sabato 20 giugno 2015

un tentativo di microstoria paesana: Racalmuto il paese dei racalmutesi

LA VERA STORIA DI RACALMUTO.
UNA GRANDE MEMORIA DA RECUPERARE

Antichissima è la storia di Racalmuto. Essa è appassionante, piena di intrighi, tutta narrabile.
La conformazione del suolo, quale oggi ammiriamo, risale a sette milioni di anni fa: in pieno Pliocene. Sorsero allora dalle acque il Castelluccio, il Serrone, la Montagna, le colline del Nord, e si definirono le valli, i valloni, i declivi. L’altopiano di Racalmuto concluse il suo splendido maquillage che è la gioia dei nostri occhi.
Nel ventre racchiuse gesso ed alabastro, zolfo e salgemma, e giù nello sprofondo i sali potassici. Lo stillicidio delle acque formò splendidi cristalli  solforosi e salini che noi racalmutesi da sempre chiamiamo “brillanti”.
Subito vi si sparse una flora mediterranea e sopraggiunse una peculiare fauna. Anche animali preistorici, oggi estinti, vi si adattarono, dopo essere trasmigrati dall’Africa. Archeologi dilettanti ne hanno rinvenuto i resti e le testimonianze specie nella grotta di Fra Diego.
In quella grotta trovò ricettacolo il primo uomo, anch’esso venuto dal mare che congiunge con il continente africano. Dopo, circa dieci mila anni addietro, un popolo nuovo, i sicani, decisamente indigeno prosperò nelle contrade racalmutesi. A Gargilata, sotto la grotta di Fra Diego, vi fu il maggiore insediamento, come attestano le superbe tombe a forno di una necropoli oggi negletta per incuria delle Autorità. Ma altri insediamenti, più piccoli, si sparsero dappertutto: al Castelluccio, a Vircico, a S. Bartolomeo, a Garamuli, e persino giù nel vallone del Pantano. Fu una civiltà di cui sappiamo ben poco: argille, ceramica, tombe a forno e tholoi ci attestano però che fu civiltà meravigliosa, evoluta, che va studiata. Critichiamo aspramente le Autorità locali, provinciali, regionali, nazionali ed ora comunitarie per l’incuria che dimostrano.
Attorno al VI secolo avanti Cristo, i greci giunsero a Racalmuto e soppiantarono la civilità sicana. Era stata gente rodia che si era trasferita a Gela; da lì una colonia si era attestata ad Agrigento (Agragas) e da Agrigento il dominio si era esteso a Racalmuto. Monete greche – in particolari monete di Agragas con il caratteristico granchio – sono state rinvenute a Racalmuto, a testimonianze di quella grande presenza. La mancanza di scavi scientifici ci impedisce di conoscere come quella sublime civiltà abbia trasformato il nostro paese. La lingua greca vi si diffuse e vi restò per quasi mille e tre cento anni, fino al dominio arabo. Noi pensiamo a quei greci di Racalmuto che potevano godersi lo spettacolo delle tragedie di Sofocle, Euripide, Eschilo, etc. nella madre lingua. Potevano ascoltare le intraducibili dolcezze delle odi di Pindaro. Fu gettato un seme del bello e dell’arte che tutti noi racalmutesi, ovunque oggi noi stiamo, portiamo nel sangue nel nostro DNA.
Roma vi portò invece i mali dello sfruttamento coloniale. Non si parlava latino. Si pagavano tasse in natura ed in denaro alla lontana Roma. Fummo stranieri e vessati. L’odio per la capitale vi dovette essere allora; continua adesso. Almeno c’è comprensibile distacco.
Subentrarono i bizantini. Parlavano greco come i racalmutesi. Vi fu affinità almeno linguistica. Monete di Eracleone e Tiberio II, rinvenute nel 1940 in contrada Montagna, attestano vivacità economica e laboriosità dei nuclei bizantini del nostro paese.
Poi la parentesi araba (dall’880 d.C. circa sino al 1087 d.C.). Si tende ad esagerare l’importanza della presenza araba a Racalmuto. Era poi una presenza berbera. Sparuti nuclei di contadini, dunque, che seppero soprattutto far crescere le verdure in orti sotto fontane perenni. Le verdure di Racalmuto sono ancora ineguagliabili. Per il resto, nessuna traccia archeologica, nessun documento scritto, nessuna teoria seria ci induce a credere in influenze significative degli arabi nel nostro centro. Può darsi che future ricerche archeologiche – in particolare sotto le torri del castello – ci restituiscano ceramiche e segni di una civiltà che oggi ignoriamo. Qualche sintomo, a dire il vero, va emergendo.
Arrivano i normanni. Sono predatori. Ma sono pochi e tutto sommato ininfluenti. Ormai nel territorio si parla arabo. I cosiddetti arabo-normanni sono disseminati in varie parti a Racalmuto. Soprattutto a Gargilata, allo Zaccanello ed a Garamuli. Affiorano a profusione ceramiche tipiche dell’epoca a testimoniarlo. Quei nostri antenati sono operosi, coltivano la terra, impiano vigneti, costruiscono palmenti, sanno convogliare le rade acque in gebbie. I vescovi di Agrigento, in nome di un preteso lascito di Ruggero il Normanno, li vessano. Esigono tasse, impongono balzelli, li costringono ad estranei riti cattolici. Si distingue su tutti il vescovo Ursone. Gli arabo-normanni si ribellano. Quelli di Racalmuto si uniscono a quelli del vicinato. In tutto il territorio agrigentino abbiamo una rivolta che arriva ad imprigionare il vescovo. A Palermo si è insediato Federico II. L’imperatore siculo-tedesco non tollera rivolte, neppure quelle contro i vescovi che in cuor suo ha in odio. Disperde i rivoltosi, anche quelli di Racalmuto.
Il nostro paese langue. L’agricoltura si deteriora. Fame, peste, malattie, spopolamento sono lo squallido retaggio di un altipiano, prima fiorente e prospero. Non può durare. Il provvido Federico II consente a Federico Musca, un nobile di Modica, di insediarsi là dove ora sorge Racalmuto. Siamo attorno al 1250. Federico Musca porta con sé una ventina di famiglie contadine. Esse trovano alloggio nelle grotte sotto il Carmine e la Centrale, anche in quelle attorno alla Madonna della Rocca. Nasce un nuovo paese. La vite ed il grano, i mandorli e gli ulivi, le tradizionali verdure, una agricoltura ferace, insomma, torna a fiorire nelle lande racalmutesi. Sorge la nostra nuova civiltà che oggi ha residua sede nel paese dell’agrigentino ma che si è mirabilmente irradiata a Buffalo come a New York, negli Stati Uniti come in Canada, in Francia, in Germania, in tutta Italia, ad Hamilton come in America Latina. Un romanziere di fama mondiale, Leonardo Sciascia, esalta quella civiltà con echi planetari.
Sotto Federico Musca Racalmuto diviene una “universitas”, un comune libero. E’ naturalmente assoggettato a tasse e balzelli vari, ma ha cariche elettive, uno statuto comunale e nomina propri “sindici” (amministratori comunali) democraticamente. Il comune ha così modo di prosperare, godendo di una sorta di libertà politica.
Ma giunge in Sicilia dalla Francia Carlo d’Angiò: suo fratello è re di Francia e sarà santo per la Chiesa. Tanto signore non è gradito a Federico Musca. Questi si ribella e Carlò d’Angiò lo priva della signoria di Racalmuto affidandola ad un napoletano: il milite Pietro Negrello di Belmonte. Era il 1271 come attesta un diploma che si custodiva a Napoli, nell’archivio angioino, prima che i tedeschi lo distruggessero nel 1943.
Il signorotto partenopeo forse non mise mai piede a Racalmuto.  Ebbe, comunque, poco tempo perché nel 1282, con i famosi Vespri Siciliani, i francesi con Carlo d’Angiò furono cacciati via dalla Sicilia.
Ma con i nuovi padroni spagnoli, per i racalmutesi le cose non andarono meglio. Tante imposte, sopraffazioni e soprattutto la perdita delle libertà comunali resero la cittadina terra di conquista da parte di un insorgente feudalesimo. Diversamente da quello che si dice – e si scrive – i primi signori di Racalmuto, dopo il Vespro, non furono i Del Carretto ma i Chiaramonte. Costoro erano insediati ad Agrigento. Si erano impossessati del feudo attraverso un cadetto della famiglia – Federico Chiaramonte - e questo appare strano: non era legale ma in tempo di ribellioni ciò potè agevolmente verificarsi.
Un religioso – alquanto pruriginoso -, l’Inveges,  racconta ben tre secoli dopo che  Federico II Chiaramonte aveva una figlia di nome Costanza. Giunge ad Agrigento un ligure, un uomo di mare che si fa chiamare Antonino del Carretto. Dice di essere il marchese di Finale e di Savona. Federico II Chiaramonte abbocca e gli dà in moglie la figlia Costanza, bellissima e molto giovane. Appena il tempo di generare Antonio II del Carretto ed il sedicente marchese di Savona muore. Il suocero in dote aveva però assegnato il feudo di Racalmuto. Il feudo passa allora al figlioletto Antonio II che resterebbe poco in Sicilia: si sarebbe trasferito a Genova (si badi bene: non a Savona) e là avrebbe fatto fortuna. Ha diversi figli. Si distinguono Gerardo, primogenito, e Matteo. Questi torna in Sicilia, si allea con i Chiaramonte, lotta contro i Martino venuti dalla Spagna. Siamo alla fine del XIV secolo.
I Chiaramonte soccombono nella lotta contro i Martino: Matteo cambia casacca, si allea con i vincenti spagnoli e diviene “barone di Racalmuto”. A partire dal 1396 non v’è più dubbio che il nostro paese sia diventato una melanconica baronia dei Del Carretto. E prima?
Dopo il Vespro il paese era sotto il dominio dei Chiaramonte – e questo si è già detto. Quella signoria durò sino a qualche anno prima dell’avvento di Matteo del Carretto e cioè sino al 1392. Documenti dell’Archivio Vaticano Segreto – ricercati, trovati e studiati dal dottore Calogero Taverna – lo comprovano. Si parla e si scrive della signoria dei Malconvenant che sarebbero stati padroni di Racalmuto ed avrebbero eretto la chiesa di Santa Maria nel 1108. Si scrive su una dominazione degli Abrignano. Si afferma pure che i Barresi sarebbero stati i feudatari del nostro paese – non si precisa però il periodo, arbitrariamente qualcuno fornisce la data del periodo immediatamente prima del Vespro (1282). Sono tutte tesi cari agli storici locali. Ricerche e studi critici degli ultimi tempi dissolvono tutto ciò definendolo “una serie di cervellotiche congetture”. Tra gli eruditi locali è la guerra.
Nel 1282 (data del Vespro) a Racalmuto non c’erano più di quattrocento abitanti. Nel 1404 la popolazione era raddoppiata: stavamo però al di sotto della media dei grossi borghi del circondario. Peste e fame non erano mancate nel XIV secolo: per scongiurare la peste del 1375 il signore di Racalmuto, Manfredi Chiaramonte, chiede al papa perdono per le passate ribellioni politiche e per ottenere l’indulto tassa i suoi feudi in favore del papa. Arriva a Racalmuto, il 29 marzo del 1375, l’arcidiacono Bertand du Mazel: viene da Avignone, conta i casolari del nostro paese ed applica una tassazione tripartita: tre tarì per i ricchi, due per la classe media ed uno per i poveri. Si giunge alla cifra di 7 onze e 28 tarì: si erano contati 136 nuclei familiari (fuochi); molte case erano coperte da paglia; la popolazione non superava le 700 persone. Il documento, che si trova in Vaticano, ci fornisce una preziosissima descrizione della Racalmuto del tempo, diversamente del tutto ignota.
 Il Vaticano altra volta aveva tassato il paese nel secolo XIV: veramente erano stati due religiosi e si chiamavano Martuzio de Sifolono ed il presbiter Angelo de Monte Caveoso. Per le decime del 1308 e del 1310 avevano corrisposto, il primo un’oncia ed il secondo nove tarì. Il Sifolono godeva delle prebende della chiesa di Santa Maria: ricerche recenti inducono a pensare che si trattasse del convento carmelitano. In un affresco del  Convento di S. Angelo di Licata, nell’orbita di un tondo a modo di frutto di un grande albero raffigurante l’intera famiglia dei conventi carmelitani, sta scritto: «conventus Recalmuti, anno 1270». Se l’indicazione è esatta, il Carmine è la più antica chiesa di Racalmuto ed il relativo convento carmelitano risale appunto al 1270, agli albori dunque della fondazione del paese da parte di Federico Musca, sotto gli auspici di Federico II (†1250).
L’altra chiesa, retta dal presbiter Angelo de Monte Caveoso è rimasta anonima. Il testo in latino recita: «presbiter Angelus de Monte Caveoso pro officio suo sacerdotali, quod impendit in Casale Rachalamuti, solvit pro utraque tt. ix», cioè: il sacerdote Angelo de Monte Caveoso pagò per il suo ufficio sacerdotale che svolge nel casale di Racalmuti, per entrambe le decime, tarì 9. Tutto fa pensare, dunque, che si trattasse di un monaco venuto da Monte Caveoso, l’odierno Montescaglioso in provincia di Matera (Basilicata). Noi pensiamo ad un monaco del convento fondato dalla contessa Emma verso la fine del XII secolo.
Piccolo, specie se adottiamo i parametri dei nostri giorni, Racalmuto era diventato comunque un “casale” capace di attirare dalla lontana Basilicata un monaco che riusciva a viverci bene. Da notare però che chi aveva le prebende del Carmine viveva ancora meglio, se era costretto a pagare più tasse al pontefice di Roma. Nell’uno e nell’altro caso, era sulle magre spalle dei racalmutesi che papa e preti si appoggiavano per avere soldi ed oboli.

Il XV secolo Racalmuto lo trascorre sotto l’egida dei Del Carretto. Matteo del Carretto muore nel 1400; gli succede il figlio Giovanni che deve vedersela con gli esosi Martino. E’ costretto ad esibire una nutrita documentazione e pagare tante once per avere confermato il titolo di barone di Racalmuto. Vi riesce. E buon per noi perché possiamo ora consultare presso l’archivio di stato di Palermo quella documentazione ed avere preziose notizie sul nostro paese. Giovanni I del Carretto a noi sembra un barone oculato, laborioso e in definitiva attaccato al paese che sotto di lui cresce e si consolida. Ma lo storico francese Henri Bresc la pensa diversamente ed è sicuro che il figlio di Matteo finì male e dovette cedere la baronia agli Isfar di Siculiana. A conferma della sua tesi, cita documenti spagnoli. Li cita in termini talmente evasivi da impedirci, per il momento, riscontri convincenti. Siamo dunque costretti a lasciare in sospeso la questione.
La baronia ritorna, in ogni caso, ai Del Carretto: Federico, figlio di Giovanni I, riceve l’investitura da Alfonso d’Aragona l’11 febbraio 1451; viene salassato, deve corrispondere 20 once ogni anno, deve rendere omaggio nelle forme solenni, deve rispettare i diritti di “legnatico” dei cittadini racalmutesi, non è proprietario delle miniere, delle saline e delle antiche difese del luogo, deve salvaguardare la libertà di pascolo dei paesani e degli equipaggiamenti regi. In compenso ha il dominio assoluto sul feudo racalmutese che si estende però alla parte nord-ovest del paese. La parte sud-ovest (Gibillini ed il Castelluccio) costituisce un altro feudo (si diceva allora “stato”) ed apparteneva per due terzi alla famiglia De Marinis di Favara. Il restante terzo non si è mai saputo a chi appartenesse: solo nell’Ottocento vi è stata un’annessione da parte della famiglia Tulumello.
Federico Del Carretto fu un grande affarista: nel 1451 si associò con Mariano Agliata per un’operazione speculativa sul grano simile a certi contratti a termine dei nostri tempi (outright): i due consegnavano al Lomellina il vecchio frumento delle annate 1449 e 1450 e si assicuravano il raccolto dell’anno in corso, consegna a luglio prossimo presso il caricatoio di Siculiana.
Federico del Carretto dovette essere molto esoso con i suoi vassalli racalmutesi se questi nel 1454 si ribellarono violentemente. Il Del Carretto, intanto, procedeva ad acquistare un altro feudo, quello di Rabiuni di Mussomeli, preso da Pietro del Campo. Altri notabili racalmutesi erano diventati anche loro facoltosi: uno di loro, Mazzullo Alongi, teneva in affitto il feudo di San Biagio sempre a Mussomeli.per 14 onze annue, un castrato, un quintale di formaggio ed una “quartara” di burro.
Verso la fine del secolo Federico muore e gli succede il figlio Giovanni II. Forse visse poco, forse il contesto politico era molto agitato, forse era propenso ad evadere, fatto sta che non si sobbarcò alla procedura dell’investitura feudale e non corrispose i balzelli alla corte reale. Qualche anno dopo il Barberi, un ispettore regio particolarmente rigoroso, bolla i Del Carretto per questa evasione fiscale. Intanto era succeduto il figlio di Federico, il celebre Ercole Del Carretto ed anche lui incappa nelle censure dell’inquisitore: si era ben guardato dall’ottemperare agli obblighi feudali dell’investitura. Ed  eravamo già nel XVI secolo.
Racalmuto nel XV secolo passa da 800 a 2500 abitanti circa: più che triplicata, dunque, la popolazione. Non sarà stato tutto merito dei Del Carretto ma tale crescita non è stata almeno impedita; depone a merito dei locali baroni. Non potè trattarsi di mera crescita demografica: condizioni politiche, sociali ed economiche attraevano, di sicuro, gente dai dintorni che trovavano migliori possibilità di vita nella baronia dei Del Carretto.
Vi fu però un fatto gravissimo che palesa una mentalità antisemita. Un ebreo fu barbaramente trucidato a scopo di rapina. Era il 7 luglio 1474 VII Indizione, l’efferato crimine era già avvenuto. Ma Palermo vigila e non consente crimini dal vago sapore razziale. Il vicerè Lop Ximen Durrea dà allora commissione ad Oliverio RAFFA  di recarsi  a  Racalmuto per punire coloro che  uccisero  il giudeo Sadia  di  Palermo, e di pubblicare un bando a  Girgenti  per  la protezione di quei giudei. Nei giorni precedenti il giudeo Sadia di Palermo, abitante nel casale di Racalmuto, attendendo ad alcune sue faccende fu ferito mortalmente da un tal Leone, figlio di mastro Raneri. Altri facinorosi del luogo, congregatisi come in un branco, mi misero ad infierire contro il povero giudeo. Lo colpirono varie volte alla testa, gli tagliarono la lingua, gli ruppero costole mani e gambe, gli fracassarono i denti ed infine lo gettarono in una fossa. Lo ricoprirono quindi di paglia e vi diedero fuoco. Mentre bruciava gli tirarono pietre e terra. Gli ordini all’algozino (ufficiale di polizia) furono precisi e perentori. Soprattutto, però, bisognava tentare di recuperare “ uno gippuni  in lu quali si dichi erano cosuti chentochinquanta pezi d’oro” (una giacca nella quale si dice che erano cuciti dentro 150 pezzi d’oro). Non sappiamo sei soldi furono recuperati, pensiamo di no. Possiamo essere certi che davvero i responsabili, almeno i caporioni, furono tutti individuati ed insieme a Liuni figliastro di mastro Raneri finirono nelle carceri di Agrigento.
Passeranno meno di vent’anni e nel 1492 la regina Isabella la spunta nel cacciare via dalla Sicilia gli ebrei. Noi, in ogni caso, siamo convinti che solo gli ebrei ricchi emigrarono (soprattutto a Napoli, pare): i poveracci non sapevano dove andare. Cambiarono nome, cambiarono paese, non si circoncisero, divennero marrani e continuarono a vivere in Sicilia. Tanti ne vennero a Racalmuto come i tanti La Licata, Lintini, D’Asaro, Aiduni, Caltabiano, Caltavuturi, Camastra, Castronovo, Castrogiovanni, Chiazza, Madonia, Milazzo, Modica, Monreale, Montilioni, Nicastro, Noto, Petralia, Ragusa, Randazzo, Sicilia, Siragusa, Termini, Terranova, Vicari e simili -  che costellano la nomenclatura dell’anagrafe del ‘500 - fanno trasparire, sia pure con tutte le riserve e cautele del caso.
Gli esordi del XVI secolo sono all’insegna del sacro e del miracoloso. Nasce la saga della Venuta della Madonna del Monte. Narrarla comporta rischi: si può mancare di fede, di religiosità, di rispetto. Si può scadere nella profanazione. Per questo ci rivolgiamo al grande scrittore di Racalmuto, prendiamo a prestito la sua ineguagliabile prosa.
«Nel 1503, da Castronovo dove viveva – esordisce il sommo Racalmutese – il nobile Eugenio Gioeni, secondo alcuni afflitto da “filato ipocondriaco” (ipocondria), secondo altri da mal sottile, noleggiò un vascello e, in buona compagnia, andò come in crociera verso il Marocco … Cacciando un giorno in quelle terre d’Africa (non si sa precisamente dove), per un improvviso temporale trovò, con i suoi compagni, riparo in una grotta, il cui fondo – notarono ad un certo punto – era chiuso da un muro da mano umana edificato. Parve loro una stranezza, se ne incuriosirono ; e si adoperarono ad abbatterlo. Era piuttosto esile, per fortuna: ed apparve loro, splendente e dolcissima, la statua di una Madonna col Bambino. Pesantissima: e vi tornarono a prenderla con un carro, a portarla su quel loro vascello che subito, per l’impazienza di portare a Castronovo la statua così miracolosamente trovata, fece vela per la Sicilia.
Sbarcarono, come punto più vicino a Castronovo, nella cala di Punta Bianca, presso l’odierna Porto Empedocle; e da lì, caricata la statua su un carro trainato da sei buoi (le tradizioni quanto più sono inverosimili, tanto più sono nei dettagli precise), mossero verso Castronovo. Ma passarono, ahiloro!, per Racalmuto, vi si fermarono a dissetarsi in uno spazio dove era una piccola chiesa dedicata a santa Lucia. Era un caldo meriggio del mese di maggio: a vedere quella statua coricata sul carro, vivida di colori, soavisssima, la gente del paese accorse. Voci di stupore, invocazioni, preghiere: e ne giunse il brusio al conte Ercole del Carretto, che stava a far pennichella in una sala del castello. Ne domandò la ragione: e con scherani e paggi anche lui. Folgorato dalla bellezza della statua, ne chiese il prezzo al Gioeni che quasi se ne offese. Il conte offrì tanto oro quanto la statua pesava: ed ancor di più il Gioeni se ne sdegnò. Ordinò ai suoi di riaggiogare i buoi e di riprendere il cammino verso Castronovo: ma le ruote del carro, per quanti sforzi facessero i buoi pungolati a sangue e i famigli, non si mossero. Credette il Gioeni i racalmutesi avessero artatamente immobilizzato il caro, diede di piglio alla spada, il del Carretto alla sua: ma mentre già le incrociavano la folla con tale impeto gridò al miracolo che le spade si abbassarono e i due signori, commossi, finirono con l’abbracciarsi. La Madonna aveva deciso di restare a Racalmuto, ospite di santa Lucia – almeno provvisoriamente – e a dividere il patronato sul paese con santa Rosalia. Più tardi, le si edificò una più vasta e ricca chiesa e, benché come titolo ufficiale le restasse quello di compatrona, dimenticata fu santa Rosalia. E non solo: le si dedicò, per tre giorni dell’ultima settimana di maggio, una rutilante, fragorosa, insonne festa.»
Allo storico è interdetto di mettere becco in cose tanto di fede e di alta letteratura: egli si limita solo ad annotare che Ercole del Carretto non fu mai conte, solo modesto barone. Santa Rosalia padrona di Racalmuto lo fu soltanto a partire dal 1636. La Madonna del Monte da compatrona salì di grado nel 1848 con una bolla episcopale di mons. Lo Iacono, vescovo di Agrigento (allora si diceva: Girgenti) e divenne: «Patrona e regina di Racalmuto».
Sotto il profilo strettamente storico, occorre dire che già nel 1540 la statua della Madonna del Monte splendeva in una chiesa a lei dedicata, non ospite – o non più ospite – di santa Lucia. Gli inviati del vescovo di nobile famiglia mons. Pietro di Tagliavia ed Aragona sono molto burocratici ed accennano solo ad «una figura di nostra donna di marmaro». Ma nel 1608, per il vescovo del tempo, mons. Bonincontro, il simulacro è ora luccicante di ori, vivido di colori come dice Sciascia, imponente ed oggetto di grande culto da parte dei devoti racalmutesi.

Ma la già nel 1686 la statua era considerata anche dall’ordinario diocesano “miracolosissima”. Ed il vescovo di allora, il francescano mons. Francesco Maria Rini di Palermo, era molto propenso al culto mariano, ma era dotto ed esperto per abbandonarsi ad incaute esaltazioni delle doti miracolose di una statua, sia pure della Madonna: segno dunque che anche allora la “Bedda Matri di lu Munti” godesse degli intensa devozione  che oggi il popolo racalmutese – ovunque si trovi – le tributa. Bene hanno fatto le autorità locali a spostare la festa – che non piaceva a Sciascia – da maggio alla seconda domenica di luglio: Chi può è felice di giungere a Racalmuto per godersi la festa, anche se rumorosa nella notte, se “insonne”, come direbbe il nostro grande scrittore.
Quanto merito abbia avuto in ciò il nobile Ercole del Carretto è arduo stabilirlo. Già è dubbio che a reggere la baronia di Racalmuto nel 1503 fosse lui. Non sappiamo la data della morte del padre Giovanni II del Carretto, non sappiamo la data del suo insediamento: non vi fu comunque “investitura”. Fece però testamento e sappiamo che morì il 27 gennaio 1517. Interessa poco che si sia sposato in prime nozze con una tale donna Marchisa da cui ebbe un figlio Giovanni che gli succedette. Dai pochi elementi biografici noti non sembra sia stato molto solerte: per noi, il suo grande merito è stato quello di essersi trasferito a Racalmuto, ove lo colse la morte. Tanto ci induce a pensare che o lui o suo padre fece costruire l’ala del castello incassata tra le due torri. Questa parte del fortilizio racalmutese va datata dunque tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo, come peraltro dimostra lo stato dell’arte muraria che si differenzia molto, specie per la disposizione delle pietre, sia dalle torri e sia dal restante corpo centrale dell’attuale androne d’ingresso.
Il merito di avere dotato una chiesa di Racalmuto con una statua di marmo - non abbiamo altri esempi nelle locali antiche chiese, almeno sino alla metà del ‘700 – Ercole del carretto forse l’ebbe davvero. Crediamo che però giammai pensò di avere a che fare con una statua “miracolosissima”. Non è da escludere che prima o poi verrà fuori qualche atto notarile (forse a Palermo) che chiarirà molti aspetti dubbi della faccenda. Scrivevamo – e qui confermiamo – che: «Il nostro spirito laico ci è d’intralcio nel chiarire questioni come questa, che coinvolgono aspetti di sì rilevante delicatezza religiosa. Ci limitiamo a pensare che Ercole del Carretto ebbe davvero a costruire la prima chiesa del Monte (di una precedente chiesetta intestata a S. Lucia, non abbiamo alcun documento probante) ed ebbe ad arredarla facendo venire da Palermo una statua di marmo. Fu evento memorabile: quella Vergine marmorea, così somigliante alle giovani madri di Racalmuto, brevilinee e rotondette, dovette impressionare e sbalordire gli ingenui occhi dei contadini locali. Legarvi il senso del portento, del miracolo, fu semplice e travolgente.»
Nelle carte dell’investitura del figlio leggiamo che Ercole del Carretto  fu “signore e barone della terra di Racalmuto e tenne e possedette quella terra con il suo castello e fortilizio, nonché con tutti i suoi diritti e pertinenze”. “Vi cambiò tutti gli ufficiali tutte le volte che gli piacque”. “Ebbe a percepire o far percepire frutti, redditi e proventi della baronia di Racalmuto quale vero signore e padrone”. “Tenne il figlio Giovanni come figlio primogenito, legittimo e naturale e per tale lo trattava e come tale lo reputava così come veniva ritenuto, trattato e reputato dagli altri.”. “In qualità di signore e padrone della predetta terra e padre del signor Giovanni, piacendo a Dio morì e fu seppellito nel castello della terra di Racalmuto nel mese di Gennaio VI indizione del 1517, dopo avere redatto solenne testamento per mano del notaio Giovanni Antonio Quaglia della città di Agrigento il 16 del predetto mese di gennaio, ove ebbe ad istituire suo erede universale il detto magnifico signore Giovanni”.
 Sono espressioni rituali, ripetitive e non forniscono molta luce sulla vita del barone racalmutese. Vi si coglie, però, il senso di una signoria pesante, piena di imposte e di gravami per i racalmutesi. Ad onta di ciò questi aumentavano di numero e d’importanza. Si andava affermando anche una crescente prosperità economica: la statua di marmo e vari imponenti edifici lo attestano. Al Monte si ammira ancora un pregevole retablo  di alabastro risalente a quell’epoca. Vi era dunque allora una maestranza locale che sapeva lavorare quel difficile materiale gessoso: oggi solo un paio di vecchi “mastri” lo sa fare. Finendo loro, finisce un mestiere antico di secoli.
 Ad Ercole succede Giovanni del Carretto, il Terzo con tale nome.
Figura centrale nello snodo dei feudatari di Racalmuto, fu anche colui che seppe portare all’apice la signoria carrettesca della nostra terra. Alla morte del padre s’insedia nel castello baronale con puntiglioso rispetto della liturgia feudale. Invia a Palermo come suo procuratore il magnifico Artale Tudisco ed il 28 gennaio 1519 ottiene la rituale investitura.
Giovanni III del Carretto, appena barone, si sarebbe macchiato di un efferato delitto - sia pure come mandante - contro i Barresi di Castronuovo. Così racconta, oltre un secolo dopo, un sedicente suo lontano pronipote, Vincenzo di Giovanni.
Ma sarà stato poi vero? Si dà il caso che gli atti disponibili ce lo raffigurano  religiosissimo, al limite del bigottismo, prodigo con preti, monaci e chiese. Anche con il suo notaio, quel Jacopo Damiano che finì sotto tortura nelle segrete del Santo Uffizio. Per eresia, si scrisse. Per eccessiva accondiscendenza verso gli eccessi dissipatori del barone sul letto di morte, pensiamo noi.
Il Baronio ci descrive Giovanni III ovviamente in termini oltremodo elogiativi. Secondo quello storico di casa Del Carretto: «da Ercole si ebbe Giovanni III, singolare figura per prudenza e per intemerata virtù. Carlo V quando fu a Palermo lo coprì di mirabili onori. Di modo che, sia per la propria che per l’avita nobiltà, fu degno di stare con grande onore tra i Dinasti. Giovanni ebbe due figli: il primogenito Girolamo ed il glorioso Federico che divenne barone di Sciabica.»
Dal processo di investitura di Giovanni III Del Carretto emergono alcuni istituti molto peculiari del diritto feudale della nostra terra di Racalmuto:
1.    Diritto dei baroni all’amministrazione della giustizia. Un secolo dopo, il pingue vescovo di Agrigento Horozco cerca pretestuosamente di contrastarlo, fingendosi paladino di un omicida, il chierico Jacobo Vella. Non vi riuscirà: il diritto baronale era ben saldo e neppure un vescovo spagnolo potrà scalfirlo.
2.     Diritto alla destituzione e nomina di tutte le cariche, civili e militari, di Racalmuto. I Tudisco, i Promontorio, i Piamontesi, i Neglia, i Puma, i Nobili, gli Acquisto, i Taibi, i Fanara,  i La Licata, i Gulpi, i Rizzo, i Morreali, i Vaccari, i Capobianco etc. hanno, tra il XIV ed il XVI secolo possibilità di farsi apprezzare dai locali baroni: ne diventano fiduciari; spesso si arricchiscono alle loro spalle; in ogni caso attecchiscono nella fertile terra del grano. Poi tanti svaniscono nel nulla. Qualcuno resta tuttora, ma senza più il ruolo di profittatori del regime.
3.     Non è ancora molto evidente il diritto al terraggio ed al terraggiolo [prestazioni in natura da parte dei coltivatori delle terre del barone, nel primo caso, e fuori la baronia, nel secondo].
4.     Il mero e misto imperio non viene ancora accordato: i Del Carretto lo conseguiranno alla fine del secolo.

Giovanni III del Carretto dovette subire due processi d’investitura. Come dire un raddopio di imposta: il primo nel 1519 (28 gennaio) ed il secondo l’11 marzo 1558.

Il 2 gennaio 1560 Giovanni del Carretto cessava di vivere: aveva tenuto saldamente in pugno la baronia di Racalmuto per oltre quarantatré anni, un’egemonia lunghissima specie se si tiene conto della striminzita vita media di quel tempo.
Ebbe a sposare una signora di riguardo, tale Aldonza, nome spagnoleggiante, di cui sappiamo ben poco. Alla data della morte del marito era già deceduta: quoddam spectabilis Domina Aldonsia, la si indica nel testamento. 
Nulla ha a che fare con la celebre Aldonza del Carretto, questa moglie di Giovanni III: quella che dota il convento di S. Chiara è la nipote. Costei inguaierà fratello, nipote e pronipote per il suo bizzarro disporre dei beni di “paraggio” che le spettavano. Ma questa è storia del Seicento.
Se in antico nel paese non vi erano più di due chiese, fragili e malandate, in piena signoria di Giovanni III del Carretto, le cose cambiarono notevolmente. Intanto la popolazione si accrebbe in modo considerevole. Nel censimento del 1548 il centro abitato enumera 896 fuochi (capi famiglia) e non si è lontani dal vero se si afferma che la popolazione ascendeva a quasi 3.500 abitanti.
 Dai 2.500 del 1505 ai quasi 3.500 abitanti del 1548 il salto fu rimarchevole: non poteva trattarsi solo di un normale fenomeno; sotto il barone di Racalmuto si erano quindi determinate condizioni di vita accettabili, da preferire a quelle dei feudi circostanti; contadini, mastri e forse anche mendicanti ebbero a concentrarsi nei quattro quartieri che ormai si erano stabilmente definiti: a) Santa Margaritella, tra l’attuale Carmine, bar Parisi e la Guardia; b) San Giuliano, tra Guardia, tabaccheria Fantauzzo, Collegio, Fontana e attuale chiesa di San Giuliano; c) Fontana o quartiere fontis, l’altro spicchio di nord-est tra la Fontana, il castello, la Matrice e la chiesa dell’Itria; d) quartiere del Monte o montis comprendente l’ultimo quarto a ridosso dell’omonima chiesa esistente anche allora.
Era tutto suolo baronale; per ergervi una casa occorreva pagare uno jus proprietatis ai del Carretto; se poi si era contadini e si andava a coltivare terre altrui nell’ambito del feudo (o Stato di Racalmuto) scattavano tributi in natura; se la coltivazione avveniva in feudi circostanti (Gibillini, Cometi, Grutticelli, Bigini, Aquilìa, Cimicìa, ed altri ancora), il tributo raddoppiava: terraggio (quello intrafeudo) e terraggiolo (quello extrafeudo) furono termini presto entrati in uso, a significare balzelli che pur tuttavia si accettavano non essendo diverso altrove.

Un vescovo agrigentino del tempo, il nobile Tagliavia nutrì eccessivo interesse per la comunità ecclesiastica di Racalmuto. Nel 1540 mandò suoi pignoli visitatori; tre anni dopo fece visita inquisitoria lui stesso. Poteva considerarsi apparentato con il bigotto Giovanni III del Carretto, ma il barone non viene neppure citato nelle relazioni episcopali che per nostra fortuna si conservano nell’archivio vescovile di Agrigento.
In tali atti vescovili viene descritta piuttosto diffusamente la condizione dell’organizzazione ecclesiale di Racalmuto.
Un fenomeno nuovo emerge con il suo peso sociale, economico e soprattutto bancario: quello delle confraternite. Le confraternite cinquecentesche di Racalmuto nascono come associazioni per garantire la “buona morte” che è come dire una onorevole sepoltura. Il culto dei morti da noi è stato sempre presente, ossessivo, dispendioso. Le confraternite vi speculano sopra e subito vengono in possesso di disponibilità finanziarie e monetarie, cosa di gran rilievo in un’angusta economia curtense. Esse assurgono a potentati economici molto simili alle attuali banche: finanziano, danno in affitto gli immobili di proprietà (sia pure relativa), danno in appalto la costruzione di chiese (fonte prima del loro guadagno per le sepolture a pagamento che vi vengono fatte); inoltre, le fanno riparare, e così via di seguito.
Non sono corporazioni di arti e mestieri, anzi sono essenzialmente interclassiste. Il prete vi svolge un ruolo, ma solamente religioso: è soltanto il cappellano spirituale. Nasce da qui il detto tutto racalmutese: monaci e parrini, vidici la missa e stoccaci li rini. Come dire, i preti ed i monaci nelle confraternite ci stano per celebrar messa, ma dopo bisogna loro “stuccarici li rini” beffarda espressione per specificare che ognuno deve poi girarsi su se stesso per le mansioni e competenze proprie, in assoluta indipendenza. I preti infatti non potevano inserirsi nella gestione economica, tutta affidata al governatore laico ed ai deputati – pure loro laici - che ogni anno si eleggevano. Il vescovo Tagliavia cerca d’irreggimentare il tutto, ma con scarso successo.


 Gli aridi inventari episcopali del 1540 e del 1543 ci consentono comunque di fare una ricognizione critica - senza le grandi sbavature cui gli storici locali indulgono - delle chiese veramente esistenti all’epoca. Abbiamo innanzi tutto la vetusta chiesa di S. Antonio: è parrocchiale, risale ad epoca immemorabile (noi pensiamo alla prima metà del Quattrocento). Al tempo di Giovanni III del Carretto è fatiscente; nessuno pensa a ricostruirla; la si lascia in abbandono ma alla fine la solerzia del vescovo Tagliavia è tale che risorge a nuova vita e il culto in essa perdura sino alle soglie del Settecento.

Monsignor Pietro Tagliavia ed Aragona, nel tempo in cui fu vescovo di Agrigento curò molto le visite pastorali. Racalmuto fu prima, nel 1540, assoggettato ad un’ispezione sommaria la cui verbalizzazione è contenuta in cinque fogli ove è riportata, in sostanza, un secco inventario dei beni delle più importanti chiese di allora: Nunziata, Santa Maria di Gesù, Santa Margherita, Madonna del Monte e San Giuliano. [1] Tre anni dopo, il paese subì una più seria indagine da parte del  vescovo in persona, che vi si recò il giorno 11 giugno 1543. Il taglio del resoconto è ora molto più articolato, e viene fornito uno spaccato della vita religiosa locale di grande interesse.[2]
Al centro della locale comunità religiosa è l’arciprete don Nicolò Gallotto (o de Gallottis). E’ originario della terra di San Marco, diocesi di Messina; è anche canonico agrigentino. Non riusciamo a sapere, però, se risiede in paese. Gode di metà delle rendite e degli emolumenti, perché l’altra metà serve per il sostentamento di quattro cappellani che accudiscono alla chiesa e amministrano i sacramenti per l’intera popolazione..
Ricade su Racalmuto l’onere del sostentamento del suo arciprete, cui spetta per antico diritto (“ex disposictione”), il beneficio della “primizia”. E’ questo un gravame tributario in forza del quale ogni fuoco (famiglia) è assoggettato alla corresponsione di un tumolo di frumento ed un altro di orzo all’anno; le vedove sono obbligate solo per il tumolo di frumento; i non abbienti sono esonerati.
Nella visita del 1540 era stato precisato che il Gallotto percepiva annualmente tale primizia nella misura di 25 salme di frumento e 22 di orzo. Oltre alle primizie, l’arciprete Gallotto percepiva i proventi per diritti di stola: i proventi cioè dei funerali e dell’amministrazione dei servizi religiosi.
Nel 1540 si constatava che la chiesa dell’Annunziata dell’omonima confraternita fungeva anche da chiesa parrocchiale al posto della Matrice intitolata a S. Antonio e non si aveva nulla da eccepire. Ma tre anni dopo, il vescovo Tagliavia ha di che ridire: per lui, l’Annunziata è “ecclesiola”  (piccola chiesa) e quindi non può fungere da chiesa madre. La vecchia matrice di S. Antonio è diruta; ma poiché essa sarebbe adeguata alle esigenze di spazio dell’accresciuta popolazione, viene ordinato dal presule che venga restaurata e riedificata. Non si mancò di eseguire gli ordini vescovili: sappiamo di certo che nel 1561 la chiesa Madre è proprio S. Antonio.
Le nostre notizie sull’arciprete venuto dalla diocesi di Messina sono tutte qui. Non abbiamo neppure un appiglio per formulare un qualsiasi giudizio sulla sua figura. Poté essere un bravo sacerdote, ma poté essere un semplice percettore di benefici ecclesiastici. Dei quattro cappellani che lo coadiuvarono (o lo sostituirono) non sappiamo neppure i nomi.

Le carte episcopali richiamate a proposito dell’arciprete Gallotto contengono accenni ad altri sacerdoti racalmutesi della metà del Cinquecento: fra loro spicca don Francesco de Leo, vicario foraneo della terra di Racalmuto. Si sa quanto importante fosse il ruolo del vicario che fungeva da rappresentante del vescovo sul luogo. A lui venivano demandati i compiti esecutivi della giurisdizione della Curia agrigentina, specie in materia penale. Il vicario era uomo temuto e rispettato, forse ancor più dell’arciprete, che spesso si limitava a percepire i frutti del beneficio ottenuto per entrature curiali e non metteva neppure piede nella parrocchia di cui era titolare.
Il de Leo era vicario, dunque, al tempo dell’arciprete Gallotto. Tra gli altri compiti aveva quello di curare gli interessi del canonico don Giovanni Puiates, titolare del beneficio di Santa Margherita. Naturalmente, anche questi si limitava a percepire i pingui proventi racalmutesi senza interessarsi neppure alla chiesa che sorgeva accanto a quella di Santa Maria di Gesù: a ciò pensava il vicario d. Francesco de Leo ed era incarico che espletava encomiabilmente. Il vescovo Tagliavia nel visitare, nel 1543, la chiesa di Santa Margherita la trova molto ben conservata «satis bene composita» ed il merito l’attribuisce al vicario.
Del solerte vicario, oltre a questa notizia, non sappiamo null’altro. Possiamo giudicarlo, comunque, positivamente e tutto fa pensare che fosse racalmutese. Si spiega così perché tenesse  alla vetusta chiesa di S. Margherita che, se è da dubitare che risalisse al 1108 come scrisse nel 1641 il Pirri, era pur sempre un luogo di culto di cui ad un diploma del 1398. Il de Leo sembra avere care le tradizioni indigene. La chiesa, varie volte rinnovata e ricostruita, era da tempo immemorabile sede di un titolo canonicale agrigentino.. I contadini racalmutesi dovevano corrispondere le decime al canonicato della Cattedrale di Agrigento e non risulta che il beneficiario sia stato mai un racalmutese.
Resta assodato che a Racalmuto il culto di Santa Rosalia è ben antico. Non sembra, però, che vi sia qualcosa su S. Rosalia nelle primissime visite pastorali agrigentine del 1540-3, dato che in quella del 1543 si accenna solo alle seguenti chiese racalmutesi:
1)                 Chiesa Maggiore, sotto il titolo di S. Antonio;
2)                 “Ecclesiola” sub titulo Annuntiationis Gloriose Virginis Marie, da tempo sede di una confraternita e dove era stato trasferito il Santissimo, chiesa adibita ormai al posto di quella Maggiore, perché fatiscente;
3)                 Chiesa di Santa Maria del Monte;
4)         Chiesa di santa Maria di Gesù;
5)         Chiesa di Santa Margherita;
6)         Chiesa di San Giuliano;

Nella precedente visita del 1540 abbiamo:
1)         Chiesa della “NUNTIATA”
2)         Chiesa di Santa Maria di Gesù (Jhù)
3)         Chiesa di Santa Margherita;
4)         Chiesa di “Santa Maria di lo Munti”;
5)         Chiesa di S. Giuliano.


Di Giovanni del Carretto è consultabile il testamento ([3]) steso sul letto di morte: a raccoglierlo il notaio Jacopo Damiano, quello finito sotto le grinfie del Santo Ufficio. La vita del barone viene in qualche modo abbozzata.
In epigrafe, la data: 2 gennaio 1650. Riguarda il “molto spettabile signor D. Giovanni de Carrectis, domino e barone della terra di Racalmuto, cittadino della felice città di Palermo, dimorante nel Castello della detta terra e baronia di Racalmuto, che fa testamento dinanzi il notaio ed i testi”.  “Sebbene infermo nel corpo, è tuttavia sano di mente ed intelletto, con la parola ed i sensi integri”.

Il testamento esordisce con una sorpresa: erede universale non viene nominato il primogenito (Girolamo, futuro primo conte di Racalmuto), ma il secondogenito, “lo spettabile signor don Federico de Carrectis barone di Sciabica, secondogenito legittimo e naturale nato e procreato dallo stesso spettabile signor testatore e dalla fu spettabile donna Aldonza consorte del medesimo”.

In questa specie d’inventario, si ha un’idea di quanto ricco e bene arredato fosse il castello; vi era una frotta di servitù e vi erano veri e propri schiavi (“scavi”).

A don Federico vanno 200 once di rendita annuale, oltre alla definitiva proprietà di mille once promesse a suo tempo dal testatore come dote assegnata nel contrarre matrimonio con donna Eleonora di Valguarnera.

“Del pari il prefato signor testatore volle e diede mandato che lo stesso spettabile D. Federico erede universale abbia e debba sopra la restante eredità versare al signor don Girolamo del Carretto la somma occorrente per le spese del funerale quale dovrà essere celebrato in relazione alla qualità della persona dello stesso spettabile testatore sino alla somma di once 100 da prelevarsi da quelle 600 once che stanno nella cassaforte (in Arca) del medesimo testatore ed essendoci più bisogno di più si aviranno da pagare communiter da entrambi gli eredi don Federico e don Girolamo”.
“Del pari il prefato testatore istituisce suo erede particolare il molto spettabile signor D. Girolamo de Carrectis suo figlio dilettissimo primogenito, legittimo e naturale nato dal medesimo Testatore e dalla spettabile quondam Donna D. Aldonza sua consorte, cui va la baronia nonché i feudi della terra di Racalmuto con tutti ed ogni giusto diritto, con le giurisdizioni civili e criminali, il mero e misto imperio giusta la forma dei privilegi ottenuti nella regia curia, con le prerogative sui feudi, sul Castello, sugli stabili e con tutti gli altri diritti quali il terraggiolo, le gabelle ed ogni altra consuetudine spettante alla predetta baronia. A questo del Carretto suo indubitato figlio primogenito spetta pertanto nella detta Baronia ogni pretesa, azione, ed imposizione. Gli competono altresì denaro, frumento, orzo, servi, suppellettili di casa, buoi e messi ovunque esistenti, nonché gli animali ovunque si trovino, come i frumenti nelle masserie, i vasi d’argento esistenti nel Castello e tutte le ragioni creditorie con le eccezioni che seguono”.
Giovanni III morente pensa alla sua cappella privata nel castello e la dota.
“E così il predetto testatore volle e diede mandato, ordinò e invitò come ordina ed invita il detto spettabile don Girolamo suo figlio primogenito, futuro ed indubitato successore nella detta Baronia affinché voglia e debba bene trattare, reggere e governare tutti ed ogni singolo vassallo della predetta terra e non permettere che vengano molestati da chicchessia,  e ciò per amore di nostro Signore Gesù Cristo e per quanto abbia cara la salute dell’anima del testatore.»
Non crediamo che Girolamo I del Carretto abbia dato troppo peso alla retorica raccomandazione paterna. Se ne dipartì anzi per Palermo e Racalmuto fu solo il luogo da dove provenivano le sue cospicue disponibilità liquide, spese soprattutto per ottenere prestigiosi quanto tronfi titoli dalla corte spagnola.
“Del pari il testatore lascia il legato a carico di Girolamo di far dire tante messe nel convento di San Francesco di Racalmuto. Là doveva pure essere eretta una Cappella bene adornata per cui dovevano essere spese almeno 100 once.”
“Al Convento dovevano pure andare le 7 once di reddito annuale cui era tenuto il magnifico Giovanni de Guglielmo, barone di Bigini.”
Di quella Cappella a San Francesco, nulla è dato sapere: crediamo che Girolamo del Carretto aveva ben altro a cui pensare a Palermo per spendere soldi per una tomba regale nel lontano e spregiato Racalmuto. Crediamo, anzi, che di quell’eccesso di devozione sia stato considerato artefice ed inspiratore il notaio. Come familiare del Santo Ufficio, Girolamo I del Carretto ebbe quindi modo di incolpare il malcapitato Jacopo Damiano e farne un eretico che ebbe il danno della privazione dei beni e la beffa del sanbenito. Leggere il commento di Sciascia per la letteraria rievocazione di questa pagina purtroppo tragica nella sua acre realtà storica.
Il morente barone dichiara di avere speso 130 once nella compera di legname e tavole per il tramite di mastro Paolo Monreale e mastro Giacomo Valente. Sancisce che devono essere bonificate 27 once per la costruzione della chiesa di Santa Maria di Gesù e 11 once per completare il tetto “della chiesa di Santa Maria di lu Carminu”.
Giovanni del Carretto ha anche figlie femmine da dotare:
-          donna Beatrice del Carretto, moglie di don Vincenzo de Carea, barone di San Fratello e di Santo Stefano (150 once in contanti da prelevare dalle casse del castello);
-          donna Porzia del Carretto, moglie di don Gaspare Barresi (altro che lotta intestina con i Barresi, dunque). Si parla di altre 50 once in contanti da erogare;
-          Suor Maria del Carretto, dilettissima figlia legittima, monaca del convento di Santa Caterina  della felice città di Palermo. Oltre alla dote per la monacazione, altre 20 once a carico dell’erede Girolamo.

Il notaio Jacopo Damiano fu forse anche un tantinello venale: introdusse una clausola che, se non fu determinante, contribuì quasi certamente alla sua rovina ed al suo deferimento al Santo Uffizio da parte dei potenti ed ammanigliati del Carretto.
Un accenno veloce alle sue disavventure: Jacopo Damiano, notaro fu imputato di opinioni luterane ma “riconciliato” nell’Atto di fede che si celebrò in Palermo il 13 di aprile del 1563 (tre anni dopo la morte e la redazione del testamento di Giovanni III del Carretto). Ebbe salva la vita, ma non i beni né l’onore.
Tanta la beneficenza del barone morente (ma era sano di mente, o il ‘luterano’ notaio inventava?):
5 once al venerabile convento di San Domenico della città di Agrigento;
5 once alla venerabile chiesa di Santa Maria del Monte;
10 once al venerabile ospedale della terra di Racalmuto;
5 once alla venerabile confraternita di San Nicola di Racalmuto;
5 once alla venerabile chiesa di San Giuliano; inoltre poiché il testatore ha una certa quantità di calce e detenendo una fabbrica di calce (“calcaria”) esistente in territorio di Garamuli, dispone che se ne dia sino a concorrenza di 500 salme per la chiesa di San Giuliano;
5 once alla chiesa di S. Antonio (che quindi è ritornata in auge);
5 once in onore del glorioso Corpo del Signore quale si venera nella Matrice.
Al servo di provata fedeltà debbono andare ben 20 once per i tanti servizi prestati; 10 once, invece, al servo (famulus) Francesco de Milia.
Il barone è grato al clero; gli è stato vicino ed amico:  lo raccomanda al successore d. Girolamo del Carretto. I preti debbono essere immuni dai balzelli baronali come la gabella dei salami, del vino, della carne, del grano, dell’olio: una sfilza di tasse sui consumi che la dice lunga sull’assetto fiscale della realtà feudale di metà secolo XVI a Racalmuto.


Il barone resta legato alla sua terra; vuole essere seppellito nella chiesa di San Francesco, vestito con l’abito di San Francesco (dobbiamo almeno ammettere che alla fine dei suoi giorni, la sua fede era intensa).



Il processo d’investitura del successore Girolamo I del Carretto ci attesta che in gennaio del 1560 Giovanni III del Carretto cessò effettivamente di vivere; morì in Racalmuto e fu davvero sepolto nella chiesa di San Francesco.

GIROLAMO I DEL CARRETTO



Il Baronio diviene ora piuttosto loquace. Ecco come descrive quello che fu l’ultimo barone ed il primo conte di Racalmuto :
«A Girolamo primo, il maggiore dei figli maschi di Giovanni, dunque ritorniamo. Su di lui ebbe a scrivere distesamente in lettere inviate a Filippo II re di Spagna, Rodolfo Imperatore nobile figlio di Massimiliano che la famiglia del Carretto stimò moltissimo. Il re, dato che gli antenati di Girolamo vantavano il titolo di marchesi di Savona, volle che il nostro Girolamo fosse chiamato ed  avesse in quel tempo il titolo di conte di Racalmuto, lasciando intendere che in avvenire avrebbe amplificato la gloria di tanta illustre famiglia con titoli di maggior risalto.»

Le note del Baronio ci rendono chiaro che i del Carretto, giunti all’apice della ricchezza con la baronia di Racalmuto, presero il largo e andarono a dimorare a Palermo. Lì, la fatua e neghittosa nobiltà aveva solo l’angoscia delle preminenze negli onori. Agli immigrati del Carretto, il titolo di barone suonava stretto: si prodigarono in regalie, bussarono a varie corti regali, impetrarono favori, ma non riuscirono a superare la soglia del titolo comitale.
Dai processi ricaviamo questi altri dati biografici. Girolamo I del Carretto fu il primogenito di Giovanni III, come si evince dal testamento redatto dal notaio Jacopo Damiano il 2 gennaio del 1560. L’8 gennaio 1560 Girolamo s’insedia quale barone di Racalmuto. Nel rito lo rappresenta il suo procuratore, il magnifico Giovanni Antonio Piamontesi. La formula recita che il barone prese “l’attuale, vera, naturale, corporale baronia del castello, dei feudi e del territorio di Racalmuto con ogni diritto e pertinenza, con il mero e misto imperio, con le giurisdizioni civile e criminale su tutto lo stato, risultato integro giusta la forma dei privilegi baronali”. Il procuratore rispetta il meticoloso ed emblematico rituale: “esibisce la chiave del portone del castello; di propria mano apre e chiude quella porta; entra ed esce; si reca presso i feudi; ne prende alcune pietre in segno di libera disponibilità di quelle terre; revoca e rinomina tutti gli ufficiali locali: il castellano nella persona del nobile Scipione de Selvagio; il capitano nella persona di Giovanni Piamontesi; il giudice nella persona del nobile Marco Promontori; i giurati nelle persone di Cesare di Niglia, Leonardo La Licata e Giacomo Caravello; il maestro notaio nella persona del nobile Innocenzo de Puma”. Viene redatto pubblico atto. I testi sono: il nobil homo Maragliano, il nob. Antonino de Averna, l’onorabile Antonuccio Morriali e l’onorabile Gerlando de Pitrozella. Il notaio è ancora il povero Jacopo Damiano che però si dichiara agrigentino.
Girolamo I del Carretto muore nel gennaio del 1582. Sono ancora i processi d’investitura a dirci che esternò le sue ultime volontà dinanzi il notaio Giacomo Devanti di Palermo il 14 gennaio del 1582, ma il testamento fu aperto un anno dopo, il 9 agosto del 1583. Fu sepolto nella chiesa di Santa Maria di Gesù fuori le mura in Palermo proprio sotto quella data. Ne fa fede l’atto parrocchiale della chiesa di San Giacomo alla Marina del 14 luglio 1584.
Sposa di Girolamo I del Carretto fu una Elisabetta di ignoto casato.
Ma come si è visto, i del Carretto non stanno più a Racalmuto: quella lontana terra, quel loro ‘stato’ serve solo per approvvigionare di fondi questi nobili accasatisi a Palermo. Nel castello racalmutese siede e dispone un ‘governatore’. In Matrice non abbiamo trovato neppure un atto che attesti la presenza del barone ora conte di Racalmuto, magari come padrino in un qualche battesimo. Qualche membro dei rami cadetti, sì, ma il conte giammai. Vi farà ritorno solo Girolamo II del Carretto per venirvi trucidato (se ciò corrisponde al vero) nel 1622.
Il privilegio di Filippo II che erige a contea Racalmuto è una sfilza di vacue formule da cui non riusciamo a cavare alcun briciolo di microstoria locale.  Non abbiamo qui note in proposito da proporre.
Da questo momento la vicenda familiare dei Del Carretto è cosa che solo di striscio riguarda Racalmuto. Vale di più per la storia della città di Palermo.
Ciò non vuol dire che non vi furono riflessi tributari su Racalmuto a seguito della concessione dell’onore di farne una contea da parte di Filippo II a tutto vantaggio di Girolamo I del Carretto. Anzi. I riflessi ci furono e gravi. Una ricerca fra le carte del fondo Palagonia dell’archivio di Stato di Palermo ha consentito di rinvenire documenti di quel tempo, estremamente significativi per la riesumazione delle vicende vessatorie cui sottostettero i nostri antenati racalmutesi del Cinquecento.

Il carteggio illumina sull’esoso fiscalismo spagnolo ai danni dell’università feudale ed ha tratti inquietanti circa la disumanità viceregia.
Nel 1576 si era abbattuto su Racalmuto una immane pestilenza che ebbe pure a colpire l’Italia intera.
Del pari sconvolgente dovette essere lo scenario racalmutese: leggiamo nel carteggio che «per lo contaggio del morbo che in quella s’ha ritrovato che sono stati morti da tre mila persone [a Racalmuto]  restano solamente ... due mila e quattrocento delli quali la maggior parte sono fuggiti assentati e rovinati ...».
Nel precedente Rivelo del 1570  Racalmuto in effetti contava 5279 abitanti; ma in quello del 1583 scenderà ad appena 3823: una flessione che sinora nessuno era riuscito a spiegarsi e che Sciascia scarica sui del Carretto e sulle  sue tasse enfiteutiche del terraggio e del terraggiolo [Morte dell’Inquisitore, pag. 181].
Confesso che anch’io ero scettico su questo crollo demografico di Racalmuto prima della consultazione dei documenti del Fondo Palagonia. Ancor oggi non è che creda in pieno in questo tracollo: ci fu un’opportunità per sgravi fiscali e si cercò di scontare la tragedia della peste racalmutese del 1576 con qualche beneficio tributario.
Tuttavia, la flessione vi fu e forte. I nostri antichi progenitori parlano di un dimezzamento della popolazione nel vano intento di intenerire gli agenti delle tasse palermitani; ma per bocca del viceré don Carlo d’Aragona e della sua corte Sucadello, De Bullis ed Aurello, costoro non se ne diedero per intesi. Le “tande” - o più graziosamente “donativi” - andavano pagate sino all’ultimo grano a Sua Maestà Cattolica il re di Spagna. Ed andavano pagate anche le tasse arretrate, senza ulteriori indugi.
La messa in mora  della locale amministrazione per ritardo nel versamento delle tande sulla macina scatena la cupidigia di commissari palermitani sguinzagliati nel malcapitato paese moroso ad esigere, oltre alle imposte, pingui “giornate” (le attuali diarie per missioni) e ad aggravare le esauste finanze locali  «con eccessivi danni ed interessi».
Si accordino - si chiede da Racalmuto - due mesi di dilazione per trovare un sistema di reperimento dei fondi ed assolvere il cumulo tributario.
Questa seconda istanza viene accolta. Ma l’invadente autorità viceregia detta una serie di disposizioni sui modi, tempi e luogo delle procedure per un nuovo sovraccarico fiscale sulla cittadinanza racalmutese.
Il carteggio qui va attentamente studiato raffigurando istituti, costumi, organizzazioni pubbliche e territoriali del primo secolo dell’epoca moderna. Hanno una originalità che non mi pare sia stata debitamente messa in luce dalla cultura storica degli accademici.
Viene fuori uno spaccato dell’organizzazione statuale che non può ridursi al mero dato tributario (la gabella per assolvere gli oneri fiscali) ma che fa trasparire una vocazione democratica impensata. Per sopperire alle necessità tributarie, Racalmuto assurge al ruolo di Comune libero, democraticamente organato, con una sua assise plebiscitaria, avente poteri decisionali.
L’ordine, certo, arriva da Palermo, dall’autorità centrale, ma è ordine volto ad attivare le istituzioni democratiche comunali. Con aperture sociali che gli attuali consigli comunali sono ben lungi dall’avere, è il popolo che viene chiamato a raccolta, è il popolo che decide sui propri ineludibili gravami tributari, ovviamente sotto la guida e la direzione di quella che oggi chiameremmo la giunta comunale: la giurazia.

Il Consiglio comunale si svolge nella chiesa dell’Annunziata - che anche allora, molto prima che nascesse don Santo d’Agrò, era bene operante a Racalmuto -  ed abbiamo anche il verbale consiliare estremamente significativo



Nel  carteggio del 1577 si trova uno spaccato della vita pubblica comunale, dal taglio democratico, con istituzioni pubbliche che esulano dal diritto romano e da quello del sorgente stato moderno; affiora qualche dato che fa pensare alla tipica organizzazione greca della Polis, con la sua Ecclesìa, e con il ricorso al voto cittadino espresso in una solenne adunanza tenuta nell’Ecclesiastérion.
Al suono della campana della Ecclesia dell’Annunziata, sita nel centro della grande piazza di Racalmuto che dal vecchio Santissimo si allargava nello spiazzo ove ora sorgono le torri campanarie della Matrice e si riversava nell’attuale piazza Castello per risalire nel largo ove ora sonnecchiano i palazzotti degli invadenti Matrona [la vaniddruzza di Matrona].
Nel confrontare l’attuale assetto urbanistico con  quello che l’ex voto del Monte ci fa intravedere, c’è da esecrare la mania piccolo borghese degli arricchiti di Racalmuto dell’Ottocento di piazzarsi con i loro casamenti sopraelevati sulle case terrane (o al massimo solerate) nel bel mezzo della storica piazza dell’Università di Racalmuto. E dire che riuscirono a farsi credere anche dalle menti più elette del nostro paese  come dei benemeriti filantropi!

Sembra opportuno tracciare il grafico della popolazione di Racalmuto che tenga conto dei dati del carteggio del 1577.
La curva dell’andamento demografico della Racalmuto del ’500 si avvalla vistosamente, come è ovvio, nell’anno della peste del 1576. Il crollo demografico di quell’anno fu irreversibile (anche se fu dovuto  più alla fuga che alla morte dei racalmutesi: i superstiti quindi ebbero poi modo di ritornare nelle loro case di paese, lasciando - riteniamo - quelle di campagna). Occorrerà aspettare il 1658 (un secolo) per risalire a quota 5.165 e solo nel 1660 la popolazione supererà quella del 1570 assestandosi sui 5488 abitanti.
Quanto alle finanze locali, la crisi del 1577 fu in qualche modo tamponata; il bilancio comunale toccherà nel 1593 un disavanzo di appena 28 onze, un tarì e quattro grani (460 onze  d’introito ed onze 488, tarì 1 e grana quattro d’esito). La forte pressione fiscale - tutta basata sulle imposte indirette - finì di certo in una asfissiante strozzatura dei consumi da parte dei poveri. I proventi dalle rinomate salsicce racalmutesi furono pressoché nulli: pane, foglie, pilo, vino, formaggio, legname, pesci e qualche altra voce diedero un gettito tributario che si volatilizzò essenzialmente per le spese militari e per oltre la metà per ciò che era dovuto alla regia Corte a titolo imprecisato. Inoltre si pagavano sei onze annue per “tande”.



[1]) ARCHIVIO VESCOVILE DI AGRIGENTO - "GIULIANA"  - VISITA- DEL 1540 - f. 196 v - 198v.
[2]) Cfr. «LA VISITA PASTORALE DI MONS. PIETRO DI TAGLIAVIA E D'ARAGONA - parte II (Anno 1542-43)» - tesi di laurea di Rosa Fontana, relatore Paolo Collura dell'Università degli Studi di Palermo - facoltà di lettere e filosofia - anno accademico 1981-1982. Racalmuto risulta trattato nelle pagine 207-218. Inoltre: ARCHIVIO VESCOVILE DI AGRIGENTO - "GIULIANA"  - VISITA 1542-43 - colonne 190v-193v.
[3] ) Archivio di Stato di Palermo - Fondo Palagonia - Atti privati n. 630 - anni 1453-1717 - ff. 44r - 56v.

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