lunedì 2 febbraio 2015

storia antica: greci e cartaginesi a Racalmuto

VERSO L’AVVENTO DEI GRECI

Non riusciamo a resistere alla forte tentazione di formulare nostre personali congetture sull’evoluzione sociale ed abitativa dei primordi racalmutesi. Se qualche abitante vi fu a Racalmuto durante il Paleolitico Superiore, fu la grotta di Fra Diego ad ospitarlo: quell'antro per esposizione, per capienza e per vicinanza a luoghi fertili ed a valli boschive adatte alla cacciagione, si attaglia all'ospitalità troglodita. Le testimonianze archeologiche più antiche sono però di gran lunga posteriori e ci portano in piena cultura della 'Conca d'Oro' con le caratteristiche «tombe  del tipo a forno».
Da quell'era i nostri progenitori - siano sicani o altro - riuscirono a sormontare gli sconvolgimenti epocali dell'Età del Bronzo in condizioni di relativo benessere, piuttosto pacifici ed alquanto prolifici, come il diffondersi delle tombe per tutto il crinale collinare sta a testimoniare. Caccia e risorse minerarie, ma soprattutto cerealicultura e pastorizia consentirono sopravvivenza ed anche sviluppo. A quanto pare, l’ingresso nell’Età del Ferro fu loro fatale.
A questo punto si ebbe una crisi per ragioni che ci sfuggono: forse per le razzie dei Siculi, forse per difendersi dalle incursioni di popoli stranieri giunti dal mare, i Sicani di Racalmuto sembra abbiano preferito ritirarsi entro le più sicure zone montagnose di Milena.
Successivamente, quando, per l'aridità della loro terra, i greci sciamarono per il Mediterraneo e le genti di Rodi e di Creta, via Gela, si insediarono nella valle agrigentina,  per i radi indigeni di Racalmuto fu il definitivo tracollo.
I moderni storici si accapigliano per stabilire tempi, modalità e drammi di quell'esodo geco cui non si attaglierebbe neppure il termine di colonizzazione, trattandosi di un'espulsione senza ritorno. Sono però propensi a ritenere che quei greci subirono la violenza della scacciata dalle loro famiglie contadine e, mancando di mogli, quella violenza la scaricarono sulle donne indigene di Sicilia, violandole con nozze coatte.
Un doppio dramma - si dice - che, ci pare, Racalmuto non subì né nella prima ondata di immigrazione greca, né in quella della seconda generazione. La zona era lungi dal mare e lungi dalle rive sabbiose, preferite dai greci per trarre in secco le loro imbarcazioni, magari come semplice auspicio per un (improbabile) ritorno in patria.  I rodiesi ed i cretesi di Gela fondarono, accrebbero e consolidarono la città akragantina. Allora il nostro Altipiano cessò di essere libero territorio anellenico: erano giunti i tempi della famigerata tirannide di Falaride. Nel sesto secolo a.C., per le locali popolazioni iniziò una devastante denominazione greca. I cadetti greci di Agrigento, privi di terra e di beni per il costume del maggiorascato del loro popolo, cercarono, forse, fortuna e dominio nei dintorni e così anche Racalmuto cadde nelle loro mani. Si attestarono certo nelle feraci contrade tra Grotticelle e Casalvecchio, e, secondo recentissimi ritrovamenti archeologici, anche alle falde del costone di Fra Diego. I radi reperti numismatici con la riconoscibile effigie del granchio akragantino  non attestano  solo l'inclusione di quel territorio nella circolazione monetaria delle varie tirannidi dell'antica Agrigento, ma soprattutto l'insediamento dei nuovi padroni. Da quell'epoca la civiltà sicana indigena non è più testimoniata in alcun modo. I nuovi padroni venuti da Agrigento presero certo la più gagliarda gioventù per trasferirla, schiava, nella titanica costruzione dei templi. La gran parte, se non resa schiava, fu senz'altro assoggettata ad una sorta di servitù della gleba. Taluni, scacciati o fuggitivi, si ritirano con i loro sparuti armenti negli inospitali valloni siti a tramontana. E divennero pastori randagi e rudi, feroci ma liberi, anarchici e misantropi, irriducibili ed incoercibili, simili a quei pastori che ancor oggi sembrano mantenere le prische connotazioni di uomini fieri e  ribelli. In tutto ciò sono da rinvenire le radici della storia sociale racalmutese. La classe agro-pastorale nasce e si evolve lungo millenni con sufficiente continuità e peculiarmente autoctona. Sono i vertici ed i dominatori che vengono da fuori, arroganti ed estranei. Si pensi che un ricambio in senso classista Racalmuto l'ha potuto registrare solo molto di recente. Soltanto gli anni ottanta del XX secolo sono propizi ad un rivoluzionario avvento di amministratori con genuine ascendenze locali e d'autentica estrazione popolare.

IL PERIODO GRECO

Tra il 570 ed il 555 a. C. Racalmuto non poté che essere pertinenza rurale della polis di Akragas, sotto la tirannide di Falaride: costui assurge al potere cavalcando la tigre dei ribellismi sociali e plebei dell'Agrigento di allora. Fu questo fenomeno tipico dei silicioti greci di quel periodo.
Il piccolo centro abitato vi fu travolto di riflesso, per via dei greci nobili che poterono appropriarsi delle terre dell’Altopiano sito ad Oriente. Frattanto nelle nostre plaghe ebbero a moltiplicarsi i kyllyrioi, i semi schiavi di cui parla Erodoto: gente che doveva lavorare per la vicina polis di Akragas, senza libertà di movimento, senza diritti civili se non quelli di non potere essere venduti o allontanati dalla terra che lavoravano, potendo conservare la propria famiglia e la propria vita comunitaria. I reperti numismatici che talora si sono rinvenuti nel nostro territorio sono i soli indici della loro presenza.
E' certo che sino a quando non si faranno scavi come quelli che gli Adamesteanu e gli Orlandini ebbero a condurre nel circondario di Gela attorno agli anni cinquanta, o più recentemente il La Rosa a Milena, a noi non resta che avventurarci in malcerte congetture.
In una campagna di scavi del 1960, furono fatte importanti scoperte presso Vassallaggi, in S. Cataldo, e si attribuì a quella località la nota cittadina di Motyon della Biblioteca di Diodoro Siculo (Kokalos, VIII 1962). Tramontava definitivamente il sogno accarezzato da Serafino Messana nel secolo diciannovesimo di assegnare quel nome greco al nostro paese. La sua teoria della 'metatesi' di Motyon che diventa «Casalmotyo e perciò Casalvecchio» - e dire che Serafino Messana ignorava le teorie linguistiche del Ciaceri che vuole Mothion una grecizzazione del preesistente 'Mutuum' - svanisce inequivocabilmente. Tinebra Martorana già rifiutava quella teoria con l'elegante 'non liquet'  (non risulta) di Filippo Cluverio. Oggi, liquet (risulta) l'inattribuibilità di Motyon a Racalmuto e dintorni:  la località è dagli studiosi concordemente ubicata attorno a S. Cataldo o comunque nei pressi di Caltanissetta.
Quando vi fu dunque l'attacco di Ducezio all'avamposto di Akragas, Motyon, nel 451 o nel 450 a.C., l'onta dell'invasione non riguardò queste nostre contrade: per quei tempi, S. Cataldo era a distanza considerevole: quei nostri antenati dovettero però fornire grano e vettovaglie e vite umane in quella guerra tra Akragas, sostenuta dai siracusani, e l'esercito di Ducezio, il siculo-ellenizzato di Mineo. Per Racalmuto passavano di sicuro gli opliti agrigentini. La rete viaria di allora non doveva essere granché diversa da quella della fine dell’Ottocento-.
Frattanto Racalmuto, territorio rurale di Akragas, perdeva usi e costumi sicani, dimenticava la madre lingua per storpiare un’aliena lingua dorica, e si dedicava alla coltivazione dell'ulivo, alle vigne, alla vinificazione per i padroni di Agrigento. Insieme naturalmente al grano, merce di scambio per i traffici agrigentini con la madre patria greca o con i vicini cartaginesi. La continuità degli autoctoni - pastori e contadini - persisteva certo, ma in via sotterranea e ovviamente subalterna, priva di ogni esteriorità e senza lasciare alcuna testimonianza per i posteri.
Racalmuto continuava a riflettere sbiaditamente la vicenda storica di Agrigento. Restava pertinenza rurale, piuttosto disabitata, senza monumenti ragguardevoli, con una popolazione sfruttata e vessata. Periferia agricola della Polis, dunque, al tempo degli splendori di Terone, il tiranno agrigentino legato anche con vincoli di parentela con quello di Siracusa, Gelone. Pindaro esaltava, a pagamento, Agrigento come la più bella città dei mortali. Racalmuto doveva fornire grano e tributi per consentire ai tiranni agrigentini di equipaggiare le costosissime corse dei carri a quattro cavalli nei giochi olimpici della lontana Grecia.  Dopo, chi vinceva commissionava le famose odi a Pindaro, statue a scultori greci e profondeva doni ai santuari di Olimpia.
 A Racalmuto, sulla cui economia agricola quegli eventi ebbero a pesare, giunse, sì e no, una flebile eco, se qualche signorotto di Agrigento ebbe a recarsi nelle proprie terre per refrigerarsi in qualche sua villa sulle pendici del Serrone durante la canicola estiva. Alcuni versi delle Olimpiche di Pindaro su quella vittoria col carro di Terone nel 476 a. C. ebbero ad incantare qualche nostro antenato, incolto ma sensibile all'alta poesia.: «certo per i mortali non sta/ fissa una soglia di morte,/ né quando un giorno figlio del sole/ s'acquieterà alla fine in pura felicità:/ flutti diversi, momenti alterni/ di gioia e d'affanno vengono agli uomini» eran poi versi da avvincere anche l'animo del contadino greco, intento a riverire il suo padrone, specie se questi li recita mirando le stelle cadenti del cielo senza fine dell'estate racalmutese. E qui da noi circolavano anche le monete col granchio agrigentino, testimonianza di commerci, esportazioni di grano e presenze greche.
Sfiora la locale società contadina la nebulosa vicenda di Trasideo, figlio di Terone, «violento ed assassino», per Diodoro Siculo.  La sua cacciata da Akragas, per il passaggio ad un regime democratico, non fu forse neppure avvertita.  Non sapremo però mai se Racalmuto fu coinvolto nella successiva confusione che venne a determinarsi per lo sconvolgimento nella distribuzione su nuove basi delle terre.
Dopo il 427 a. C., Akragas si acquieta, entra nella riservatezza. Se Siracusa coinvolge Imera, Gela e forse Selinunte nella sua guerra contro Lentini, a sua volta sostenuta da Camerina, Catania e la piccola Nasso, Akragas si mantiene neutrale e fa affari con tutti vendendo il suo grano ad entrambe le parti contendenti e lucrandovi sopra per un benessere economico, di cui ebbe a goderne anche Racalmuto, sia pure in minima parte. Sono queste, certo, ipotesi, ma ci suonano attendibili.
Atene - con Alcibiade che credeva di potere fagocitare la Sicilia in un guerra lampo ritenendola una terra di imbelli popolazioni bastarde - si avventura, nel 415 a. C., nella guerra contro Siracusa. Subisce, l'esercito ateniese, una disastrosa sconfitta. Atene, con 40.000 uomini agli ordini del suo più esperto generale, Demostene, ritenta l'impresa. Siracusa trova alleati a Sparta, a Gela, Camerina, Selinunte, Imera e persino tra i siculi di Kale Akte. Quelle tragiche vicende che portano alla tremenda disfatta degli ateniesi trovano risalto nelle memorabili pagine di Tucidide. Akragas, come al solito, sta a guardare; ancora una volta è neutrale, alla stregua di Cartagine e del settore fenicio della Sicilia. In quel trambusto, Akragas ha modo di prosperare con i profitti di guerra. Racalmuto, come sempre propaggine rurale di quella polis, ne segue sicuramente le sorti, intensificando l'agricoltura e la pastorizia. Ma, attorno al 406 a. C., con l'ascesa di Dionisio I alla tirannide di Siracusa, per Akragas fu l'inizio del declino. Per converso, Racalmuto poteva affrancarsi dal giogo della vicina polis akragantina.  
Nel 406 a.C., fallito il tentativo di Ermocrate di impossessarsi di Siracusa, Akragas iniziò il suo ciclo storico di colonia punica. Un esercito africano numeroso e potente - anche se ben lontano dall'astronomica cifra di 120.000 uomini, come vorrebbe Diodoro - ebbe come primo bersaglio l'opulenta Agrigento. Gli aspri combattimenti tra siracusani e cartaginesi durarono sette mesi, nell'imbelle indifferenza dei greci agrigentini. Nel dicembre del 406, per Akragas fu, però, la fine: fuggirono i cittadini a Leontini e la città fu abbandonata. I cartaginesi si diedero ai saccheggi ed alla spoliazione delle tante opere d'arte, ivi compreso - pare - il toro di bronzo di Falaride. Racalmuto fu per quei tempi terra lontana: niente saccheggi dunque, anzi un afflusso di cittadini agrigentini dovette verificarsi. Le disgrazie agrigentine finirono col dare enfasi ad un risveglio demografico nel vecchio centro sicano sito nel nostro fertile altipiano. Quegli agrigentini che vi avevano fattorie e ville, ebbero di certo a preferire le note località racalmutesi all'angustia dell'esilio in quel di Lentini.
Dionisio il giovane, un ventiquattrenne rampante, si impossessava frattanto di Siracusa. Trattava con i cartaginesi ed Akragas cadeva nella mediocrità dell'epikrateia africana. La popolazione poteva ritornare a casa, ma per una umiliante sudditanza punica. Dal 405 al 264 a.C. la storia di Agrigento emerge solo per qualche barlume che le vicende siracusane vi riflettono.  E' comunque un ruolo subalterno alla politica ed alle fortune di Cartagine: da una parte, commercio, relativo benessere, vivacità economica; dall’altra, sudditanza politica e remissività verso la civiltà africana d'oltremare. Una tassazione gravava sulla popolazione cittadina - ora blanda, ora esosa, a seconda delle esigenze cartaginesi.
Crediamo che in tale contesto Racalmuto ebbe tempi non duri: i nuovi dominatori africani erano gente di mare per penetrare nelle impervie e infide vallate racalmutesi. Per altri versi, si apriva qui un mercato proficuo per quei tempi ed i suoi prodotti agricoli potevano trasformarsi in moneta contante, idonea ad un'economia vivace, se non addirittura prospera. Il male di Akragas si tramutava in buoni affari per Racalmuto.
L'archeologia e la numismatica attestano qualcosa di più delle fonti letterarie: sappiamo che artigiani greci e non greci furono chiamati a coniare le cosiddette monete siculo-puniche. Tinebra Martorana scrive di monete con effigie di improbabili scheletri e potrebbe trattarsi degli oboli di Motya o delle monete con la spiga. Per noi, quei reperti numismatici attestano proprio la presenza dello scambio cartaginese nelle terre racalmutesi di quei secoli.
Sempre il Tinebra Martorana  ci testimonia del rinvenimento di monete «di argento [aventi] da una parte un cavallo alato ed al rovescio il capo armato di un guerriero». Trattasi senza dubbio di pegasi siracusani che ci richiamano le dittature di Dione o di Timoleonte (357-317 a.C.). In quel periodo, il territorio racalmutese non fu durevolmente assoggettato a Siracusa. I segni monetari palesano dunque un libero scambio: grano, orzo, ma anche vino, olio e prodotti caseari del paese prendevano la via dell'oriente siciliano oltre a quella del mare africano. Ne derivò un tenore di vita evoluto da consentire tumulazioni di lusso ed alla greca. Non possiamo non credere al Tinebra Martorana quando scrive: «In contrada Cometi, ....  si rinvennero sepolcreti d'argilla rossa, resti di ossa, lumiere antiche, cocci di vasi» e le monete di cui abbiamo detto sopra.

LA PARENTESI CARTAGINESE

Attorno al 282 a.C. si affaccia sul proscenio della storia un tiranno agrigentino di un qualche rilievo: Finzia. Fu lui a radere al suolo Gela e a trasportarne la popolazione nell'attuale Licata: in questa località il tiranno costruì una città di stile greco, cinta di mura e dotata di agorà e di templi. Racalmuto dovette essere terra subalterna a Finzia e dovette contribuire quindi al sostegno finanziario delle mire egemoniche del tiranno agrigentino. Fu però vicenda storica di breve respiro. Sparisce ben presto Finzia e Akragas, ritornata debole e faccendiera, non sa ostacolare l'egemonia di Siracusa.
Nel 280 a. C. Siracusa sconfigge Akragas. Cartagine, vigile ed interessata, arma un imponente corpo di spedizione che presto raggiunge le porte di Siracusa. Akragas  ed il suo territorio -  ivi compreso Racalmuto - si estraniano, come sempre, dalla lotta armata ed assistono piuttosto indifferenti all'intrusione di Pirro, quel re dei Molossi, passato alla storia per le sue risibili vittorie.
Akragas e Racalmuto, quale sua pertinenza, rientrano nella zona di influenza di Cartagine e vi restano per quasi un ventennio fino a quando la Sicilia fenicia incappa nelle mire espansionistiche della repubblica romana.
Nel 264 a.C. scoppia la prima guerra punica e la vicenda siciliana si avvia melanconicamente a divenire la scansione di un'oscura appendice della lontana e suprema Roma. La Sicilia assurge all’inglorioso ruolo di provincia che secondo Cicerone: «prima docuit maiores nostros quam praeclarum esset exteris gentibus imperare». Già, la Sicilia fa gustare per prima ai Romani quanto fosse bello soggiogare popoli stranieri. E, ancora - dopo un secolo e mezzo - Sicilia, Akragas (e ancor più Racalmuto) saranno per i romani nient'altro che «extera gens» [gentucola straniera] da dominare e da proteggere solo perché «ornamentum imperi».
Roma conquistò Akragas nel 261: dopo un assedio di sei mesi, le scomposte furie dei romani si sfogarono ignominiosamente sui poveri cittadini agrigentini. Né beni, né donne e neppure gli stessi uomini furono risparmiati: 25.000 dei suoi abitanti furono venduti come schiavi.
Sette anni dopo, sono i cartaginesi a rimpadronirsi della città, dopo avere distrutto la flotta romana che ritornava dall'Africa. A farne le spese è ancora una volta Akragas: i cartaginesi bruciano ogni cosa, abitazioni e mura.
Riteniamo che la terra di Racalmuto dovette risultare alquanto decentrata per subire direttamente le atrocità di quella guerra punica. Ma i riflessi dovettero esserci, dolorosi e devastanti. Lutti per i parenti che si erano stanziati nella vicina polis; distruzione di beni; spoliazioni, rapine, banditismo, vandalismi ed altro.

Le antiche fonti nulla ci dicono sui successivi due decenni: verso lo spirare del secolo, Akragas  e la vicina Eraclea Minoa  appaiono saldamente in mano dei cartaginesi. Tra il 214 e il 211 a.C. un massiccio movimento di uomini armati - si parla di 40.000 militari tra i quali 6.000 cavalieri - su 200 navi parte da Cartagine per raggiungere la Sicilia. Punto di approdo è Akragas: sulle colture raculmutesi si abbatte il gravame di apporti alimentari a quegli eserciti tutto sommato stranieri. Nel 212 a. C. tocca a Siracusa cadere nelle mani dei romani ed il grande Archimede finisce ucciso per mano militare. Per i cartaginesi, nel grande scontro con i romani, le sorti belliche volgono al peggio: i fenici ripiegano su Agrigento, ultimo baluardo delle loro difese. Mercenari numidi consumano l'ennesimo tradimento. Akragas cade ancora una volta in mano dei romani; ancora una volta popolazione e beni diventano bottino di guerra per una vendita sui mercati del mondo. Levino a Roma fa il suo trionfale rapporto. Per Racalmuto inizia l'epoca di agro ferace per le distribuzioni di grano nella lontanissima Roma.

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