domenica 18 agosto 2013

Storia dei del Carretto Seconda parte


GIOVANNI III DEL CARRETTO

 
 
Figura centrale nello snodo dei feudatari di Racalmuto, fu anche colui che seppe portare all’apice la signoria carrettesca della nostra terra. Alla morte del padre s’insedia nel castello baronale con puntiglioso rispetto della liturgia feudale. Invia a Palermo come suo procuratore il magnifico Artale Tudisco - di cui sopra - ed il 28 gennaio 1519 ottiene la rituale investitura.
Giovanni III del Carretto, appena barone, si sarebbe macchiato della committenza di un delitto contro i Barresi di Castronuovo. Così racconta il suo lontano pronipote Vincenzo di Giovanni. Ma sarà stato poi vero? Si dà il caso che gli atti disponibili ce lo raffigurano - per quel che vedremo - un uomo religiosissimo, al limite del bigottismo, prodigo con preti, monaci e chiese. Anche con il suo notaio, quel Jacopo Damiano che finì sotto tortura nelle segrete del Santo Uffizio. Per eresia, si scrisse. Per eccessiva indulgenza verso gli eccessivi empiti di sperperatrice religiosità del suo assistito in punto di morte, abbiamo voglia di pensare noi.
Il Baronio ce lo descrive ovviamente in termini esageratamente elogiativi. Traducendo dal latino, per quello storico di casa del Carretto: «da Ercole si ebbe Giovanni III, singolare figura per prudenza e per intemerata virtù. Carlo V quando fu a Palermo lo coprì di mirabili onori. Di tal che, sia per la propria che per l’avita nobiltà, fu degno di stare con grande onore tra i Dinasti. Giovanni ebbe due figli: il primogenito Girolamo ed il glorioso Federico che divenne barone di Sciabica.» (vedi op. cit. §§ 75 e 76)
 

Processo d’investitura di Giovanni del Carretto, ultimo barone di Racalmuto

 
 
 
Sul citato Giovanni fornisce lumi il processo n.  1175: ([1]) abbiamo avuto già modo di citarlo. Siccome lo riteniamo basilare per la storia racalmutese del secolo XVI, lo trascriviamo, traducendo, quando occorre, dal latino.
 
«N.° 1175 - In Palermo nell’ufficio  del Protonotaro del Regno di Sicilia, sotto la data del  28 gennaio, VII^ Ind., 1519.
 
«Memoriale esibito e presentato nell’Ufficio del Protonotaro del Regno di Sicilia, dall’ill. Artale de Tudisco, procuratore del magnifico signore don Giovanni del Carretto, figlio primogenito, legittimo e naturale, unico ed universale erede del quondam magnifico Ercole del Carretto, un tempo signore e barone della terra di Racalmuto (Rayalmuti), che teneva e possedeva la detta terra di Racalmuto con il suo castello e fortilizio, nonché con i suoi diritti e pertinenze a seguito della morte del prefato quondam magnifico Ercole, suo padre.
E tanto per prendere l’investitura della detta baronia con i suoi diritti e pertinenze sia per la morte del signor nostro Re Ferdinando, di gloriosa memoria, sia per la successione delle maestà cattoliche, la Regina Giovanna ed il Re Carlo, signori nostri invittissimi, quant’anche per la morte del prefato quondam magnifico Ercole del Carretto, suo  padre.
 
«Innanzitutto, si afferma che il detto quondam magnifico Ercole del Carretto, padre del detto magnifico don Giovanni, al tempo della sua vita, e fino alla sua morte, tenne e possedette la terra  di Racalmuto, con il suo castello e fortilizio, nonché con i suoi diritti e pertinenze, cambiando tutti gli ufficiali tutte le volte che piacque al medesimo quondam magnifico barone Ercole e percependo e facendo percepire i relativi frutti, redditi e proventi da vero signore e padrone.    
 
«Del pari, si testimonia che il prefato magnifico signore Giovanni del Carretto fu ed è figlio primogenito, legittimo e naturale del detto quondam magnifico Ercole e come tale e per tale lo teneva, trattava e reputava, così come era dagli altri tenuto, trattato e reputato.
 
«Del pari, si afferma che il detto quondam magnifico Ercole del Carretto, un tempo signore e barone della detta terra e padre del detto magnifico signor Giovanni del Carretto, quando piacque al Signore, morì e defunse nel castello della predetta terra di Racalmuto, sotto la data del mese di gennaio, VI^ Ind., 1517, lasciando superstite e successore in detta baronia il detto magnifico quondam Giovanni del Carretto, dello stesso quondam magnifico Ercole figlio unico, legittimo e naturale, ed avendo prima redatto testamento solenne in mano del notaio Antonio Quaglia del città di Agrigento, sotto il giorno 27 del predetto mese di gennaio, testamento nel quale venne istituito suo universale erede il detto magnifico signor Giovanni.
 
«Del pari, si afferma che, morto e defunto il detto magnifico Ercole, il detto magnifico don Giovanni del Carretto, quale figlio legittimo e naturale del detto quondam magnifico Ercole, e come successore legittimo in detta baronia, ebbe per il tramite del suo  procuratore, prese e conseguì  l’attuale, reale e corporale possesso della detta terra di Racalmuto con il suo castello e fortilizio, nonché con i suoi diritti e pertinenze, secondo quanto risulta dal rogito celebrato nella terra e nel castello predetti dal notaio Antonio Quaglia della città di Agrigento in data 16 di gennaio VI^ Ind. 1517.
 
«Del pari, si afferma che in questo regno di Sicilia fu ed è fama pubblica e voce notoria che il prefato cattolico Re Ferdinando, di gloriosa memoria, morì e che il suo ultimo giorno di vita cadde nel mese di gennaio della IV^ indizione [1516] passata prossima ed a lui successe in tutti i suoi  dominî e regni la serenissima Regina donna Giovanna, sua figlia legittima e naturale, nonché il cattolico ed invittissimo Re Carlo, della stessa regina Giovanna figlio primogenito e naturale. Così fu ed è la verità. 
«Del pari, si afferma che al fine di prestare il debito giuramento e l’omaggio della dovuta  fedeltà e del vassallaggio, nonché di ottenere l’investitura della predetta terra e castello, con tutti i suoi diritti e pertinenze - tanto per la morte di Re Ferdinando, di gloriosa memoria, quanto per la morte del proprio padre - seriamente creò ed istituì suo procuratore il magnifico illustre Artale de Tudisco, come risulta dalla procura agli atti dell’egregio notaio Giovanni de Malta, in data 26 del presente mese di gennaio VII^ Ind. 1519.
 

Secondo processo d’investitura di Giovanni III del Carretto

 
 
Ma non è finita: l’11 marzo 1558 Giovanni III del Carretto è costretto a rifare il giuramento di fedeltà nella forma solenne, come attesta un diploma rilasciato a Messina. Altre formalità, altre spese, altre tasse.
Il 2 gennaio 1560 Giovanni del Carretto cessava di vivere: aveva tenuto saldamente in pugno la baronia di Racalmuto per oltre quarantatré anni, un’egemonia lunghissima specie se si tiene conto della irrisoria vita media di quel tempo.
Ebbe a sposare una signora di riguardo, tale Aldonza, nome spagnoleggiante, di cui sappiamo ben poco. Alla data della morte del marito era già deceduta: quoddam spectabilis  Domina Aldonsia, la si indica nel testamento. 
Nulla ha a che fare con la celebre Aldonza del Carretto, questa moglie di Giovanni III: quella che dota il convento di S. Chiara è la nipote. Costei inguaierà fratello, nipote e pronipote per il suo bizzarro disporre dei beni di “paraggio” che le spettavano. Ma questa è storia del Seicento.
Nel 1375 la terra di Racalmuto contava appena 136 fuochi cui si possono attribuire non più  di n.° 500 abitanti, elevabili a 600/700 se si vuol credere ad errori dell’arcidiacono Bertrando du Mazel, inviato dal papa di Avignone per una tassazione dei singoli fuochi in cambio della rimozione dell’interdetto. In quel tempo non vi erano più di due chiese, fragili e malandate.
In piena signoria di Giovanni III del Carretto, le cose erano notevolmente cambiate a Racalmuto: la popolazione si era enormemente accresciuta.
Abbiamo pubblicato nel citato nostro lavoro sul Cinquecento racalmutese dati e note sul censimento del 1548 - Giovanni III del Carretto era barone già da 31 anni - che sintetizziamo con questa tavola:
Censimento del 1548
Ceti paganti
ceti esenti
evasori
totali
N.° Fuochi
896
 0
90
986
Abitanti (fuochi * 3,53)
3.163
0
316
3.479
 
 
Dai 1600 del 1505 ai quasi 3500 abitanti del 1548 il salto era stato rimarchevole: non poteva trattarsi solo di normale crescita demografica; sotto il barone di Racalmuto si erano quindi determinate condizioni di vita accettabili, da preferire a quelle dei feudi circostanti; contadini, mastri e forse anche mendicanti ebbero ad affrottarsi nei quattro quartieri che ormai si erano stabilmente definiti: a) Santa Margaritella, tra l’attuale Carmine, bar Parisi e la Guardia; b) San Giuliano, tra Guardia, tabaccheria Fantauzzo, Collegio, Fontana e attuale chiesa di San Giuliano; c) Fontana o quartiere fontis, l’altro spicchio di nord-est tra la Fontana, il castello, la Matrice e l’attuale chiesa dell’Itria; d) quartiere del Monte o montis comprendente l’ultimo quarto a ridosso dell’omonima chiesa esistente anche allora.
Era tutto suolo baronale; per ergervi una casa occorreva pagare uno jus proprietatis ai del Carretto; se poi si era contadini e si andava a coltivare terre altrui nell’ambito del feudo (o Stato di Racalmuto) scattavano tributi in natura; se la coltivazione avveniva in feudi circostanti (Gibillini, Cometi, Grutticelli, Bigini, Aquilìa, Cimicìa, ed altri ancora), il tributo raddoppiava: terraggio (quello intrafeudo) e terraggiolo (quello extrafeudo) furono termini presto entrati in uso, a significare balzelli che pur tuttavia si accettavano non essendo diverso altrove. Sfuggì il particolare al Tinebra; vi fece eco Sciascia e l’odiosità delle presunte angherie comitali cade tuttora sul malaticcio Girolamo II del Carretto, quello ucciso dal servo arbitrariamente chiamato con il rispettabile patronimico Di Vita.
 

Il quadro della vita religiosa racalmutese sotto Giovanni III del Carretto

 
 
Un vescovo agrigentino del tempo, il nobile Tagliavia nutrì eccessivo interesse per la comunità ecclesiastica di Racalmuto. Nel 1540 mandò suoi pignoli visitatori; tre anni dopo fece visita inquisitoria lui stesso. Poteva considerarsi apparentato con il bigotto Giovanni III del Carretto, ma il barone non viene neppure adombrato nelle relazioni episcopali che per nostra fortuna si conservano nell’archivio vescovile di Agrigento.
In tali atti vescovili viene descritta piuttosto diffusamente la condizione dell’organizzazione ecclesiale di Racalmuto.
Un fenomeno nuovo emerge con il suo peso sociale, economico e soprattutto bancario: quello delle confraternite. Le confraternite cinquecentesche di Racalmuto nascono come associazioni per garantire la “buona morte” che è come dire una onorevole sepoltura - il culto dei morti da noi è stato sempre presente, ossessivo, dispendioso - ma subito, venute in possesso di disponibilità finanziarie e monetarie, cosa di gran rilievo in un’angusta economia curtense, assurgono a potentati economici molto simili alle attuali banche: finanziano, danno in affitto gli immobili di proprietà (sia pure relativa), fanno committenze per costruire chiese (fonte prima del loro guadagno per le sepolture a pagamento che vi vengono fatte), le fanno riparare, e così via di seguito. Non sono corporazioni di arti e mestieri, anzi sono essenzialmente interclassiste. Il prete vi svolge un ruolo, ma solamente religioso: è soltanto il cappellano spirituale. Nasce da qui il detto tutto racalmutese: monaci e parrini, vidici la missa e stoccaci li rini. Come dire i preti ed i monaci nelle confraternite ci stano per celebrar messa, ma dopo bisogna loro “stuccarici li rini” beffarda espressione per specificare che ognuno deve poi girarsi su se stesso per le mansioni e competenze proprie, in assoluta indipendenza. I preti infatti non potevano inserirsi nella gestione economica, tutta affidata al governatore laico ed agli altrettanto laici deputati che ogni anno si eleggevano. Il vescovo Tagliavia cerca di irreggimentare il tutto, ma con scarso successo.
 
 
 Gli aridi inventari episcopali del 1540 e del 1543 ci consentono comunque di fare una ricognizione critica - senza le grandi sbavature cui gli storici locali indulgono - delle chiese veramente esistenti all’epoca. Abbiamo innanzitutto la vetusta chiesa di S. Antonio: è parrocchiale, risale ad epoca immemorabile (noi pensiamo alla prima metà del Quattrocento). Al tempo di Giovanni III del Carretto è fatiscente; nessuno pensa a ricostruirla; la si lascia in abbandono ma alla fine la solerzia del vescovo Tagliavia è tale che risorge a nuova vita e il culto in essa perdura sino alle soglie del Settecento.
 
Monsignor Pietro Tagliavia ed Aragona, nel tempo in cui fu vescovo di Agrigento curò molto le visite pastorali. Racalmuto fu prima, nel 1540, assoggettato ad un’ispezione sommaria la cui verbalizzazione è contenuta in cinque fogli ove è riportata, in sostanza, una secca inventariazione dei beni delle più importanti chiese di allora: Nunziata, Santa Maria di Gesù, Santa Margherita, Madonna del Monte e San Giuliano. [2] Tre anni dopo, il paese subì, come si è accennato, una più seria indagine da parte del  vescovo in persona, che vi si recò il giorno 11 giugno 1543. Il taglio del resoconto è ora molto più articolato, e viene fornito uno spaccato della vita religiosa locale di grande interesse.[3]
Al centro della locale comunità religiosa è l’arciprete don Nicolò Gallotto (o de Gallottis). E’ originario della terra di San Marco, diocesi di Messina; è anche canonico agrigentino (“est etiam canonicus agrigentinus”). Non riusciamo a sapere, però, se risiede in paese. Gode di metà delle rendite e degli emolumenti, perché l’altra metà serve per il sostentamento di quattro cappellani che accudiscono alla chiesa e amministrano i sacramenti all’intera popolazione (“dictus dopnis Nicolaus habet dimidiam omnium redditum et emolumentorum ... alia dimidia est assignata quatuor capellanis qui serviunt dicte ecclesie et administrant populo ecclesiastica Sacramenta.”).
Ricade su Racalmuto l’onere del sostentamento del suo arciprete, cui spetta per antico diritto (“ex disposictione”), il beneficio della “primizia”. E’ questo un gravame tributario in forza del quale ogni fuoco (famiglia) è assoggettato alla corresponsione di un tumolo di frumento ed un altro di orzo all’anno; le vedove sono obbligate solo per il tumolo di frumento; i non abbienti sono esonerati (”primitiam .. contigit dictus archipresbiter seu eius locum tenentes unaquaque domo dicte terre et illam solvunt hoc modo: unaqueque domus solvit tumulum unum frumenti et unum ordei, exceptuatis viduis, que solvunt tumulum unum frumenti tantum singulo anno”.)
Nella visita del 1540 era stato precisato che il Gallotto percepiva annualmente tale primizia nella misura di 25 salme di frumento e 22 di orzo. Considerando una salma formata di 16 tumoli, avremmo 400 fuochi di cui 48 quelli di vedove capo-famiglia. La popolazione abbiente ascenderebbe quindi a circa 1600 abitanti. Ma siamo molto lontani dai dati disponibili per quell’epoca. Nel rivelo del 1548, sotto Carlo V, Racalmuto risulta forte di 890 fuochi per oltre 3100 abitanti. Non crediamo che vi fossero 490 case di indigenti; il numero degli esonerati e degli evasori doveva essere molto elevato. Ed il fenomeno dovette essere duraturo. Un paio di secoli dopo, nel 1731, l’arciprete Algozini dava i seguenti ragguagli sulla primizia di Racalmuto, un diritto che evidentemente si perpetuava: «questa chiesa non ha decime ma la Matrice solamente ha ogni anno in primizie, tolti li miserabili e fuggitivi, formenti di lordo in circa salme quarantaquattro, in orzi salme sedici in circa, dovendo pagare ogni capo di casa tum.lo uno di formento e tum.lo uno d’orgio.» Tradotto in statistica demografica, abbiamo una popolazione di 2800 abitanti, a fronte di una popolazione effettiva dichiarata dallo stesso Algozini in 5134 anime suddivisa in 1200 famiglie. Sorprendono le analogie e le concomitanze con il fenomeno elusivo del 1540. A meno che in entrambi i casi si dichiarasse soltanto la metà (la dimidia pars di spettanza dell’arciprete).
Oltre alle primizie, l’arciprete Gallotto percepiva i proventi per quelli che l’Algozini due secoli dopo chiama diritti di stola: i proventi cioè dei funerali e dell’amministrazione dei servizi religiosi (“mortilitia et alia provenientia ex administratione cure”).
Nel 1540 si constatava che la chiesa dell’Annunziata dell’omonima confraternita fungeva anche da chiesa parrocchiale al posto della Matrice intitolata a S. Antonio e non si aveva nulla da eccepire. Visitata per prima, se ne annotava la doppia funzione: «Ecclesia di la Nuntiata  confraternitati et servi pro maiori ecclesia di ditta terra». E’ comunque alla chiesa maggiore che spetta il diritto delle primizie: essa, in quanto “maior ecclesia”, «habet primitias videlicet salme 25 frumenti et salme 22 ordei in persona domini Nicolai Gallocti cum onere unius misse quotidie»   Ma tre anni dopo, il vescovo Tagliavia ha di che ridire: per lui, l’Annunziata è “ecclesiola” e quindi non può fungere da chiesa madre; è un tempio «valde parvulum et angustum pro tanto populo”. La vecchia matrice di S. Antonio è diruta; ma poiché essa sarebbe adeguata alle esigenze di spazio dell’accresciuta popolazione, viene ordinato dal presule che venga restaurata e riedificata. «Et quia .. ecclesia [maior] est diructa, et hec que servit pro maiori ecclesia est valde angusta, ideo iussit provideri quo dicta maior ecclesia restauretur et reedificetur.» Non si mancò di eseguire gli ordini vescovili: sappiamo di certo che nel 1561 la chiesa Madre è proprio S. Antonio.
Le nostre notizie sull’arciprete venuto dalla diocesi di Messina sono tutte qui. Non abbiamo neppure un appiglio per formulare un qualsiasi giudizio sulla sua figura. Poté essere un bravo sacerdote, ma poté essere un semplice percettore di benefici ecclesiastici. Dei quattro cappellani che lo coadiuvarono (o lo sostituirono) non sappiamo neppure i nomi.
 
Le carte episcopali richiamate a proposito dell’arciprete Gallotto contengono accenni ad altri sacerdoti racalmutesi della metà del Cinquecento: fra loro spicca don Francesco de Leo, vicario foraneo della terra di Racalmuto. Si sa quanto importante fosse il ruolo del vicario che fungeva da rappresentante del vescovo  sul luogo. A lui venivano demandati i compiti esecutivi della giurisdizione della Curia agrigentina, specie in materia penale. Il vicario era uomo temuto e rispettato, forse ancor più dell’arciprete, che spesso si limitava a percepire i frutti del beneficio ottenuto per entrature curiali e non metteva neppure piede nella parrocchia di cui era titolare.
Il de Leo era vicario, dunque, al tempo dell’arciprete Gallotto. Tra gli altri compiti aveva quello di curare gli interessi del canonico don Giovanni Puiates, titolare del beneficio di Santa Margherita. Naturalmente, anche questi si limitava a percepire i pingui proventi racalmutesi senza interessarsi neppure della chiesa che sorgeva accanto a quella di Santa Maria di Gesù: a ciò pensava il vicario d. Francesco de Leo ed era incarico che espletava encomiabilmente. Il vescovo Tagliavia nel visitare, nel 1543, la chiesa di Santa Margherita la trova «satis bene compositam» ed il merito l’attribuisce al vicario, «hoc propter bonam curam dopni Francisci de Leo, vicarii dicte terre.»
Del solerte vicario, oltre a questa notizia, non sappiamo null’altro. Possiamo giudicarlo, comunque, positivamente e tutto fa pensare che fosse racalmutese. Si spiega così perché tenesse  alla vetusta chiesa di S. Margherita che, se è da dubitare che risalisse al 1108 come scrisse nel 1641 il Pirri, era pur sempre un luogo di culto di cui ad un diploma del 1398. Il de Leo sembra avere care le tradizioni indigene. La chiesa, varie volte rinnovata e ricostruita, era da tempo immemorabile sede di un titolo canonicale agrigentino. «Ecclesia Sancte Margarite - si sa dalla visita del 1543 - est titulus canonicatus” che al tempo spettava al cennato canonico Pujades. I contadini racalmutesi dovevano corrispondere le decime al canonicato della Cattedrale di Agrigento e non risulta che il beneficiario sia stato mai un racalmutese. Quando si trattò di giustificarne il titolo originario, si assunsero a documenti due antichissimi diplomi del 1108. In essi si descrive la donazione di un fondo da parte di Roberto Malconvenant ad un suo parente, il milite Gilberto, a condizione che vi edificasse una chiesa. Gilberto accetta, si fa chierico ed inizia, costruisce e completa un tempio nella sua terra intitolandolo a Santa Margherita Vergine. Il vescovo Guarino in una domenica del 1108 consacra chierico e chiesa  inquadrandoli nella giurisdizione della Cattedrale agrigentina.
L’ubicazione del centro agricolo è di ardua individuazione. Nel diploma viene così descritta l’estensione del fondo: se ne specificano i confini; emergono quindi punti di riferimento e località che nulla hanno a che vedere con Racalmuto. Quella antica chiesa “normanna” non è posta pertanto vicino a Santa Maria, non ci compete e lasciamola al suo destino. Il fascino della storia racalmutese non si appanna certo per il venire meno di una tale tradizione.
Resta assodato che a Racalmuto il culto di Santa Rosalia è ben antico. Non sembra, però, che vi sia qualcosa su S. Rosalia nelle primissime visite pastorali agrigentine del 1540-3, dato che in quella del 1543 si accenna solo alle seguenti chiese racalmutesi:
1)        Chiesa Maggiore, sotto il titolo di S. Antonio;
2)        “Ecclesiola” sub titulo Annuntiationis Gloriose Virginis Marie, da tempo sede di una Confraternita e dove era stato trasferito il Santissimo, chiesa adibita ormai al posto di quella Maggiore, già fatiscente;
3)        Chiesa di Santa Maria del Monte;
4)        Chiesa di santa Maria di Gesù;
5)        Chiesa di Santa Margherita;
6)        Chiesa di San Giuliano;
 
Nella precedente visita del 1540 abbiamo:
1)        Chiesa della “NUNTIATA”
2)        Chiesa di Santa Maria di Gesù (Jhù)
3)        Chiesa di Santa Margherita;
4)        Chiesa di “Santa Maria di lo Munti”;
5)        Chiesa di S. Giuliano.
(Cfr. le pagine 196v-198v della Visita)
Passando al setaccio i radi accenni delle carte episcopali del 1540-1543 abbiamo che non proprio recenti erano le chiese quali:
 
·     la Nunziata, visto che vi si trovava una vecchia tunichella di damasco turchino ( Item uno paro di tunichelli una di villuto iridato cum soj frinzi di varij coluri et l’altra di damasco turchino vechia);
·     Santa Maria di Gesù col suo vecchio paramento di borchie stagnate (Item uno casubolo  di borcati vecho stagnato);
·     Santa Margherita sia per quel che sappiamo dalle antiche fonti sia come testimoniano i “avantiletto” lisi (item dui avantiletti vechi). Significativo invece che a S. Giuliano non v’era nulla di vecchio.
 

Il testamento di don Giovanni III del Carretto

 
 
 
Di Giovanni del Carretto è consultabile il testamento ([4]) steso sul letto di morte: a raccoglierlo il notaio Jacopo Damiano, quello finito sotto le grinfie del Santo Ufficio. L’inventario della vita del barone viene in qualche modo abbozzato.
In epigrafe, la data: 2 gennaio 1650. Riguarda il “molto spettabile signor D. Giovanni de Carrectis, domino e barone della terra di Racalmuto, cittadino della felice città di Palermo, dimorante nel Castello della detta terra e baronia di Racalmuto, che fa testamento dinanzi il notaio ed i testi”.  “Sebbene infermo nel corpo, è tuttavia sano di mente ed intelletto, con la parola ed i sensi integri”.
 
Il testamento esordisce con una sorpresa: erede universale non viene nominato il primogenito (Girolamo, futuro primo conte di Racalmuto), ma il secondogenito, “lo spettabile signor don Federico de Carrectis barone di Sciabica, secondogenito legittimo e naturale nato e procreato dallo stesso spettabile signor testatore e dalla fu spettabile donna Aldonza consorte del medesimo”.
Ripete in dialetto, il morente barone: “legitimo e naturali, procreatu da me e dalla  condam Aldonsa mia mugleri in tutti e singuli beni, e cosi mei mobili e stabili presenti, e futuri, e massime in la Vigna e loco chiamato di lo Zaccanello, con tutti soi raggiuni e pertinentij, e suo integro statu, pretensioni, attioni, e ragiuni, frumenti, orzi, cavalli, e scavi; superlectili di casa, massarij, boi et altri animali, et instrumenti di massaria, vasi di argento manufatti esistenti in lo detto Castello con li nomi di miei debitori ubicumque esistenti e meglio apparenti”.
 
Tanta la beneficenza del barone morente (ma era compos sui, o il ‘luterano’ notaio inventava?):
·     5 once al venerabile convento di San Domenico della città di Agrigento;
·     5 once alla venerabile chiesa di Santa Maria del Monte;
·     10 once al venerabile ospedale della terra di Racalmuto;
·     5 once alla venerabile confraternita di San Nicola di Racalmuto;
·     5 once alla venerabile chiesa di San Giuliano; inoltre poiché il testatore ha una certa quantità di calce e detenendo una fabbrica di calce (“calcaria”) esistente in territorio di Garamuli, dispone che se ne dia sino a concorrenza di 500 salme per la chiesa di San Giuliano
·     5 once alla chiesa di S. Antonio (che quindi è ritornata in auge);
·     5 once in onore del glorioso Corpo del Signore quale si venera nella Matrice.
Al servo di provata fedeltà debbono andare ben 20 once per i tanti servizi prestati; 10 once, invece, al servo (famulus) Francesco de Milia.
Il barone è grato al clero; gli è stato vicino ed amico. Ecco perché raccomanda al successore d. Girolamo del Carretto  «quod omnes et singulae Personae Ecclesiasticae dictae Terrae Racalmuti sint, et esse debeant immunes, liberi, et exempti ab omnibus, et singulis gabellis, et constitutionibus solvendis spectabili Domino eius successori, videlicet à gabella saluminis, vini, carnis, granorum, et olei, et hoc pro usu tantum dictarum personarum ecclesiasticarum, et ita voluit, et mandavit.»
I preti debbono dunque essere immuni dai balzelli baronali come la gabella dei salami, del vino, della carne, del grano, dell’olio: una sfilza di tasse sui consumi che la dice lunga sull’assetto fiscale della realtà feudale di metà secolo XVI a Racalmuto.
 
 
Il barone resta legato alla sua terra; vuole essere seppellito nella chiesa di San Francesco, vestito con l’abito di San Francesco (dobbiamo almeno ammettere che alla fine dei suoi giorni, la sua fede era intensa).
 
 
 
Il processo d’investitura del successore Girolamo I del Carretto ci attesta che in gennaio del 1560 Giovanni III del Carretto cessò effettivamente di vivere; morì in Racalmuto e fu davvero sepolto nella chiesa di San Francesco.
 

GIROLAMO I DEL CARRETTO

 
 
Il Baronio diviene ora piuttosto loquace. Ecco come descrive quello che fu l’ultimo barone ed il primo conte di Racalmuto (cfr. § 78 op. cit.):
«A Girolamo primo, il maggiore dei figli maschi di Giovanni, dunque ritorniamo. Su di lui ebbe a scrivere distesamente in lettere inviate a Filippo II re di Spagna, Rodolfo Imperatore nobile figlio di Massimiliano che la famiglia del Carretto stimò moltissimo. Il re, dato che gli antenati di Girolamo vantavano il titolo di marchesi di Savona, volle che il nostro Girolamo fosse chiamato ed  avesse in quel tempo il titolo di conte di Racalmuto, lasciando intendere che in avvenire avrebbe amplificato la gloria di tanta illustre famiglia con titoli di maggior risalto.
« Le lettere del re, dove Girolamo è gratificato con il titolo di conte, sono da riportare. Niente è più preclaro. Esse sono datate: 28 giugno 5 ind. 1577 e recitano: “Filippo etc. A tutti quanti etc. Avendo lo spettabile fedele ed a noi caro D. Girolamo Carretto dei marchesi di Savona documentato  l’insigne virtù non disgiunta da grandi fortune della propria stirpe, abbiamo considerato i tanti servizi che ai nostri predecessori, di felice memoria, sono stati dai del Carretto prestati quando necessità l’ha richiesto; del pari abbiamo considerato l’antica nobiltà e lo splendore della famiglia carrettesca, che non soltanto in questo Regno ma in tante altre nostre province si è a diverso titolo resa celebre e meritevole. E omettiamo di considerare gli altri celebri uomini della medesima famiglia che meritevolmente sono assurti a preclare e altissime dignità dello stato ecclesiastico. Volendo pertanto mostrarci grati verso il lodato D. Girolamo Carretto etc.”
 «Noto è per di più quanto l’imperatore Rodolfo fu prodigo di lodi per iscritto quando riesumò la lettera del padre, l’imperatore Massimiliano, per tornare sul fatto che si gratificasse Girolamo con il promesso onore del marchesato. Ecco il testo della lettera:
«Rodolfo etc. Serenissimo etc. Premesso che negli anni scorsi il fu imperatore Massimiliano, signore e genitore nostro colendissimo di augusta memoria, ebbe ad inviare alla serenità vostra lettere in favore del fedele al nostro Sacro Impero ed a noi caro Girolamo de Carretto barone in Racalmuto dei marchesi di Savona, con le quali lettere benevolmente si pregava la Serenità vostra affinché Girolamo del Carretto, i suoi figli ed i suoi discendenti primogeniti successori nella baronia Rachalmutana, potessero fregiarsi del titolo grado e dignità marchionale e volesse pertanto erigere la detta baronia in marchesato; ne conseguì che la vostra Serenità decretò quella baronia con il titolo di contea.
«Tuttavia il nostro divo genitore ingenerò in D. Girolamo la speranza che in altro tempo gli potesse venire concesso il titolo di marchese. Ed è per questo che il predetto Girolamo de Carretto conte in Rachalmuto umilmente ci ha esposto che oggi ciò tanto desidera essendo noto che egli discende dall’antica stirpe dei Marchesi di Savona, la quale ha origini antichissime dal Duca di Sassonia.
«Ragion per cui così alla fine egregiamente concluse l’Imperatore:
«Pertanto con fraterno amore preghiamo la Serenità vostra affinché vengano restituite al predetto Girolamo le avite prerogative, rinverdite dalle virtù dei suoi antenati; e così anche per la nostra intercessione possa realizzarsi la sua antica speranza. Ciò, peraltro, ci tornerebbe come cosa graditissima. Etc. Date in Praga il giorno 12 febbraio 1580.»
Siffatto pasticcio epistolare non sortì effetto alcuno. La baronia “rachalmutana” di cui si parlò nelle corti degli Asburgo ascese solo di un grado e divenne contea, ma marchesato giammai. Diciotto anni dopo, nel 1598, i del Carretto tornarono alla carica, ma invano. Il Baronio infatti prosegue:
«Esiste un’altra missiva, molto ben fatta, del 1598. Fra l’altro vi si diceva: “Antica e regale è la famiglia dei del Carretto che è stata fedele alla nostra Augusta Casa e che è stata bene accetta ai nostri Antenati per molteplici meriti. Pertanto Girolamo del Carretto, conte di Racalmuto, siciliano ed il suo figliolo Giovanni meritarono le grazie di nostro padre Massimiliano Secondo. Anche noi li degniamo della nostra benevolenza e volentieri ci adoperiamo perché sia loro concesso tutto ciò che possa accrescere il loro prestigio; ne abbiamo ben ragione etc.”
«Da quanto sopra  è ben chiaro che Girolamo e la famiglia del Carretto furono tenuti in gran conto dagli imperatori come le citate missive, altri documenti che non ho citato ed autorevoli  testimoni ampiamente comprovano.»
 
 
 
Girolamo I del Carretto muore nel gennaio del 1582. Sono ancora i processi d’investitura a dirci che esternò le sue ultime volontà dinanzi il notaio Giacomo Devanti di Palermo il 14 gennaio del 1582, ma il testamento fu aperto un anno dopo, il 9 agosto del 1583. Fu sepolto nella chiesa di Santa Maria di Gesù fuori le mura in Palermo proprio sotto quella data. Ne fa fede l’atto parrocchiale della chiesa di San Giacomo alla Marina del 14 luglio 1584.
Sposa di Girolamo I del Carretto fu una Elisabetta di ignoto casato.
Ma come si è visto, i del Carretto non stanno più a Racalmuto: quella lontana terra, quel loro ‘stato’ serve solo per approvvigionare di fondi questi nobili accasatisi a Palermo. Nel castello racalmutese siede e dispone un ‘governatore’. In Matrice non abbiamo trovato neppure un atto che attesti la presenza del barone ora conte di Racalmuto, magari come padrino in un qualche battesimo. Qualche membro dei rami cadetti, sì, ma il conte giammai. Vi farà ritorno solo Girolamo II del Carretto per venirvi trucidato (se ciò corrisponde al vero) nel 1622.
In altra parte del presente lavoro pubblichiamo il privilegio di Filippo II che erige a contea Racalmuto: è una sfilza di vacue formule da cui non riusciamo a cavare alcun briciolo di microstoria locale.  Non abbiamo qui note in proposito da proporre.
Da questo momento la vicenda familiare dei del Carretto è cosa che solo di striscio colpisce Racalmuto. Vale di più per la storia della città di Palermo.
Ciò non vuol dire che non vi furono riflessi tributari su Racalmuto a seguito della concessione dell’onore di farne una contea da parte di Filippo II a tutto vantaggio di Girolamo I del Carretto. Anzi. I riflessi ci furono e gravi. Una ricerca del prof. Giuseppe Nalbone fra le carte del fondo Palagonia dell’archivio di Stato di Palermo ha consentito di rinvenire documenti di quel tempo, estremamente significativi per la riesumazione delle vicende vessatorie cui sottostettero i nostri antenati racalmutesi del Cinquecento.
 

Peste e tasse a Racalmuto

 
Il carteggio illumina sull’esoso fiscalismo spagnolo ai danni dell’università feudale ed ha tratti inquietanti circa la disumanità viceregia.
Nel 1576 si era abbattuto su Racalmuto una immane pestilenza che ebbe pure a colpire l’Italia intera.
Del pari sconvolgente dovette essere lo scenario racalmutese: leggiamo nel carteggio che «per lo contaggio del morbo che in quella s’ha ritrovato che sono stati morti da tre mila persone [a Racalmuto]  restano solamente ... due mila e quattrocento delli quali la maggior parte sono fuggiti assentati e rovinati ...».
Nel precedente Rivelo del 1570  Racalmuto in effetti contava 5279 abitanti; ma in quello del 1583 scenderà ad appena 3823: una flessione che sinora nessuno era riuscito a spiegarsi e che Sciascia scarica sui del Carretto e sulle  sue tasse enfiteutiche del terraggio e del terraggiolo [Morte dell’Inquisitore, pag. 181].
Confesso che anch’io ero scettico su questo crollo demografico di Racalmuto prima della consultazione dei documenti del Fondo Palagonia. Ancor oggi non è che creda in pieno in questo tracollo: ci fu un’opportunità per sgravi fiscali e si cercò di scontare la tragedia della peste racalmutese del 1576 con qualche beneficio tributario.
Tuttavia, la flessione vi fu e forte. I nostri antichi progenitori parlano di un dimezzamento della popolazione nel vano intento di intenerire gli agenti delle tasse palermitani; ma per bocca del viceré don Carlo d’Aragona e della sua corte Sucadello, De Bullis ed Aurello, costoro non se ne diedero per intesi. Le “tande” - o più graziosamente “donativi” - andavano pagate sino all’ultimo grano a Sua Maestà Cattolica il re di Spagna. Ed andavano pagate anche le tasse arretrate, senza ulteriori indugi.
V’è agli atti una secca e perentoria negativa alla seguente perorazione dei Giurati racalmutesi:
«Ill.mo et Ecc.mo Signore, li Giurati della terra di Racalmuto exponino à vostra Eccellenza, dovendosi per l’Università di quella Terra molta quantità e somma di denari alla Regia Corte cossì per donativi ordinarij, et extraordinarij et altri orationi [per oblationi ?] fatti per il Regno à Sua Maestà,  come per le tande della Macina, non havendo quelli possuto satisfare per lo contaggio del morbo che in quella s’hanno ritrovato  ... ,  à vostra Eccellenza l’esponenti hanno supplicato che se li concedesse à pagare quel tanto che detta università deve alcuna dilattione competente [e che ] à detta Università fossero devenute [condonate] li tandi maxime quella della macina che si doveva pagare ..»
La burocratica risposta palermitana è spietata: la decisione (provista) di Sua Eccellenza si compendia in un “non convenit” “non conviene”. La tragedia racalmutese agli occhi palermitani si traduce in una gretta questione di convenienza. L’abbuono di tasse non è ammesso, non conviene alle esigenze del bilancio dello stato. Una storia dunque che si ripete; un localismo, il nostro, quello di Racalmuto,  che ha valenza oltre il tempo, oltre la landa municipale. Altro che isola nell’isola ..
Remissivamente i giurati di Racalmuto nel 1577 accettano il loro fato e fatalisticamente annotano:
[Ma tale petizione non ha avuto esito] “per lo chi attendo [attesa] la diminutione delle persone morti è stato per vostra Eccellenza provisto quod non convenit quo ad dilactionem [ f. 228] e poiche l’esponenti per li Commissarij che alla giornata si destinano contro loro, e detta città per l’officio del spettabile percettore s’assentano, e non ponno ritrovare modo alcuno di satisfare à detta Regia Corte e se li causano eccessivi danni, et interessi supplicano Vostra Eccellenza resta servita concederli potestà di poter fare eligere persona facultosa, poiché pochi vi sono in detta Terra di poter vedere augumentare, e raddoppiare alcune delle gabelle di detta università, e fare quel tanto che per consiglio si concluderà, acciò potersi sodisfare nullo preiudicio generato ad essa università circa detta diminuttione, e difalcatione che hanno supplicato doversi fare à detta Terra per detta mortalità, e mancamento di persone, e resti servita Vostra Eccellenza  sia quello mezzo che si concluderà quello che di sopra si è detto per detto consiglio concederli dilattione almeno di mesi due, altrimente stando assentati non potriano effettuare cosa alcuna e detta Regia Corte non verria ad esser sodisfatta ne tenendo detta università modo alcuno di sodisfare, ne tener altro patrimonio ut Altissimus. ..”»
La messa in mora  della locale amministrazione per ritardo nel versamento delle tande sulla macina scatena dunque la cupidigia di commissari palermitani sguinzagliati nel malcapitato paese moroso ad esigere, oltre alle imposte, pingui “giornate” (le attuali diarie per missioni) e ad aggravare le esauste finanze locali  «con eccessivi danni ed interessi».
Si accordino - si chiede da Racalmuto - due mesi di dilazione per trovare un sistema di reperimento dei fondi ed assolvere il cumulo tributario.
Questa seconda istanza viene accolta. Ma l’invadente autorità viceregia detta una serie di disposizioni sui modi, tempi e luogo delle procedure per un nuovo sovraccarico fiscale sulla cittadinanza racalmutese.
Il carteggio qui va attentamente studiato raffigurando istituti, costumi, organizzazioni pubbliche e territoriali del primo secolo dell’epoca moderna. Hanno una originalità che non mi pare sia stata debitamente messa in luce dalla cultura storica degli accademici.
Viene fuori uno spaccato dell’organizzazione statuale che non può ridursi al mero dato tributario (la gabella per assolvere gli oneri fiscali) ma che fa trasparire una vocazione democratica impensata. Per sopperire alle necessità tributarie, Racalmuto assurge al ruolo di Comune libero, democraticamente organato, con una sua assise plebiscitaria, avente poteri decisionali.
L’ordine, certo, arriva da Palermo, dall’autorità centrale, ma è ordine volto ad attivare le istituzioni democratiche comunali. Con aperture sociali che gli attuali consigli comunali sono ben lungi dall’avere, è il popolo che viene chiamato a raccolta, è il popolo che decide sui propri ineludibili gravami tributari, ovviamente sotto la guida e la direzione di quella che oggi chiameremmo la giunta comunale: la giurazia.
*     *    *
 
Per inciso, richiamiamo l’attenzione sul giurato racalmutese del 1577 Vincenzo Randazzo che sembra farla da presidente della giurazia. Viene indicato con il titolo di Magnifico, ma è plebeo, forse appartenente alla piccola borghesia agricola, un “burgisi” come si direbbe oggi. La madre di Diego La Matina era una Randazzo, famiglia questa genuinamente racalmutese. Il padre di Diego La Matina, Vincenzo era invece figlio di un oriundo da Pietraperzia.
 
Ritornando al nostro tema del carteggio del 1577, resta evidente che vi si trova uno spaccato della vita pubblica comunale, dal taglio democratico, con istituzioni pubbliche che esulano dal diritto romano e da quello del sorgere dello stato moderno; affiora qualche dato che fa pensare alla tipica organizzazione greca della Polis, con la sua Ecclesìa, e con il ricorso al voto cittadino espresso in una solenne adunanza tenuta nell’Ecclesiastérion.
Al suono della campana della Ecclesia dell’Annunziata, sita nel centro della grande piazza di Racalmuto che dal vecchio Santissimo si allargava nello spiazzo ove ora sorgono le torri campanarie della Matrice e si riversava nell’attuale Piazza Castello per risalire nel largo ove ora sorgono i palazzotti degli invadenti Matrona [la vaniddruzza di Matrona].
Nel confrontare l’attuale assetto urbanistico con  quello che l’ex voto del Monte ci fa intravedere, c’è da esecrare la mania piccolo borghese degli arricchiti di Racalmuto dello scorso secolo di piazzarsi con i loro casamenti sopraelevati sulle case terrane (o al massimo solerate) nel bel mezzo della storica piazza dell’Università di Racalmuto. E dire che riuscirono a farsi credere anche dalle menti più elette del nostro paese  come dei benemeriti filantropi!
Certo marginale appare il ruolo dei del Carretto in questa vicenda fiscale. Quel che rileva è il ricorso pubblico al prestito, quello cioè che oggi avviene tra i Comuni e la Cassa Depositi e Prestiti. Solo che allora per Racalmuto siffatta Cassa DD.PP. era nient’altro che uno strozzino di Agrigento, tal Caputo, superriverito ed adulato dal pubblico notaio.
 
 
 
*   *   *
 

Terraggio e terraggiolo sotto il primo conte di Racalmuto

 
 
In prossimità della morte, Girolamo primo del Carretto riusciva a raggiungere un accordo con i suoi vassalli di Racalmuto. Era l’anno 1580. Il 15 gennaio, a rogito del notaio Nicolò Monteleone di Racalmuto veniva stilata una transazione (transactio et accordium) [5] tra il conte e l’università variamente articolata; tra l’altro i cittadini e gli abitanti di Racalmuto s’impegnavano per loro e per i propri successori di corrispondere al conte e suoi successori il terraggiolo (tirragiolum) in ragione di due salme di frumento per ogni salma di terra seminata dai racalmutesi fuori del territorio dello stato comitale.
 
 
Il carteggio relativo a tale transazione del 1580 è disponibile presso il Fondo Palagonia dell’archivio di Stato di Palermo. Per i riverberi sulla storia locale, ci si deve qui dilungare nello stralciare ampi passi.
Iniziamo dal testo della lettera inviata dai deputati racalmutesi eletti in un apposito consiglio del 1580:
 
«Illustrissimo et eccellentissimo Signore, Bartolo Curto, Pietro Barberi, Giacomo Capobianco, Angelo Jannuzzo, Antonuzio Morreale, Cola Macaluso, Pietro Macaluso, Antonio Lo Brutto, Vito Bucculeri, Pietro d’Alaymo, Joan Vito d’Amella, Antonio Gulpi e Giacomo Morreale, li quali furo deputati eletti per consiglio congregato circa la questione e lite vertenti tra l’altri, e l’illustris.mo Conte di Racalmuto in la R.G.C. esponino a Vostra Eccellenza che sono più anni che in detta R.G.C. ha vertuto lite fra detto conte e suoi antecessori in detto contato ex una, e li Sindaci di detta terra ex altera sopra diversi pretenzioni, particularmente addutti nel libello, e processo fra loro compilato per li quali intendiano detti Sindaci essere esenti, e liberi di certi raggioni e pagamenti, come in detto processo si contiene, e poichè s’have trattato certo accordio fra esso conte ed essi esponenti come deputati eletti per detta università circa le pretentioni predetti, e circa il detto accordio s’hanno da publicare per mano di publico notaro per comuni cautela dell’uno, e l’altro, e stante che è notorio che detti capitoli s’habbiano da publicare con vocarsi per consiglio onde habbiano da intervenire li genti di detta università, e la maggior parte di quella per ciò supplicano a V. E. si degni restar servita provedere che s’abbia a destinare uno delegato dottore degente in la città di Girgenti per manco dispendio (o di spesa) dell’esponenti, e benvista a V.E. il quale s’abbia da conferire in detta università di Racalmuto,, ed in quella abbia da congregare consiglio si la detta università è contenta si o no di pubblicare il detto atto d’accordio, li quali si abbiano di fari leggiri per il detto delegato a tutte le persone che interverrano in detto consiglio per potersi stipulare il detto atto con lo consenso di tutta l’università, o maggior parte di quella - e restando l’esponenti d’accordio V.E. sia servita al detto delegato concederli autorità, e potestà di tutto quello e quanto sarrà concluso per detto accordio che possa interponere l’authorità, potestà, e decreto di V.E. e sopra questo possa interponere perpetuo silenzio, e decreto con tutte le clausole, e condizioni solite, e necessarie farsi in detti atti ut Altissimus. »
La curia viceregia acconsente ed impartisce le opportune istruzioni con lettera Data Panormi die vigesimo nono Februarij nonae Ind. 1580.
 
Il 3 gennaio 1581 si presenta a Racalmuto il magnifico ed esimio Ascanio de Barone della città di Agrigento con le sue credenziali. Il successivo giorno 5 si aprono i lavori del «Consilium congregatum » sotto la presidenza dell’esimio signor Ascanio de Barone “ad sonum campanae in maiori Ecclesia terrae Racalmuti die dominicae” chiamati e convocati i due terzi del popolo. I giurati Lorenzo Giustiniano, Giacomo Monteleone e Antonio Alaimo assicurano la regolarità della convocazione e certificano la presenza del numero legale. L’ordine del giorno consiste nell’approvazione dell’accordo fatto con l’illustre don Girolamo del Carretto.
 Viene subito introdotto l’argomento:
Magnifici Nobili, et persone decorate [a.v.: honorati] et altri populani, siti congregati in questo loco; sapiti ch’avendosi  tanto tempo  ed anni litigato infra l’università di questa terra con li spettabili illustri ed illustrissimi signori Baroni e Conti di questa terra sopra alcuni pretenzioni ed esenzioni di tirraggi di fora [a.v.: supra alcuni pretenzioni et exemptioni di alcuni soluptioni di dupli terragi di fora] et altri esenzioni come più largamente si contiene per lo libello e processo contenti nella R.G.C. con detti spettabili ed illustri signori Baroni e Conti di questa sudetta terra, ed avendosi tant’anni litigato non s’have mai finito per tanto si congregao consiglio, e si elessero deputati lo magnifico Gio: Vito d’Amella, Bartolo Curto, Pietro Barberi, Cola Capobianco, Angelo Jannuzzo, Antonuzio Morreale, Cola Macaluso, Pietro Macaluso, Antonino lo Brutto, Pietro d’Alaymo, Antonino Gulpi e Giacomo Morreale, li quali deputati esposiro a S.E. e R.G.C. che avendo più anni litigato in detta R.G.C. con li predecessori dell’illustre signor Conte di questa terra di Racalmuto ed anche con detto signor conte sopra diversi pretenzioni d’essere esenti e liberi di diversi raggioni e pagamenti in detto processo e libello addutti, e contenti, e che s’ave trattato accordio fra l’università e detto signor conte, e sopra ciò fatti certi capitoli li quali s’hanno da publicare per notaro publico per commune cautela ed era di publicarsi con la volontà della maggior parte del Popolo congregato per consiglio supplicando S.E. resti servita provedere e comandare che si destinasse un delegato in questa terra per congregare detto consiglio, ed essendo la maggior parte contenta dell’ accordio, farrà leggere li capitoli ed essendo contenti quelli detto delegato farrà publicare, e stipulare ed interponere l’authorità di S.E. e R.G.C. per ciò S.E. mi ha destinato delegato in questa terra, undechè personalmente mi conferisca a congregare detto consiglio, ed intendere la vostra volontà se volete accordio per questo siti convocati in questa maggior chiesa acciò ognuno di voi dasse il suo parere [a. v.: siti convocati in questa maggior Ecclesia a tal che ogn’uno di voi dugna lo suo pariri e vuci si vuliti accordio], se volete accordio con detto signor conte, perché volendo accordio si leggiranno li capitoli che mi sono stati presentati per detti deputati e notar publico, ed essendo contenti di detti capitoli per voi s’eligeranno dui Sindaci e procuratori per potere quelli publicare e fare instrumento pubblico con li soliti obligazioni,  renunciationi, stipulazioni giuramento firmato in forma, alli quali Io come delegato di S.E. e R.G.C. interponissi l’autorità e decreto acciò omni futuro tempore s’habbiano inviolabilmente osservare siché ogn’uno venga, e dona la sua vuci, e pariri, lo magnifico Gio: Vito d’Amella capo di detta terra di Racalmuto dice che è di voto, e parere, e si contenta che si faccia accordio stante li lite e questioni che sono stati et su infiniti e sono immortali e non hanno mai diffinizioni e sono dubbij ed incerti e per evitarsi tante spese che s’hanno fatto e si potranno fare tanto più che s’ha visto la buona volontà dell’illustrissimo signor conte lo quale per li capituli ni ha fatto molte grazie ed esenzioni in favore di quest’Università di Racalmuto e non facendosi accordio interim esigirà come per il passato s’have fatto e perché in l’accordio e in mancari quelle raggioni che siamo obligati paghari per questo è contente come è detto di sopra che si faccia detto accordio e si leggano li capitoli e doppo si contratta in forma; lo magnifico Lorenzo Justiniano giurato contiene [a.v.: concurri] con il detto magnifico Gio: Vito d’Amella, 
 
      
 
Già tutti voi esistenti in lo consiglio aviti inteso leggiri detti capitoli per notar Cola Monteleone si restati contenti di detti capituli ognuno dugna la sua vuci, e pariri, ed eliggia dui sindaci e procuraturi ad effetto di putiri publicare detti capituli e farsi istrumento publico con suoi patti renunciazioni cum juramento firmati in forma, lo magnifico Joan Vito d’Amella capitano di detta terra dici ed è di pariri che si contenta di detti capitoli letti nelli quali ci sù multi relasciti e gratij fatti per lo signuri Conti, e che si pubblicano ed eliggiasi per sindaci e procuratori ad Antonino Lo Brutto ed Antonuzzo Morreale, ad effetto di putiri fari publicari detti capitoli dictae universitatis con li soliti obligazioni stipulazioni juramento fitmati in forma; lo magnifico Lorenzo Justiniano concurri con detto d’Amella; lo magnifico Giacomo Monteleone ut proximus, lo nobile Antonino d’Alaymo ut proximus et sic omnes et singulae prenominatae personae concurrerunt cum dicto de Amella et de Monteleone de Justiniano et de Alaymo, capitaneus et jurati,
 
 
 

L’organizzazione feudale del centro agrario di Racalmuto.

 
 
Sorprendentemente, i religiosi del Carmelo di fine ’500 detenevano tutta una documentazione[6] sugli strani debiti di uno di tali rami cadetti.  Se ne ricava uno spaccato dell’organizzazione feudale di un centro agrario qual era Racalmuto. Con una “polisa” il 15 febbraio del 1569 il barone di Sciabica, don Federico del Carretto s’indebita con Antonio Pistone. «Io don Fidirico del Carretto per la presente polisa mi fazzo debitori ad Antoni Pistuni in salmi quaranta e tummina setti di frumento forti et sunno li detti ad complimento di salmi 70, tt.a 7 si comi chi mi prestao hora dui anni in lo fego di la Menta quali frumenti prometto darli per tutto lo misi di augusto proximo da veniri et ad sua cautela hajio fatto la presenti polisa scripta di mia propria mano in Girgenti a di 15 di frebaro XIJ^ Ind. 1579, dico salme 40 e tt.a 7 - ditto don Fiderico del Carretto.»
 
Quale il rapporto sottostante di questa transizione di frumento della Menta, non è dato di sapere. E’ da pensare ad una speculazione granaria. Il nobile agrigentino, un cadetto della celebre famiglia, ha entrature a Racalmuto. Qui pare che non manchino gli abbienti come questo Antonio Pistuni che può tranquillamente prestare ingenti quantità di frumento. Federico del Carretto cessò di vivere qualche anno dopo.
Si ricorda dei suoi debiti nel testamento: «E’ da sapere - si può volgere dal latino - come fra gli altri capitoli del testamento fatto  a mio rogito il 9 novembre p.^ Ind. 1572 dal quondam spettabile signor don Federico del Carretto un tempo barone di Sciabica, sussista l’infrascritto capitolo del seguente tenore:
«Del pari lo stesso spettabile testatore volle e conferì mandato che qualsiasi persona dovesse ricevere od avere dal detto spettabile testatore qualsiasi somma di denaro o quantità di frumento, di orzo o di altro sia saldata dalla propria moglie secondo diritto a valere sui redditi del detto spettabile testatore, sempreché quei debiti appaiano in atti pubblici o con testi degni di fede o in scritture ricevute da qualsiasi curia. E ciò volle  e non altrimenti né in altro modo.»
«Faccio fede, io notaio Giovan Battista Monteleone».
Vi è un atto esecutivo della Gran Corte del XV luglio 1573 dai toni pomposamente ultimativi ma che in definitiva non fanno altro che confermare i fatti suesposti.
·     La curialità cinquecentesca non scherzava davvero: «secondo la forma della nuova Prammatica, si dovrà procedere con l’accesso ed il recesso e per la soddisfazione di cui sopra pignorando qualsiasi bene e vendendo quelli privilegiati ... carcerando e scarcerando ed operando l’estradizione da un luogo ad un altro o da un castello all’altro ...»
 
Risulta il tutto dagli atti della curia del baiulo della terra di Racalmuto, essendone stata fatta copia dal maestro notaro Giuseppe de Ugone (gli Ugo del Rivelo).
Sotto Girolamo I Racalmuto dunque consolida il suo vivere contadino: il conte è lontano, ma i suoi esattori onnipresenti. L’accordo è tutto a favore del feudatario. I racalmutesi non lo gradirono; cercarono di aggirarlo; lo contestarono. Le contese continuarono sotto tutti gli altri conti di Racalmuto. Fino al tempo dei Requisenz, quando il prete Figliola e l’arciprete Campanella riuscirono a far caducare dalla corte borbonica il terraggio ed il terraggiolo. Era il 28 settembre 1787 quando il Tribunale borbonico sentenziò: “ius terragii et terragiolii tam intra, quam extra territorrium declaratur non deberi”.
Ecco perché ci appaiono settari gli aculei che Sciascia (sull’onda degli anatemi del Tinebra) scagliò contro il solo - ed appena ventiquattrenne - Girolamo II del Carretto: ben altre erano le responsabilità dei predecessori; ancor più inique le pretese dei suoi successori e persino dei feudatari settecenteschi che non portavano più l’esecrato nome dei del Carretto.
 
Oltre ad una caterva di figlie femmine, Girolamo I del Carretto lasciò tre figli maschi: Giovanni IV, suo successore nella contea di Racalmuto, Aleramo, che diverrà conte di Gagliano e resterà famoso per gli abusi amministrativi, ed un tal Giuseppe, di cui si occuparono le cronache nere del tempo.
 
 

GIOVANNI IV DEL CARRETTO

 
 
 
 
Giovanni IV del Carretto fu un torbido personaggio di cui ebbero ad occuparsi le cronache nere del tempo, anche dopo la sua morte. Ma fu un personaggio che visse, operò, uccise e fu ucciso in quel di Palermo. Crediamo che a Racalmuto non abbia mai messo piede. Fece amministrare i suoi beni racalmutesi da un genero (Russo) che dovette essere parente della prima moglie e che fu sposo della figlia illegittima Elisabetta, alla quale però il conte teneva tanto da legittimarla.
Tinebra Martorana ed Eugenio Messana spendono varie pagine ad illustrare la figura di questo Giovanni del Carretto: i fatti di sangue che lo riguardano destano curiosità ed interesse cronachistico, anche a distanza di secoli. Non sono però molto attendibili questi nostri due storici locali. Sciascia, sul nostro conte Giovanni IV del Carretto, ragguaglia sapientemente nella sua ricostruzione  delle vicende di fra Diego La Matina (vedasi la pag. 185 della Morte dell’Inquisitore, ed. 1982 cit.)
 
Ad onta del fatto che il conte se ne stava a Palermo, o forse appunto per questo, Racalmuto prospera dopo la terribile peste del 1576. Divenuto contea, sistemata in qualche modo la faccenda del terraggio e del terraggiolo sotto Girolamo I, questo nostro centro attira contadini, mastri, piccoli imprenditori, anche usurai specie da Mussomeli, e diviene un paesone enorme per quei tempi: il rivelo del 1593 annovera circa quattromila e cinquecento abitanti, e molti di loro hanno patrimoni apprezzabili.
 
In un siffatto contesto demografico, il ‘rivelo’ del 1593 si colloca come il primo censimento che si ispira ad un certo rigore statistico. Si può pensare che ciò si deve alla lontananza del conte Giovanni del Carretto. In questi anni, infatti, Giovanni del Carretto è nel bel mezzo della sua bufera giudiziaria. Vi era incappato per una vicenda avvenuta attorno al 1590.
Ecco come ce la racconta un suo parente Vincenzo di Giovanni [7] «In questi tempi [tra il 1589 ed il 15 maggio 1591] successe che essendo  riportato a D. Giovanni Carretto, conte di Racalmuto, che Gasparo la Cannita gli faceva mal’opera riportando alcune sue opere, ed avendo colui lasciatosi trasportar dalla colera, dicendo contro quello parole ingiuriose, il detto della Cannita ebbe ardire di mandargli un disfido per una lettera, dicendogli che aspettava la risposta in Napoli.
 
 Gli mandò dietro il conte per farlo castigare della presunzione; ma fûro i messi ingannati ivi da quei, che gli avevano promesso far l’effetto: il che sentì gravemente il conte, ed attese a procurar meglio ricapito.
In questo, sentendo il conte di Albadalista, viceré in questo regno, tal negozio, fé venire il Cannita su la sua parola per farlo accordare col conte; ed assicuratosi di questo, si conferì a Palermo, non uscendo per la città, per dubbio, che aveva, se non quando andasse in palagio a trattare col viceré.
Tra tanto il conte di Racalmuto, sentita la venuta del Cannita, andava per le spie osservandogli i passi, perché aveva concertato genti per tal effetto.
Lo ingannâro due finalmente, che, offerendosi al Cannita di accompagnarlo a palagio, lo diedero in mano de’ nemici.
Aveva il conte concertato due con due pistole, e quattro per far salvar quelli dopo fatto il caso. Venendo a passare il pover’uomo, gli scaricarono coloro le pistole e l’uccisero; e quelli, che erano per salvarli, sbigottiti fuggirono.
Fuggì uno schiavo del conte: ma l’altro, essendo in fuggire, fu sopraggiunto dal marchese della Favara, e seguitandolo, fu preso e menato al viceré, dicendogli l’eccesso che fatto avea. Se corse [s’indispettì] assai quello, lo fé tormentare, e chiamato il conte, fé cercarlo con grande diligenza. Egli, vestito da monaco, fu uscito in cocchio da D. Francesco Moncata, principe di Paternò, e si salvò in modo, che per molti mesi non se ne seppe nova.
Salvatore lo Infossato, che era stato preso per l’omicidio, fu afforcato; e procedendosi in bando contro il conte, si fé dopo prendere in Messina da gente dell’Inquisizione, e pretese il foro.
Ma vennero lettere di Sua Maestà che fusse dato al viceré, perché era venuto ordine, che i signori non potessero essere del sant’Officio; ed in questo modo il viceré ebbe in potere il conte.
Pensò dargli il tormento della corda, con la clausola ‘citra paejudicium probatorium’, e gli aveva fatto provista, che non si eseguì per venire il giorno di festa con un altro seguente.
Si aspettava il dì di lavoro per eseguirsi la provista , quando la sera precedente venne un estraordinario con lettere, che aveva ottenuto D. Aleramo Carretto, suo fratello, che era alla corte, che soprasedesse il conte viceré sino ad altro ordine. Tra tanto era tenuto il conte di Racalmuto con dodici guardie.
Si adoperò in questo l’imperatore, che con i Carretti si trattava da parente; alle cui intercessioni vennero lettere di Sua Maestà, che il conte per qualche rispetto fusse rimesso al foro: il che sentì molto il conte d’Alba.
Fu rimesso; e fatte le sue defensioni in sant’Officio, dopo dieci anni di travagli e gravissime spese fu liberato, condennandolo solo ad onze mille, da pagarsi alla moglie del defunto, ed onze duecento al fisco. In questo modo ottenne il conte la sua liberazione.»
 
Il Tinebra Martorana ne fa una fantasiosa ricostruzione a pag. 120-123, apparendo partigiano dei del Carretto e contro il povero La Cannita quando ricama sul testo - invero arduo  - del Di Giovanni (che pure cita come fonte). Eugenio Napoleone Messana ricalca la narrazione, sia pure con qualche personale svolazzo e con qualche arbitraria annotazione (v. pag. 105-107).

 

 

L’intrico (veritiero) del conte Giovanni del Carretto.

Il Sant’Offizio.

 
 
Ma dobbiamo al Garufi[8] queste esplicative note.
«S’aspettava ancora il giudizio della corte di Madrid su questa vertenza [quella relativa al caso Ferrante]  - scrive l’illustre storico - e chi sa per quanto tempo se il Conte d’Albadalista insieme al reclamo non avesse forse fatto pervenire al re le sue dimissioni per mezzo del D.r Morasquino, quando il 19 dicembre ‘89 i due Inquisitori, don Lope Varona e don Ludovico Paramo, spedirono al G. Inquisitore di Spagna, col Cardinale don Gaspare de Quiroga, un altro rapporto[9] con le copie d’un nuovo processo contro Don Vincenzo Ventimiglia, e le informazioni su due nuovi fattacci occorsi al fratello del conte di Racalmuto ed ai fratelli La Valle. [...]
[E sono fatti diversi dalle] due sole notizie tramandateci dai contemporanei: l’una riguardante il fatto di “Giovanni del Carretto conte di Racalmuto, rimesso al foro del S. Officio per essere giudicato d’assassinio, fatto commettere appositamente e liberatosi mediante la multa di once mille”, e l’altra riferentesi al caso gravissimo del conte di Mussomeli, che turbò la cittadinanza palermitana e diede origine all’interdizione del regno, volendo l’Inquisitore “sostenere la giurisdizione del S. Tribunale esposta, come dice il Franchina, ad esser gravemente vilipesa”.  [...]».
 
Ed  il Garufi così illustra il caso che avrebbe coinvolto un fratello di Giovanni del Carretto, Giuseppe del Carretto: « [Dopo avere affrontato la vicenda del Ventimiglia] il rapporto  passa a parlare del fratello del conte di Racalmuto.
«Premetto che non è affatto a dubitare che il sistema di rappresaglia e soprattutto gli interessi materiali abbiano mosso gli Inquisitori a salvare don Giuseppe del Carretto, tramutato  per l’occasione in un misero commensale del fratello conte di Racalmuto “teniente de oficial” del S. Officio.
«Arrestato costui per una serie di gravi ed atroci delitti, a servirci dei termini usati dalla G. Corte, nel luogo della sua dimora, Messina, da cui foro giudiziario per le consuetudini della città non poteva esser distratto, gl’Inquisitori, a favorire il conte di Racalmuto che ne faceva una questione di decoro di famiglia o meglio di salvezza per il fratello, imbastirono le prove necessarie a dimostrare ch’egli era commensale di lui dimorante in Palermo, avendolo alimentato e mantenuto anche a sue spese a Messina: sotto lo specioso pretesto che il diritto di commensalità non si perde finché non sia intervenuta una regolare sentenza di magistrato.
 
«E giacché la G. Corte suggeriva di definire tale questione per via di consulta, secondo il Concordato dell’80, gli Inquisitori si rifiutarono dicendo:  che “di pieno diritto spettasse loro di giudicare se il del Carretto fosse o pur no commensale del fratello”.
 
«Affermato codesto principio con la sicumera di un diritto indiscusso, procedettero alle inibitorie ed alle scomuniche, e quindi fu necessario che la G. Corte sospendesse il processo, e il Viceré indirizzasse nuove proteste e nuovi reclami a Filippo II
«La moralità di tutta questa vertenza fu l’assoluzione di del Carretto con un mezzo molto simile a quello già fatto per il fratello di lui, conte di Racalmuto, condannato per assassinio ad una multa di mille fiorini.»
Confessiamo che le vicende ci appaiono piuttosto confuse. Propendiamo, comunque, per l’ipotesi che i due fatti siano interconnessi. Che per primo si ebbe a verificare l’incidente di Giuseppe del Carretto (sicuramente databile prima del 19 dicembre del 1589). La «mal’opera» che  Gasparo la Cannita - un personaggio importante se sta tanto a cuore al viceré Albadalista -  faceva  al conte Giovanni del Carretto riportando alcune sue opere, fu forse una pubblica accusa sul comportamento dell’arrogante conte di Racalmuto in occasione dell’intrigo giurisdizionale  del S. Officio contro la G. Corte per salvare l’omicida Giuseppe del Carretto. Altro che “gravi danni” inferti ai domini del Conte, come vorrebbero Tinebra Martorana ed Eugenio Messana. Dopo, si consuma l’orrida esecuzione del La Cannita, mandante Giovanni del Carretto. Quindi la reiterazione del gioco della competenza del foro per una sentenza di comodo.
 
Al conte Giovanni del Carretto - si sa - il crimine portò iella: il 5 maggio del 1608 cade a sua volta , folgorato con due schioppettate in pieno petto, in via Maqueda a Palermo.
 
Il figlio Girolamo del Carretto, se crediamo alle carte del sarcofago del Carmine, venne fatto fuori da un servo.
 
Morì il 1°[10] ( e non il 6 maggio) del 1622 all’età di appena 24 anni, 7 mesi e 3 giorni.
 
Il nipote Giovanni del Carretto finisce giustiziato nel regio Castello di Palermo il 26 febbraio 1650 (AURIA, Diario Palermitano), colpevole più di avventatezza e boria che di alto tradimento verso Filippo IV, re di Spagna.
 
Ma qual era la situazione di Giovanni del Carretto nel  1593, all’epoca del ‘Rivelo’?
A noi sembra, decisamente compromessa.
Un sintomo si coglie in un lavoro dell’epoca di un funzionario napoletano [11] che, parlando della nobiltà di Palermo e di Messina, ignora del tutto la famiglia del Carretto.
I documenti lo vorrebbero in carcere per tutto il decennio della fine del secolo XVI. Questo sembrerebbe di capire dalla sibillina frase del Di Giovanni:« e fatte le sue defensioni in sant’Officio, dopo dieci anni di travagli e gravissime spese fu liberato..». Ma forse ebbe solo il fastidio di un processo decennale. Libero, però; limitato tutt’al più nei suoi movimenti e costretto a dimorare in Palermo.
Nel processo n. 3542 del 1600 [12] , appare che Giovanni del Carretto, nel 1594, aveva potuto compiere tutte le procedure per assicurarsi l’investitura della terra di Cerami.

Avrebbe dovuto essere trattenuto in carcere, ma, sia pure tramite procuratori, riesce ad acquisire il titolo di barone di Cerami.

La presa del possesso di Racalmuto.

 
Veniamo innanzitutto a sapere che il primo don Girolamo del Carretto - quello che era riuscito a farsi rilasciare la patente di conte da Filippo II, facendogli magari credere che erano parenti alla lontana, per via delle pretesi origini sassoni dei del Carretto della originaria Liguria - aveva abbandonato il castello di Racalmuto, che pure aveva abbellito, e si era trasferito a Palermo.
Sappiamo che Girolamo, padre di Giovanni del Carretto, fu sepolto il 9 agosto XI indizione del 1583 nella chiesa di Santa Maria di Gesù fuori le mura di Palermo.
 
Defunto l’ex pretore di Palermo, il figlio Giovanni non ha il tempo - o la voglia - di recarsi a Racalmuto per prendere possesso della contea. Ne dà delega al parente agrigentino don Cesare del Carretto.
 
Eccone, in traduzione, l’atto di possesso:
«Atto di possesso - 8 agosto, XI^ indizione, 1583 -
«Si premette che il condam d. Girolamo del Carretto, conte della terra di Racalmuto, morì - come piacque a Dio - nella felice città di Palermo ed a lui successe - così come dovette e deve - nella contea predetta, per patto e provvidenza del principe, l’ill.mo don Giovanni del Carretto, in quanto figlio primogenito, legittimo e naturale, e successore in virtù dei suoi privilegi e degli altri atti e scritture.
 
«In relazione a ciò, nel predetto giorno,  lo spettabile don Cesare del Carretto della città di Agrigento - noto a me notaio, presente, innanzi a noi - come procuratore del prefato ill.mo signor don Giovanni, in forza della procura celebrata agli atti miei il giorno sette del presente mese, in virtù dei detti suoi privilegi ed anche dei relativi diritti, contratti e scritture,  con ogni miglior modo e forma, con i quali meglio e più utilmente poté essere detto, fatto e pensato, in favore e per l’utilità dello stesso illustrissimo signor don Giovanni come figlio primogenito ed indubitato successore per morte del prefato ill.mo signor don Girolamo del Carretto, suo padre, per patto e provvidenza del principe ed in forza dei suoi dei suoi privilegi ed in ogni miglior modo e nome e continuando nel possesso in cui fu ed è e per quanto occorra, il predetto procuratore prese e acquisì il reale, attuale, naturale, materiale, vacuo, libero e corrente possesso della detta terra di Racalmuto, della contea e dello stato della giurisdizione civile e criminale, nonché del mero e misto imperio e degli altri diritti ed universe pertinenze sue.
 
«E per me infrascritto notaio, ad istanza e richiesta dello spettabile procuratore predetto, fatte seriamente, lo stesso procuratore, per suo tramite ma in nome del delegante, è stato introdotto, posto ed immesso nello stesso possesso della predetta terra, contea e stato con tutti i singoli suoi diritti e le pertinenze universe, nonché nell’integrità dello stato, della giurisdizione  civile e criminale e nel mero e misto imperio, il tutto spettante alla detta contea in forza dei detti suoi privilegi ed altre scritture.
 
«E ciò per acquisizione delle chiavi del castello, con apertura e chiusura delle sue porte, entrando, uscendo e deambulando in esso castello e nelle sue stanze.
 
«Così come si è proceduto alla rimozione, destituzione e revoca dell’ufficio di castellanìa nella persona del magnifico Giovanni Bartolo Ciccarano, e dell’ufficio di secrezìa nella persona del magnifico Giovanni Antonio Piamontesi, dell’ufficio di capitano, giudice e maestro notaio nelle persone di magnifici Artale Tudisco, Nicolò di Monteleone e Rainero Fanara.
 
«E tanto si è fatto anche per i loro sostituti negli uffici della giurazìa nelle persone di mastro Martino Rizzo, Antonucio Morreali, Filippo Vaccari e Nicolò Capoblanco; e negli uffici di mastro notaro e dell’erario fiscale nelle persone di mastro Giacomo Puma e mastro Paolo Cacciaturi.
 
«Per nuova elezione e creazione negli uffici predetti, sono stati rinominati gli stessi ufficiali e gli stessi loro sostituti per beneplacito e sino ad altra nomina degli ufficiali in altra occasione o circostanza.
 
«Per la solenne celebrazione di un tale possesso ed a testimonianza di tale vero, reale, attuale, naturale e materiale possesso, ed a cautela del predetto ill.mo signor don Giovanni, viene redatto il presente strumento, corredato del timbro di avvaloramento, da me notaio Antonino de Gagliano, regio pubblico notaio di Cerami di questo Regno. L’atto viene rogato, in presenza di testimoni, e quindi registrato a suo tempo e luogo».
 
 
Il truce personaggio che fu don Giovanni del Carretto (il quarto della sua famiglia), se ebbe fretta a prendere possesso dell’eredità, appare poi in difficoltà quando deve prenderne l’investitura (con gli aggravi fiscali che comportava).
Ottiene due dilazioni e, finalmente, riesce a chiuderla questa fase dell’investitura, come da questa nota del citato processo:
«Messane die VI^ mensis Settembris XIII^ Ind. 1584  - prestitit juramentum [..]»
Giovanni del Carretto ereditò una caterva di beni, ma anche un’asfissiante massa di oneri, pesi e debiti.
 
 

I del Carretto a fine secolo XVI.

 
 
Tirando le somme, su Giovanni del Carretto il buon genitore Girolamo scaricava le doti di ‘paragio’ di otto sorelle e due fratelli.
 Poi, si aggiungeranno i carichi di un paio di figli ‘illegittimi’ e, naturalmente, l’eredità ab intestato per l’unico figlio legale, il conte di Racalmuto per antonomasia, Girolamo del Carretto.
Su quest’ultimo si abbatteranno i fendenti di una tale complessa situazione patrimoniale, carica di soggiogazioni anche per le tanti doti di ‘paragio’. Sarà stato per questo, ma si dà il caso che il giovane conte del Carretto, all’età di ventitré anni si spoglia di tutto, facendone donazione ai due figli Giovanni e Dorotea e nominando governatrice la moglie Beatrice e tutore il fratello (o fratellastro) don Vincenzo del Carretto, arciprete di Racalmuto.
Un anno dopo, il primo maggio 1622, Girolamo del Carretto dava l’anima a Dio.
Ma torniamo al 1593, l’anno del censimento. Il conte Giovanni del Carretto, non era di sicuro nel suo castello racalmutese.
Una nota di cronaca lo accosta alla morte del celebre poeta  Antonio Veneziano, nel crollo delle carceri del Santo Offizio.
«In questo stesso anno [1593]  - precisa un diarista [13] -  dì 19 di agosto. Fu posto fuoco alla monizione della polvere che era in Castell’a mare di Palermo: perilché quasi tutto il castello brugiò, e morirono più di 200 persone, la maggior parte carcerati; fra’ quali morì Antonio Veneziano poeta, Argistro Gioffredo, il baron di Sinagra, due maestri di sant’Agostino che andorno a mangiare con l’inquisitori, et altri cavalieri e plebei.
«Scamporno l’inquisitori, il conte di Racalmuto, il barone di Siculiana, il castellano ed altri. Ivi fu roina grande delle case del castello et delli palazzi d’inquisitori; et allora, uscendosi d’ivi, andorno a stare alla casa di Monetta.»
 
Che cosa vi stesse a fare Giovanni del Carretto, non è chiaro. Certo egli era «teniente de oficial» del Santo Ufficio, ma il presidente della Gran Corte Giovan Francesco Rao ed il viceré Albadalista erano riusciti ad ottenere da Filippo II che i nobili non potessero far parte dell’Inquisizione.
Non era quindi per ragioni di ufficio del suo ruolo nel tribunale inquisitoriale che potesse stare in quelle carceri. La vicenda che abbiamo prima sunteggiato può dunque spiegare il perché. Vi stava forse in quanto ‘carcerato’ seppure di riguardo [14]. Se è così, non poteva influire sull’andamento del rivelo di Racalmuto.
Che i guai di Giovanni del Carretto, per quell’efferata esecuzione di La Cannita, siano stati seri si desume dal fatto che dovette cedere il passo al fratello rampante, Aleramo del Carretto, nella carica di Pretore di Palermo.
I Diari [15] parlano del «pretore l’ill.mo sig. D. Aleramo del Carretto conte di Gagliano» sotto la data del 26 ottobre 1595, e narrano che l’11 aprile del 1596 costui, come pretore, ebbe a carcerare «tutti li mastri di piazza». Gli ascrivono poi a merito che in quel tempo «fece fare la scala nova della Corte del pretore e l’arcivo del capitano».
Giovanni del Carretto dovrà aspettare per tornare nel pubblico agone. Negli stessi Diari (pag. 142) lo incontriamo il 16 dicembre 1601, quando morì il Maqueda. Il feretro «andò alla chiesa maggiore sopra la lettiga. E lo portarono in spalla quattro titolati, che furono D. Francesco del Bosco duca di Misilmeri, D. Vincenzo di Bologna marchese di Marineo, il conte di Cammarata e quello di Racalmuto ..». Ultimo dei quattro, è vero, ma ci sta.
 
Giovanni del Carretto resta vedovo piuttosto presto di Beatrice Russo e Camulo di Cerami. Ha una relazione non ufficiale da cui - stando solo a ciò che è documentato - ha una figlia di nome Elisabetta.
Nella seconda metà dell’ultimo decennio del ‘500 la fa sposare con il nobile Girolamo Russo. A sua volta, il conte si risposa, piuttosto tardi, con Margherita Tagliavia di Favara, una potente famiglia che ci tiene a premettere al proprio cognome quello ancor più prestigioso di Aragona. Tutto fa pensare che il matrimonio sia stato celebrato nel 1596.
Il primogenito Girolamo del Carretto viene battezzato a Palermo il 28 ottobre 1597.
Dopo tante traversie giudiziarie e finanziarie, il conte è chiamato a reiterare l’investitura per la morte di Filippo II di Spagna (+ il 13/9/1598) Adempie il costoso rinnovo piuttosto tardi (difettava di liquidità?)  e presta giuramento il 18 settembre 1600. [16]
 
I del Carretto, dopo il trasferimento a Palermo, non amavano frequentare Racalmuto, almeno sino all’infelice Girolamo del Carretto, che, dopo l’uccisione del padre, nel 1606, venne  ricondotto, insieme alla sorella, dalla madre nell’avito castello (e secondo le carte del Carmelo vi trovò anche la morte nel 1622).
Il figlio, Giovanni, si ritrasferisce a Palermo per farvisi giustiziare - come detto - nel 1650. Dopo di che, la famiglia del Carretto prende stabile dimora nel nostro paese, praticamente sino alla sua estinzione (1710).
 
Finché i del Carretto si accontentarono del titolo di barone di Racalmuto, vi stettero proficuamente abbarbicati. L’ultimo barone, Giovanni, muore nel 1560 nel “castro” racalmutese e viene seppellito a S. Francesco.
Ecco la testimonianza resa da un maggiorente locale:
«Nob. Innocentius de Puma de terra Racalmuti, repertus hic presens testes,  juratus et interrogatus supra capitulo probatorio dicti memorialis, dixit tamen scire qualiter:
«in lo misi di gennaro prossimo passato in la ditta terra di Racalmuto vitti moriri a lo speciale don Jo: de Carretto, olim baruni di ditta terra, lo quali si andao et seppellio in la ecclesia di Santo Francisco di ista terra, a lo quali successi et restao in ditta baronia ipso spett. don Hieronimo ... come suo figlio primogenito legitimo et naturali,  et accussì tempore eius vitae lo vidio teneri,  trattari et reputari  per patri et figlio,  et cussì da tutti quelli ca lu havino canuxuto et canuxino  ... quia instituit vidit et audivit ut supra de loco et tempore ut supra».[17]
 
Dal 1564 comincia la documentazione della Matrice di Racalmuto: battesimi e qualche atto di matrimonio.  Piuttosto rada all’inizio, verso la fine del secolo s’infittisce. Le presenze importanti in paese, o per un battesimo o per far da teste o da padrino o madrina, possono dirsi tutte documentate.
 
Quanto ai del Carretto, un Baldassare viene a Racalmuto, con la moglie, per fare da compare e comare al figlio di un grosso personaggio: i Vuo. La solennità dell’evento viene così segnata:
«Adi 9 marzo VIe Indiz. 1593  - Diego figlio del s.or Gioseppi e Caterina di VUO fu batt.o per me don Michele Romano archipr.te - il Compare fu l'Ill'S.or Don Baldassaro del CARRETTO - la Commare l'Ill. S.ora Donna Maria del Carretto.»
 
Quattordici anni prima, il 4 novembre 1579 si era fatto vivo per un’analoga circostanza don Giuseppe del Carretto: la cerimonia riguarda il battesimo della figlia Porzia del magnifico “Arthali magn. Thodisco”. Infatti, il documento recita: “I padrini: ill.mo don Joseppi de lo Carretto et donna Anna de Carretto”.
Troppo poco, come si vede.
 
Ebbe ad attestarsi a Racalmuto, invece, il genero del conte Giovanni, il marito della figlia illegittima Elisabetta.

La fosca storia del chierico Vella

 
Sulle vicende del chierico Vella fornisce notizie Mons. De Gregorio:[18]
«Le controversie poi per la giurisdizione o esenzione ecclesiastica non erano infrequenti.
«A Racalmuto il chierico in  minoribus Jacopu Vella fu “infamato” della morte di un vassallo del Conte il quale lo fece arrestare e volle procedere contro di lui, nonostante monitori e censure, e per sottrarlo al vescovo lo fece prima portare nelle carceri di Palermo e poi in quelle di Agrigento.
«“In detta terra li preti e clerici non godono franchezza nixuna et per ordine del conte non si da la franchezza della gabella et mali imposti et comprano come li seculari denegandoli la franchezza.
«”In detta terra, essendo mandati Vincenzo Carusio, sollicitaturi fiscali, e Giuseppi Gatta commissario per prendere a notaro Oruntio Gualtieri, foro detenuti dalli uffiziali temporali, carzerati per molti giorni tenendoli  a lassari exequiri l’ordini contra detto prosecuto”.
«Nella stessa terra lungamente il conte contrastò con il vescovo e il capitolo per il diritto di spoglio alla morte dell’arciprete Michele Romano.»
*   *   *
Nei registri della Matrice si hanno, tra l’altro, notizie sulla morte del detto arciprete. Nel libro dei matrimoni del tempo si annota, ad esempio: «die 28 Julii X Ind. 1597. Incomensa lo conto delli inguaggiati dopo la morte del arciprete don Michele Romano.»

Il benefizio di Sant’Agata

 
 
Al Vescovo di Agrigento facevano dunque gola i beni dell’arciprete racalmutese.
Rimane ancora l’eco di un suo maneggio sui beni di S. Agata.
Non si  sa se nel 1596 sorgesse nel Beneficio di S. Agata una qualche omonima chiesa.  In uno studio del 1908 [19], F. M. Mirabella illustrava la figura di «Sebastiano Bagolino, Poeta latino ed erudito del Sec. XVI». Vi si parla anche dei difficili rapporti del poeta ed il vescovo di Agrigento Giovanni Horozco Covarrusias e Leyva di Toledo.
«Certo è che - si legge a pag. 188 - della sua traduzione [fatta dallo spagnolo in latino di alcune opere del vescovo] il Bagolino non si tenne adeguatamente compensato. Aveagli il vescovo fatto l'onore di ammetterlo alla sua mensa; aveva anche conferito a don Pietro Bagolino, fratello di lui, prima i beneficj di Santa Lucia e di S. Margherita in Castronovo, di S. Agata in Racalmuto, di S. Maria Maddalena in Naro, di S. Leonardo fuori le mura di Girgenti, e poi quello di S. Pietro nella stessa Girgenti col reddito annuo di 250 ducati. Ma questo al poeta non pareva un guiderdone condegno.»

IL MERO E MISTO IMPERIO

 
Nel 1582, nel testamento di don Girolamo del Carretto primo conte di Racalmuto, il lascito a Don Giovanni quarto comprende, senza ombra di equivoco, la contea di Racalmuto con il «..mero et misto imperio dicti comitatus ac titulo dicti comitatus aquisito  per dictum dom. testatorem ...».
Ma viste le successive contese, giocò forse il fatto che nel più importante privilegio di casa del Carretto - quello della sua erezione a contea con firma autografa di Filippo II di Spagna - latita un esplicito richiamo al mero e misto imperio, anche se non mancano le locuzioni equipollenti. [20]
Tra le varie clausole scegliamo questa (che traduciamo dal latino):
«Concesse e concede a Don Giovanni del Carretto, suo figlio primogenito, successore indubitato in detto stato, terra, titolo, feudi .. con le modalità specificate .. il predetto stato e contea di Racalmuto .. con tutti i suoi singoli feudi, gabelle, mercati, terre, terraggi, terraggioli, censi, servitù,  giurisdizioni civile e criminale, mero e misto imperio, con il titolo e la dignità di conte.»
Concetto che ritorna subito dopo: « Del pari, doniamo tutti ed integralmente i beni stabili e mobili, allodiali e burgensatici, redditi, diritti, censi e tutti gli altri diritti, .. nonché il detto stato di Racalmuto con tutti i singoli relativi feudi, gabelle, mercati, terre, terraggi feudali, giurisdizioni civile e criminale, nonché il “mero e misto imperio” con la dignità ed il titolo di conte...».
 
Nel Privilegium concessionis Comitatus Racalmuti in personam Don Hieronimi  de Carretto[21], dopo la buriana dell’esecuzione per alto tradimento dell’ultimo Giovanni del Carretto, il “mero e misto imperio” non si dubita neppure essere prerogativa della Contea di Racalmuto.
Il diploma regio è chiaro: «...il feudo, lo stato ed il titolo confiscati, doniamo, rimettiamo, con la nostra indulgenza, ed a te don Girolamo del Carretto e Branciforti doniamo di nuovo e concediamo, investendotene, il feudo e la contea di Racalmuto, con la sua terra, i suoi dominî, il vassallaggio e con tutti i suoi singoli feudi e territori, nonché la baronia come si dice di Gibillini e Fico, entro i loro confini, con le case, i mulini, i corsi  d’acqua, i boschi, e con tutte le altre singole cose della detta Contea e Baronia e relative pertinenze, comunque e dovunque inerenti, unitamente all’integrità dello stato con ogni sua causa e modo, nonché alla giurisdizione, il mero e misto imperio, la ’baglîa’, le gabelle, i censi e tutti gli universi singoli diritti a detta Contea e Baronia spettanti, con tutte le prerogative, dignità, preminenze e clausole come tuo padre e tuo nonno ed i tuoi antecessori legittimamente avevano avuto, tenuto e posseduto ... »
  
Resta ancora poco chiaro come venissero corrisposti i pesi feudali ai del Carretto, se in natura (come i termini “terraggio” e “terraggiolo” fanno pensare) o in contanti (come tanti atti dell’epoca lasciano intendere) o in forma mista.
 
Non vi erano solo i diritti feudali veri e propri, ma anche i beni allodiali della famiglia del Carretto, per la gran parte in mano ai rami cadetti (che erano soliti dimorare ad Agrigento) a motivo forse del dispersivo gioco del ‘paraggio’.
 
 

Lo stato di Racalmuto

 
Le terre dello stato di Racalmuto, soggette a vincolo feudale, non si estendevano per tutto il territorio extraurbano: un qualche rilievo di autonomia mostra intanto, come si è visto,  la contrada della Menta (sempre dei del Carretto) che talora viene denominata ‘feudo’. Sono dei del Carretto i fertili fondi di Garamoli, ma appaiono come terre allodiali.
Lo stato di Racalmuto parte dalla contrada di Cannatuni (come ai giorni nostri)  e da quel versante nord va verso ponente: coinvolge Santa Margaritella e Santa Maria di Gesù, arriva alle porte di Grotte (Rina o Scavo Morto); si diffonde nella fertile piana di Fico Amara o Fontanella della Fico; sale sulla Montagna; gira per Rocca Russa e per Bovo; annette una parte del Serrone (un altro versante è detto appartenere al feudo di Gibbillini); scende per Judio, Malati, Casalvecchio e Saracino,  annettendo le contrade di San Giuliano, Baruna[22] e Difisa; e chiude quindi l’irregolare circonferenza inerpicandosi per le contrade della Pernice fino a Quattro Finaiti.
Menta, Noce, Garamoli Roveto e Zaccanello sono pertinenze del feudo dei del Carretto, ma hanno una loro distinta configurazione.
Negli atti notarili non sempre è chiara la peculiarità feudale di queste terre dei del Carretto che talora vengono segnate come un distinto ‘feudo’ (fego della Menta o della Nuci), tal altra no, e comunque, come si è visto per l’indebitamento granario di don Federico del Carretto, restano talora attratte nell’intreccio delle doti di ‘paragio’ dei cadetti e delle figlie di quella famiglia.
L’importanza dei possedimenti di Garamoli si coglie da questa pagina della ‘Fabrica’[23] della Matrice del 1658.  La fiumara di Garamoli doveva essere contornata da un bosco  fitto con alberi ad alto fusto. Da lì si ricavava il legname per costruzione, fonte di grossi affari.
La famiglia Napoli, quella degli Alcello e l’altra dei Gueli fornivano maestranze specializzate, ben pagate per l’epoca.

Per coprire il tetto della Matrice occorrevano “burduna” di enormi proporzione. Si trovavano nel mezzo della fiumara di Garamoli. Per trarli fuori provvede la maestranza  ma soprattutto un nugolo di nerboruti facchini che vengono pagati in modo inconsueto: con salsicce e vino.

 

I beni ecclesiastici di Racalmuto.

 
Il singolare vescovo di Agrigento Horozco ebbe modo d’interessarsi delle finanze ecclesiastiche concernenti Racalmuto nella seconda “Relatio ad limina” della diocesi di Agrigento, datata 1599 (la prima è del 14 settembre, VIII^ ind. 1599[24]). Il vescovo dichiarava di essere affetto dalla sciatica «per la quale gli fù bisogno andare alli bagni » e pertanto non «hà possuto venire personalmente a baciar i piedi di Nostro Signore e visitare li santi Apostoli». Non era più suo fiduciario l’arciprete di Racalmuto don Alessandro Capoccio. Al suo posto aveva prescelto come suo mandatario per la visita tridentina al Papa Giovanni Chimia. Lo stato di infermità del vescovo veniva certificato da un appartenente all’odiata famiglia dei del Carretto, appunto da quel don Cesare del Carretto, preso di mira dall’Horozco nel libello prima cennato. Non si poteva evitare: il 17 di agosto 1598 il potente (e prepotente) don Cesare era “juratus civitatis Agrigenti” [cfr. Relatio cit. f.15].
Dalla documentazione vaticana risulta che la “Ecclesia Cathedralis Agrigentina” era in grado di “ingabellare”  9.500 onze di rendita diocesana. In via diretta o indiretta, Racalmuto è così chiamato in causa:
·     al 15° posto risulta censita la “prebenda di Racalmuto che vale di Mensa onze 130”;
·     tra i “Beneficij semplici de Mensa”, al n.° 3 viene rubricata “la prebenda Teologale [che] si dà al Teologo quale eligino il Vescovo ed il Capitulo: è titulo di Sta Agata [che sappiamo di Racalmuto, come sappiamo che talora il vescovo la utilizzava non per remunerare teologi ma il fratello di un letterato, per come abbiamo sopra visto, n.d.r]: [vale] onze 100;
·     l’arcipretura di Racalmuto è segnata al n° 12 e “vale de mensa onze 250”.
Tirando le somme, i racalmutesi a fine secolo XV erano chiamati per decime religiose e tasse episcopali a qualcosa come onze 480, senza naturalmente includervi tutti gli oneri di battesimo, matrimonio morte e simili, da conteggiare a parte. Era un gravame misurabile in tarì 3 e 5 grana annui pro-capite.
Ma, allora - come del resto anche oggi - le pubbliche autorità, civili e religiose, non amavano riscuotere direttamente le loro tasse: le davano in appalto (in gabella, recita il documento) e gli aggi esattoriali Dio solo sa a quanto ascendessero. Pensare ad un 25% d’aggravio è forse da ottimisti.

Giurati a Racalmuto a fine ’500

 
I giurati di Racalmuto allo spirare del secolo XVI sono:
1.   Nicolò Macaluso: ha 45 anni; abita nel centro del paese, al 159° fuoco del quartiere di S. Giuliano; la moglie si chiama Francesca ed è coadiuvata nei servizi di casa da Dora una “citella di casa”; non ha figli che coabitano con lui;
2.   Giuseppe Cacciatore: ha 42 anni e viene fregiato con il titolo di “magnifico”; abita al quartiere Fontana al 226° fuoco; la moglie si chiama Giovannella: convivono con lui quattro figli: Giuseppe di anni 11 e le femminucce Caterina, Franceschella e Contessella;
3.   Giuseppe Vilardo: ha 30 anni ed anche lui viene fregiato con il titolo di “magnifico”; abita al quartiere Fontana al 76° fuoco; la moglie si chiama Giovannella: convivono con lui sei figli: Giuseppe di anni 9 e le femminucce  Franceschella, Costanza, Innocenza, Angela  e  Fania [Epifania];
4.   il notaio Giuseppe Sauro e Grillo: ha solo 25 anni ed è sposato con Antonella: non ha figli; professionalmente si affermerà molto; frattanto abita al quartiere di S. Giuliano al 167°  fuoco; si era sposato a Racalmuto il 20 settembre 1592 appunto con  Antonella Magaluso e le nozze erano state benedette da don Francesco Nicastro: compari, il sac. don Paolino Paladino e il maggiorente Giovan Francesco d’Amella. Abbiamo l’impressione che il Sauro e Grillo non fosse racalmutese: il matrimonio con una locale gli poteva consentire di installarsi nel feudo dei del Carretto per una esplosiva carriera ed una fortunata professione notarile.
 
Sono chiamati a fungere da delegati per il Rivelo:
per il principale e più popoloso quartiere di Santa Margaritella:
·     Martino di Messina: ha 35 anni circa; abita al quartiere Fontana al 29° fuoco; la moglie si chiama Catherinella ed ha un figlio di otto anni;
·     Vincenzo di Amella Pridicaturi: ha 40 anni; abita al quartiere Santa Margaritella al 369° fuoco; la moglie si chiama Biatricella; ha tre figli maschi: Giuliano di anni 9, Giuseppe di 6 e Diego di un anno, ed una femminuccia,  Jurla [Gerlanda];
per il  quartiere di San Giuliano:
·     Giovanni Antonio Sferrazza: secondo noi risiedeva al quartiere Monte di cui, come detto, non abbiamo il quinterno di dati demografici;
e per il quartiere della Fontana:
·     Giovan Cola Capoblanco;
·     Natale Castrogiovanni;
·     Pietro Bellomo.
Di questi tre personaggi non abbiamo notizie certe: dovrebbero tutti e tre abitare al quartiere Monte.

 

 

Chiese, quartieri e facoltà nel rivelo del 1593

 
I ponderosi volumi del rivelo del 1593 non possono essere tutti minuziosamente setacciati, se non da una squadra di studiosi e con rilevanti mezzi economici. Dobbiamo quindi accontentarci di alcuni sommari cenni.
A quell’epoca la terra di Racalmuto era idealmente segnata da un sistema di assi cartesiani in cui l’ascissa era una linea ideale che dalla Guardia andava al Padre Eterno e l’ordinata (che all’atto pratico era una sequela di strade tortuose) partiva dal Carmine per giungere alla Fontana. Nel mezzo vi era di sicuro la chiesa di Santa Rosalia (sicuramente in prossimità dell’attuale Collegio, ma a quale punto non sembra che si possa individuare con certezza). In tale sistema la parte sud-ovest costituiva il popoloso quartiere di S. Margaritella; quella di sud-est il quartiere di S. Giuliano; l’altra di nord-est era la Fontana ed infine il quartiere del Monte occupava la sezione di nord-ovest.
All’interno vi erano località di spicco che negli atti ufficiali servivano per l’individuazione di case e beni: faceva spicco il rione di Santa Rosalia che in effetti risultava inglobato prevalentemente nel quartiere di San Giuliano ma una minima parte debordava in quello di S. Margaritella. Santa Rosalia - che talora veniva chiamata S. Rosana o S. Rosanna o S. Rosaria, non si capisce bene se per errata trascrizione o per omonimia popolare o per la presenza nella chiesa di qualche altra immagine della celeberrima Vergine Sinibaldi - ospitava tanti personaggi cospicui. Esclusivo appare anche il rione di S. Agata.

Località e Rioni

 
La suddivisione amministrativa tra i deputati era in quattro quartieri: S. Margaritella, S. Giuliano, Fontana e Monte. Nelle dichiarazione dei privati (rivelanti) e negli atti notarili si faceva invece ricorso ad una ripartizione topografica alquanto diversa che faceva sostanzialmente capo alle varie chiese e qualche volta alle particolarità di alcuni luoghi. Non si trattava di veri e propri rioni, ma il concetto vi rassomiglia molto. Abbiamo, così:


·     il Carmine;
·     S. Margaritella;
·     S. Giuliano;
·     S. Leonardo;
·     la Fontana;
·     il Castello (o Castrum);
·     S. Francesco;
·     S. Nicola;
·     la Cava;
·     Santa Maria;
·     li Fossi;
·     San Gregorio;
·     S.Antonio;
·     la Nunciata;
·     il Monte (lu Munti);
·     lu Spitali o S. Sebastiano o S. Bastianu;
·     la Piazza (o Platea);
·     Santa Rosalia;
·     Sant’Agata;
·     li Bottighelle;
·     Zagarano..


 

Molte di queste località si estendevano in due e forse, come nel caso di Santa Rosalia, in tutti e quattro i quartieri.

 

Centro topografico del paese era Santa Rosalia - difficilmente collocabile con estrema decisione, ma certamente - come detto -  non lontano dall’asse Itria-Collegio - che era quartiere ove stavano botteghe e le abitazioni di alcuni ottimati locali (il padre di Marc’Antonio Alaimo, il dott. Pietro; i Macaluso; i Taibi; i Lo Brutto; i Sanguineo; gli Afflitto, i Monteleone; i Cacciatore; i Catalano e via dicendo). Ma il rione più esclusivo sembra quello di S.Agata (gravitante sull’attuale via Rapisardi): vi abitavano i potenti Piamontesi ed i nobili Ugo.

 

Molti militari stavano invece al Monte. Non molte erano le case ‘solerate’ - quelle dei benestanti - ma non rare: in cortili a grosso affollamento si ammassavano attorno le case terrane  (di norma un solo locale) ove dimoravano i poveri.

Le maestranze riuscivano a farsi soggiogare dalle potenti confraternite di appartenenza delle discrete abitazioni. Le botteghe (c.d. Apoteghe) erano in mano  alle stesse confraternite e venivano affittate con magniloquenti atti notarili ai propri confratelli.

 

Il castello - rimesso a nuovo a metà del XV secolo dai del Carretto, come abbiamo sopra visto - era in piena efficienza: non vi stavano più i conti, ma vi erano alcuni loro stretti parenti che gestivano la cosa pubblica come avvenne sotto i Russo il marito della figlia spuria di Giovanni del Carretto.

 

Il Carmine era piuttosto deserto: del tutto fuori dell’abitato si ergeva il Convento sotto l’egida dei del Carretto e con un valido priore padre Paolo Fanara. C’era anche un altro carmelitano sacerdote: padre Roberto Costa. Ben sei coadiutori semplici frati rendevano fertile la tenuta annessa. Costoro si chiamavano (e dal cognome sembra che fossero tutti racalmutesi): Fra Salvatore Riccio; Fra Francesco Sferrazza; fra Angelo Casuccio; fra Geremia Russo; fra Giuseppe Ragusa e fra Zaccaria Riccio. Le rade case intorno erano ripartite tra il quartiere di S. Margaritella e quello del Monte.

 

Rientravano totalmente nel quartiere Monte i rioni dello Spitali (l’attuale S. Giovanni di Dio), di S. Antonio, Zagarano e quello strettamente confinante con la chiesa. Vi confluivano parzialmente quelli di S. Rosalia, della Nunciata e di San Gregorio.

Erano annessi  amministrativamente al quartiere della Fontana le località di S. Agata, della Fontana vera e proprio, del Castello, di San Francesco, di S. Nicola, di Santa Maria, delle Fosse e qualche frangia di Santa Rosalia. Qualche abitante di San Gregorio viene incluso alla Fontana. 

Il nome della Nunciata appare a cavallo tra Monte e  Fontana.

Se nel 1540 quella dell’Annunciata era una ‘ecclesiola’ e Sant’Antonio la chiesa principale; dopo mezzo secolo le parti sembrano invertite. L’Annunciata non ha la grandezza dell’attuale Matrice (che conseguirà nella seconda metà del Seicento) ma è già abbastanza capiente con una ‘cupolona’, come recita un atto notarile del tempo.

Fino al 1608 S. Antonio era ancora operante ma il suo ruolo era di molto scemato. Persisteva comunque il toponimo che, come abbiamo detto, indicava una zona gravitante sul quartiere del Monte.

 

Lo Spitale era operante nel 1593 quando ancora non era stato affidato ai Fatebenefratelli. Tale affidamento avvenne un secolo dopo nel 1693[25] per opera dell’ultimo Girolamo del Carretto. Ma godeva già di rendite. Tale Giovanna Vigni aveva soggiogato all’Ospedale due case per tarì sei annui con atto del notaio Gio: Vito d’Amella del 10 settembre 1585[26].

 

Giuseppe Gulpi gli aveva costituito un’onza e 15 tarì di rendita sopra 9 salme di terra  con vigne, stanze ed alberi nel fego della Menta con due atti soggiogatori: uno del notaio Gacomo Damiano di Racalmuto in data 24 ottobre 1551 e l’altro a rogito del notaio Nicolò Monteleone in data 29 dicembre 1582. [27]

 

Un altro atto di dotazione dello Ospedale risale al 10 gennaio 1558, sempre a gli atti del notaio  Giacomo Damiano. Risultavano incisi quasi due secoli dopo  “Santo Cristofalo, Vincenzo e Marc’Antonio di Giglia e Isidoro Mulé Paruzzo”.

 

Nel 1693 ecco com’era descritto il vetusto ospedale:

«Nella terra di Racalmuto vi è un Spedale sotto titolo di S: Sebastiano che dall’antichità di esso non si ha certezza della fondazione e perciò li Prelati ... [ed i del Carretto] have dato la cura ed amministrazione di detto Spedale, e sue rendite alli Deputati di tutte le Chiese di detta terra, li quali, benché s’havessero impiegato à tutto potere all’augumento di Esso, e suo servizio, per le molte occupazioni, e per la poco prattica con esse somiglianti, l’Ammalati patiscono della loro salute in tanto detrimento del publico di essa terra.»[28]

L’ospedale era peraltro munito di “chiesa con giogali ed arnesi”.


Qualche immigrato di spicco


 

Capitava che dalle vicinanze venisse qualche persona di spicco per trovare moglie a Racalmuto. Ebbero così inizio famiglie oggi fra le più significative del paese. Dal libro dei matrimoni della Matrice estraiamo qualche esempio:

SAVATTERI (provenienza: Mussomeli)


7 7bris XIIIe Ind.nis 1586 - Vincenzo figlio di Vito et Angila Carlino cum    Margaritella figlio di Paulino et Belladonna SAVATERI dilla terra di Mussumeli, servatis  servandis et facti li tri denunciatione inter missarum solenia  et observato l'ordine sinodali et consilio tredentino, non si trovando inpedimento alcuno, contrassero matrimonio pp.ce in  facie ecclesie et foro beneditti nella missa celebrata per me  presti Francesco Nicastro, presenti li magnifici notari Cola et Gasparo Montiliuni et notaro Jo:Vito D'Amella et di multa quantità di personj”.

 

BUSCEMI (provenienza: Agrigento)


Die 6 di Jongno 1593 - Petro BUXEMI di la gitati di Jorgenti  cum Margaritella figlia di Jacubo di Graci, servatis servandis  .... contraessiro matrimonio pp.ce e foro benediti per me don  Paolino Paladino, presento presbiter Francesco di Nicastro, don Michele Romano e multa quantità di agenti”. 

 

SCHILLACI (provenienza: Cerami)


Die 9 februarij 1591 - Vincenzo SCHILLACI di la terra di Cirami cum Angila figlia di Calogiaro Savuso, servatis servandis ...., contrassiso matrimonio pp.ce e foro beneditti  per don Paolino Paladino, presenti Paulino Buscarino et Antonino di Mole' et multa quantità di genti”.  

 

SCHILLACI (provenienza: Sutera)  

Die 21 di Jongno 1593 - Scipiuni Jngrao di li Grutti cum Joanedda SCYLACHI di la terra di Sutera, servatis servandis e fatte le tri denunciationi inter missarum solemnia, non si  trovando inpedimento alcono, contra essiro matrimonio pp.ce e foro beneditti per me don Paolino Paladino, presenti clerico Jacubo di Avedda e multa quantità d'agenti”.

 

 

RIZZO (provenienza: Scicli)


 Die 30 Januarii 1600 - Antonino RICZO di la terra di Xicli  cum Diana figlia di lu q.dam Minicu et Margarita Muraturi, servatis servandis et facti li tri denunciationi inter missarum solemniarum et observato l'ordini sinodali seu concilio tridentino, non si trovando impedimento alcuno, contrassiro matrimonio publice et in facie ecclesie foro benedicti per don Leonardo Spalletta, p.nti Filippo di Graci e Francesco Furesta”.

 

BONGIORNO (provenienza: Gangi)  


Die 6 di ferbaro 1583 - Vicenso BONJORNO di Ganci con Contissa figlia di Petro e Joannella di Antonuczo Caldararo di  Agro', a litre (lettera) di monsignore illustrissimo e  reverendissimo di Jurgenti, servatis servandis e facte li tre denunciaczioni, la prima a li 9 la 2a a li 16 e la tercza a li  20 di Jnaro inter missarum solemnia, non si trovando   inpedimento alcono contraessiro matrimonio pp.ce in facie ecclesie e foru benediti jn la missa celebrata per me don Paolino Paladino, presenti lu magnifico Jacubo Piyamontisi, lu  magnifico Cola Montiliuni, lu magnifico Marino Catalano e multa quantitati di agenti

 

PIAZZA (provenienza: Mussomeli)


Die 8 Januarii  1594 - Minico di CHIACZA di la terra di Musumeli con Josepa di Vinciguerra, servatis servandis ..., contra essiro matrimonio pp.ce et foro benediti per me don  Paulino Paladino, p.nti Mastro Francesco Sachineo, clerico Jacubo d'Aveda e multa quantità  di agenti”.                     

 

LO JACONO (provenienza: Aidone)


 Die XVo Julii Xe ind.is 1589 - Mastro Masi La Iacono della terra di Daiduni cum Lucretia figlia di Antonj et Hiaronima di Guarino, servatis servandis .... contrassero matrimonio pp.ce in facie ecclesie e foro beneditti per presbiter Leonardo  Spalletta, p.nti Ioanni di Vigna et Hieronimo Piruchio et  multa quantità di genti”.

 

 


Uomini e cose da segnalare


 

A Racalmuto sono stanziati come soldati di professione:

1.   Salvo (de) Mg. Ruggero, soldato anni 45, che abita al Monte;

2.   Morriali Antonino di Federico, soldato di cavallo, di anni 75, pure del quartiere Monte;

3.   Buxemi Currau anni 35, soldato, abitante anche lui al Monte;

4.   Barberi Petro anni 50; soldato cavallo, sempre del quartiere Monte;

5.   Matina (la) Gio, soldato di anni 70, residente nello stesso quartiere;

6.   Morriali Federico anni 40; soldato, vicino di casa;

7.   Sferrazza Mariano soldato di anni 22, che abita nel quartiere di S. Antonio.

 

In paese, a fine del secolo XVI, non è del tutto ignota la schiavitù.  Il magnifico Giacomo Piamontisi di anni 44 e sua moglie Beatricella tengono una “scava” nella loro abitazione di S. Agata.

La loro vicina Antonella, vedova del quondam Leonardo La Licata, ricchissimo per i suoi tempi, emula il singolare rapporto e tiene “Cristina sua serva seu scava” a farle compagnia.

Del resto a quei tempi anche l’altezzosa donna Aldonza del Carretto manteneva una schiava addirittura dentro il convento che l’ospitava.

Sono invece ben 17 le famiglie che possono permettersi una “citella”, una serva:

1.    AFFLITTO (D')  CARLO MAGNIFICO

2.    AGRO'(DI) PETRO

3.    ALAIMO (DI) LU M.co PETRO

4.    BALDUNI M.co FRANCESCO

5.    CATHALANO MICHELI

6.    CHICCARANO ANTONINO

7.    GUELI (DI) JOSEPPI

8.    GUELI (DE) GIUSEPPE DI JORLANDO DI ANNI 29

9.    LA LOMIA JOSEPPI

10. MACALUSO NICOLAO

11. MACALUSO PETRO

12. MONTILIUNI Not. Mco COLA

13. PAXUTA (LA) MATTHEO

14. PROMONTORO BALDASSARE LO S.r

15. SALERNO JO:

16. TODISCO Sp. ARTALI

17.TODISCO Sra SALVAGIA

 

1.    Sul finire del secolo piuttosto diffuse sono le maestranze: abbiamo contato  52 mastri (il 4,11% dei fuochi). Non sono tantissimi ma rappresentano sempre una discreta forza sociale, anche se “li jurnatara” e li “burgisi” (per la gran parte contadini poveri) costituiscono la massa della popolazione, a sfondo quindi proletario e spesso miserabile. Cinquantadue sono i “mastri”.


Fine di Giovanni IV del Carretto


 

 

Giovanni IV del Carretto fu trucidato in Palermo nel 1608: tanti diaristi annotarono quel fosco delitto.

La cronaca, fra l’altro, la troviamo nei Diari della Città di Palermo, pubblicati nel 1869 da Gioacchino di Marzo. [29] Eccola:

 

«A 5 di  maggio 1608, Lunedì sera, a ora una di notte. In questa città di Palermo, nella strada Macheda, alla calata a mano dritta dove si va alli Ferrari, successi uno orrendo caso, che venendo in cocchio lu ill.e conte di Racalmuto, chiamato D. Ioanni del Carretto, insemi con un altro gentilomo nominato D. Ioanni Bonaiuto (quali sempre era solito di andare con lui), come fu alla detta strata, ci accostorno dui omini, li quali non si conoscêro, allo palafango [parafango]di detto; e ci tirarono dui scopettonate nel petto a detto conti, chi a mala pena potti invocare il nome di Jesù, con gran spavento di quello che era con detto conti, e con gran maraviglia di tutti li agenti; e finìo.

 

« A 7 detto, mercori, ad uri 22. Si gittao un bando arduissimo della morti del ditto conti di Racalmuto: chi cui sapissi o rivilassi cui avissi occiso a detto conti, S.E. li donava scuti cincocento, dudici spatati, quattro testi, sei destinati [nota del di Marzo: .. non è agevole intendere il significato di spatati e testi, che davansi in premio a chi rivelasse.

 

«De’ sei destinati però (qual voce in siciliano vale esuli, relegati) intendo facilmente, che accordavasi facoltà al denunziante di ottenere per sei di loro la grazia del ritorno], purché non sia lu principali ci avissi fatto  detto delitto, et anco la grazia di S. M.».

 

Ci dispiace per il nostro Tinebra Martorana: è del tutto destituita di fondamento la notizia che riporta a pag. 123 e cioè: «..il conte di Racalmuto tornava al suo castello, seguendo con la sua carrozza la via che attraversa la contrada Ferraro, sita nel nostro territorio ed a quattro chilometri dal Comune.»

 

 Nello stesso Diario, pubblicato dal di Marzo (pag. 30-31),  leggesi che successivamente:

 

 «A 20 ottobre 1608. Fu martoriato il sig. Baruni dello Summatino. Lo primo iorno happi quattro tratti di corda, e lo secundo tre, ed il terzo dui, e li sùccari [Sùccari in sic. canape o fune, con cui si collava, ed era proprio per uso della tortura. Colla ] soliti; e tinni [intendi che tenne forte a non confessare]: avendo stato carcerato del mese di agusto passato.

 

«E fu perché il giorno che sindi andâli galeri di Franza, andando Scagliuni a vidiri cui era supra detti galeri, trovao uno calabrisi quali era di Paula, e travovauci certi faldetti che avia arrubati allo Casali.

 

«E pigliandolo, ci disse, che non ci facissero nenti, ché isso volìa mettiri in chiaro uno grandissimo caso.

 

«E cussì Scagliuni ci lo promisi; et isso dissi, che isso con il sig. D. Petro Migliazzo aviano tirato li scupittunati al conti di Racalmuto, essendoci ancora in loro compagnia  alli cantoneri il sig. D. Petro e il sig. D. Vincenzo Settimo; e che il detto di Migliazzo avia tirato il primo; e che il baroni del Summatino ci avea promesso onzi cento per fari detto caso. E chiamao ancora diversi personi».

 

 

In una pubblicazione dell’Archivio di Stato di Palermo [30] vengono fornite notizie sulla dovizia di documenti relativi al processo del presunto mandante dell’omicidio del conte Giovanni del Carretto. Sono documenti che si trovano  nell’ «Archivo General» di Simancas.

In quegli Archivi che un tempo erano a Simancas v’è dunque il seguito della storia. Sembrerebbe un delitto in famiglia: gli Isfar sono poi gli eredi di quel genero di Giovanni I del Carretto che a dire del Bresc lo avrebbe depredato dei feudi racalmutesi; a distanza di due secoli un altro Isfar avrebbe trucidato Giovanni IV del Carretto, evidentemente per interessi.

Ma è storia di famiglia che a noi non importa gran che. E’ in definitiva storia della nobiltà palermitana, verso cui nutriamo altrettanta indifferenza.

 

L’arciprete don Vincenzo del Carretto e la questione del terraggiolo


 

 

Don Vincenzo del Carretto ebbe comunque modo di interessarsi alla scottante questione del terraggio e del terraggiolo. Se ne è parlato sopra: vi ritorniamo per la rilevanza di quei gravami feudali. Nel 1609, l’arciprete pensa che una trasformazione del tributo comitale da annuale e circoscritto ai coltivatori di terre nello stato e fuori dello stato di Racalmuto in una rendita perpetua di un capitale costituita da un’imposizione generalizzata su tutti gli abitanti, possa finalmente dirimere e chiudere le annose controversie. Pensa ad un’imposta straordinaria di 34.000 scudi che al saggio allora corrente del 7% potevano fruttare  2.380 scudi, sicuramente molto di più di quel che rendeva l’invisa tassazione tradizionale.

 

Non sappiamo se l’idea fosse buona o iniqua; sappiamo però che fu un fallimento. Sembra che vi sia stata una fuga di vassalli (soprattutto mastri e gente che non aveva terra da coltivare); gli abitati feudali vicini (Grotte, in testa) furono ben lieti di raccogliere quei profughi  che non vollero essere tartassati. Anziché l’imposizione dell’intero capitale, si tentò allora di ripartire i soli frutti pari a 2.380 scudi ma annualmente. Anche questa via fallì. Nel 1613, il vigile tutore e futuro suocero di Girolamo II pensò bene di ritornare all’antico, ai patti stipulati nel 1580, di cui abbiamo già detto. Altro che frate Evodio o Odio che dir si voglia; altro che insinuazioni sacrileghe alla Sciascia. Ci ripetiamo, ma è pagina di storia, di microstoria se si vuole, che va riproposta con il debito rispetto della verità, senza spumeggiamenti anticlericali.

In una memoria del 1738 [31], quando lo stato di Racalmuto era stato arraffato dai duchi di Valverde, i Caetani, la vicenda del terraggio e del terraggiolo racalmutese ci pare molto bene inquadrata.

 

Ancora nel 1738 i possessori dello stato di Racalmuto avevano il diritto di esigere dai vassalli, che coltivavano terre fuori del territorio, il terraggiolo nella misura di due salme per ogni salma di terra coltivata, sia che si trattasse di secolari sia che si trattasse di ecclesiastici. Il diritto si originava dalla transazione del 1580 intercorsa tra il conte ed il popolo. Era stata una transazione che aveva dimezzato la misura del terraggiolo (da quattro a due salme di frumento per ogni salma di terra coltivata).

 

Nel 1609 c’era stata la riforma che abbiamo prima specificata. Ma poiché fuggirono da Racalmuto oltre 700 famiglie, nel 1613 si ritenne di tornare all’antico.

 

 

La questione si risolleva nel 1716, quando D. Luigi Gaetano sanzionò la ridotta misura di due salme per salma relativamente al terraggiolo.

Vi fu un ricorso presso la Magna Curia datato 23 settembre 1716. Il fatto era che il Monastero di San Martino pretendeva l’esonero dal terraggiolo per i racalmutesi che andavano a coltivare i feudi benedettini di Milocca, Cimicìa e Aquilia. Ma questa è faccenda che esula dai limiti di questo studio. In calce il documento in latino per l’eventuale curioso.

 

Il 1613 è dunque data importante per la storia del terraggiolo (e terraggio) di Racalmuto; quasi contemporaneamente (nel 1614) il giovanissimo conte Girolamo II concordava con l’agostiniano di S. Adriano, fra Evodio, la fondazione del convento di San Giuliano. Due vicende distinte e separate: non interrelazionabili. Una era di natura fiscale, un bene accolto ritorno all’antico; l’altra aveva un profondo significato religioso, era un segno della pia devozione del giovane conte, sorgeva un cenobio tanto a cuore dei racalmutesi sino alla sua estinzione verso la fine del Settecento: gli agostiniani furono confessori di fiducia di tanti peccatori incalliti che non mancarono certo a Racalmuto.

Le note sciasciane stridono con siffatte vicende che una sia pur superficiale lettura dei documenti rende incontrovertibili.

Fra Diego La Matina (secondo noi).


 

 

Un anno prima della morte di Girolamo II del Carretto, nasce fra Diego la Matina. Era il 1621 (e non il 1622, come vorrebbe Sciascia e come disinvoltamente si continua a scrivere).

Trattasi del povero fraticello dell’ordine centerupino dei sedicenti  riformati di S. Agostino. Ebbe la sventura di finire in un convento che già nel 1667 ([32]) si tentava di scardinare, almeno in quel di Racalmuto, per disposizione vescovile. Visse da brigante ma finì sul rogo a S.Erasmo in Palermo per un atto inconsulto di rabbia omicida. Morì con ignominia, ma da tre secoli e mezzo non trova più pace, oggetto di mistificazioni, magari letterariamente sublimi, ma sempre mistificazioni.

 

Lo si dice di Racalmuto, sol perché di sfuggita tale lo indica il suo accusatore inquisitoriale. Gli si attribuisce un atto di battesimo rinvenuto nei registri dell’Archivio della locale Matrice, ma per una imperdonabile svista lo si fa nascere un anno dopo: nel 1622 anziché nel 1621 (ovviamente per scarsa consuetudine con le datazioni indizionarie, ché diversamente si sarebbe saputo che la chiara indicazione della quarta indizione corrispondeva appunto al 1621). E dire che in tal modo tornava l’età di 35 anni assegnata al La Matina dal Matranga per il tragico anno della fine raccapricciante del frate, avvenuta nel 1656. Ma lungi da noi il sospetto che in tal modo Sciascia non avrebbe potuto irridere ai vezzi astrologici del Padre Matranga ([33]).

 

Lo si vuole ad ogni costo di ‘tenace concetto’ in materia di fede per farne un martire del pensiero e si trascura quanto l’inquisitore Matranga dice circa i vagabondaggi ed i ladroneschi del monaco agostiniano: scrive da cane il frate della Santa Inquisizione - si dice - ma se deve definire il valore dell’eretico frate racalmutese “la penna gli si affina, gli si fa precisa ed efficace”. E così a Racalmuto è ora ‘fino’ attribuire a qualcuno - a proposito e non - quella locuzione matranghesca.

 

Si deve credere all’Inquisitore quando si arrabatta nel retorico addebito al frate di colpe dello spirito (bestemmiatore ereticale, dispreggiatore delle Sagre Imagini, e de’ Sagramenti  .. superstizioso ... empio ... sacrilego .. eretico non solo, e Dommatista, ma di sfacciatissime innumerabili eresie svirgognato, e perfido difensore). Non è invece più consentito dargli ascolto quando accenna alle tendenze di fra Diego a vivere da ‘fuoriscito, e scorridore di campagna, in abito secolaresco’ tanto da finire nella maglie della giustizia ‘laicale’.  Ora il nostro grande Sciascia ama fare lo ‘sprovveduto’ e risponde di no al quesito: «se nell’anno 1644, in Sicilia, un individuo pervenuto al secondo degli ordini maggiori ma dedito a scorrere le campagne in abito secolaresco, dedito cioè ai furti e alle grassazioni, potesse invocare, una volta catturato dalla giustizia ordinaria, il foro del Sant’Uffizio; o dalla  giustizia ordinaria essere rimesso al Sant’Uffizio come a foro a lui competente; o dal Sant’Uffizio, per uguale considerazione, essere sottratto alla giustizia ordinaria.»

 

Di questi tempi bazzichiamo l’archivio segreto del Vaticano alla ricerca delle notizie sul vescovo spagnolo di Agrigento Horozco Cavarruvias y Leyva, finito all’indice nel 1602 per avere scritto un’operetta in latino, ove malaccortamente il  presule si era sbilanciato ai fogli dal 119 al 230 «in diverse figure et proposizioni» risultate indigeste alla potente e prepotente famiglia dei del Porto del capoluogo agrigentino. ([34]) Da un contesto di canonici libertini e concubini, maneggioni e corrotti, affiora la figura di un canonico cantore e dottore, imposto dalla curia papale per l’esercizio della giustizia della lontana diocesi di Sicilia. Non è personaggio gradevole, ma della giustizia del suo tempo - che è poi tanto prossimo a quello messo sotto accusa da Sciascia - doveva pure intendersene. Dalle sue ruffianesche relazioni alla Congregazione sopra i vescovi ci va di stralciare questo illuminante passo: «Nella Diocese, che è molto grande, vi sono molti chierici, e molti di essi si sono ordenati per godere il foro ecclesiastico, già che alcuni hanno chi trenta e chi quaranta anni e chi più, et hanno il modo ed habilità per ordenarsi, e tutta volta non si ordinano, e quel che è peggio ogni dì ci fanno incontrare con li superiori temporali e laici per defenderli delli errori che commettono e disordini che fanno, vorrei sapere se conviene à costoro assegnarci un tempo conveniente acciò si ordinino, e, non lo facendo, dechiararli non essere più del foro ecclesiastico che sarebbe liberarsi da molti inconvenienti.» ([35]).

 

Alla luce di queste considerazioni coeve, ci pare che al quesito posto da Leonardo Sciascia sembra doversi dare una risposta del tutto opposta a quella data dallo scrittore.

 

Un contemporaneo ebbe, pure, ad interessarsi di fra Diego, il dottor Auria di Palermo nei suoi notissimi diari di Palermo. Sciascia lo segnala «come uomo talmente intrigato al Sant’Uffizio, e così ben visto dagli inquisitori, che era riuscito a far diventare eresia l’affermazione che il beato Agostino Novello fosse nato a Termini». Quel dottore acquista, però, tutta intera la fiducia quando ci vuol far credere che il frate di Racalmuto sia finito nel 1647 (a ventisei anni) tra le grinfie dell’Inquisizione essendogli stato trovato nelle “sacchette” “un libro scritto di sua mano con molti spropositi ereticali”. Ma di un tal crimine - veramente grave per l’Inquisizione - l’accusatore Matranga tace. Per Sciascia, l’accorto Inquisitore avrebbe taciuto «ché sarebbe apparso strano il fatto che un “ladro di passo” avesse scritto un libro». E dire che gli sarebbe tornato tanto comodo, potendo, per di più, evitare l’imbarazzo di doversi arrampicare per gli specchi al fine di conclamare la competenza del Sant’Ufficio.

 

Lo scrittore di Racalmuto cercò quel libro per tutta la vita: non ebbe fortuna. «Volentieri - scrisse con tocco blasfemo - [si sarebbe dato] al diavolo con una polisa, avesse potuto avere quel libro che fra Diego scrisse di sua mano con mille spropositi ereticali, ma senza discorso e pieno di mille ignoranze». Credette che «gli atti del processo, e il libro scritto di sua mano agli atti alligato come corpus delicti, si consumarono tra le fiamme, nel cortile interno dello Steri, il Venerdì 27 giugno del 1783».

 

 

Molto più semplicemente, invece, se un libro eretico fosse stato rinvenuto, sarebbe stato bruciato con tanto d’intervento della Sacra Congregazione dell’Indice. Ma Diego La Matina - erculeo, sanguigno, ‘ladro di passo’, appena ventiseienne - non pare tipo da scrivere libri. Arriva al secondo degli ordini maggiori, il diaconato: è quindi ad un passo dal sacerdozio che, tra messe e prebende, era all’epoca anche un invidiabile traguardo economico. Non procede, però: si ferma ed a ventitré anni si dà alla macchia da ‘fuoriuscito’ e diviene ‘scorridor di campagna, in abito secolaresco’. Sembrerà un’amenità, ma non lo è: la fuga dal convento di S. Giuliano per l’avventura palermitana sarà stata una fuga dallo scarso cibo del convento (e dalla dura disciplina) con cui il gigantesco giovanottone, tutto appetito (in ogni senso) e scarso cervello (non è in grado di approdare al terzo ordine maggiore), non riesce a convivere. Per rendersene conto, basta scorrere la rigida regola degli agostiniani del tempo.

Allora, essere sorpresi a “scorridar campagne” non era una bazzecola. Sempre in Vaticano, tra gli atti del processo di beatificazione del contemporaneo p. Lanuza, gesuita, si rinviene la descrizione di un evento che si attaglia al caso nostro.

 Alcuni compagni di religione del padre La Nuza, dagli altisonanti nomi aristocratici, battevano le campagne dell’Alcantara, in Messina, per loro cosiddette Missioni che erano poi qualcosa di molto simile alle nostre predicazioni del mese mariano. Si imbatterono in briganti di passo, alla fin fine benevoli con loro, a riverbero della fama di santità del celebre padre La Nuza. Presero, sì, qualcosa, ma i padri, in cambio di una solenne promessa di non sporgere denuncia alcuna, ebbero salva la vita. I gesuiti non mantennero la promessa. Appena incontrati i militari di pattuglia, rivelarono la loro avventura. La caccia all’uomo fu immediata e proficua. I ‘ladri di passo’ ebbero subito segnata la loro sorte: furono senza indugio giustiziati sul posto. ([36])

Il latrocinio di passo era crimine da condanna a morte. E tale rimase anche ai primi dell’ottocento, sotto i Borboni, ad Inquisizione cessata, pur dopo lo scioglimento del Sant’Uffizio da parte del conclamato Marchese Caracciolo. Negli archivi della Matrice di Racalmuto leggesi un atto di morte di un brigante datosi alla macchia (così ce lo accredita Eugenio Napoleone Messana) che desta tuttora grande raccapriccio: era il 23 novembre 1811 ed il ‘miserandus’ - un uomo di 42 anni - «susceptis sacramentis penitentiae et viatici, necato capite multatus a Tribunali nostrae regiae Curiae Criminalis, animam in patibulo expiravit, in medio plateae et resecatis capite et manibus: corpus per me D. Paulo Tirone sepultum [fuit] in ecclesia Matricis, in fovea Communi», come a dire che il “povero disgraziato, confessato e ricevuto il Viatico, dopo essere stato condannato alla decapitazione dal Tribunale penale della nostra regia Curia, spirò sul patibolo in mezzo alla piazza, avendo avuto tagliate testa e mani: il suo corpo, con l’accompagnamento di me Sac. D. Paolo Tirone, fu seppellito in Matrice, nella fossa comune.” ([37])

 

Il Matranga sostiene che il frate di Racalmuto aprì i suoi conti con la giustizia, non certo, per questioni ideali, per eresia o per le sue idee, ma solo perché datosi al brigantaggio in abiti secolari, pur essendo già un diacono. A prenderlo fu la Corte Laicale che ebbe a passarlo, per lo stato religioso del monaco, al Tribunale del Santo Ufficio. Non abbiamo elementi per non credere al Matranga. Anzi, la vicenda appare del tutto plausibile. Fu dunque una fortuna per fra Diego La Matina potersi avvalere del Tribunale dell’Inquisizione, diversamente i suoi giorni li avrebbe finiti subito, a 23 anni, nel 1644. I crimini commessi sono per l’accusatore P. Girolamo Matranga fatti delittuosi ascrivibili alla ‘crudeltà’ del frate agostiniano (giudizio che lo si rigiri come meglio aggrada,  resta sempre di censura morale) e a ’libertà di coscienza’, locuzione oggi adoperata più per esaltare che per condannare. E Sciascia vi si appiglia per la glorificazione di quel tipo di reo. Nel linguaggio del tempo, quel modo di dire alludeva, però, solo alla sfrenatezza dei costumi, a non avere coscienza morale, o ad averla sfrenata, libertina.

«Siamo convinti, - scrive Sciascia, nella “Morte dell’Inquisitore” op. cit. pag. 222 - convintissimi, che nel giro di quattordici anni il Sant’Ufficio poteva ben riuscire  a fare di uomo religioso, che dentro la religione in cui viveva mostrava qualche segno di libertà di coscienza (l’espressione è del Matranga) un uomo assolutamente religioso, radicalmente ateo». Lo snaturamento del pensiero del Matranga è fin troppo scoperto. L’intento polemico e l’idea preconcetta giocano un brutto scherzo allo scrittore, peraltro sempre molto circospetto. Il Tribunale dell’Inquisizione era non migliore degli altri organi di giustizia dell’epoca, ma neppure peggiore se si faceva a gara nell’invocarne la competenza per sfuggire alle corti laicali. Si leggano le pagine del Di Giovanni in “Palermo Restaurato” così lapidarie nel descrivere le manfrine del conte di Racalmuto Giovanni del Carretto per sottrarsi alle grinfie del Viceré, conte d’Albadalista,  e darsi in pasto all’Inquisizione. La fece franca da un irridente assassinio. [38]

E la misera storia di fra Diego si chiude con un omicidio: del suo aguzzino, si dirà, ma sempre uccisione era. Una tragica legge del taglione venne applicata. Stigmatizziamo pure quell’esecuzione capitale, ma parlare di martirio, è blasfemo.

La mamma di fra Diego non ebbe motivo di scagliarsi contro la chiesa. Era una terziaria francescana, intrisa di tanta pietà cristiana. Morì, assistita dai frati racalmutesi, con esemplare forza d’animo e tanto attaccamento al Cristo, senza alcuna voglia di ribellismo eretico. Pianse, sì, il figlio, ma lo pianse come un infelice peccatore, giammai come un eroico martire, dal “tenace concetto”. L’archivio della Matrice è pieno di testimonianze al riguardo. Andava opportunamente consultato. Ma era lettura ostica.

Riandando indietro nel tempo, un antenato di fra Diego La Matina fu Vincenzo Randazzo, un giurato racalmutese che ebbe parte di rilievo nelle tassazioni del 1577; nell’adunata presso l’«ecclesiola della Nunziata» pare addirittura farla da presidente del consiglio popolare. Viene indicato con il titolo di Magnifico, ma è plebeo, forse appartenente alla piccola borghesia agricola, un “burgisi” come si direbbe oggi. La madre di Diego La Matina era una Randazzo, famiglia questa genuinamente racalmutese. Il padre di Diego La Matina, Vincenzo, era invece figlio di un oriundo da Pietraperzia.

 

 

Tralascio l’irrisolta questione della vera identità di fra Diego La Matina. Non è per nulla poi certo che corrisponda al condannato a morte il Diego La Matina battezzato da don Paolino d’Asaro il 15 marzo 1621 in base a quest’atto che va correttamente letto:

Eodem [nello stesso giorno del 15 marzo 1621 quarta indizione] DIECHO f.[figlio] di Vinc.° [Vincenzo] et Fran.ca [Francesca] La matina di Gasparo giug. [giugali o coniugati] fui ba—tto [battezzato] per il sud.^ [suddetto e cioè don Paolino d’Asaro] p./ni [patrini] iac.° [ illeggibile secondo Sciascia, ma in effetti Jacopo o Giacomo] Sferrazza et Giov.a [Giovanna] di Ger.do  [Gerlando] di Gueli.

 

Sovverte ogni consolidata credenza sul frate dal tenace concetto la presenza a Racalmuto nel 1664 (anno a cui risale la seconda delle numerazioni delle anime della parrocchia della Matrice che ci sono state tramandate)  - e cioè a sei anni di distanza dell’esecuzione dell’agostiniano fra Diego -  di tal clerico Diego La Matina che ha tutta l’aria di essere lo stesso che era stato battezzato nel 1621.

 

In definitiva, la vicenda emblematica di Fra Diego La Matina ci appare un fervido parto letterario del pur grande Leonardo Sciascia. Lo scrittore diede enfasi alle dubbie affermazioni di un cronista secentesco e prese alla lettera accuse palesemente rigonfiate. Un Fra Diego La Matina autore di libelli eretici è ipotesi infondata e comunque non potuta documentare dallo Sciascia. A noi risulta, invece,  - come si è detto - che un chierico di tal nome dimorasse nel 1660 e rigorosamente assolvesse al precetto pasquale. Il dato della più antica ‘Numerazione delle Anime’ che gli Archivi Parrocchiali della Matrice hanno tramandato sino a noi, è sconcertante: va indagato. Forse non si riferisce al frate giustiziato a Palermo, ma un ragionevole dubbio lo inculca. Per nulla al mondo stipuleremmo una polisa con il diavolo per risolvere un tale rebus; porteremmo tanti ceri per convenire con Sciascia sulla nobile eresia di fra Diego; temiamo purtroppo che Sciascia abbia irrimediabilmente travisato i fatti della veridica storia del turbolento fraticello di Racalmuto.

 

 

*    *   *

 

L’atto di donazione della contea di Racalmuto da parte di Girolamo II del Carretto in favore del figlio Giovanni V del Carretto


 

 

Assistito dal notaio racalmutese Angelo Castrogiovanni, Girolamo II del Carretto si produce in uno strano atto di donazione ai suoi figli della contea di Racalmuto e di tutti gli altri beni che possiede. E’ il 4 luglio del 1621. Non ha ancora raggiunto i ventiquattro anni. Nomina la moglie “governatrice”. Il fratellastro don Vincenzo del Carretto ha un ruolo preminente come esecutore delle volontà del conte, ma non appare beneficiario di alcunché. Cosa mai sarà successo? Forse è stato un trucco per aggirare le imposte spagnole, sempre lì in agguato. Forse sentiva alito di morte sulla nuca.

L’atto viene nascosto dai gesuiti di Naro. Mistero, anche qui. Resta un fatto provvidenziale: quando, l’anno successivo, un servo spara al giovane conte una schioppettata - se concediamo fede totale alla trascrizione settecentesca del cartiglio che si conserva (o si conservava?) nel sarcofago del Carmine - quell’atto di donazione universale torna molto acconcio. Il figlioletto Giovanni può assurgere a conte incontrastato come quinto con tal nome. La sorella - Dorotea - ha beni sufficienti per aspirare ad un matrimonio altamente prestigioso. I due fratellini, carucci e distinti, vengono ritratti dal pennello di Pietro d’Asaro nel bel quadro della «Madonna della Catena» (le pretenziose note [39] di coloro che vi scorgono i ritratti di Maria Branciforti e di Girolamo III del Carretto, quando sarebbero stati “promessi sposi”, sono davvero forsennate.)

Quel sotterfugio della consegna dell’atto di donazione ai gesuiti di Naro - quale si coglie nella varia documentazione disponibile - resta in ogni caso inspiegabile visto che il 27 luglio del 1621 il rogito era stato insinuato nella conservatoria notarile della Curia Giurazia di Racalmuto sotto tutela del notaio Grillo. Un tocco di mistero in più.

Il 2 aprile del 1619 era frattanto nato il primogenito destinato alla successione nella contea.

Nel cartiglio del Carmine il conte Girolamo II è dato per ucciso da un servo sotto la data del 6 maggio del 1622. Stranamente, alla Matrice, il suo atto di morte suona così:

[Dal Libro dei morti del 1614. Alla colonna n.° 83, n.° d’ordine 17 è annotato:]

Die 2 dicto (maggio 1622), il ill.mo d. Ger.mo del Carretto fu morto et sepp.to in ecc.a S.ti Fra.sci per lo clero.

 

Ecco un ulteriore elemento d’incertezza che si aggiunge al quadro tutt’altro che chiaro delle vicende feudali racalmutesi di questo conte ucciso a soli venticinque anni.

Don Vincenzo del Carretto, ormai non più arciprete, che sembrava essersi eclissato negli ultimi tempi della vita curtense racalmutese, eccolo ora riapparire vigile ed intrigante accanto alla vedova Beatrice Ventimiglia. Costei frattanto era divenuta principessa di Ventimiglia, come unica erede del genitore, il citato Marchese di Geraci. I documenti la chiamano principessa di Ventimiglia.

Sembra donna energica. Dopo due anni dalla morte del marito, ne riesuma le spoglie dalla tomba di famiglia di San Francesco e le tumula nel grifagno sarcofago descritto da Sciascia al Carmine. I francescani non le dovevano essere simpatici: i carmelitani riscuotevano, invece, le sue preferenze.

Giovanni V del Carretto non ha manco sei anni per avere un qualche peso: la contea è ora davvero nelle mani della giovane ma volitiva vedova.

 

 

I tempi dell’interregno di Beatrice del Carretto Ventimiglia.


 

 

 

Non erano passati molti mesi dalla esecuzione del giovane conte Girolamo II che dei ladri audaci si erano introdotti nel castello per compiere una vera e propria razzia. L’ordine pubblico a Racalmuto era oltremodo precario: furti, abigeato, rapine nelle campagne (fascine di lino, “vaxelli” di api, frumento, buoi “formentini”) sono ricorrenti. La vedova Facciponti tutrice dei figli ed eredi di Antonino Facciponti, disperata, non ha altro da fare che invocare le sanzioni spirituali (una scomunica a tutti gli effetti) per gli incalliti malviventi che la curia vescovile accorda di buon grado. [40] La curia invia il provvedimento al rev.do arciprete. Vi leggiamo dati sul feudo di Gibillini, su quello di Laicolia. Sappiamo di furti alla vedova di “molta quantità di filato, robbi di lana, robbi bianchi .. denari et altre robbe, stigli di casa et di massaria”. Se da un lato si ha il disappunto per siffatte malandrinerie, dall’altro  c’è la piacevole sorpresa di venire a sapere che sussisteva uno stato di discreto benessere in diffusi strati della popolazione  racalmutese del Seicento.

Ma la crisi dell’ordine pubblico, qui, investe addirittura l’avvenente giovane vedova del conte. Sempre gli archivi vescovili ci ragguagliano su un’altra scomunica, stavolta comminata ai ladri del castello. Il 3 settembre 1622 [41] altra missiva al locale arciprete (e qui è ribadito che non è più don Vincenzo del Carretto, che peraltro è ancora vivo). “ Semo stati significati da parti di donna Beatrice del Carretto et Ventimiglia - recita il diploma vescovile - contissa di detta terra nec non da parti di don Vincenzo lo Carretto tutori et tutrici de li figli et heredi di del quondam don Ger.mo lo Carretto olim conti di detta terra qualmenti li sonno stati robbati occupati et defraudati molta quantità di oro, argento, ramo, stagni et metallo, robbi bianchi, tila, lana, lino, sita, cosi lavorati come senza, et occupati scritturi publici et privati, derubati debiti et nome di debitori, rubato vino di li dispensi ... animali grossi et vari stigli con arnesi, cosi di casa come di fori.” Un disastro dunque.

Don Vincenzo del Carretto riemerge come tutore dei figli del fratellastro. Affianca la cognata che in quanto donna, anche se contessa, non ha integra personalità giuridica per l’ordinamento del tempo. Ella necessita di un “mundualdo”, compito che ben volentieri l’ex arciprete si accolla. Ed in tale veste lo ritroviamo nei processi d’investitura del piccolo Giovanni V del Carretto risalenti al 1621 (vedansi gli esordi dell’investitura n. 4074 del 1621 sotto la data del primo settembre 1621 [42] ). Ma non è da pensare che la volitiva vedova concedesse troppo spazio al cognato anche se prete. Nell’anno di vita del conte Girolamo II del Carretto seguente il bizzarro (almeno per noi che scriviamo a distanza di quasi quattro secoli) atto espoliativo di donazione universale, il potere di donna Beatrice del Carretto-Ventimiglia è già esclusivo. Figuriamoci dopo che l’ingombrante marito si era fatto uccidere da un servo. La tradizione tutta racalmutese di corna, di servi amanti, di perdoni adulterini etc. un qualche fondamento ce l’avrà pure. Indulgervi, però, da parte nostra, sarebbe fuorviante.

La vedova riaffiora dalle ombre del passato con contorni netti allorché, mietendo la peste vittime desolatamente, si decide di postulare al potente cardinale Doria una qualche reliquia di Santa Rosalia, atta a debellare il flagello a Racalmuto.

Il culto di Santa Rosalia è ben provato in Racalmuto, sin dal primo decennio del 1600, un quarto di secolo almeno anteriore alla discutibile invenzione delle spoglie mortali in Monte Pellegrino da parte del cardinale Doria.

 

 

In un appunto manoscritto del 15 ottobre del 1922 rinvenibile in Matrice, si riferisce - credo dall'arciprete Genco - che Santa Rosalia sarebbe nata a Racalmuto nel natale del 1120. Le prove documentali le avrebbe avute il canonico Mantione ma le avrebbe distrutte per dispetto al vescovo riluttante a finanziargli la pubblicazione di un suo libro. Tra l'altro, in quell’appunto manoscritto leggesi che «fui il 13 ottobre 1921 nella Biblioteca Nazionale di Palermo ed ebbi il piacere di leggerlo [un libro del Cascini] per summa capita. » In quel libro si  parla di antiche iscrizioni e di chiese anche fuori Palermo. Viene inclusa "quella di Rahalmuto, della quale non appare altro millesimo. che questo M.CC. ed il muro è guasto"». Il testo riportato dall’Arciprete Genco non comprova certo che il 1200 fosse la data di costruzione di quell'antica chiesa, essendo sicuramente abrase le successive lettere della data, appunto per quel 'muro guasto'.

II mio spirito laico mi spinge ad essere alquanto scettico sull'attendibilità di tante notizie contenute nel manoscritto: è certo, comunque, che di esse ebbe ad avvantaggiarsi il padre gesuita Girolamo Morreale nel suo "Maria SS. del Monte di Racalmuto" , stando a quel che si legge nelle pagine  23, 24, 69, 97, 98, 99 e 101.

 

 

   Senza dubbio la fonte storica sulla Chiesa di Santa Rosalia più antica ed accreditata è quella del PIRRI. (A pag. 697 abbiamo un’esauriente notizia). Il passo, in latino, può venire così tradotto: «A Racalmuto v'era una chiesetta [aedes] - antichissima - che risaliva all'anno 1400 circa. Fino al 1628 vi si poteva vedere dipinta un'immagine di santa Rosalia in abito d'eremita e portante una croce ed un libro tra le mani. Purtroppo, è andata distrutta  per incuria di alcuni,  ormai tutti presi dalla nuova chiesa dedicata alla medesima Vergine, di cui venerano alcune reliquie, essendosi peraltro costituita una confraternita denominata delle Anime del Purgatorio. La chiesa ha rendite per 70 once.» Non saprei se la nuova chiesa di Santa Rosalia sia sorta in altro posto oppure sopra quella vecchia. Quella vecchia, nel 1608, collocavasi nel mezzo della bisettrice Carmine-Fontana. Sappiamo che travavasi dalla parte della parrocchia di S. Giuliano.

Per il prof. Giuseppe Nalbone non vi sono dubbi: «la chiesa di Santa Rosalia eretta nell’omonimo rione fu sempre la medesima dal 1593, anno dal quale inizia la documentazione consultabile, sino al 1793, anno di cessione dell’ “edificio” al sac. Salvatore Maria Grillo.»

Di recente, ricercatrici universitarie hanno ritenuto un rudere (ampiamente fotografato)  nei pressi della Barona essere l’antica chiesetta di S. Rosalia. E’ tesi che respingiamo: la Santa Rosalia del 1608 doveva ubicarsi nella parte sud-est di via Marc’Antonio Alaimo, qualche isolato a ridosso dell’attuale Corso Garibaldi. I documenti vescovili sembrano non dare adito a dubbi. Certo, c’è da interpretare l’aggettivo “nuova”  usato dal Pirri. Per “nuova” chiesa si deve intendere un edificio nuovo ubicato altrove o il riadattamento del vecchio stabile? Un interrogativo, questo, che non ha ancora soluzione certa. Non si sa neppure dov’era ubicato il rudere venduto al nobile sacerdote Salvatore Maria Grillo, e dire che siamo nel recente 1793. L’abate Acquista parla nel 1852 di ben quattro distinti luoghi di culto in vario modo dedicati a Santa Rosalia. Il Prof. Nalbone trova, però, molte inesattezze nell’opera dell’Acquista.

 

 

Don Vincenzo del Carretto si fa rilasciare un nulla osta ecclesiastico dalla curia vescovile agrigentina, costruisce la chiesetta della Modonna dell’Itria; la dota piuttosto consistentemente. Non gli porta fortuna: tra il 1624 ed il 1625 scocca il suo ultimo giorno di vita terrena. Crediamo sia una delle vittime del flagello endemico che in quel biennio si abbatté a Racalmuto. Il giovane medico Marco Antonio Alaimo - trasferitosi a Palermo - dava preziosi consigli ai fratelli rimasti in paese. Non potevano avere - e non avevano - grande efficacia.

 

Donna Beatrice del Carretto esce indenne dalla peste del 1624. La troviamo ancora solerte e dispotica nel 1626. Ella ha deciso che le reliquie di Santa Rosalia, portate a Racalmuto il 31 agosto 1625, vengano traslate da S. Francesco alla nuova (o rimessa a nuovo) chiesetta di Santa Rosalia.

 

Nella nuova chiesa di Santa Rosalia - che entra sotto la tutela della locale Universitas - il culto della santa è intenso. Il comune si fa carico di una lampada ad olio perennemente accesa. La delibera è adottata dai giurati dell’epoca Francesco Fimia, Giacomo Montalto, Benedetto Troiano e Francesco Lauricella. Ma non varrebbe nulla senza il benestare della potente vedova. E’ il giorno 18 aprile 1626. “Ad effectum in dicta ecclesia Sancte Rosalie detinendi lampadam accensam ante magnum altare ubi est collocata Reliquia sancta dictae dive Rosalie pro sua devotione et elemosina et non aliter nec alio modo”, sanziona un comma della decisione comunale. “Praesente ad hec ill.me D. Beatrice del Carretto et Xxliis comitissa dictae terre Racalmuti tutrice eius filiorum et affittatrice status eiusdem terre Racalmuti”, soggiunge il documento. La contessa avalla ed autorizza l’impegno giurazio: diversamente il tutto sarebbe stato senza effetto. Va invece bene “quoniam predicta ipsa D. Comitissa sic voluit et vult et contenta fuit et est”, giacché essa signora Contessa così volle e vuole, fu contenta ed è contenta.

Per di più “la predetta signora Contessa per la devozione che nutre verso la suddetta chiesa di Santa Rosalia e la sua santa reliquia, graziosamente concedette e concede quale tutrice e balia dei predetti suoi figli, alla venerabile chiesa di Santa Rosalia ed alla confraternita in essa esistente che si possa celebrare la festività con fiera in luoghi congrui ed opportunamente benedetti, da scegliersi dai signori Giurati. E siffatta festività e fiera (festivitas et nundinae) volle e vuole, nonché ne diede incarico e ne dà essa signora Donna Beatrice Contessa come sopra acciocché siano franche, libere ed esenti dai diritti di gabella spettanti al signor Conte della terra di Racalmuto. E l’esenzione vale per otto giorni cioè a dire da quattro giorni dalla detta festa sino a quattro giorni dopo». Un editto feudale con tutti i crismi come si vede. Ma è l’ultimo atto della chiacchierata contessa Beatrice del Carretto Ventimiglia di cui siamo a conoscenza che testimonia la  sua presenza a Racalmuto. Dopo, si sarà trasferita a Palermo. Il figlio resta sotto la sua tutela sino al diciottesimo anno. Nell’archivio di Stato di Agrigento sono conservati i documenti del convento del Carmelo di Racalmuto. Vi si rintraccia una nota comprovante i diritti del convento a valere sulle doti di paragio di donna Eumilia del Carretto (argomento in seguito sviluppato). Vi si legge fra l’altro: «Don Joannes del Carretto comes Racalmuti et Princeps de XXlijs ... concessit cum auctoritate donnae Beatricis del Carretto et XXlijs Comitissae Racalmuti et Principissae XXlijs eius curatricis seu procuratricis» Era il 7 maggio 1636. [43] 

 


 


GIOVANNI  V   DEL CARRETTO


 

 

 

Giovanni V del Carretto non lascia traccia alcuna di sé a Racalmuto. Vi nacque soltanto (6 aprile 1619); gli si danno quattro nomi: Giovanni Francesco Carlo Giuseppe; i padrini non sono illustri: Leonardo Scibetta e Giovanna La Conta; l’arciprete non reputa di somministrare il battesimo, delega don Giuseppe Sanfilippo. Nell’agosto del 1621 Girolamo II ritiene di abdicare a suo favore: è un bambino di quattro anni. L’anno dopo è già orfano di padre. Qualche anno ancora a Racalmuto e subito dopo il 1626 emigra a Palermo, senza dubbio nella nuova residenza che il padre Girolamo aveva un  tempo comprato dai Vernagallo .

La giovinezza di Giovanni IV a Palermo dovette essere davvero scapigliata; ricco, senza veri freni inibitori, con una madre che ormai non ha peso alcuno, con consiglieri predaci e compiacenti, è proprio sulla via che lo porterà alla forca allo Steri nel 1650, per una dubbia partecipazione ad un colpo di stato, in cui veramente implicato era il cognato che furbamente se la squaglia in tempo.

Sciascia sbaglia dati anagrafici ma non personaggio quando scrive «il terzo [Girolamo, ma in effetti era Giovanni V del Carretto] moriva per mano del boia: colpevole di una congiura che tendeva all’indipendenza del regno di Sicilia. E non è da credere si fosse invischiato nella congiura per ragioni ideali: cognato del conte di Mazzarino per averne sposato la sorella (anche questa di nome Beatrice [errore anche qui: invero si chiamava Maria Branciforte, n.d.r.]), vagheggiava di avere in famiglia il re di Sicilia. Ma l’Inquisizione vegliava, vegliavano i gesuiti: e, a congiura scoperta, il conte ebbe l’ingenuità di restarsene in Sicilia, fidando forse in amicizie e protezioni a corte e nel Regno. Una congiura contro la corona era cosa ben più grave dei delittuosi puntigli, delle inflessibili vendette cui i del Carretto erano dediti.» [44]

Ma passando dalla letteratura alla storia, è bene attenersi a quello che sul nostro conte scrisse Giovan Battista Caruso: [45]

«Rappresentava il Giudice a costoro, che l'accennato conte del Mazzarino (il quale avea nome D. Giuseppe Branciforte), essendo indubitato successore del principato di Butera, che godeva la prerogativa di primo titolo del regno e di capo  del braccio militare, potea con l'appoggio de' suoi parenti e de' suoi amici aspirare ad essere riconosciuto per principe di tutto il regno, e così li persuase facilmente a scuoter dal collo il giogo straniero in tempo, che, mancata la legittima successione degli Austriaci di Spagna, e minorata di forza e di autorità la monarchia spagnuola, poteano i Siciliani ristabilire l'antica gloria della nazione, e godere come prima un re proprio ed interessato al comune vantaggio.

Di tali false lusinghe ingannati gli accennati nobili, e più di ogni altro il conte di Mazzarino, si unirono al consiglio degli avvocati e pensarono davvero all'elezione di un nuovo principe nazionale [tutto ciò per la falsa notizia della morte di re Filippo IV]. Al contempo i due avvocati Giudice e Pesce tramavano [p. 117] in favore del duca di Montalto, personaggio di maggiore importanza e che con più simulazione  aspirava al principato. Seppe egli da D. Pietro Opezzinghi, suo confidente, i dubbi promossi per  la successione al regno di Sicilia ... Introdottone dunque col mezzo dell'istesso Opezzinghi il trattato co' due avvocati e con gli altri lor confidenti, e molto cooperandosi a tal disegno il celebre D. Simone Rao e Requesens, cavaliere, che alla nobiltà della nascita accoppiava una sopraffina politica e grandissima destrezza nel maneggiare gli affari, avvalorossi una tal pratica a segno tale, che si vide in breve accresciuto il numero de' congiurati con persone di prima qualità, fra le quali il conte di RAGALMUTO, cognato di quel del Mazzarino, D. Giuseppe Ventimiglia, fratello del principe di Geraci, l'abbate D. Giovanni Gaetani, fratello del principe del Cassaro, D. Giuseppe Requesens, fratello del Principe del Cassaro, D. Giuseppe Requesens, fratello del principe di Pantelleria. D. Ferdinando Afflitto, de' principi di Belmonte, D. Pietro Filingeri, fratello del marchese di Lucca, e molti altri.

[p.118] Certo però si è, che, ito egli [il conte di Mazzarino] a trovare il padre SPUCCES, uomo de' più stimati allora fra' Gesuiti, e confidatogli tutto il trattato, lo richiese di consiglio e di aiuto. [.....] Fu rispedito  il MERELLI [genovese e spia] in Palermo con un ordine [da parte del vicerè Don Giovanni] al capitano di giustizia, che era allora don Mariano Leofante, ed al pretore della città D. Vincenzo Landolina, di assicurarsi prima di ogni altro degli avvocati. Il che riuscito ... servì ai congiurati di porsi in salvo [e cioè] l'Opezzinghi, l'Afflitto, il Filingeri ed il Requesens ... prima che don Giovanni d'Austria colà venisse; il che fu a' 12 di novembre dell'intero anno 1649. Uscì ancor fuori dell'isola il conte di Mazzarino per sua maggior sicurezza.... e ben potea fare l'istesso il conte di RAGALMUTO suo cognato. Temendo però egli d'incolparsi maggiormente con la fuga, lusingossi di non venir nominato come complice da' due avvocati e dall'abbate Gaetano, caduti nelle mani de' regi. Mentre però il Vicerè era ancora a Messina, confessarono il Gaetani ed il Giudice tutto ciò, che sapevano dell'accennata consulta; ed ancorché il Pesce ed insieme il procurator Potomia negassero costantemente avervi avuto parte, furono tutti condannati alla morte. Allora il Giudice, che di tanto male si conosceva la prima cagione, dettò in difesa de' compagni una sì eloquente orazione, che dal Ronchiglio consultore del vicerè venne onorato l'infelice suo autore col titolo di Tullio Siciliano.

Né meno dell'eloquenza del Giudice fu ammirata l'intrepidezza e la costanza del  Pesce, il quale pria di morire scrisse alla madre una moralissima lettera. Giustiziati costoro, fu ancor maggiore la discussione del processo del conte di Ragalmuto, e nella corte la compassione. Corse anche voce, che fosse a lui facilitata dal viceré stesso la fuga, per non macchiarsi le mani nel sangue di un sì nobile e principalissimo barone: ma non ostando a ciò il segretario Leiva, gli fu concessa almeno la scelta della morte. Contentatosi intanto il viceré D. Giovanni del castigo di costoro, fu imposto silenzio alle accuse contro gli altri, de' quali il numero era assai grande, e principalmente contro il duca di Montalto, a cui la grandezza della casa, la quantità de' parenti, il numero de' vassalli ed il pericolo di suscitare nuovi torbidi servirono, per così dire, di scudo. »

La cronaca dell’incarcerazione e dell’esecuzione di Giovanni V del Carretto l’abbiamo in un diarista palermitano: quel Vincenzo Auria che Sciascia infilza impietosamente forse perché non tenero con fra Diego La Matina .[46] Non credo che se ne possa mettere in dubbio l’attendibilità cronachistica. Seguiamolo, dunque:

«Martedì, 11 di detto [gennaio 1650]. Fu preso D. Giovanni del Carretto conte di Ragalmuto, come uno dei capi principali della congiura. [v. pag. 359]

«A dì 14 di detto [gennaio 1650]. - [...] Ma se è vero ciò che si diceva, egli [il Pesce] aveva consigliato il conte di Mazzarino, che in caso della morte del re poteva farsi re di Sicilia, come primo signore del regno, e che il conte, posto a cavallo con le genti del conte di Racalmuto la notte di Natale di nostro Signore, doveva occupare il castello ed uccidere gli Spagnoli. [v. pag. 364]

«Sabbato, 26 [febbraio 1650] di detto. Fu affogato privatamente dentro del castello D. Giovanni del Carretto conte di Ragalmuto, e nell’istesso modo il dottor D. Antonino lo Giudice. Il conte fu convinto da testimonii d’avergli sentito dire, ch’egli rimproverava il conte del Mazzarino della tardanza del suo trattato, e che gli aveva promesso molte genti a cavallo de’ suoi vassalli, per effettuare quanto egli aveva machinato. Ebbe il conte di Ragalmuto molto tempo da fugire e liberarsi del pericolo della vita; ma infatti, violentato dal suo avverso destino, dimorava a Palermo e vi passeggiava, come non avesse mai avuto nessuna parte ne’ disegni del conte del Mazzarino. Onde fu stimata giustissima disposizione di S.A. e suoi ministri, per non avergli perdonato la vita, usando sopra tutti egualmente il meritato castigo.» [v. pag. 367][47]

 

Forse il conte qualche parola pietosa la meritava, ma Sciascia - come si è visto - è stato inflessibile. E dire che forse fra quei vassalli di cui Giovanni V disponeva a Palermo, pronti ad un colpo di stato, c’era proprio fra Diego La Matina, allora un giovanottone scappato dal convento ed abbagliato dalle chimere della capitale palermitana.

 

Ma a parte questa storia di vassalli racalmutesi agli ordini di Giovanni V del Carretto, non riusciamo a cogliere un qualche spunto che possa legare la vita terrena del nostro conte con le faccende del nostro paese.

 

 

Anagrafe di Giovanni V del Carretto


 

Sarà il figlio a confermarci i dati anagrafici di questo conte.

Ex dicto don Hieronymo natus fuit illustris don Joannes de Carretto et de Viginti Milijs filius primogenitus qui duxit in uxorem illustrem donnam Mariam Branciforte filiam legitimam et naturalem quondam illustris don Nicolai Placidi Branciforte, principis Leonfortis, et Catharinae Branciforte, Barresi et Santapau.

 

 

 Racalmuto sotto Giovanni V del Carretto


 

Qui la vita scorre come può.  Sotto l’arciprete Filippo Sconduto (vedi sopra) inizia la controversia per sottrarre Racalmuto all’indesiderata giurisdizione dell’ingordo vescovo Traina e passarlo a quella del Metropolita di Palermo. Ci informa il Pirri:

dopo il maggio del 1631, «paucos post menses litterae Romae 13 Decembr. , 14 ind. exaratae mandato Marci Antonii Franciotti Apostol. Camarae Auditoris advenere, quibus decretum erat, ut oppida Ducatus Sancti Joannis et comitatus Camaratae, item et Juliana, Burgium, Clusa et postea Rahyalumutum dioecesis Agrigentinae in criminalibus, et civilibus causis ab ordinaria jurisditione subtraherentur  et Panormitano Metropolitae subijcerentur.»

Il nocciolo della questione era dunque che San Giovanni Gemini, Cammarata, Giuliana, Clusa e Racalmuto ne avevano le scatole piene delle pretese del vescovo Traina. Un delatore, canonico, ebbe a scrivere in Vaticano che il prelato era talmente sordido ed avaro, da avere accumulato montagne di denaro contante che deteneva in cassapanche sotto il letto. La notte, preso da raptus estraeva le casse, le apriva, e ci si curcava sopra. Questi paesi si erano consorziati ed avevano adito le vie legali della corte pontificia, chiedendo di passare da sottoposti di Agrigento a sottoposti di Palermo. L’uditore della Camera Apostolica, Marco Antonio Franciotto comunicava l’esito positivo in data 14 dicembre 1631, quando lo Sconduto, sicuramente ispiratore della lite, era già deceduto. Noi abbiamo cercato di rintracciare in Vaticano questa importante documentazione, ma non ci siamo riusciti. Le carte furono disperse dopo la presa di Porta Pia. Ma sappiamo dal Pirri che esse si trovano presso l’Archivio Metropolitano della curia palermitana “in registr....13 januar. [1632].”  Tanto per chi avrà voglia di cercarle. Qualcosa abbiamo trovato nel Fondo Palagonia, ma quei diplomi ci dicono poco. Disponiamo solo di una scrittura del 4 gennaio 1632 (A.S.P. Fondo Palagonia - atti privati - n.° 631 - anni 1502-1706). Il seguito della faccenda,  così ce la racconta il Pirri:

«Quod Philippo IV, summopere displicuisse, datis ad proregem litteris, quibus animi sui acerbitatem, ac facinoris indignitatem ostendit, ipsemet aperte testatur. Romae tandem causa agitata, inataque pace inter Episcopum et oppidorum dominos, ad pristinum rediere locum omnia.»

Filippo IV, dunque, appena saputa la notizia, andò su tutte le furie: se ne dispiacque proprio summopere, forte ma tanto forte che più forte non si può, investì in malo modo il viceré a Palermo scaricandogli la rabbia per quell’impertinenza dei paesi agrigentini, caduti in un indegno crimine (indignitas facinoris). Di fronte all’ira del re spagnolo, al viceré toccò prendere penna e carta e supplicare la corte papale per una revisione della causa. Forse il vescovo Traina - sicuramente non ignaro di tutti questi maneggi  - avrà profuso anche a Roma il suo copioso denaro (e già perché anche allora Roma era ...  Roma ladrona). Fatto sta che immediatamente si ridiscute la causa presso la Camera Apostolica ed ecco che Roma si rimangia tutto: impone la pace tra il vescovo Traina ed i padroni oppidorum, dei paesi agrigentini: tutto deve tornare come prima: ad pristinum rediere locum omnia.

Ma chi erano i domini terrae Racalmuti? Sulla carta Giovanni V del Carretto. Ma costui - come vedesi nella foto della copertina della pubblicazione racalmutese su Pietro d’Asaro «il Monocolo di Racalmuto», ove vi appare con la sorella Dorotea - era soltanto un fanciullo tredicenne, peraltro trasferitosi a Palermo. Le carte del Palagonia ci vengono in soccorso. Furono i giurati - espressione del potere feudale - a volere l’eversione dal vescovo Traina: basta scorrere l’atto notarile riportato infra per desumere gli artefici dell’incauta iniziativa: è l’intera Universitas ma rappresentata e coartata dai seguenti notabili:

Universitas terrae et comitatus Racalmuti Agrigentine dioecesis ex statu temporalis dominis comitis dittae terrae Racalmuti legitime congregata et pro ea Nicolaus Capilli, Benedictus Troianus, Petrus de Alfano, et ar: me: dott. Joseph Amella uti jurati dittae terrae Racalmuti

E’ stata l’intera Universitas Racalmuti, ritualmente congregata, e rappresentata dai giurati, al tempo Nicolò Capilli, Benedetto Troiano, Pietro Alfano ed il medico Dott. Giuseppe Amella. Su costoro comunque non si abbatté l’ira del re di Spagna. Anzi, nel 1639, anno di grande miseria, un provvidenziale decreto viceregio impone sgravi fiscali ed accorda altre agevolazioni ai borgesi racalmutesi che si cerca di mettere in condizione di seminare senza le espoliazioni feudali: ([48])

 

Il Viceré comunica ai Giurati delle terre di Bivona, Adernò, Termini, RACALMUTO, Bisacquino, Castrogiovanni, Taormina, Caltavuturo, Mazzara e Lentini le istruzioni emanate sul modo di dare i soccorsi ai borgesi e massari.

(Trib. del R. Patrimonio. Lettere viceregie e dispacci patrimoniali, di Particolari, dell'anno indizionale 1639-1640, f. 48 e s.)  - Il margine si legge che la stessa lettera fu spedita ai Giurati di Adernò, di Termini, di RACALMUTO, Bisacquino, Castrogiovanni, Taormina, Caltavuturo, Mazzara. - A pag. 64 del medesimo registro trovasi riportato la stessa lettera diretta ai giurati di Lentini.

 

Philippus etc.

Locumtenens et capitaneus generalis in hoc Siciliae Regno nobilibus Juratis terre Bibone Racalmuti fidelibus regi dilectis salutem.

Siamo stati informati che per la povertà di borgesi, massari et arbitrarianti della [contea di Racalmuto] non ponno attendere al seminerio nè quello coltivare nè fare maysi per l'anno futuro essendo detrimento al regno et convinendo che un tanto beneficio universale habbia essecutione habbiamo commesso a voi il negotio acciò con la diligentia necessaria compliate al dovere conforme sarrà di giustizia osserbando quanto vi si ordina per l'infrascritti istrutioni sopra ciò fatti del tenor seguente Videlicet.

Panormi die  octobris 4^ inditioni 1636.

Instructioni fatti in detto anno sopra il seminerio attorno di far dar soccorso alli borgisi. Si dovereranno con ogni diligenza informare  delli borgesi che sono in detta [contea di Racalmuto] dell'apparecchio che habbiano di terre così per seminare come per ammaisare e della bestiame che hanno per il seminerio presentato per li maysi futuri e per il governo delli seminati e terre  et si sono persone che, essendo soccorsi, si serviranno veramente del soccorso per seminare e governare li seminati et a quelli che saranno tali et haviranno bisogno li farrete soccorrere dalli padroni et affittatori degli feghi et terri delli quali essi borgesi hanno di apparecchio et in caso che detti padroni et affittatori non siano abili a soccorrere essendo habili di denari, farrete che coprino [comprino] li formenti per dare li soccorsi et in caso chi padroni o affittatori siano affatto inhabili a dar soccorso ne di formento ne di denari per comprarli, farrete dar soccorso da persone facultuse habili a darlo promettendo loro che se li terrà memoria del servito che in ciò faranno nelle occorrenze et occasioni et che per la restitutione se li daranno cautele bastanze preferendoli ad ogni altra gravezza etiamdio delli terraggi [[49]] et che per la restitutione non se li concederà per il pagamento di detti soccorsi dilatione alcuna, declarandosi che essendovi borgesi che avessero apparecchio o terre di ammaisare baronie, feghi, o terre disabitate, questi ancora verranno esser soccorsi o di padroni o di affittatori, o di facultosi del più vicino loco habitato con le medesime prelationi nel pagamento di soccorso. Li borgesi che si soccorrino per seminare doveranno dare pleggeria [malleveria] di seminare quel soccorso che per tal effecto se li da sotto pena di haver a restituire il soccorso datogli passato il tempo del seminerio. E Voi passato il tempo suddetto, essendovene fatta instantia, procedirete alla esecutione delle pene inremissibilmente, nel tempo del raccolto haverete cura che il primo sia pagato il soccorso preferendoli ad ogni altro debito quantunque privilegiato, etiamdio a terraggi o a debiti di bolle che la recuperatione si facci in prontezza e senza lite. Perciò vi ordiniamo che attorno il dar soccorso alli borgesi et massari della [contea di Racalmuto] osserverete er essequirete tutto quello et quanto nelle preinserte instructioni del seminerio si dichiarando in ciò la diligenza possibile a cui sortisca e passi innanti il servizio essendo di tanto benefitio universale al regno e servitio di sua Maiestà che Voi circa le cose premisse ve ni danno la potestà bastante et cossì essequirete per quanto la gratia di S. Maestà tenete cara.

Datum Panormi 6 octobris, 8 inditionis, 1639. El Cardinal IOAN DORIA. Dominus locumtenens mandavit, etc.

 

Erano vane promesse, qualcosa di simile alle grida di manzoniana memoria? Vox clamantis in deserto? Sia quel che sia il cardinale Doria sembra più commendevole come luogotenente che come dispensatore delle reliquie di Santa Rosalia.

Nell’ottobre del 1639, i borgesi racalmutesi erano davvero nelle condizioni tali da non avere più la semente per le loro chiuse? O era un piangere miseria, veniale peccato ricorrente nel costume contadino di un tempo? Per avere alleggerite le onnivore tasse.

 

 

 

GIROLAMO III DEL CARRETTO


 

 

 

 

Girolamo III del Carretto può dirsi l’ultimo feudatario di Racalmuto della famiglia carrettesca. Ebbe un figlio: Giuseppe; gli donò la contea mentre era ancora in vita, sicuramente per ragioni fiscali; ma Giuseppe era malaticcio; premorì al padre ed Girolamo III ritornò la contea di Racalmuto; Girolamo morì senza altri figli maschi; la contea finì in mano alla moglie del defunto figlio Giuseppe; era costei Brigida Schittini e Galletti che non seppe mantenere il feudo racalmutese, finito - previa un’interposizione fittizia di una tal Macaluso - in mano dei Gaetani.

Girolamo III del Carretto nasce - crediamo a Palermo - attorno 1648. Con la morte del padre, la vita a Palermo dovette essere ardua. Così la vedova con i due figlioletti ritorna a Racalmuto, mentre nella capitale si infittiscono gli approcci per il recupero dei beni feudali requisiti dalla corte spagnola.

Nel 1660, secondo una numerazione delle anime che si custodisce in Matrice, i del Carretto costituiscono il 1625° “fuoco” di Racalmuto con questa composizione:

1625   LA CARRETTA Xxa ECCELLENTISSIMO SIG. DON GERONIMO C.TO ECC.MA SIGNORA DONNA MARIA  C.TA ILLUSTRISSIMA DONNA  BEATRICI CARRETTO C.TA

 

 

Girolamo del Carretto è appena dodicenne; frequenta qualche scuola da qualche prete locale; subisce l’autorità della madre che appare molto volitiva.

S’iniziano i lavori della Matrice e donna Maria Branciforti è munifica nelle elemosine.

La contessa, in effetti, versa a spizzichi e bocconi la sua “elemosina” di cento onze in ben 19 rate di disparato importo (da pochi tarì a 30 onze) lungo un arco di tempo che parte dal 15 dicembre 1654 per concludersi il 10 marzo 1660.

 

Sembra che dopo il 1660 la famiglia del Carretto si sia trasferita ad Agrigento. Girolamo III del Carretto ha voglia (o necessità) d’intrupparsi nell’esercito spagnolo per andare a fronteggiare gli invasori francesi nei pressi di Messina nel 1674. Aveva 26 anni. Non militò a lungo. Tornò a casa, si era sposato con una Lanza. Decide di abitare nel suo castello di Racalmuto.

Il San Martino-De Spucches è piuttosto esauriente nel fornirne il profilo araldico:

«Girolamo del CARRETTO BRANCIFORTE, figlio del precedente [Giovanni V], per grazia speciale di Filippo IV ebbe restituiti i beni paterni e con nuova concessione, data nel cenobio di S. Lorenzo, a 28 ottobre 1654, fu nominato Conte di Racalmuto; il Privilegio fu esecutoriato nel Regno, nell'anno IX Indiz. 1655, e propriamente il 13 novembre. In base al suddetto privilegio egli s'investì a 14 agosto (R. Canc. IX Indiz. f. 73). Si reinvestì, a 16 settembre 1666, per il passaggio della Corona (R. Cancell. V Indiz. f. 180). Sposò, in prime nozze, Melchiorra LANZA MONCADA di LORENZO, Conte di Sommatino, e di Aloisia MONCADA; sposò in seconde nozze, Costanza AMATO ed ALLIATA di Antonio, P.pe di Galati, e di Francesca ALLIATA LANZA (Villafranca). Fu maestro di campo dell'esercito destinato a sedare la rivoluzione di Messina (1674)[50]; Vicario Generale Viceregio a Noto, Girgenti, Licata, Caltagirone; Pretore di Palermo nel 1682; Gentiluomo di Camera del Re Carlo II a 10 agosto 1688.»

 

Dal 1682, dunque, risulta residente a Palermo; il richiamo della capitale era stato anche per lui irresistibile.

Ha voglia a Racalmuto di mettere mano a riforme: affida il vecchio ospedale di San Sebastiano ai Fatebenefratelli. Da allora si chiamerà di San Giovanni di Dio.

E’ leggibile una copia del privilegio di erezione di quella pia fondazione. [51]  Sono ricavabili questi estremi:

"COPIA Della fondazione di questo nostro Convento..." "ANNO  1693" Nell'anno 1693 l'Ill.mo Sig.r d. GEROLAMO DEL CARRETTO E BRANCIFORTE Conte di Racalmuto e P.pe di VENTIMIGLIA accumulatavi la Pietà, e Carità dell'Ill.ma D: MELCHIORA DEL CARRETTO E LANZA sua moglie". ...." Ill.mo d: GIUSEPPE DEL CARRETTO BRANCIFORTE, e LANZA suo figlio. -Bolle Pontificie date in Roma il .. 13|2|1693  .. in Palermo l'8\4\1693 ed in Girgenti il 20\8\1693".

 

Il 16 giugno 1670 Girolamo è residente a Racalmuto. Le muore una figlioletta che viene così registrata nei libri della Matrice:

16.6.1670 Domina Joanna, Ignatia, Antonina Elisabetta filia Ill.mi et Ecc.mi D.ni Hijeronimi Carretti et Branciforti  comitis Racalmuti et principis XXmiliarum, et ill.me et ecc.me D.ne Melchiorre eius uxor; duorum annorum et mensium quatuor circiter, in domo palatii h. t. R.ti animam Deo redidit, cujusque corpus sepultum est eodem die in ecc.sia S.te Marie de Monte Carmeli in communione S. Matris Ecc,sie presente clero, congregationibus confraternitatibusque et Senato. GRATIS

 

Sappiamo che donna Melchiorra Lanza morì a Racalmuto il 10 aprile 1701 e vi fu sepolta come attestano i soliti libri della matrice:

906     10.4.1701      D. MELCHIORRA LANZA DEL CARRETTO UXOR HIERONIMI PRINCIP.A COMITISSA RACALMUTI di anni 70 sepolta a S.MARIA DE IESU IN VENERABILI CAP. SS. ROSARII. Assistita da D. FABRIZIO SIGNORINO ARCIPRETE. Morì in sua propria domo.

 

Girolamo III del Carretto sarebbe dunque rimasto vedovo a soli 53 anni. Tra lui e la prima moglie vi sarebbero stati diciassette anni di differenza. Questo, stando ai dati che riportiamo. Confessiamo, però, di nutrire noi stessi forti dubbi: forse gli anni della contessa defunta vanno rettificati in soli 50.

Girolamo III del Carretto acquisisce contorni di litigiosità con i dati che emergono dal Fondo Palagonia. Un atto soprattutto. [52]

Il conte ha modo di dire di sé:

Ex ditto d. Joanne natus est illustris don Hieronymus de Carretto et Branciforte, cuius nomine et pro parte, illustris donna Maria de Carretto et Branciforte cepit investituram de ditta terra, statu et comitatu Racalmuti, pro ut per dittam investituram de ditta terra, statu et comitatu Racalmuti pro ut per dittam investituram sub die decimo quarto Augusti nonae indittionis 1656 per attum apparet et die sua melius etc.

 

Il feudo di Racalmuto a fine del ’600


Ed ecco come ci descrive il suo feudo, il nostro Racalmuto:

Item ponit et probare intendit non se tamen obstringens etc. qualmente il fegho nominato di Racalmuto sito e posto in questo Regno di Sicilia nel Val di Mazzara consistente in salme setticentocinque tummina quindeci, mondelli tre e quarti dui cioè in salme seicento cinquantadue, tummina undeci e mondelli uno di terre lavorative e salme cinquanta trè, tummina dui e mondelli dui di terre rampanti, valloni, trazzeri ed altri inclusi in dette salme cinquanta tre, tummina dui e mondelli dui, salme undeci di terra nel circuito, delle quali e sita e posta la terra [134] che tiene il nome da detto fegho è posto in menzo delli feghi nominati:

1.   delli Gibillini e feghi

2.   delli Cometi;

3.   e fegho delli Bigini;

4.   del fegho di Zalora;

5.   del fegho di Scintilìa;

6.   del stato e ducato delli Grotti;

7.   del fegho e principato di Campofranco;

8.   e fegho della Ciumicìa

e altri confini ...

Non v’era dunque dubbio che le terre usurpate dai sacerdoti racalmutesi erano integralmente sotto la giurisdizione del conte.

Item ponit et probare intendit non se tamen obstringens etc. qualmente le contrate nominate di Bovo seu Montagna, Pinnavaira, della Rina seu Scavo Morto, della Difisa, Jacuzzo, Zimmulù, Caliato, Serrone, Pietravella, Saracino seu Molino dell’Arco, Menziarati e Culmitelli sono delli membri e pertinenze del fegho e stato di Racalmuto ed intra li limini e confini di detto fegho di Racalmuto come sopra stimato e confinato conforme fù ed è la verità, notorio e fama publica et nihilominus dicant testes quicquid sciunt, sentiunt, viderunt vel audiverunt etiam extra capitulum ad intensionem producentis et -   -   -  

 

 

Non sappiamo come sia andato a finire quel processo. Sorto alla fine del Seicento, con tutta probabilità non era concluso alla morte del litigioso conte. Il quale pare ebbe molto a litigare anche con il figlio che pure aveva dotato della contea ancor prima della sua stessa propria morte.

Girolamo III del Carretto non era comunque un mangiapreti: sotto di lui l’arciprete Lo Brutto - e con il suo esplicito e imperioso avallo - aveva potuto costituire la “comunia” di Racalmuto con ben dodici mansionari, adorni di fregi appariscenti.

 

Religione, clero ed altri aspetti nella Racalmuto post Giovanni V del Carretto.


 

 

Al Traina, frattanto, era subentrato nell’arcipretura don Pompilio Sammaritano, un semplice dottore in teologia.

Porta con sé un parente sacerdote, don Pietro. Lo nomina subito suo cappellano ed il racalmutese p. Antonino Morreale viene giubilato e deve emigrare.  Lo segue uno stretto parente, forse un fratello, un tal Francesco Samaritano sposato con Gerlanda e con una figlia, come ci tramanda il primo censimento di Racalmuto conservato in Matrice.  Già nel 1649, il nuovo arciprete risulta dai registri della Matrice già in opera. Nel 1660 è felicemente insediato in paese, ove ha messo su casa servito da “un famulo” di nome Giuseppe ed una fantesca chiamata Lizzitella. (il solito censimento è impertinente). Durante la sua arcipretura piombarono a Racalmuto la moglie ed i figli   dell’infelice Giovanni V del Carretto.

La contessa ha i suoi guai: deve risolvere i problemi del riottenimento dei beni feudali che sono stati requisiti dal re per l’alto tradimento del marito. Vi riuscirà. I fondi Palagonia contengono, come si è detto, gli atti di questa avvincente vertenza feudale. Il dottore in teologia è prodigo di consigli e sa essere di supporto morale.

Frattanto giunge ad Agrigento il nuovo vescovo Ferdinandus Sanchez de Cuellar. Il 28 novembre 1654 visita Racalmuto e subito mette in mora l’arciprete per il latitare dei lavori della fabbrica della chiesa della Matrice. Il giorno dopo si apre la contabilità dei lavori edili, il cui pregevole rollo si conserva in Matrice: LIBRO D'INTROITO ED ESITO di denari per conto della fabrica della Matrice Chiesa di Racalmuto incominciando dalli 29 di novembre 8a Ind. 1654, reca in esordio per la penna  di don Lucio Sferrazza.  Il depositario è il dott. don Salvatore Petruzzella, futuro arciprete. I primi soldi, cioè le prime 12 onze, sono dal vescovo. Ma è un modo di dire: si tratta delle feroci molte comminate dal vescovo in corso di visita. E pensare che sotto il vescovo Traina le autorità diocesane avevano latitato. A noi fa un certo senso leggere:

Dall'Ill.mo et rev.mo Monsignor frà Ferdinando Sancèz de Cuellar Vescovo di Girgenti hò ricevuto per mano di D. Alonso de Merlo suo mastro notaro onze dudici quali d.o Ill.mo Signore ha dato d'elemosina alla fabrica di d.a matrice chiesa dalle .. pene esatte in discorso di visita in Racalmuto d. ........  onze -/ 12.

 

La pia contessa, vedova sconsolata, è la più munifica nel contribuire alle spese per la costruzione della Matrice: oltre 100 onze. Ma essa è la nuova contessa di Racalmuto, a titolo personale: il figlio Girolamo III riacquisterà la contea il 28 ottobre 1654, ma ne avrà il diploma solo il 5 novembre 1655, previo pagamento di 200 onze e 29 tarì.

 

La posa in opera delle colonne della Matrice - quelle di cui si parlava nella transazione con gli eredi di don Santo Agrò del 1642 - avverrà nel marzo del 1655. L’iter dei lavori è seguito passo passo e studenti di architettura potrebbero utilizzare i rolli della “Fabrica” per avvincenti tesi sulle chiese del Seicento siciliano, quelle minori dell’entroterra contadino, come Racalmuto.

Il Samaritamo muore il 6 gennaio 1664 a 66 anni. Gli atti della Matrice riportano:

 

1664 SAMMARITANO Pompilio ARCHIPRESBITER      66        huius matricis Ecclesie

 

Viene sepolto in Matrice, presente clero. Aveva avuto l’estrema unzione da P. Antonio ord. S. Marie Carmeli.

Gli succede don Salvatore Petruzzella, finalmente un racalmutese; ma vive poco: muore il 29 maggio 1666. Non ha il tempo per lasciare tracce durevoli del suo apostolato.

E’ ora la volta dell’altro arciprete racalmutese: il dott. sac. Vincenzo Lo Brutto e costui di tempo ce ne ha per lasciare un segno profondo, al di là della lapide funerea che ancora è visibile nella cappella centrale della navata laterale di sinistra (per chi entra) della Matrice. Vanta un elmo chiomato, come se fosse stato un nobile milite: debolezza del nipote che quella tomba volle.

Il vescovo agrigentino Sanchez - si pensi quale ofelimità potesse legare uno spagnolo all’amaro vivere contadino di Racalmuto - regge la diocesi dal 26 maggio 1653 sino alla sua morte (+ 4 gennaio 1657). Subentra Franciscus Gisulpfus (Gisulfo) - dal 30 settembre 1658 sino alla morte (17 dicembre 1664); e poi Ignatius Amico ( 15 dicembre 1666 - + 15 dicembre 1668); Franciscus Ioseph Crespos de Escobar (e ci risiamo con gli spagnoli) - 2 maggio 1672, + 17 maggio 1674. Finalmente un buon vescovo per una cattedra durata vent’anni: Franciscus Maria Rini (Rhini) - 10 ottobre 1676, + 14 agosto 1696. Chiude il secolo un vescovo nefasto: 26 agosto 1697 - + 27 agosto 1715 (fuori Agrigento, essendone stato espulso dalle autorità civili per il suo atteggiamento provocatorio scaturente dalla nota questione liparitana). Su tale controversia ebbe a scrivere Sciascia. Il valore storico di quel pezzo teatrale fu denegato da Santi Correnti: comunque, oltre al valore - indubbio - sotto il profilo letterario, il testo sciasciano ci immerge nel clima politico e sociale, ma anche religioso e morale di quel tempo. Fu davvero una iattura il vezzo di preti e religiosi ruffianeggianti con Roma che negavano il sacramento della confessione ai moribondi, sol perché operava un interdetto dovuto all’incauto comportamento di alcuni catapani che avevano tentato di  applicare l’imposta di consumo ad un munnieddu  di ceci o di fagioli - non si è capito bene - del vescovo di Lipari (nominato, pare, al solo scopo di provocare un incidente per consentire al Papa di rimangiarsi la medievale concessione della Legazia Apostolica).

 Se, un moribondo - ossessionato dalla sola paura dell’inferno per i suoi tremendi peccati - in stato di semplice attrizione, dunque, avesse chiesto un confessore e non l’avesse avuto per l’interdetto dei fagioli, era destinato alla dannazione eterna? Certa intelligenza della curia agrigentina forse è in grado di dare una risposta. Ci serve per giudicare i tanti, troppi, nostri antenati che tra il 1713 ed il 29 settembre 1728 morirono in tale ambasce a Racalmuto (cfr. registro dei morti della Matrice).

Annotava il canonico Mongitore - tanto sgradito a Sciascia - «a 13 agosto 1713. Il vescovo di Girgenti D. Francesco Ramirez, d’ordine del pontefice, dichiarò scomunicati alcuni regi ministri, che concorsero al sequestro delli beni del vescovo di Catania.» E soggiungeva: «a 13 settembre. Partì da Palermo D. Isidoro Navarro, canonico della cattedrale, delegato della Monarchia, per levar l’interdetto dalla città e diocesi di Girgenti. Entrò egli non da ecclesiastico, ma da capitano; e armata mano levò il vicario generale il padre Pietro Attardo, come pure altro vicario Giuseppe Maria Rini, che mandò altrove carcerati. Mandò lettera circolare per la diocesi, che s’aprissero le chiese e non s’ubbidisse a detti vicarii.» Le carte della Matrice ci svelano che il clero racalmutese rimase ligio ai dettami del vescovo Ramirez e snobbò il canonico-capitano di Palermo. Più abile l’arciprete del tempo - Fabrizio Signorino - che in cambio di una bolla della crociata (anche con effetto retroattivo) poteva consentire cristiana sepoltura in chiesa: per i non abbienti, pazienza, l’ultima dimora era quella all’aperto a li fossi. Solo che quelli erano tempi davvero calamitosi e tantissimi nostri antenati morirono con la paura dell’al di là per un interdetto che non capivano ( e di cui non avevano responsabilità alcuna) ed una sepoltura dissacrata dal vento, dal sole e dai cani randagi.

Quelli che venivano sepolti in chiesa “gratis pro Deo” godevano di particolari privilegi: ma gli altri - la gran parte come si è visto - finivano sepolti all’aperto, anche se ‘prope ecclesiam’ (vicino, ma non dentro); per di più i loro parenti erano talmente poveri da non potere dare l’elemosina o il c.d. diritto di stola all’immalinconito cappellano che accompagnava il feretro in quel derelitto cimitero incustodito. “gratis, pro Deo”, la formula latina, che era comunque un parlare e scrivere poco ... latino (nell’accezione sciasciana).

 

L’arciprete Lo Brutto fu in eccellenti rapporto col vescovo Rini: si fece elevare a chiese “sacramentali” S.Anna, S. Michele Arcangelo, il Monte. E’ consultabile  la bolla di elevazione della chiesa di S. Anna in chiesa “sacramentale”. Del tutto analoghe sono  le altre, come quella: Datis Agrigenti die 17 Junii 1686 - fr. Franciscus Maria Episcopus Agrigentinus - Can Lumia Ass. - Vincentius Calafato M.r notarius.

Del pari fece autorizzare l’istituzione della speciale congregazione dei Filippini a Racalmuto, di cui parla il padre Morreale, ed al presente oggetto di studio da parte del prof. Giuseppe Nalbone. Costituisce la Comunia e ne fa nominare i mansionari.

Contro la devastante peste del 1671 nulla poté fare il povero arciprete racalmutese della fine del Seicento, se non annotare in bella calligrafia la iattura capitata tra capo e collo;  e fu iattura per tanti versi: da quello economico a quello sociale; da quello dell’umano vivere a quello del decomporsi morale e spirituale; per il clero con tanti fedeli in meno e quindi tante primizie assottigliate, per l’arciprete stesso, il cui gregge veniva drasticamente ridimensionato; per l’Universitas che non sapeva dove andare a racimolare le onze occorrenti, essendosi assottigliata la tassa del macinato per morte di un quarto della popolazione in un anno; per i suoi giurati che rispondevano dei tributi alla Spagna con la clausola “solve et repete”; per il neo conte Girolamo III del Carretto, salassato dal re per il tradimento del padre Giovanni V del Carretto, dalla mala gestione dei  suoi antenati che non pagando i debiti di “paragio” erano finiti sotto la mannaia delle condanne giudiziarie al pagamento degli arretrati e della capitalizzazione degli interessi di mora relativi; ed in più una sortita beffarda dell’uterina virago donna Aldonza del Carretto e delle sue similissime sorelle, aveva finito con il dare in pasto allo spietato convento di S. Rosalia di Palermo gran parte del patrimonio dei conti di Racalmuto (come abbiamo già raccontato).

Girolamo III del Carretto, esasperato, si rivalse sui ricchi preti di Racalmuto - su quelli poveri, che erano tanti, nulla poteva: a sua chiamata finiscono sotto il torchio della giustizia palermitana.

 

Girolamo III del Carretto sembrò benevolo verso la locale Chiesa quando fece venire i padri Benefratelli perché accudissero presso S. Giovanni di Dio ai malati di Racalmuto e li dotò: ma a ben guardare si limitò ad assegnare loro le vecchie rendite del vetusto ospedale racalmutese, la cui memoria si perdeva nella notte dei tempi. Forse non si astenne dall’incamerare alcuni lasciti che a suo avviso erano di dubbia origine.

Girolamo III aveva contratto matrimonio con una Lanza di Mussomeli, di cui parla il Sorge nel suo studio su quella cittadina. Era una Lanza decrepita per anni che riesce a partorire il figlio maschio Giuseppe, quello che premuore al padre, ed una figlia femmina i cui discendenti dopo un secolo consentono ai Requisenz di impossessarsi dell’ormai esausta  contea di Racalmuto.

Quanto fosse addolorato l’ancor possente marito non sappiamo: di certo, passò subito a nuove nozze. Per il momento non sappiamo fare altro che dare la parola al Villabianca per la prosecuzione della storia di Girolamo e Giuseppe del Carretto:

GIROLAMO del CARRETTO e BRANCIFORTE, investito a 15. Agosto 1656, Fu questi Maestro del Campo nella guerra di Messina e sostenendo tale carica prese il Casal di Soccorso, avendo difeso coraggiosamente SAMMICI da' Colli di Valdina, ed impedì lo sbarco de' Franzesi presso Melazzo (c) [AURIA Cron. f. 211], onde poi insieme fu eletto Vicario Generale nella Città di Noto, di Girgenti, Licata e Caltagirone. Fu Pretore di Palermo nel 1682, Diputato di questo Regno, e gentiluomo di camera del Ser.mo Rè Carlo II. pubblicato a 10. Agosto 1688 (e) [AURIA Cron. f. 211]. Sposo nelle prime sue nozze MELCHIORRA LANZA e MONCADA figlia di LORENZO C. di Sommatino, e poscia ebbe in moglie COSTANZA di AMATO ed AGLIATA, figlia di ANTONIO P. di GALATI. Dal primo suo letto coniugale venne alla luce GIUSEPPE del CARRETTO e LANZA

 

 

 

L’arciprete Lo Brutto morì il cinque febbraio del 1696. Risale al 20 settembre 1699 una relatio ad limina del Vescovo di Agrigento (e cioè una delle relazioni triennali che i vescovi erano tenuti a fare alla Sede Apostolica dopo il Concilio di Trento sullo stato della propria diocesi). Là [53] troviamo un ampio ragguaglio sulla vita religiosa di Racalmuto e val la pena di richiamarla consentendoci un quadro di raffronto con quanto emerso dalla  documentazione degli archivi statali.

''RECALMUTUM - Cittadina (oppidum) di cinquemila abitanti sotto la cura di un arciprete, la cui elezione ed istituzione sono da tanto tempo di diritto comune. Costui ha per il proprio sostentamento quasi duecento scudi. Nella chiesa maggiore si recitano quotidianamente le 'hore canonice' da parte di    sacerdoti vestiti con paramenti canonicali (Almutiis insigniti). Vi sono cinque conventi di religiosi:

- dei Carmelitani, con tre sacerdoti e due laici;

- dei Minori Conventuali, con tre sacerdoti e un laico;

- dei Minori di Regolare Osservanza, con 4 sacerdoti e 3 laici;

- dei Riformati di S. Agostino con tre sacerdoti e due laici;

- una casa addetta ad ospedale in cui stanno i frati di S. Giovanni di Dio, al momento un sacerdote e due laici.             

        Reputo qui di rappresentare che questi religiosi, dopo avere accettato di accudire  all'ospedale, non hanno giammai pensato di rinunciare all'istituto ospedaliero, e ne hanno percepito il reddito dell'ospedale. Ed essendo esenti dalla giurisdizione del vescovo ordinario, non vi sono forze per costringerli  a rinunciare ai proventi o a lasciare i locali del convento. 

Sorge un monastero di monache sotto la regola del terzo ordine di San Francesco ove servono il Signore otto professe corali; due novizie e 5 converse.

Oltre alla chiesa maggiore ed a quelle conventuali prima segnalate, vi sono quindici chiese, con quarantasette sacerdoti e trentasei laici.''

Sul vescovo Ramirez non è poca la letteratura - e noi ne abbiamo fatto sopra vari riferimenti. Ma qualunque sia il giudizio su questo presule, una sua pagina è profonda ed illuminante. Vi si scorgono le scaturigini della mafia.

 

GIUSEPPE I DEL CARRETTO


 

 

 

 

Continuiamo Con il Villabianca: « Videsi questo nell'onorato impiego di Capitano di Palermo nel 1698, e premorendo al padre senza figli fece estinguere nella sua persona la Famiglia illustrissima del CARRETTO de' Signori di SAVONA, che prendendo origine Reale, stimavasi una delle più cospicue Prosapie di questo Regno (f) [Caso di Sciacca del SAVASTA cap. 15. f. 43]. Fu sua moglie BRIGIDA SCHITTINI e GALLETTI figlia di Gio: Battista primo M. di S. ELIA, la quale per il credito della sua dote avvalorato da una sentenza proferita dalla R. G. Corte nel 1711. pigliò possesso di questo Stato, e insieme di questo Titolo a 10. luglio 1716. Venendo essa a morte succedette in questi feudi sua sorella OLIVA SCHITTINI e GALLETTI maritata a Giacomo  P. Lanza, il di cui figlio

 

ANTONINO LANZA e SCHITTINI se ne investì a 26. Agosto 1739. Questi vive attuale P. Ventimiglia, P. Lanza, B. dello Stato di Calamigna, etc.»

Don Giuseppe del Carretto riceve l’investitura di Racalmuto il 21 marzo del 1687 « ob donationem inrevocabiliter inter vivos sibi factam per illustrem d. Hieronymum del Carretto eius patrem vigore donationis per acta notarii predicti de Cafora et Tagliaferro die 17 maij X ind. 1687 sicuti depositione dicti ill.is d. Hieronymi constat per investituram per eum captam olim die 16 septembris V ind. 1666  [54]

E’ costretto a ripetere il rito per la morte di Carlo II il 20 gennaio 1702. Altre spese. Altri dissi con il padre che risulta ancora vivo. Nella documentazione palermitana abbiamo:

«Si può passare l'investitura per la presente possessione tantum ob mortem Caroli Secundi regis Domini nostri in Palermo a 20 gennaro 1702 - Don Giuseppe Bruno.» [55]

Giuseppe del Carretto nel 1702 è plurititolato;

questa la sfilza dei suoi feudi e titoli:

Die decimo nono Januarii X ind. 1702

illustris d. Joseph del Carretto possessor ac dominus comitatus Racalmuti ducatus Bideni Marchionatus Sanctae Eliae et baroniae terrae Ferulae.

Il padre don Girolamo III risulta ancora vivo a quella data del gennaio 1702. Se è vero che il figlio gli premorì, tale morte avvenne tra questa data e qualche tempo prima del 1711, quando ad avviso del Villabianca fu pronunciata la sentenza di assegnazione della contea di Racalmuto alla vedova di Giuseppe I del Carretto, BRIGIDA SCHITTINI e GALLETTI figlia di Gio: Battista primo M. di S. ELIA.

Girolamo III del Carretto cessava di vivere il 9 marzo 1710. In un documento del fondo Palagonia riguardante don Luigi Gaetano si parla infatti «de morte sequuta dicti ill.s D. Hieronymi per fidem mortis Parochialis Ecclesiae Sancti Nicolaj de Calsa h. u. sub die nono martij 1710 sicuti de possessione dicti quondam ill.s d. Hieronymi constat per investituram per eum captam olim die 16 septembris 5 ind. 1666.»

I nobili del Carretto cessano quindi di essere i feudatari di Racalmuto il 9 marzo del 1710. Con tale data si chiude anche la nostra ricostruzione della vicenda feudale carrettesca in quel di Racalmuto. Quel che avviene dopo - e dura un secolo - è storia del baronaggio locale con gli Schettini, i Gaetano (la parentesi Macaluso non rileva) ed i Requisenz protagonisti. I nobili del Carretto racalmutesi  - quanto al ramo maschile - si sono piuttosto malinconicamente estinti, prima dei grandi sconvolgimenti storici del 1713 allorché vi fu il breve avvento in Sicilia dei Sabaudi. 

 

 

 

 

POSTFAZIONE


 

 

 

Il seguito della storia dei del Carretto di Racalmuto mostra ombre ancora non del tutto dissolte. Noi disponiamo del testo di una procura rilasciata da don Luigi Gaetano per l’occorrente investitura della contea di Racalmuto; vi è riepilogata la faccenda della singolare acquisizione feudale: uno strano ed antigiuridico passaggio dai del Carretto ai Gaetano attraverso la popolaresca intermediazione di una tale Macaluso. L’evento poté verificarsi per il trambusto di quel periodo con quell’alternarsi dei Savoia e degli austriaci in Sicilia fino alla venuta dei Borboni.

E in un atto del 6 marzo del 1736 si raccontano le peripezie della vedova di don Giuseppe del Carretto, donna Brigida Schettini, alle prese con la curia nel tentativo di rinviare gli esborsi per l’investitura della contea di Racalmuto, cadutale addosso dopo la morte del suocero don Girolamo del Carretto.

 

 

Brigida Schittini


 

 

Il lungo tedioso documento vale solo per renderci edotti sul fatto che nel lontano 1709 Paola Macaluso ebbe a prestare poche onze (si parla del reddito su 32 onze) alla vedova di don Giuseppe del Carretto, donna Brigida Schettini. La vedova lasciò insoluti i suoi debiti. Nel 1736, subito dopo l’avvento di Carlo  IV [VII] di Borbone (15 maggio 1734-ag. 1759), Paola Macaluso, personaggio non meglio identificato, riattizza un processo civile - insufflata evidentemente dal duca Luigi Gaetani - pretendendo nientemeno che la conta di Racalmuto a ristoro del antico modico prestito, rigonfiato però per gli interessi di mora e per altri ammennicoli. Le sequenze processuali sono bene ricostruite in un documento del Fondo di Palagonia: sono dettagli che possono interessare solo studiosi di diritto civile nel Settecento siciliano.


 

Paola Macaluso


 

Paola Macaluso la spunta sul piano processuale, ma non sa che farsene dell’assegnata contea di Racalmuto. Allora candidamente dichiara di avere agito in nome e per conto del duca Gaetani.

 

Luigi Gaetani


 

In tal modo il duca Luigi Gaetani viene in possesso della contea di Racalmuto (titolo e feudi) in data 12 aprile 1736. Leggiamo nel privilegio datato

Panormi die duodecimo mensis aprilis 14 ind. 1736

che

Fuit prestitum juramentum debitae fidelitatis et vassallagij

e che

Servatis servandis concedatur investitura  .... Tituli Comitatus Racalmuti in personam ill.s D. Aloysij Gaetano ducis Vallis Viridis.

Ma don Luigi Gaetani non si aspettava una situazione così deteriorata come quella rinvenuta a Racalmuto.

Cerca innanzitutto di ripristinare il patto del 1580 sul terraggio. Si dichiara “mosso da pietà per i suoi vassalli” ma le due salme di frumento per ogni salma di terra coltivata le vuole tutte. Siamo nel 1738 ed una controversia sorge con tutti i crismi (e con tutti i costi).

  Trova pretermessi i suoi diritti di terraggiolo sui coltivatori racalmutesi dei feudi di Aquilìa e Cimicìa: gli abili benedettini di San Martino delle Scale di Palermo erano risusciti a farsi confezionare un decreto di esonero dal vescovo di Agrigento. Don Luigi Gaetani è costretto a sollevare un costoso incidente processuale. Vi estrapoliamo queste note di cronaca.

Il duca Gaetani si vanta di essersi accontentato della metà di quanto dovuto per terraggiolo (pro terraggiolo dimidium consuetae praestationis exegit).  Ma ecco che i benedettini avanzano strane pretese: vantano un esonero del 16 settembre del 1711. Ciò però non è accettabile per una serie di ragioni giuridiche che gli abili legulei del duca dipanano da par loro. Ecco scattare un’altra occasione di lite giudiziaria. Siamo nel 1739.

 

 

Il 22 giugno 1641 i benedettini sono soccombenti. Le spese vengono compensate. Le faccende racalmutesi, comunque,  non sono davvero prospere: il bilancio è deficitario.

Il quadro tracciato nel 1736 è preoccupante.

 

 

*    *    *

Terraggio e terraggiolo: atto finale


 

 

 

 

Presso la Matrice si conserva un Liber in quo adnotata reperiuntur nomina plurimorum Sacerdotum. Al n.° 292 (col. 16) incontriamo questa dedica a D. Nicolò Figliola: «di Grotte, domiciliato in Racalmuto, eletto nella causa del Terragiuolo, che gli antenati inutilmente tentarono nei tribunali contro il Signor Conte.

«Nell’anno 1783 si cominciò la causa, e nel tempo dell’agitazione il predetto Figliola due volte si trasferì in Napoli al R. Erario e riportò dal Sovrano, che il Conte mostrasse il titolo dell’imposizione del terragiolo, che non poté provare, per cui sotto li 30 luglio 1787, dopo quattro anni di causa dal Tribunale si era designato il giorno di decisione, ma il Figliola nello stesso mese, se ne morì.

 

«Il sudetto nel 1786 ottenne dal Re, che questa terra di Racalmuto si reluisse il Mero e Misto Imperio, che di più di centinaia d’anni ne godeva il Conte. Morì in corso di causa, con pianto e dolore universale, nell’infermeria dei RR.PP. del Terz’Ordine di S. Francesco nel convento della Misericordia, in cui sta sepolto il di lui cadavere, in Palermo. 14 luglio 1787 d’anni 38

 

Al n.° 297 (col. 17) tocca all’altro protagonista della vicenda: l’Arciprete D. Stefano Campanella, di cui si tesse questo encomio:

«Collegiale-Economo nel 1754-1755 in Campofranco. Successore dell’Arciprete Antonio Scaglione, fatto il concorso nella Corte Vescovile di Girgenti nel 1756 a 19 Febbraio sotto Mons. Lucchese Palli, approvato e raccomandato alla Santità di Papa Benedetto XIV, da cui fu eletto Arciprete Parroco con bolla emanata da Roma 16 giugno 1756 ed in Palermo esecutoriata 8 Agosto 1756 confirmata dal Vescovo di Girgenti 14 Agosto e l’indomani, 15, prese possesso.

«Da principio curò il ristoramento delle Fabbriche della Chiesa. Nel 1760 fece la presente ampia Sacristia, nel 1767 compì il cappellone grande. Nel 1776 si perfezionò con stucchi ed oro fino, si fecero i due campanili ed arricchì la chiesa di arredi sacri nel 1783.

«Egli con altri primari del paese incominciarono a proprie spese la causa per il Terragiolo nel Tribunale di Palermo  e dopo quattro anni di strepitosa lite dal Tribunale rotondamente si determinò a 28 Settembre 1787. “Jesus= Jus Terragii, et Terragiolii tam intra, quam extra territorium declaratur non deberi.”

 

«Finalmente nel 1787 in Favara fu Visitatore eletto dalla Corte Vescovile di Girgenti per quel Collegio di Maria. Morì compianto da tutti il 26 Aprile 1789 d’anni 60, mesi otto, giorni 2 - e di Arcipretura anni 32, mesi 8 giorni 7.

 

«Fu ancora Vicario di questo Monastero, Delegato dalla Regia Monarchia etc.»

 

 

La vicenda del terraggio e del terraggiolo è stata oggetto di nostre apposite ricerche,  che, solo di recente per  il ritrovamento di importanti documenti da parte del prof. Giuseppe Nalbone, abbiamo potuto approfondire: crediamo di essere riusciti almeno in parte nell’opera di ripulitura di tante incrostazioni ideologiche degli storici nostrani.

 

Di rilievo, alcune carte della Real Segreteria del 1785 che palesano una settecentesca controversia clerical-sociale nella nostra Racalmuto.

La politica antibaronale del Caracciolo è fin troppo nota per sorprenderci dell’andamento della controversia feudale di Racalmuto.

Non siamo partigiani certamente del Principe di Lampedusa, né del sacerdote locale, don Giuseppe Savatteri, che gli teneva bordone. Ma al di là dei meriti dei sacerdoti Figliola e Campanella, prima rievocati, fu quella del 28 settembre 1787 una sentenza politica, giuridicamente azzardata, storicamente falsa.

Era di sicuro un grande araldista il Requisenz per lasciarsi abbindolare dai legulei di Racalmuto. Avrà esibito i bei diplomi del 500 e del 600, tutti a suo vantaggio, ma contro il Caracciolo naufragò.

Al di là dell’aspetto sociale,  che ci vede dall’altra parte della barricata, siamo portati,  per amore della storia locale, a credere che il burbanzoso principe di Pantelleria avesse ragione e l’illuminista Caracciolo sbagliasse.

Resta ancora poco chiaro come venissero corrisposti i pesi feudali ai del Carretto, se in natura (come i termini “terraggio” e “terraggiolo” fanno pensare) o in contanti (come tanti atti dell’epoca lasciano intendere) o in forma mista.

Abbiamo notato sopra le varie controversie dei Gaetani sul terraggio e sul terraggiolo. I tribunali gli avevano dato, tutto sommato, ragione, ma erano altri tempi. Ora, alla fine del Settecento la musica è ben altra. Ne fa le spese il buon nome del sac. Savatteri, vilipeso imperituramente da Sciascia.

Sac. Giuseppe Savatteri e Brutto (1755-1802)


 

Bello, elegante, colto, raffinato, ricco, sprezzante - quanto casto non è dato sapere - questo prete svetta sia nelle vicende della famiglia sia in quelle della locale storia. Leonardo Sciascia, avvalendosi di dati di seconda mano, tenta di infilzarlo, ma commette una delle sue solite manipolazioni storiche per prevenzioni ideologiche. Il sac. Giuseppe Savatteri ha coraggio, cultura e intraprendenza tali da osare un’impari contrapposizione con il suo potente (e dispotico) vescovo agrigentino. Entra nell’intricata storia del beneficio del Crocifisso.

Quando, il Tinebra Martorana - un famiglio della discutibile consorteria dei Tulumello - si accinge, nel 1897, a scrivere la storia del paese, non gli sembra vero di dilatare il senso di un documento giudiziario - che invece di venire custodito negli archivi del Comune, sta fra le carte private del barone Tulumello - per dileggiare un Savatteri, la famiglia ostile ai suoi protettori, che fra l’altro lo facevano studiare da medico a spese dell’Amministrazione comunale.

Quello sui cui il Tinebra trama è il carteggio del Caracciolo su cui abbiamo già detto. Ripetiamo quello che riguarda il nostro sacerdote:

«17. La Gran Corte dia le pronte provvidenze di giustizia, onde li cittadini non soffrano aggravij - A febbraio p.p. in die 16 - Li naturali della terra di Racalmuto, sentendosi molto gravati di questo esattore ed amministratore Prete d. Giuseppe Savatteri nell’esigenza del terragiolo dentro e fuori di questo stato, quanto nell’avere agumentato la Baglìa a tutti li poveri giornalieri, formando una Cascia o Statica come anche esatte a forza di prepotenze pignorando sin anco gli utensili delle loro moglie e pratticando molte estorsioni.

«Pregano l’E.V. di ordinare il conveniente per non vedersi pur troppo soverchiati.»

 

Al Tinebra Martorana mancano competenza e penna per fronteggiare la complessa vicenda della lotta al baronaggio siciliano da parte del discutibile Caracciolo (l’agiografica visione dei laici del Settecento e del postumo Sciascia lascia oggi il tempo che trova). Il Tinebra, dunque, compatta scarne e disparate “notizie storiche” in un capitoletto sul Settecento e velenosamente rubrica (pag. 184): «1785 - Soprusi praticati dal sac. Giuseppe Savatteri, arrendatore di Racalmuto, verso i poverelli.» Non parve vero a Leonardo Sciascia di rigonfiare quell’appunto per una delle sue solite tiritere anticlericali.  Nessuna ricerca storica, da parte sua; nessun approfondimento; nessuno spunto critico. Scrive dunque lo Sciascia [56]:

«Ecco il rapporto di un altro funzionario al Tribunale della Real Corte sui “soprusi praticati dal sacerdote Giuseppe Savatteri, verso i poverelli”» e giù, senza analisi critica, il testo di un’evidente lettera anonima, che crediamo essere dovuta alla penna del malevolo arciprete Campanella, o peggio del sac. Busuito, contro cui il Savatteri aveva affilato le armi per l’usurpazione del beneficio del Crocifisso.

Prosegue Sciascia: «Il bello è che dopo questo rapporto il Tribunale della Real Corte ordinava al giudice criminale di Regalpetra [alias Racalmuto] “di far restituire ai borgesi tutti gli oggetti che il sacerdote Savatteri aveva ad essi pignorati”, forse i lettori non lo crederanno ma la cosa è andata davvero così”.» Con buona pace di Sciascia, a noi pare che le cose erano molto più complesse e coinvolgono la politica dei re Borboni di Napoli, che è quanto dire.

 

D. Giuseppe Savatteri e Brutto morì nella peste del 1802; il Liber annota: n.° 312, c. 19, D. Giuseppe Savatteri e Brutto, 27 februarii 1802 d’anni 47. Il vescovo non lo aveva voluto come beneficiale della Communia. Il Savatteri faceva però parte della neo-confraternita della Mastranza. Non pare molto diligente nell’annotare le messe che era tenuto a celebrare per i confrati defunti: subisce delle sanzioni. Così risulta annotato in registri della confraternita.

 

Sciascia ed i Sant’Elia - Conclusione


 

 

 

Sciascia è benevolo verso i principi di Sant’Elia. Leggiamolo assieme: «Con lui [Girolamo IV, ma rectius III] si estingueva la famiglia, l’investitura passava ai marchesi di Sant’Elia, ancor oggi i borgesi di Regalpetra pagano il censo agli eredi dei Sant’Elia: ma certo che fu grande riforma quella che i Sant’Elia fecero centocinquanta anni addietro, divisero il feudo in lotti, stabilirono un censo non gravoso, la piccola proprietà nacque, litigiosa e feroce; una lite per confini o trazzere fa presto a passare dal perito catastale a quello balistico, i borgesi hanno fame di terra come di pane, ciascuno tenta di mangiare la terra del vicino ...» [57] A parte la bellezza della trasfigurazione letteraria, si resta perplessi. Sotto il profilo storico, non sappiamo dove abbia preso Sciascia quelle notizie sui Sant’Elia. A noi risultano fatti, intenti e liti ben diversi da quelli sottesi nella pagina sciasciana. Ad addentrarsi in tali meandri, il discorso porta lontano, ben lontano dalla vicenda feudale racalmutese. Ed in questa sede c’interessa solo il declino del baronaggio in Racalmuto. Riforma borbonica e rivoluzione francese estinsero quell’istituto. I Sant’Elia ne furono, a loro modo, vittime. Divennero semplici proprietari “allodiali” di terre già in enfiteusi perpetua, sminuzzate tra tanti ex vassalli racalmutesi. Gliene venne il magro censo che ancora all’epoca in cui Sciascia scriveva si pagava, svilito ormai per le tante selvagge svalutazioni monetarie, non certo per bontà d’animo di quei signori. Le loro memorie giacciono negli archivi dei tribunali e quando verranno riesumate suoneranno condanna per quegli ultimi virgulti della decrepita società feudale siciliana.


 

sommario

 

 

La signoria racalmutese dei Del Carretto

Introduzione..............................................................................................................................

PERCHE' UNA STORIA SUI DEL CARRETTO.....................................................................

PARTE PRIMA....................................................................................................................

RAPIDA STORIA RACALMUTESE FINO ALL’ASSUNZIONE DEL TITOLO DI CONTE DA PARTE DEI DEL CARRETTO........................................................................

La svolta del 1374..............................................................................................................

Le decime del 1375..........................................................................................................

Racalmuto alla fine del Trecento....................................................................................

I DEL CARRETTO BARONI DI RACALMUTO...............................................................

I DEL CARRETTO VERSO LA SIGNORIA DI RACALMUTO.......................................

I DEL CARRETTO BARONI DI RACALMUTO NEL XV SECOLO................................

PARTE SECONDA...........................................................................................................

PROFILI DEI DEL CARRETTO DI RACALMUTO.............................................................

ANTONIO I DEL CARRETTO...........................................................................................

ANTONIO II  DEL CARRETTO.........................................................................................

GERARDO DEL CARRETTO............................................................................................

MATTEO DEL CARRETTO, primo barone di Racalmuto................................................

GIOVANNI I DEL CARRETTO.........................................................................................

FEDERICO  DEL CARRETTO...........................................................................................

GIOVANNI II  DEL CARRETTO.......................................................................................

ERCOLE  DEL CARRETTO...............................................................................................

La venuta della Madonna del Monte...............................................................................

Tratti anagrafici di Ercole del Carretto.........................................................................

Paolo del Carretto............................................................................................................

GIOVANNI III DEL CARRETTO.......................................................................................

Processo d’investitura di Giovanni del Carretto, ultimo barone di Racalmuto.............

Secondo processo d’investitura di Giovanni III del Carretto..........................................

Il quadro della vita religiosa racalmutese sotto Giovanni III del Carretto...................

Il testamento di don Giovanni III del Carretto...............................................................

GIROLAMO I DEL CARRETTO........................................................................................

Peste e tasse a Racalmuto................................................................................................

Terraggio e terraggiolo sotto il primo conte di Racalmuto............................................

L’organizzazione feudale del centro agrario di Racalmuto...........................................

GIOVANNI IV DEL CARRETTO.......................................................................................

L’intrico (veritiero) del conte Giovanni del Carretto.....................................................

La presa del possesso di Racalmuto................................................................................

I del Carretto a fine secolo XVI.......................................................................................

La fosca storia del chierico Vella...................................................................................

Il benefizio di Sant’Agata................................................................................................

IL MERO E MISTO IMPERIO.........................................................................................

Lo stato di Racalmuto......................................................................................................

Giurati a Racalmuto a fine ’500......................................................................................

Chiese, quartieri e facoltà nel rivelo del 1593...............................................................

Località e Rioni................................................................................................................

Qualche immigrato di spicco...........................................................................................

Uomini e cose da segnalare...........................................................................................

Fine di Giovanni IV del Carretto..................................................................................

L’arciprete don Vincenzo del Carretto e la questione del terraggiolo........................

Fra Diego La Matina (secondo noi)...............................................................................

L’atto di donazione della contea di Racalmuto da parte di Girolamo II del Carretto in favore del figlio Giovanni V del Carretto.....................................................................

 

I tempi dell’interregno di Beatrice del Carretto Ventimiglia.............................

 

GIOVANNI  V   DEL CARRETTO...................................................................................

Anagrafe di Giovanni V del Carretto............................................................................

Racalmuto sotto Giovanni V del Carretto.....................................................................

GIROLAMO III DEL CARRETTO...................................................................................

Il feudo di Racalmuto a fine del ’600............................................................................

Religione, clero ed altri aspetti nella Racalmuto post Giovanni V del Carretto.........

GIUSEPPE I DEL CARRETTO........................................................................................

POSTFAZIONE...............................................................................................................

Brigida Schittini................................................................................................................

Paola Macaluso.................................................................................................................

Luigi Gaetani.....................................................................................................................

Terraggio e terraggiolo: atto finale..................................................................................

Il Sac. Giuseppe Savatteri e Brutto (1755-1802).............................................................

Sciascia ed i Sant’Elia - Conclusione...............................................................................

 



[1]) Archivio di Stato di Palermo: PROTONOTARO REGNO INVESTITURE -  BUSTA 1487 -  PROCESSO n.°  1175 - ANNO 1518-21
[2]) ARCHIVIO VESCOVILE DI AGRIGENTO - "GIULIANA"  - VISITA- DEL 1540 - f. 196 v - 198v.
[3]) Cfr. «LA VISITA PASTORALE DI MONS. PIETRO DI TAGLIAVIA E D'ARAGONA - parte II (Anno 1542-43)» - tesi di laurea di Rosa Fontana, relatore Paolo Collura dell'Università degli Studi di Palermo - facoltà di lettere e filosofia - anno accademico 1981-1982. Racalmuto risulta trattato nelle pagine 207-218. Inoltre: ARCHIVIO VESCOVILE DI AGRIGENTO - "GIULIANA"  - VISITA 1542-43 - colonne 190v-193v.
[4] ) Archivio di Stato di Palermo - Fondo Palagonia - Atti privati n. 630 - anni 1453-1717 - ff. 44r - 56v.
[5] ) PALAGONIA . N.° 709 ANNI 1613-1749 - N.° 2
[6]) Archivio di Stato di Agrigento - Fondo 46 - vol. 509 - f. 52-55.
[7]) Vincenzo Di Giovanni - Palermo Restaurato - Palermo 1989, pag. 334-335. Trattasi della ripubblicazione di un testo manoscritto del 1627 (una trentina d’anni dunque dopo la conclusione degli eventi).
[8]) C.A. Garufi - Fatti e Personaggi dell’Inquisizione di Sicilia - Edizione Sellerio, Palermo 1978, pag. 255; 260; 260 e 262-263
 
[9]) Il Garufi non indica con precisione gli estremi di questo Rapporto.
 
 
[10]) Nel libro dei Morti della Matrice di Racalmuto del 1614 alla colonna n. 83, n.ro d'ordine 17, leggesi:
 
«2 dicto [maggio 1622] il Ill.mo D. Ger.o [Geronimo] del Carretto fu morto e sepp.[llito] nella ecclesia di S.to Francesco per lo clero». Dai processi d’investitura sappiamo che era morto  il giorno prima 1° maggio 1622.
 
 
[11]) Crivella A. -Trattato di Sicilia - Palermo 1970
 
[12]) Archivio di Stato di Palermo - Protonotaro del Regno - Processi d’investiture - Busta n. 3542 - Contea, terra e castello di Racalmuto - del Carretto Francesco (così erroneamente indicato, ma trattasi di Giovanni del Carretto)   
[13]) Diari della città di Palermo, a cura di Gioacchino di Marzo - Palermo 1869 - “Varie cose notabili occorse in Palermo ed in Sicilia” cavate da un libro scritto da Valerio Rosso dottor in medicina, della città di Corleone - pag. 283.
[14]) Leonardo Sciascia - Morte dell’Inquisitore - Bari 1982, pag. 183 - la pensa invero alquanto diversamente.
Precisa:  «questo stesso Giovanni IV  troviamo nella cronaca dello scoppio della polveriera del Castello a mare, 19 agosto 1593: stava a colazione con l'inquisitore Paramo, ché allora il Sant'Uffizio aveva sede nel Castello a mare, quando avvenne lo scoppio. Ne uscirono salvi, anche se il Paramo gravemente offeso. Vi perirono invece Antonio Veneziano e Argisto Giuffredi, due dei più grandi ingegni del cinquecento siciliano, che si trovavano in prigione.»
[15]) Op. cit. - Diario della città di Palermo da’ mss. di Filippo Paruta e Niccolò Palmerino - vol. I, pag.  136.          
[16]) ARCHIVIO DI STATO IN PALERMO - PROTONOTARO DEL REGNO - PROCESSI D’INVESTITURE - BUSTA N. 1555 -  PROCESSO N. 3542 - FEUDO: CONTEA TERRA E CASTELLO DI RACALMUTO -
COGNOME E NOME DELL’INVESTITO: DEL  CARRETTO FRANCESCO [ma trattasi di Giovanni: errore dell’archivista palermitano di questo secolo] - ANNO: 1600
[17]) ARCHIVIO DI STATO IN PALERMO - PROTONOTARO DEL REGNO - PROCESSID’INVESTITURE - BUSTA N. 1517 - PROCESSO N. 2554 - FEUDO: TERRA CON CASTELLO DI RACALMUTO - COGNOME E NOME DELL’INVESTITO: DE CARRECTIS GIROLAMO - ANNO: 1562.
[18]) Domenico De Gregorio - Giovanni Horozco de Covarruvias de Leyva, Vescovo di Agrigento (1594-1606), in Miscellanea in onore di Mons. Canv. Dr. Angelo Noto - per la sua messa d’oro - Agrigento 1985, pag. 73. Le raccoglie dall’Archivio Curia Vescovile di Agrigento - Reg. 1595.
[19]) ARCHIVIO STORICO SICILIANO del 1908 , Nuova Serie, Anno XXXIII (pag. 105 e ss.)
[20]) Archivio di Stato di Palermo: PROTONOTARO REGNO INVESTITURE -  BUSTA 1538 -  PROCESSO n.°  2872 - ANNO 1584,
[21])  Archivio di Stato di Palermo - Protonotaro del Regno - Processi investiture - Busta n.° 1597 - Processo n.° 5226 - Anno 1656.
[22]) Il toponimo è presente negli atti notarili per lo meno per lo meno dal 1714: non può quindi riferirsi a nessuna Baronessa Tulumello.
[23]) Archivio Parrocchiale della Matrice di Racalmuto  - LIBRO D'INTROITO ED ESITO di denari per conto      della fabrica della Matrice Chiesa di Racalmuto, incominciando dalli 29 di novembre 8a Ind. 1654 et infra -D. Lucio Sferrazza - Vol. I “Esito n.° 7 dell’11/12/1658”.
[24]) Archivio Segreto Vaticano - Relationes ad limina - 18A - f. 5. La relazione economica è al f. 16 e ss.
[25]) Archivio di Stato di Agrigento - Fondo 46 - vol. 532.
[26]) ibidem
[27]) ibidem
[28]) ibidem
[29] ) Vol. II - Aggiunte al Diario di Filippo Paruta e di Niccolò Palmarino, da un manoscritto miscellaneo seg. Qq C 48 - pag. 24-25 dell’edizione del 1869.
[30]) ARCHIVIO STATO PALERMO: L'ARCHIVIO DEI VISITATORI GENERALI DI SICILIA - ROMA 1977 pp.. 191
[31] ) Archivio di Stato Palermo                                                            
Palagonia n.° 709 Anni 1613-1749
[n.° 3] Relationes  Burgentium Terrae Racalmuti [f. 141-149]
[32]) Vedasi la nota apposta nel Libro dei Morti del 1667 presso l’Archivio della Matrice di Racalmuto. Il 26 agosto del 1667 muore il padre fra Giovan Battista FALLETTA  degli Ordine degli Eremiti di Sant’Agostino della Congregazione di Sicilia all’età di 63 anni. Ad assisterlo è il confratello P. Salvatore da Racalmuto, agostiniano, un frate in odore di santità, che solo in questi ultimi tempi si cerca di farlo emergere dalle nebbie di un colpevole oblio. Per volontà del vescovo agrigentino fra Ferdinando Sancèz de Cuellar, invero in esecuzione di disposizioni pontificie, il Convento di S. Giuliano di Racalmuto andava chiuso, per carenza di uomo e di mezzi.  Fra Giovan Battista Falletta veniva pertanto sepolto nella Chiesa Madre, anziché a S. Giuliano, dato che, come viene annotato: «stante soppressione conventui Sacre Congregationis per decretum sub die 26 augusti 1667 ». Ma il Convento riaprì e sopravvisse per un altro secolo almeno.
[33]) Leggasi quanto elucubrato in Morte dell’Inquisitore a pag. 182 dell’edizione Laterza 1982. Per inciso, è tutt’altro che provata la storia del priore agostiniano mandante dell’omicidio di Girolamo del Carretto, avvenuto il 1° (e non 6) maggio del 1622, ammesso che di omicidio si sia trattato e non della stroncatura per “un morbo” del venticinquenne conte di Racalmuto.
[34]) Archivio Segreto Vaticano - Sacra Congregazione dei Vescovi e Religiosi - Anno 1602: positiones D-M.
[35]) ASV - SCVR -  anno 1601: positiones G-M.
[36]) ARCHIVIO VATICANO SEGRETO - SACRA CONGREGAZIONE DEI RITI - PROCESSI nn. 28; 2169; 2170.
[37]) ARCHIVIO PARROCCHIALE DELLA MATRICE DI RACALMUTO - LIBER MORTUORUM 1811. Dove fosse quella piazza ove veniva eretto il patibolo non sappiamo con certezza: tutto però induce a pensare che si trattasse della parte antistante l’attuale Piazzetta Crispi. Il toponimo tradizionale del «cuddaro» sembra comprovarlo. L’attribuzione di quel macabro posto alle male esecuzioni dell’Inquisizione - come fa Sciascia - puzza alquanto di astioso anticlericalismo.
[38]) Vincenzo Di Giovanni - Palermo Restorato - Palermo 1989,  libro quarto, pag. 335. Per un approfondimento si leggano le splendide pagine di C.G. Garufi: Fatti e personaggi dell’Inquisizione in Sicilia - Palermo, Sellerio  - pp. 255   e 262-263. 
[39] ) Cfr. catalogo su Pietro d’Asaro “il Monocolo di Racalmuto - Racalmuto 1985 -  pag. 72
[40] ) Archivio Vescovile di Agrigento - Registri Vescovi 1622-1623 - f. 230r-231 - die 24 januarii 1623.
[41] ) Archivio Vescovile di Agrigento - Registri Vescovi 1622-1623 - f. 412v - die 3 settembre VII ind. 1622.
[42] ) Archivio di Stato di Palermo - Protonotaro del Regno - Processi investiture - busta n.° 1560 - proc. N.° 4074 - anno 1621-
[43]) Archivio di Stato di Agrigento - Fondo 46 - Vol. 508 - f. 35,
[44] ) Leonardo Sciascia, Morte dell’inquisitore, op. cit. pag. 182 e segg.
[45] ) Gio. Battista Caruso, Storia di Sicilia, PUBBLICATA CON LA CONTINUAZIONE SINO AL PRESENTE SECOLO PER CURA DI Gioacchino di MARZO Palermo 1878 - Vol. IV - LIBRO XIV [p. 116]
[46] ) Leonardo Sciascia, Morte dell’inquisitore, op. cit. pag. 177.
[47] ) Dal Diario delle cose occorse nella città di Palermo e nel regno di Sicilia dal 19 agosto 1631 al 16 dicembre 1652, composto dal dottor D. Vincenzo Auria palermitano, dai manoscritti della Biblioteca Comunale a’ segni Qq C64a  e Qq A 6, 7 e O - pubblicato a Palermo nel 1869 da Gioacchino di Marzo (pagine citate nel testo).
[48]) Documenti per servire alla storia di Sicilia - SECONDA SERIE - FONTI DEL DIRITTO SICULO VOL VII - PA 1911 - PAG. 129 XIII - Palermo 6 ottobre 1639, VIII Ind.
[49]) terratico: la somma per l'affitto di un terreno. In Sicilia, il terratico si corrispondeva in natura, con parte del raccolto del grano.
[50] ) Giovan Battista CARUSO, Memorie Storiche di Sicilia, volume II, parte III, pag. 132 e seguenti.
[51] ) Archivio di Stato di Agrigento  - Soppresse Corporazioni Religiose - Inventario n. 46 - fascicolo 532.
[52] ) ARCHIVIO DI STATO PALERMO Fondo archivistico Palagonia - Serie Fondi Privati - UNITA’ n.° 631 ANNI 1502-1706 Pagine da 126 a p. 143v
[53]) Archivio Segreto Vaticano: Agrigentum, relationes ad limina, B18 - f. 314.
[54]) ARCHIVIO DI STATO DI PALERMO - PROTONOTARO REGNO - PROCESSI INVESTITURE - unità archivistica n. 1640 -
PROCESSO N. 7205 - ANNI 1702  -  n.° 4 - INVESTITURA TITULI RACALMUTI in personam Ill.is   D. JOSEPH DEL CARRETTO
[55]) ARCHIVIO DI STATO DI PALERMO - PROTONOTARO REGNO - PROCESSI INVESTITURE - unità archivistica n. 1640 -
PROCESSO N. 7205 - ANNI 1702  -  n.° 4 - INVESTITURA TITULI RACALMUTI in personam Ill.is   D. JOSEPH DEL CARRETTO
[56] ) Leonardo SCIASCIA Le parrocchie di Regalpetra - ed. Laterza 1982 Bari U.L., pag. 21.
[57] Leonardo SCIASCIA Le parrocchie di Regalpetra - ed. Laterza 1982 Bari U.L., pag. 19.

Nessun commento: