frutto di un plateale falso, ostando irrefutabili ragioni  cronologiche.

Una signoria del Doria a fine secolo è impensabile, dato che costui ebbe, sì, una qualche influenza su Racalmuto, ma dopo aver sposato la vedova, Costanza Chiaramonte, del conterraneo Antonio Del Carretto, attorno agli anni trenta del XIV secolo.

Nessuna fonte, invece, ci riferisce di un ritorno di Federico Musca, che - dome detto - preferisce andare a guerreggiare in quel di Calabria, sempreché si tratti dell’identico Musca, e l’antico proprietario di Racalmuto ed il milite, denominato conte di Modica, siano un solo personaggio. Di certo, un Federico Musca , comes Mohac, si rinviene tra i diplomi di Pietro I. (cfr. raccolta dei Documenti per servire alla storia di Sicilia, Vol. V. - Fasc. IX-XI - Appendice - Messina 30 dicembre 1282 - pag. 687). Su tale Federico Musca, araldisti e storici qualcosa ci dicono: Il Villabianca scrive:

«....[PAG. 4] entrati che furono  gli Aragonesi nel governo di questo Regno, appa re in tal tempo essere stato signore di questo Stato [Modica] Federigo MOSCA, quello stesso che  fu Governatore della Valle di Noto sotto il Rè Pietro Primo d'Aragona, e con 600 soldati pose a ferro, e fuoco gran numero di Franzesi nelle vicinanze di Reggio (d] d .

«Essendo stato anch'egli uno de' quaranta Cavalieri, che associarono Rè Pietro al famigerato duello di Bordeaux; così per fede del Dott. Placido CARAFFA nella sua Modica Illustr. f. 70. «Inter quos - egli dice - Modicae Federicus Musca interfuit, qui Regem Petrum ad monimachium provocatus est: Manfredus Musca fuit vir strenuus, et in arte bellica magnus a consiliis, et semel a Petro missus, ut Scalaeam oppidum reciperet.» Ma se sia stato costui discendente per linea retta da GUALTIERI testè mentovata, o forse da altro modo comissionario di differente Famiglia io non ardisco affermarlo. E' certo però, ch'egli fu l'ultimo Barone della Prosapia Mosca, e da potere di lui, o al certo dalle mani del suo figlio Manfredo, come scrivono   alcuni, passò esso Stato in potere di Manfredo Chiaramonte, e de' suoi successori, come si dirà appresso, vegnendogli conceduto dal Ser.mo Rè Federigo, con titolo di Contea in considerazione de' suoi segnalati servizi non meno, che per esser marito d'Isabella Mosca figlia di Federigo, e sorella di Manfredi sopravvisato, che secondo vogliono i detti Autori, fu dichiarato ribelle, e spogliato di essa Contea dal succennato Sovrano, per avere egli seguitato le parti del Rè Giacomo di Aragona di lui fratello (a) a.»

Esplosa la rivolta del Vespro, Racalmuto si ritrova, dunque, libero, ma subito soggetto, agli  appetiti tassaioli del sopraggiunto re iberico. Ricevuta la missiva del 10 settembre 1282, tutti i notabili racalmutesi del’epoca dovettero adunarsi per stabilire il da farsi. A presiedere quell’assemblea il baiulo con a fianco i giudici. Chi furono i due sindici  eletti per andare il giuramento e l’omaggio al nuovo re in quel di Randazzo, non sappiamo. Baiulo, giudici e sindici dovevano avere dei patronimici non molto differenti da quelli che incontriamo nelle prime fonti storiche racalmutesi: Liuni, mastro Rayneri, Sabia di Palermo, de Salvo, de Graci, de Bona, de Mulé, Fanara, Casucia, La Licata, de Messana, de Santa Lucia.

Ebbero a radunarsi in qualche chiesa: forse nella chiesetta dedicata alla Madonna, quella stessa ove nel 1308 officierà Martuzio Sifolone. Sappiamo di certo che, comunque, la chiesa di Santa Margherita o di Santa Maria - quella che ancor oggi si dice normanna - non era stata eretta, né dal Malconvenant né da qualche suo parente passato dalle armi alla milizia del Cristo: in quel tempo, come si disse, Racalmuto non era ancora sorto.

Intercolutoria ebbe, invece, ad essere la decisione sul riparto dei balzelli imposti dall’Aragonese: quindici arcieri non si sapeva dove reperirli fra quegli imbelli contadini, appena capaci di disseminare il suolo di tagliole per intrappolare i conigli selvatici. Frattanto, Berardo di Ferro di Marsala, viene nominato dal re giustiziere della Valle di Girgenti: nominiamo «te justiciarum nostrum in singulis terris et locis vallis Agrigenti» recita un documento in quel torno di tempo.   Il 17 settembre, il Giustiziere viene invitato a costringere le terre e i luogi di sua giurisdizione ad un celere invio del “fodro” (vettovaglie, vino, vacche, porci, castrati) a Randazzo: segno che le terre ed i luoghi non se ne davano ancora per intesi. Berardo de Ferro, milite giustiziario, è, invece, sollecito a far nominare Maestri Giurati di sua fiducia: il re, da Messina con lettera dell’8 ottobre 1282, gli ordina «di non volersi intromettere in quella elezione nelle terre demaniali, delle chiese, dei Conti e Baroni, elezione che si era riservata» (cfr. DSSS, vol. V, cit. p. 66 doc. n.° LXVIII). Per di più, il 20 ottobre 1282, il re deve intervenire contro lo stesso Berardo di Ferro, che aveva spogliato Errico de Masi e tutti i marsalesi dei loro beni: manda a Marsala il giudice Nicoloso di Chitari da Messina per reintegrare quegli abitanti nel possesso dei loro beni. (ibidem, pag. 131 - doc. n.° CXLI).

Occorre pagare, intanto, le quote della tassazione straordinaria di ottomila once: con decreto del 26 novembre 1282, emesso a Catania, «Re Pietro ... stabilisce che le [suddette] ottomila once promesse dai sindici delle terre al di là del Salso siano corrisposte ai regi tesorieri.» (ibidem, doc. n.° CCXXIX). Povero Racalmuto, ormai preda di voraci esattori! Con provvedimento del 17 novembre 1282 viene rimosso Ruggero Barresi, milite. Non risulta, però, cointeressato in qualche modo a Racalmuto (v. ibidem pag. 203).

Questi contadini dell’Agrigentino sono proprio riluttanti a pagare le tasse: da Messina, il 15 novembre 1282, ingiunge «a Berardo de Ferro, Giustiziere del Val di Girgenti, sotto pena di once 100, di far subito eleggere dalle Terre di sua giurisdizione sindici che si rechino a lui, Peitro, nel termine di 8 giorni per discutere, con gli altri sindici di Sicilia al di qua e al di là del Saldo, la controversia sorta in Catania fra i sindici delle due grandi circoscrizioni, circa alla promessa del sussidio.» (Ibidem pag. 231 - doc. n.° CCLXXVII). Ed il successivo 20 gennaio 1283, siamo ancora alle solite: inadempienze fiscali. Re Pietro «incarica Santorio Banala di sollecitare, recandosi sui luoghi, il versamento dalle Università al di là del Salso.» (Ibidem, pag. 293 - doc. n.° CCCXCIV). Racalmuto risulta tassato per 15 once (ibidem pag. 295), preceduto da:

        Licata: unc. 238;

        Delia unc. 3;

        Naro unc. 166;

        Calatarapetta (sic) Mons maior unc. 6;

       Tusa unc. 2;

        Misiliusiphus unc. 4;

       Sciacca unc. 250;

       Calatabellottum unc. 122;

        Agrigentum unc. 380.

Il successivo 26 gennaio, come detto, si rincara la dose: Racalmuto è chiamato ad armare ed inviare altri quattro arcieri o fanti.

Dopo il Vespro, gli eventi della Sicilia fibrillano per una cinquantina d’anni. Non è questa la sede per rievocarli. Michele Amari, nella sua storia del Vespro, ne fa quasi una diuturna rievocazione. Ancor oggi è viva la polemica su quella temperie storica e studiosi di grande levatura dei tempi nostri continuano a cimentarvisi. Si pensi che Benedetto Croce, capovolgendo un indirizzo consolidato, ritenne la cacciata degli angioini dalla Sicilia una nefasta frattura. Abbiamo visto che persino Leonardo Sciascia ha voglia di essere originale su quello snodo della storia siciliana: una improvvisa e scomposta fiammata ribellistica del popolo palermitano, su cui si innesta una vorace conquista di un rappresenatnte dell’ «avara povertà di Catalogna». Certo, al papa quella faccenda non piacque: comminò scomuniche, che si ripeterono più volte per quasi un secolo. Solo nel 1276, 31 marzo, Racalmuto ne fu totalmente assolto. Che cosa abbia fatto di così irreligioso il nostro paese da meritarsi un quasi secolare interdetto, è tuttora un mistero. Ma noi ne siamo oltremodo sicuri: nulla. Così come per l’altra scomunica - quella del 1713 - le anime credenti racalmutesi patirono il terrore dell’inferno per ribellioni (al francese Carlo d’Angiò, fratello di San Luigi, re di Francia, nel 1282) e per diatribe tra vescovi ed autorità civili (insorte nel 1713 per una faccenda di tasse su un alcuni rotoli di ceci del vescovo di Lipari), di cui francamente non ebbero né coscienza e neppure significativa conoscenza.

Racalmuto, decentrato, non fu artefice in alcun modo della ribellione del Vespro; non capì cosa fosse venuto a fare re Pietro d’Aragona; non si rese conto - o non immediatamente - che entrava nell’orbita spagnola; subì passivamente la politica del nuovo re che si mise a foraggiare con feudi quei nobili che corsero in suo soccorso; seppe di certo che Pietro d’Aragona cessò di vivere il 10 novembre del 1285; capì ben poco delle faccende dinastiche del successore Giacomo e della sua rinuncia alla Sicilia nel gennaio del 1296; ebbe forse qualche simpatia per il ribelle fratello Federico (II o III) ma non riuscì a comprendere le ragioni che spingevano i du potenti fratelli (Federico E Giacomo) a combattersi fra loro. Quando giunsero gli echi delle scomuniche papali, in loco non sene  intuirono le ragioni; i racalmutesi non si ritennero colpevoli di nulla (non lo erano); si smarrivano nell’ascoltare i contorti ragionamenti che preti e francescani si sforzavano di propinare nelle loro infuocate prediche. Per fortuna, le tante guerre e guerricciole si combattevano lontano, vicino ai posti di mare, in Calabria, a Napoli: sì e no giungeva l’eco. Qualche vantaggio, sì: il frumento aveva un mercato; qualche guadagno si riusciva a conseguirlo; la pesante fatica dei campi non era ingrata. L'universitas si accresceva con nuovi immigrati e con con fertili nozze.

Nel 1308 e nel 1310 Racalmuto è tanto grande da consentire a due religiosi di riscuotervi pingui rendite. Da Avignone, il papa - colà rifugiatosi nel 1309 - arrivano ordini per la tassazione di quei due redditieri per quelle due precorse annate. L’Archivio Segreto Vaticano ci conserva le registrazioni di quei prelievi fiscali. A leggerli, vien fuori qualche dato sulla Universitas di Racalmuto del primo decennio del XIV secolo. Nel registro «Rationes Collectoriae Regni Neapolitani - 1308 - 1310», Collect. n.° 161 f. 96 abbiamo:

«Martutius de Sifolono pro ecclesia S. Mariae de Rachalmuto solvit pro utraque decima uncia J.»

In altri termini, Matuzio de Sifolono corrispose per la chiesa di S. Maria di Racalmuto un’oncia per entrambe le decime del 1308 e del 1310. E nel retro del foglio n.° 97 ( 97v):

«presbiter Angelus de Monte Caveoso pro officio suo sacerdotali, quod impendit in Casale Rachalamuti, solvit pro utraque tt. ix

Il che equivale a dire: il sacerdote Angelo di Monte Caveoso corrispose per il suo ufficio sacerdotale, che ha svolto nel Casale di Racalmuto, nove tarì. Racalmuto non viene segnato come castrum anche se il Castello doveva essere già costruito, stando al Fazello. Del resto, la grafia non del tutto corretta del toponimo (Rachalamuti) sta a segnalare l’approssimatività dello scriba pontificio.

Coteste ricerche d’archivio ci permettono di individuare due sacerdoti officianti a Racalmuto all’inizio del XIV secolo. Sono religiosi e non appaiono neppure autoctoni; l’uno, Martuzio de Sifolono, è titolare della chiesa di S. Maria, ed è chiamato  a corrispondere un’oncia per le decime di due anni (1308 e 1310); l’altro, è il “prete”  Angelo di Montecaveoso, ed è tassato per nove tarì  in relazione all’ufficio sacerdotale che esplicava nel Casale di Racalmuto. Del primo non sappiamo neppure se fosse un sacerdote. Ignoriamo anche dove era ubicata la chiesa di S. Maria - ed ogni attribuzione ad uno dei vari templi oggi dedicati alla Madonna è mero arbitrio. Il “presbiter”  Angelo de Montecaveoso  ha tutta l’aria di essere un frate: parroco di Racalmuto nel 1308 e nel 1310, non sembra indigeno; ricava proventi che dovevano essere di poco più di un terzo rispettp alle ricche prebende di chi è titolare della chiesa di Santa Maria (dopo, l’arcipretura di Racalmuto diverrà molto appetibile e la vorranno prelati di Messina, Napoli, Prizzi, S. Giovanni Gemini, etc.). 

La chiesa di Santa Maria rendeva dunque per tre volte rispetto alle primizie spettanti all’arciprete Angelo di Montescaglioso: troppo per essere soltano un luogo di culto; dovette essere quindi una chiesa dotata di feudi o di terreni allodiali. Il suo titolare fu forse un canonico agrigentino, e da qui potè nascere il beneficio di Santa Margherita che risulta documentato solo a partire dalla fine del secolo XIV. Ma potè trattarsi anche di un convento, forse di benedettini, insediatosi anche per lo sviluppo agricolo e per l’estensione della coltivazione granaria, divenuta molto richiesta dal mercato a causa dell’endemico stato di guerra.  Da qui, quel convento benedettino cui accenna Giovan Luca Berberi nei suoi Capibrevi dei BENEFICIA ECCLESIASTICA, «liber Capibr. Eccl. in Reg. Canc. fol. 211».  II Pirri descrive il Cenobio con annessa chiesa di san Benedetto che trovavasi nella via che congiungeva Racalmuto ad Agrigento. Credo che bisogna concordare con chi ritiene che quel convento sorgesse nel vecchio Campo Sportivo. Una volta tanto, ci soccorre fondatamente Eugenio Messana alle pag. 50 e 51 del suo volume su Racalmuto. «Il Pirri e Giovanni Luca Barberi parlano di un convento di s. Benedetto a Racalmuto, sulla via che conduce a Girgenti. Di questo monastero non rimane traccia, dei sospetti lo fanno ubicare dove ora c’è il campo sportivo. I sospetti si basano sulle fondamenta di un grande edificio con cortile e pozzo nel mezzo, che furono quivi trovati, quando la terra donata dal dott. Enrico Macaluso al comune, secondo la volontà del donatario (sic), fu spianata per adibirla a stadio.» Il Messana cita anche un testo di Illuminato Peri, (Manfredi Editore Palermo, 1963 - Vol. II, pag. 18 ) ove è pubblicato appunto il foglio 211 che recita «MONASTERIUM SANCTI BENEDICTI - 211 -Monasterium cum ecclesia sancti Benedicti prope iter inter Agrigentum et Rayhalmutum [Messana, erroneamente, trascrive in: Rayelmutum] existens de suffraganeis maioris agrigentine ecclesie». Il padre Calogero Salvo nel suo libro Ecco tua Madre riconsidera tutta la questione del monastero di S. Benedetto in termini del tutto critici nei confronti degli storici locali che hanno trattato l’argomento. Non sappiamo quanto di vero ci sia nel pregevole lavoro di padre Salvo.

I nove tarì corrisposti per due anni dall’arciprete Angelo di Montescaglioso dovettero essere un lieve aggravio sulle primizie corrisposti dai parrocchiani: un qualche riflesso demografico devono dunque averlo. Quattro tarì e mezzo per un anno sembrano riflettere appunto quel mezzo migliaio di abitanti che allora Racalmuto accoglieva sul suo suolo. Era un centro che non poteva non dispiegarsi nei pressi del nuovo fortilizio cilindrico, costruito da Federico II Chiaramonte pochissimi anni prima, secondo la versione tramandataci dal Fazello. Vicino sorgeva senza dubbio la nuova chiesa madre, pensiamo là dove verrà costruita poi la Matrice intitolata a S. Antonio e cioè, secondo noi, in piazza Castello, in quarterio Castri, come leggesi in taluni diplomi del ’500. I documenti vaticani spingono dunque ad una totale revisione della tradizione (per noi falsa) che gli storici locali, e non, hanno avallato in ordine a Racalmuto, per il periodo in discorso. E’ difficile sostenere che in quel tempo il paese sorgesse a Casalvecchio: una tesi questa che resiste imperterrita, sposata anche da studiosi valenti come il padre gesuita Girolamo M. Morreale .  A Casalvecchio, già alla fine del XIII secolo, c’erano solo ruderi dell’antico insediamento bizantino. Da rigettare in pieno quello che dopo l’avvento di Garibaldi si scrisse su Racalmuto e cioè:

«Antica è l'origine di Racalmuto: il suo nome è di origine arabica. Fu distrutto dalla peste del '300, indi nel ripopolarsi non occupò il luogo primitivo, che si trova ora alla distanza di un chilometro, e si chiama Casalvecchio. Nell'occasione dei lavori eseguiti ultimamente per stabilire una carreggiabile, si rinvennero ivi dei sepolcreti e ruderi di edifici. »

I dati che possiamo ricavare dalle ravole delle collette pontificie dle 1308-1310 non consentono fondate ipotesi sullo sviluppo demografico di Racalmuto in quel torno di tempo: nella comparazione con le altre località che riusciamo a desimere ( Agrigento, Butera, Caltabellotta, Caltanissetta, Cammarata, Castronovo, Delia, Giuliana, Licata, Naro, Palazzo Adriano, S. Angelo Muxaro, Sciacca e Sutera), il nostro paese aveva una certa rilevanza nell’approntare tasse e risorse finanziarie alla lontanissima corte papale di Avignone. Un’onza e 9 tarì nonerano poi pesi intollerabili, ma pur sempre era un prelievo dalla magra economia curtense racalmutese che veniva dirottato, senza contropartita di sorta, verso terre francesi di cui si sconoscevano persino le denominazioni.

Gli emissari pontifici si erano già recati nell’agrigentino per riscuotere laute decime per gli anni 1275-1280. Eravamo sotto il dominio di Carlo d’Angiò, fiduciario del papato. Eppure la resa non fu elevata rispetto a quello che il papa ebbe a pretendere immediatamente dopo il 1310 - in quella sorta di compromesso storico tra corte avignonese e potenza aragonese.

 

Ci sia di un qualche lume questo confronto:

Denominazione
Unciae
Tarini
Granae
Summa
Somme percette nell’intera provincia agrigentina per le decime degli anni 1308 - 1310 (due annualità)
 
261
 
4
 
8
 
261,4,8
Somme percette nell’intera provincia agrigentina per le decime degli anni 1275-1280 (cinque annualità)
 
87
 
22
 
10
 
87,22,10
Differenze
173
11
18
173,11,18
Differenza in percentuale
 
 
 
197,58%

 

Per due sole annualità si è dunque dovuto pagare quasi il doppio di quanto corrisposto subito dopo il 1280, in pieno regime angioino, per un quinquennio. Racalmuto figura tassato esplicitamente nel 1310; indirettamente nel 1280. Allora, collettori per Agrigento furono ilcanonico agrigentino Pasquale ed il notaio messinese Pellegrino. Il vescovo cassanese, il francescano Marco d’Assisi,  ebbe dal collettore Pasquale solo 20 onze d’oro. Che fine abbia fatto il resto non sappiamo. Nella pagina del 1280 abbiamo note che attengono allo stato dell’intera diocesi di agrigento: nulla che possa in qualche modo illuminarci direttamente sulla chiesa racalmutese. Questa doveva però avere un certo ruolo. In ogni caso era saldamente incardinata nella diocesi agrigentina, sotto l’egida del vescovo Ursone, almeno per il biennio 1275-76; dopo, pare sia subentrata la sede vacante, affidata al sostituto Gualterio. La vicenda dei vescovi agrigentini ha riverberi sulla storia di Racalmuto. Nel 1271 (28 gennaio) muore il vescovo Goffredo Roncioni. Subentra Guglielmo de Morina: fu una meteora. Sotto di lui abbiamo lo stravolgimento feudale racalmutese: il Musca viene privato del nostro casale che passa, per ordine dell’Angioino, al partenopeo Pietro Negrello di Belmonte. Nel 1273, (2 giugno), sale sulla cattedra di Gerlando, il cennato Guidone che vi rimane sino al 24 giugno 1276. Dal 1278 al 1280 abbiamo il citato sostitu Gualtiero. Dal 12 maggio 1280 al 23 agosto 1286 subentra tal Goberto, tarsferito alla sede di Capaccio il 23 agosto 1286. E’ quindi il tempo del lungo episcopato di Bertoldo di Labro (10 dicembre 1304-11 luglio 1326). In questo tratto, Racalmuto ha sconvolgimenti rimarchevoli: cessa l’autonomia comunale; i Chiaramonte spaccano il territorio in due parti: quella collinare attorno al Castelluccio viene trattenuto da Manfredi Chiaramonte; quella di nord-est - già sede dell’insediamento attivato dal Musca - viene requisita dal fratello cadetto Federico II (ma di ciò, più a lungo, dopo). L’organizzazione ecclesiastica - i cui riflessi sul vivere civile e sociale sono di tutta evidenza - si irrobustisce: cessa l’evanescenza dei primordi; ora abbiamo una potenza agraria attorno alla chiesa di S. Maria, oltremodo tassata dal papa (come si è visto); figuriamoci dal persule agrigentino; ed una pieve consistente, piuttosto facoltosa: il suo parroco (presbiter Angelus de Monte Caveoso) subisce l’angheria pontificia di un balzello di nove tarì; sborsa al suo vescovo l’aliquota (la quarta?) sulle sue decime o primizie. I racalmutesi vengono a subire l’incidenza di tanti oboli obbligatori d’indole ecclesiastica. Quelli d’indole feudale non li conosciamo. L’imposizione diretta pretesa dai nuovi regnanti è greve e di essa abbiamo solo gli echi di quella che fu la politica fiscale del re Pietro, il primo assaggio dell’avara povertà di Catalogna.

 

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