venerdì 31 luglio 2015

la donna del mossad


Calogero Taverna



La donna del Mossad





CONCOMITANZE





Alla Farnesina d’improvviso fu sgomento: il vecchio guru, che querulo saccente malefico lo era da tempo, si impossessò del massimo scranno. Erano teorie di sale a cassettone, lucide d’oro, allicchittate1 e poi gli anodini arazzi, gli squallori di quadri vetusti ma stinti, il sapore insomma di una politica estera in minuetto e servile, incisiva forse solo al tempo del Duce. Quel fascistone, lì, il fatto suo lo seppe fare con i convitati dei grandi del mondo … almeno sino ad una certa epoca della sua enfiata era.

I molteplici salti di quantità del votare a fiume in piena per quel tale Berlusconi, di colpo segnarono il cambio di tutta intera l’Italia. Era, ora, bifronte: spezzata provinciale e svagata all’interno; insensa, minuscola acquiescente, fuori degli storici confini. Il guru della Farnesina nulla valeva, nulla poteva. Il primo ministro aveva palesi tedi nel sentirlo: solo voglie vindici verso i già licenziati plenipotenziari, un tempo amici dei comunisti, razza ormai desolatamente estinta. Ed a Berlusconi quel rimasuglio delle sue antiche crociate dava disgusto, come il parlar pederasta a donna che quando vergine fosse adusa a concedere la retroposta entratura. Aveva imposto abiure umilianti e remissive, anche il Belloni s’era lasciato andare ad assiomatiche inconciliabilità tra comunismo e democrazia: poté diventare sindaco di Merlopoli per momentanea permissione di monsignor Rubiccio, arcigno modenese in eterno astio verso i conterranei rossi sciamanti dall’Abetone alle radure benedettine del nonantolese. Durò poco il canuto Valter e sparì di scena: sapeva d’affari e gli esperti suoi familiari seppero arricchire nell’interscambio astuto con gli astuti ex sovietici.

Fu un pomeriggio del 29 giugno, quando Roma in impercettibile devozione verso i suoi santi padroni Pietro e Paolo non permise agli addetti della Farnesina di trasmigrare ad Ostia per la lasciva contemplazione degli ancora bianchicci glutei di ragazzotte romane dell’ultima generazione, alte poppute auree su trampoli rastremati come di gazzelle umane. Il guru, umidiccio di sudore, stanchi gli occhi dietro lenti spesse, quasi spenti per defluvio dell’intelligenza, ebbe scatto iroso:

  • ma che cavolo mi porti?
  • dottore, stava abbandonato sul tavolo dell’ambasciatore Michetti.
  • ed io di Michetti me ne sbatto le palle …. ma già ora trema per il suo culetto al n. 4 della Rehov Weizmann di Tel Aviv. Là ci fui anch’io, è vero; là anch’io ebbi talora spavento per quei palestinesi bombaroli … che si diverti ora lui, come hanno cercato di far divertire me i suoi porci amici quando comandavano … al soldo del Kgb …



Il dottor Giliberti, Mefisto nell’eloquio dell’ambiente, mefistofelico appariva davvero: nero, con abito sempre nero; barbetta nera sotto occhialetti tondi in radica nera; sibilante di parola, tetro, proprio infernale:

  • non so, proprio male forse ho fatto. L’ho visto là quel telex: l’ho letto. Misterioso l’ho trovato. Mi sono precipitato da sua eccellenza, prima che altri lo notassero.



Quell’eccellenza non si poteva più usare, non si doveva. Eppure Mefisto sapeva che al guru piaceva. Se era trasmigrato a destra da Lotta continua (perché da giovane il guru lì militò) non poco contribuì la soppressione democratica degli orpelli ministeriali. Finì l’«eccellenza» proprio quando la folgorante carriera del guru approdava al lido dell’ «eccellenza».



Il guru si ammansì di colpo:

  • dai, dai. Fai vedere, va! …. Ma che cazzo significa? Quella sfilza di citazioni bibliche, con l’indicazione dei soli libri e dei … versetti, è proprio stramba…

Il guru ebbe un moto di autocompiacimento per quel “versetti”…. si sentì eruditissimo come di sapiente “in utroque”. «Che bravo che sono» – si disse e plaudì a se stesso per quelle rimembranze del latino clericale. L’aveva appreso in seminario.

Restituì il foglio al Mefisto. Sottolineato colpiva:


Fino all’anglicismo e-mail il guru arrivava; Mefisto neppure lì.

  • Che ne faccio?

Un fuggevole istante per il solito tic: aggiustare gli occhiali sul naso mentre la fronte si aggrottava.

- Passalo agli infami.

  • Al dottor Ciunnameli del Sisde? – volle con malizia essere preciso il Mefisto.
  • Ed a chi? Se no?

Tornò ingrugnito il guru.

Era pomeriggio duro, non tanto per il caldo che l’incombente temporale non riusciva ad addolcire, ma per l’inane gelosia che tutto nell’intimo sfibrava il signor ministro degli esteri dell’Italia berlusconiana. Elisa, napoletana di cerulee fattezze, quel pomeriggio aveva voluto godere della festività per i santi padroni di Roma. Segretaria del guru, imbecillotta ma avvenente, nella pausa antimeridiana doveva sobbarcarsi alla “fellatio in ore” in quella che nel gergo ministeriale si definiva l’ora erotica, dalle 14 alle 15. Sciamavano dal ministero le frotte impiegatizie per l’onanistico food nei bar dei dintorni. Dentro rimanevano i dirigenti, quelli d’alto grado che usufruivano di stanza a solo. Quasi tutti si sprangavano nel loro ufficio con la collaboratrice e consumavano l’ora erotica, appunto.

Il guru, prima da direttore generale ed ora da ministro, si avvaleva della bella Elisa, cui incombeva il bacio della lascivia. Non eravamo negli Stati Uniti ed il guru non era Clinton. Nessun timore, nessuno scandalo era da paventare. L’affaretto semifloscio stentava a piangere, ma con pertinacia anche se con ripulsa Elisa alla fine riusciva. Non volle però mai rapporti completi o diversi. Conservava la sua verginità per il suo lui. Ed una volta descrisse al guru annientato da collera gelosa l’imene violato dal suo priapo biondo, massiccio ed inestinguibile. La fece pedinare, il guru. Gli uomini di Tom Ponzi non ebbero nulla di impudico da riferire. Mentivano?

E quel pomeriggio la Elisa lontana, il bacio mancato, il disagio dell’estate incipiente in una Roma al caldo-umido ed il telex biblico snervavano il guru come in un preludio tetro e cupo del meritato castigo eterno. Già, il guru all’occiduo stagionare della vita era tornato cattolico, roso da scrupoli intrisi di religiosa tortura, inquieto, peccatore cui Dio stentava a dare l’ultima assoluzione, destinato alle pene del fuoco eterno. Solo il giorno in cui, con la lingua del burocrate, avesse dismesso Elisa si sarebbe forse salvato. Ma la volontà steccava, imperdonabilmente. Che fortuna nascere nella terra protestante dell’America clintoniana.

La porta si riaprì con nervosissimo scatto. Mefisto sibilò:

  • come glielo mando?

Il guru trattenne l’insolenza scurrile che l’esser distratto da pensieri di chiesa e da rabbie dell’eros stava per ingozzarlo con furia di non facile controllo:

  • ma mandaglielo con la solita nota d’accompagno ….. Mi raccomando: sii conciso!
  • Dovrò portargliela alla firma?
  • Firma tu, firmala tu stesso.



* * *



Così quella “nota d’accompagno” è lì ora sul mio tavolo da lavoro, nella mia villetta alla Zingarella. E qui è d’uopo presentarmi. Sono Meluccio Cavalieri di Giorgenti. Dottore in legge, molti anni fa; sceneggiatore squattrinato, per decenni in preda alla mala povertà; ora ricchissimo avendo scritto scriteriati gialli che la gente (pronuba la pubblicità) legge a valanghe. La mia notorietà – oh quanto l’avrei voluta da giovane! – è divenuta mitica; si è accoppiata – con mio disappunto – autorità indiscutibile, somma, perentoria. Persino il ministero, persino Berlusconi (ed io sono vetero comunista tutt’altro che pentito) si avvalgono di me, come consulente (e vengo profumatamente pagato) per dipanare i misteri dei tanti, troppi omicidi che si consumano in questa Italia di destra, che di efferati fatti di sangue, specie a sfondo politico, non dovrebbe registrarne di taluna sorta.

La “nota d’accompagno” reca in agghindata grafia la firma di M. Giliberti. Non scherziamo:‘M’ non sta per Mefisto. Michele? Mario? Manilo? Minuzio? Marcello? Marzio? Massimo? Metello? Sì, forse Metello: mi sembra il più acconcio a quel cognome tanto italianamente esotico. Non mi si dica: che ti costa interpellare il Ministero? Sì, mi basterebbe una telefonata alla signorina Saguatti (tanto modenese, tanto caruccia anche per i miei quindici lustri), ma non ne ho voglia alcuna. Diciamo: non mi va.

Vorreste sapere se vi sono le tante note di colore che prima ho profuso? Ovviamente, no. Eppure gli ipotattici incisi, alla Sciascia (limitatamente alla ostica sintassi, s’intende) e i miei irrefrenabili svolazzi fantasiosi rendono veridica, anche se non vera, la narrazione di quel pomeriggio romano alla Farnesia che si data 29 giugno duemila…..

Siete curiosi e vorreste sapere dell’altro? Con comodo, a suo tempo e luogo come si conviene ad un giallo di consueta fattura.

Sto rimestando carte, appunti, rapporti, ritagli, missive, libri ed ho già consultato l’intero hard-disk del dottore Aurelio La Matina Calello di Racalmuto. Ha tentato di mutarne i connotati lo scrittore indigeno Sciascia, cercò di farlo chiamare Regalpetra, ma Racalmuto resta Racalmuto ad onta di tutto. Ed il dottore Aurelio La Matina Calello racalmutese lo fu fino al midollo. In che senso? Ma nel senso da lui stesso dato in uno dei suoi abortiti sforzi letterari: «Da oltre sette secoli, Racalmuto lascia tracce di vita e di morte negli archivi, nei diari, nelle opere storiche e si appalesa popolo fervido di inventiva, coeso, dai costumi peculiari, dalla cultura inconfondibile, capace di azioni reprobe, narrabili, contraddistintosi in eventi rimarchevoli, con connotati magari di vigliaccheria o di perversione, però non privi talora di empiti nobili, senza - a dire il vero - nessuna propensione all’eroismo, ma rifuggendo sempre dalle abiezioni collettive. Nessun episodio di guerra, nessuna rivolta cruenta, nessuna carneficina, nessun sovvertimento sociale. Obbedienti e critici, sottomessi ma mugugnanti, specie nelle varie congreghe (religiose o civili, a seconda dei tempi).



* * *

A trovarlo riverso sul tavolinetto di ignobile fattura era stato il fratello il pomeriggio del 19 gennaio del 20…, quando messosi in apprensione per una lunga giornata di silenzio, anche a telefono, si era deciso ad andare a vedere che cosa fosse successo. Era giunto tra fanghi quasi invalicabili alla cascina di contrada Bovo, aveva bussato e non avendo risposto alcuno, col piccolo chiavino 2 di cui aveva copia aprì il portoncino in metallo dal colore stinto ed ebbe la violenta visione:

  • Liù! – gridò e dopo il balzo in vorticosa angoscia toccò di spalla il fratello per averne la tragica conferma della morte.

Non pensò, certo, a morte violenta, credette a “morti subbita”: del resto anche la vecchia mamma se ne era andata per improvviso cedimento cardiaco. Spostò il cadavere - ormai irrigidito, pendula la bocca, stravolti gli occhi - nel letto della stanza accanto, disfatto come d’abitudine per quel settantenne fratello, non privo d’ingegno ma nevrotico, eccentrico, loquace e senzadio. Solo, scosso ed anche lui non più giovanissimo, Girolamo La Matina Calello, stentò parecchio in quelle mortuarie incombenze. Alla fine si decise: telefonò alla moglie in paese. Insieme al figlio giunsero quasi all’istante. Il figlio sentenziò:

  • non toccate nulla! C’è qualcosa che non mi convince. Innanzi tutto chiamiamo il medico.

Laureato in legge da poco, aveva conseguito autorevolezza in famiglia.

Faceva impressione sul tavolinetto dozzinale la tazzina di caffè ancora piena fino a tre quarti; frantumata per terra un’altra analoga tazzina, senza caffè sparso per terra, comunque.

Non tardò molto il dottore, don Lillì Merillo. Politico sempre fallimentare, come medico curante, bravino lo era davvero. Girò e rigirò il cadavere. Tentennò, scosse varie volte il capo canuto ma folto di capelli. Sentenziò:

  • il dottore non è morto d’infarto: è stato avvelenato … addirittura ieri.

Il giorno prima aveva diluviato a Racalmuto: dalla Montagna e da Bovo fiumare d’acqua erano scese a valle; avevano trovato occluso il ponte del Carmine. Colpa di un vecchio tecnico comunale che aveva fatto otturare il canaletto sotto la strada provinciale. Il deflusso di acque dalle terre di Troisi aveva sradicato alberi e con il pietrisco in crescita si eresse sbarramento all’entratura del sottopassaggio del ponte ferroviario, ché follia era stata nell’Ottocento quella barriera sopraelevata per fare accedere alla stazione gli sbuffanti ma stracchi treni dell’epoca. Il fratello del tecnico ancor oggi vuol teorizzare dovute ad imperizia dei costruttori delle case popolari le allaganti ostruzioni.



Girolamo pensò che don Lillì non potesse dunque che sbagliare. Il medico che si era seduto sulla poltroncina color giallo senape in rudimentale rivestimento di un’anima in ferro – erano sedie e poltrone comprate d’estate all’imbocco di Canicattì – si scosse dal suo apparente letargo, non chiese neppure permesso, alzò la cornetta del telefono, ed ora flemmatico come si addice ad un professionista, sia pure racalmutese, quasi dettò:

  • qui alla casina di Bovo del dottore Aurelio La Matina Calello, ho trovato il medesimo deceduto per avvelenamento. Ignota al momento la natura del veleno. Ritengo risalire al tardo pomeriggio di ieri sera il decesso.



Imbarazzo, silenzi, grugniti all’altro capo del telefono.

  • Lascio tutto come l’ho trovato … non faccio toccare nulla. Penserà la vostra scientifica agli accertamenti del caso. Avvisate il giudice per la rimozione del cadavere.

La moglie di Girolamo svenne.



* * *

Rovistando tra le carte del dottor Aurelio La Matina Calello, m’imbatto in un plico bianco a doppia tasca. Do not foldNon piegare ed analoga dicitura in ebraico che naturalmente non so decifrare: Provenienza: Israele Tel Aviv, par avion. Leggo dietro: SENDER : Melissa Cohen, address 325 Haligilboa St., code 65223 Tel-Aviv country ISRAEL.

  • Chi cavolo sarà codesta Melissa Cohen?

Allegata vi è una rivista patinata in ebraico, come dire in turco per me. Ma un foglio è in italiano, sgangherato quanto si voglia ma in italiano. Del resto magari sapessi scrivere io in ebraico sia pure sgangherato. Leggo:

Caro Francesco,

Ti ringraziamo di cuore per un bellissimo pommerigio a Racalmuto: ci hai convinti nel modo pi’ assoluto che c’è chi ama la sua terra, in Sicilia. Speriamo di rivederti qualche giorno in Sicilia, o, chi sa, forse in Israele? Purtroppo l’articolo sulla Sicilia (pagine 90-94 della revista rinchiusa, “Massa Acher”) troverai un po’ difficile leggerlo … comunque c’è anche una foto di Racalmuto, vediamo se la trovi! Grazie anchora e tanti saluti, anche da parte di Dubi. Melissa Cohen etc.



La foto la trovo subito ed è splendida. La precede una sfilza di mirabili squarci fiorentini con la solita iconografia rinascimentale. Che birichina quella Melissa a propinare alle pudiche lettrici della terra della casta Susanna la tizianesca “Venere d’Urbino”, la cui masturbazione femminea, sfacciata ed irridente, è ostensa con maliziosissima impudicizia. E non solo, «bellezza tizianesca, bellezza fisica, colta nell’intimità della sua alcova, nella sua naturale esistenza» come singultiano i nostri scolastici testi d’arte.

E qui mi vien voglia di pensare ai fatti nostri, alla nostra cultura cattolica, all’ultimo catechismo del cardinale Ruini, a questa nostra cappa di moralismo sessuofobo di vaticanesca ispirazione.

Tiziano qui non si diletta nella pornografia? Proprio come oggi la chiesa censura: «la pornografia consiste nel sottrarre all’intimità dei partner gli atti sessuali, reali o simulati, per esibirli deliberatamente a terze persone. Offende la castità perché snatura l’atto coniugale, dono intimo l’uno all’altro. Lede gravemente la dignità di coloro che vi si prestano (attori, commercianti, pubblico) poiché l’uno diventa per l’altro l’oggetto di un piacere rudimentale e di un illecito guadagno: Immerge gli uni e gli altri nell’illusione di un mondo irreale. E’ una colpa grave. Le autorità civili devono impedire la produzione e la diffusione di materiali pornografici »(Ciò recita con sussiego catechistico l’art. 2354).

Caro Berlusconi, beccati questa: non tu (che il gusto del sesso ce l’hai) ma il tuo evirato improbabile successore chissà se non finisca per accogliere l’anatema del successore di Ruini e pronuba, magari, la casta pronipotina del castissimo Formigoni – sia pure incinta, o appunto perché incinta – non metta all’ndice il pornografo Tiziano e svelli dagli Uffici cotanto materiale masturbatorio, addirittura femminile. Lo mandiamo a Tel-Aviv. Mi piacerebbe, al mio consanguineo Gheddafi (ma quello è costretto a ripudiare le immagini, se no, che arabo sarebbe?).

Non v’è rimedio: l’art. 2521 sancisce il pudore senza limiti «Esso è una parte integrante della temperanza.» Tiziano non è di sicuro un “temperato”. «Il pudore preserva l’intimità della persona». Tiziano ha voglia di diffondere, in tempi senza foto e senza cinema, le più intime voglie erotica di una bagascia insoddisfatta. «Consiste nel rifiuto di svelare ciò che deve rimanere nascosto» E l’intimo piacere poche donne hanno voglia di svelare, ancora ai nostri pecaminosissimi giorni. «E’ ordinato alla castità, di cui esprime la delicatezza.» La Venere d’Urbino, tutto al contrario. «Regola gli sguardi e i gesti in conformità alla dignità delle persone e della loro unione.» Caro Berlusconi, come “autorità civile” acclamata dagli ecclesiastici, non hai scampo. La condanna è da cassazione: svelli il Tiziano.

Tralascio di commentare la botticelliana nascita di Venere, tutta cerulea, conchigliata, presa da sublimità erotica, di certo splendida nudità ridestativa del fomite carnale e del deliquio visivo. Irridente per la tenebrosa bellezza delle figliole di Sion: nigra sum sed formosa. Giammai, però, glauche ispiratrici di concupiscenza, botticelliane. Ma in Israele non v’è censura? Non v’è l’analogo della mora cattolica? La licenziosità quali spazi di permissibilità consegue?

Mi accorgo, a questo punto, di avere sfogliato la rivista nel verso sbagliato: dovrei girarla dalla fine all’inizio come si addice ad una pubblicazione ebraica. Non ne ho più voglia. Mi soffermo solo sulla fotografia del panorama racalmutese. Vi è allegato un appunto del dottor Aurelio La Matina Calello. Invero è uno squarcio della lunga missiva inviata alla negroide Melissa (che se è quella che appare nella rivista è un’appetitosa gnocca, insomma una gran cucchia3 ).

E’ cerimonioso il dottore Aurelio, alquanto ipocrita però: «Quella magnifica fotografia che avete pubblicato nella Vostra insuperabile rivista (peccato per noi, in caratteri ebraici inaccessibili) mi richiama lembi di terra d’Israele che ebbi la fortuna di visitare 33 anni fa. Quando parlo di terra d’origine, non è a vanvera: a Racalmuto vi fu fino a tutto il Quindicesimo secolo una prospera colonia ebraica: fu la famigerata Isabella di Castiglia a disperderla. Quanto ricca, quanto potente fosse quella colonia si evince da un celebre documento dei fratelli Lagumina.

Ho detto disperdere – ma impropriamente. Fu invece una violenza cattolica che spinse degli industriosi e colti ebrei a diventar marrani, a mimetizzarsi quali cattolici osservanti, persino bigotti pur di sopravvivere in questa plaga che si dice Altopiano di Racalmuto. Poter continuare a godere del sole di Sicilia, del suo occiduo chiarore rifluente dalla Montagna poteva valere il mantenere peccaminosamente frenate le pudenda.

Le mie ricerche nei registri parrocchiali della Matrice di Racalmuto mi rendono certo e quindi ambiguamente basito per le mie indubbie origini ebraiche.

Se mi si perdona questo excursus, spero che Ella voglia omaggiarmi delle copie delle mirabili fotografiche scattate a Racalmuto dalla Sua Rivista e che forse non sono state tutte pubblicate: edito a mie spese una periodico dilentantistico dal titolo QR (quaderni racalmutesi) di cui all’acclusa fotocopia e vorrei lì pubblicarle con il debito commento.»



Davvero Racalmuto, visto dal pizzo di quel calanco che si diparte dalla Fondazione Sciascia ha richiami brulli ed opachi come una collina del Getsemani con gli ulivi divelti. L’idiota che pose quel masso cimiteriale non capì che Sciascia rinnegava ogni ragionevolezza al Racalmuto od alla Regalpetra che dir si voglia. Arido e sconfortato dichiarò invece il paese scabro di ragione e di giustizia, quale forse va man mano divenendo. Il politicante di turno ebbe fortuna a dichiarare Racalmuto «il paese della ragione», come se tanto avesse pensato il locale scrittore. Non era vero: l’ignoranza dominò vittoriosa. L’imbecille fu fatto persino onorevole. Così vanno le cose a Racalmuto. Il fotografo d’Israele seppe leggere le intime nudità dello spirito, seppe vedere tra le brume sonnecchianti su miserevoli chiese e su castelli memori d’antiche ignominie; capì il senso orientaleggiante di donne partorienti con dolore, senza fisico piacere, di bambinelle arrancanti su basalti scivolosi sotto l’ombrello di nailon, come la madre giovane ma disfatta. E la tante casupole che da terranee quali erano nei secoli del primo fiorire dell’era moderna, furono chiavate ed inseminate di “cammare solerate”, prima in gesso ed ora in blocchetti d’arenaria o cementizi, ignorata e violata l’ordinanza municipale dello “scuci e cuci”.



* * *

Proprio stamani (oh quanto mi piace questo toscanismo: ma un gnera miegliu si diciva stamatina. Oh Dante, Dante perché sei nato prima dell’abate Meli?) ho ‘rassegnato’ (e qui mi piace scrivere burocratese) il rapporto alle ’competenti autorità’ sulla personalità del dottore Aurelio La Matina Calello. Non lo trascrivo: è troppo burocratese appunto. Il senso generale però ve lo svelo (verrò incriminato per violazione dei segreti d’ufficio e forse di stato e forse di stati?).

Nato a Racalmuto nell’anno del signore 1930, così lo stesso dottore Aurelio amava descriversi:

«racalmutese da dieci generazioni, nutre per la sua terra attaccamento profondo, tattile, senza suggestioni borgesiane, schivo di metafisiche devianze.

Nato a Racalmuto il 1930, da genitori anche loro del luogo, ha fatto gli studi ginnasiali nel seminario di Agrigento: vi ha appreso latino e greco, religione e nozioni umanistiche; vi subì le malie liturgiche ed ebbe orecchio per le monodie gregoriane.

Il liceo ad Agrigento, l’università a Palermo ma il primo lavoro a Modena quale funzionario della Banca d’Italia. Carriera fulminea in esordio; incarichi ispettivi scottanti contro Sindona, Fabbrocini, gli uomini della P2 di Livorno etc. Finì in rotta di collisione con lo stato maggiore dell’Istituto di via Nazionale.

Messosi in pensione anzitempo, si dedica alle ricerche storiche focalizzandole sulla minuscola vicenda di Racalmuto. Gli vengono in soccorso gli archivi della matrice, della curia vescovile di Agrigento, dell’archivio segreto vaticano, quelli statali di Roma, Palermo ed Agrigento. Le carte locali – pure esistenti - sono tuttora trafugate in sotto-terrazze inaccessibili.

Pubblicazioni a proprie spese scandagliano i vari momenti del vivere racalmutese, dai tempi più antichi - dieci mila anni fa dicono certe ceramiche – a quelli del passato prossimo; dai parossismi geologici alle devastazioni recenti, proprio quelle in cerca del sale, dello zolfo ed anche del potassio.

Una linea, un filo, un defluire che dura da oltre cento secoli, ora tenue ora in tumulto, senza gloria ma pur sempre umano, sofferto, scandito in una sorta di memoria demente, comunque un vivere tenace ‘come erba abbarbicata alla roccia’».

Il profilo di smaccata autobiografica compiacenza se lo ritagliò a proposito di un libretto di storia locale «la signoria racalmutese dei del Carretto». 500 copie stampate, 15 vendute.

Ma a me il dottore Aurelio non la dà a bere: alto allampanato, misogino frustrato, malato di sesso, dedito all’autoerotismo sino alla morte, scapolo, ebbe casa spaziosa a Roma in via del Casaletto 2123 (con fondi dispensati dalla sua pur tanta odiata Banca d’Italia), ma dimora abituale (dopo il pensionamento baby) nello squallido villino in contrada Bovo di Racalmuto.

Uscito dal seminario dopo il ginnasio (conseguita la licenza ginnasiale, di diceva allora) fece i tre anni di liceo ad Agrigento, senza donne, come quasi tutti gli altri suoi coetani, del resto. All’università palermitana, facoltà di legge, ebbe il povero Aurelio a prendersi una cotta con tutti i sacramenti per una tale Mara Cipollara, una sventola alta, bionda con deretano a chitarra, ma con mammelle alla francese, come dire inesistenti. Non sembrava della terra dei berberi, traccagnotti e scuri. S’era messo a “taliarla” con maniacale perseveranza. Si convinse della sua irrefrenabile corrispondenza dell’amoroso senso, La “fermò”, si dichiarò. Ebbe risposta allibita, di ineffabile sorpresa.

  • ma tu sei innamorata di me, grignò Aurelio;
  • no, io amo Michele, graziosamente piagnucolò lei;
  • non è vero! E giù un ceffone.



Venne aggredito da una folla inferocita, portato in questura. Fu processato ebbe una lieve condanna con la condizionale.

Questo non gli impedì di concorrere ad un posto di segretario in esperimento presso la Banca d’Italia. Per sua fortuna, i carabinieri di Racalmuto non gli avevano apposto il famigerato segno rosso nelle schede segretissime. Quanto a politica, era decrocratico cristiano ad oltranza. Nelle risposte segrete all’Istituto di Emissione, i carabinieri scrissero “fervente sostenitore del partito dell’ordine”. Aurelio vinse il concorso ma fu sbattuto a Modena, che raggiunse un pomeriggio del 31 gennaio, quando ferveva la festa di S. Geminiano, protettore sommo della città e titolante la banca cittadina, affidata alle cure del nipote del pro-segretario di stato, mons. Tardini. Il giorno dopo ebbe a cadere tanta di quella neve a Modena (“la cacca degli angeli”, diceva Aurelio sentendosi spiritosissimo) da intristire irrimediabilmente il poco ilare cuore del neo dipendente della Filiale di Modena della Banca d’Italia. Non ebbe più donne, salvo un’avventura che forse dopo rivelerò.

Mara frattanto si era sposata col suo Michele, un appuntato dei carabinieri anche lui bello, aitante, nordico, seppure nato a lu Naduri. Mara, vergine, fu deflorata in un alberghetto nei pressi della stazione centrale di Roma. Michele fu maldestro: Mara, prima esplose in risa isteriche vedendo quell’uomo per la prima volta nudo col suo affarone gonfio ma frettoloso. Poi strillò anche per il dolore fisico. Ebbe ripugnanza del sesso. Subì dopo qualche coito, con lui sempre ‘precox’. Alla fine si ignorarono entrambi: entrambi avevano ormoni sovrabbondanti dell’altro sesso. Trovarono splendidi amanti, tutti e due nel versante della peccaminosa omosessualità. Solo i vicini del piano condominiale capirono qualcosa: sembravano coppie di coniugi amici. Si sussurrò di orge: non era vero. L’amore veniva consumato in due camere separate, in due letti diversi, tra appartenenti allo stesso sesso. La coppia estranea cambiava: non erano coniugi, lo davano solo a vedere. Mara appassì presto: morì giovane, senza figli, senza rimpianti. Di Aurelio non ebbe mai modo di ricordarsi o non volle mai. Michele sparì, nessuno ne sa più alcunché.

Aurelio a Modena trascorre n biennio oscuro ed ingrato: finito in tesoreria, doveva vedersela con catorci, antenati dei moderni computer in rete, a battere barre nere e barre rosse e rilasciare quietanze e documenti similari nella sterile sudditanza ad una contabilità di stato ottocentesca. Se non veniva da Roma l’ordine dell’assegnazione all’ufficio segreteria, cambi e vigilanza, il dottor La Matina Calello, manco segretario di ruolo passava.

Nel nuovo ufficio, dovette subito cimentarsi con il burocratese ed aveva la peggio nei confronti del collega un tantinello più anziano di lui. Il capo ufficio aveva una figlia appassita e negretta ed avrebbe voluto appioppargliela. Aurelio non se ne dava per inteso ed il capo ufficio finì con perseguitarlo, irridendo agli strafalcioni (o meglio alle inadeguatezze stilistiche dello scrivere lettere volte ad ottenere l’autorizzazione ad accordare tre zampilli anziché due ai bidet dell’appartamento di servizio del signor direttore) ed alle reiterazioni concettuali nelle mensili relazioni dell’andamento dell’edilizia modenese (sulla quale Aurelio era del tutto disinformato).

Una bella pezza di pecorino col pepe – fatta venire da Racalmuto – ammansì il capo ufficio segreteria, cambi e vigilanza, frustrato per le bocciature annuali nel concorso interno al grado di vice direttore ed angustiato da una famiglia spendacciona ben oltre il pur lauto stipendio della Banca d’Italia.

E fortuna su fortuna, a Modena giunse il dottor Pelillo, reduce da una rappresentanza della Somalia, con voglie amatorie (giustificabili con quella moglie bresciana, svuotata di carne e di sesso, acida, impura ma tutta all’interno – sposata per denaro, era per di più risultata intestataria di quote societarie in irrimediabile stato di decozione). Il direttore fiutò in Aurelio uno scrittore ed uno storico mancati: lo mandò in biblioteca per ricerche sulle tresche tra Maria Cristina di Svezia ed il cardinale Borri.

  • sa, dovrò farne una conferenza al rotary, alla conquista delle disponibili signore della borghesia modenese, appetibili anche se alle prese con la cellulite.

Aurelio si smarrì.

  • che dottore? Non sa che cosa è la cellulite? Non ha mai goduto delle bellezze posteriori di una quarantenne?

Uomo di mondo, il dottor Pelillo, intuì e non imperversò.

Aurelio fu abile nelle ricerche sull’alchimia del cardinale Borri; non trovò molto, o non seppe, su solleticanti fatti delle secentesche alcove cardinalizie o sulle reali debolezze di una donna dal volto mascolino, dalle zinne prorompenti, dal cervello di prim’ordine, colta, grecista, latinista e poliglotta. In questo supplì mirabilmente il direttore Pelillo: giammai scurrile, sinuoso, ammiccante, ottenne strepitoso successo. Risero sboccatamente le signore; nessuna – pare – che si sia concessa al brizzolato direttore. Ai due figli – elegantissimi ed aitanti – sì. Usavano la macchina di servizio. Vi lasciavano con grande incuria preservativi ricolmi. Il custode era furente.

Il dottor Aurelio La Matina Calello cotali aspetti non interessavano per nulla. Continuò in ricerche letterarie, funse da segretario in arditi incontri sindacali presso la filiale della Banca d’Italia di Modena, ispirò relazioni inconsuete al direttore. Non toccò più pratica alcuna.

  • lasci a quei cretini dei suoi giovani colleghi lo studio e l’applicazione del profluvio di numeri unici, roneate, circolari e disposizioni con cui Roma ama inondarci. Noi abbiamo intelligenze per non provare tedio delle imbecillità.

Al concorso a sottocapufficio Aurelio superò persino l’attuale direttore generale della Banca d’Italia; promosso al minimo, superò i suoi più anziani giovani colleghi ( ma per questo non gliene vollero). Rientrò in Sicilia: sottocapufficio alla filiale di Messina.

Qui la vigilanza era poca: solo la Banca di Messina dei Martinez, imparentati col Sindona.

Sindona era un mito: il direttore della Banca d’Italia lo sublimava.

  • Tratta alla pari con gli Hambro!, sentenziava inappellabilmente.

Le faccende di segreteria, minuscole ed asfissianti, misero a dura prova il sistema nervoso di Aurelio. Per un biennio. Superò ancora più encomiabilmente la valutazione per la promozione al grado di capoufficio. Fu tra i sei che con il nuovo sistema valutativo, su base informatica, introdotto dal dott. Zoffoli, con appena due anni di anzianità risultarono non solo promuovibili ma andavano a scavalcare i quotati ed intoccabili ragazzotti del servizio studi voluto e benvoluto dal governatore Carli. Fu quasi crisi al servizio personale della Banca d’Italia; Zoffoli non si poteva però sconfessare, il fratello in vaticano vigilava, il dottor Occhiuto gli era ancora amico. Si decise un compromesso: i sei biennali furono piazzati in coda a ridosso degli altri più titolati e più anziani concorrenti. Aurelio ebbe la soddisfazione di precedere il dottore Vincenzo De Sario, l’astro nascente d’origine pugliese.



A Roma, Aurelio subì graffi esistenziali (lievi però). Il capo della vigilanza Biserni non ebbe neppure il tempo di riceverlo. Il segretario, bell’uomo – fascinoso proprio – fu gentile ma lo mandò letteralmente a spasso.

  • si goda Roma, per ora, lo congedò come ricolmo di munifica benevolenza.

Il neo promosso disorientato ed in fondo umiliato cercò di congetturare quale servizio dovesse accoglierlo. Non riusciva. Si aggirava per i viali del Pincio: da una panchina passava all’altra per non disturbare le coppiette in amore. Era guardone ma si impediva il piacere. Dedito all’amore solitario, neppure gli squarci sino all’indumento intimo dell’accaldata ragazzotta in effusioni si permetteva di guatare men che fuggevolmente. Nella tarda ora della sera, la rimembranza accendeva frenesie indecenti. Via del Corso, stretta tra i due filari di altissimi palazzi, lo opprimeva e sgomentava con morsi di rattristante claustrofobia



Alla fine, venne assegnato all’ispettorato vigilanza. Per un mese rimase solo in una stanzetta di via Milano. Dovette subire le imbecilli ironie di un capo missione, calabrese, incolto, becero (l’orpello nobiliare suonava beffardo e stridente). Fu quello il suo primo incarico ispettivo. Ad Asti, presso la locale cassa di risparmio.

Il capo era noioso, petulante, ignaro di ogni briciola tecnica. Non sapeva di bilanci, non sapeva di consistenze patrimoniali, ignorava la struttura del conto economico; di cash-flow , manco a parlarne.

La sua difesa?

  • ma io so vivere!

La sua battuta migliore (l’unica):

  • io ed Einstein ne sappiamo più di Einstein solo.

Il suo saper vivere era consistito, dopo i cinquant’anni, nel portarsi a letto diverse mogli di colleghi coetanei, quelle in fase di menopausa fisica ma non mentale. La moglie, da parte sua, contraccambiò. Le signore mogli degli ispettori, a turno erano dannate alla solitudine semestrale (tanto di solito durava un’ispezione) e tentavano così di consolarsi, ma era uno schianto. Gli uomini della vigilanza, aridi di cuore, flosci nel sesso, avvampavano solo nelle fantasie erotiche. Impraticabili per decoro per viltà per ignavia.



Aurelio doveva tutto apprendere; il maestro nulla aveva da insegnare. Gli fu affidata l’introduzione del rapporto. Una scheda sull’economia della zona di competenza della banca. Il giovane apprendista si scervellò, scrisse, corresse, aggiunse: rassegnò il dattiloscritto. Tre paginette e mezzo. Il capo lesse, sogghignò e scrisse: f.to Penna d’Oro. Aurelio ringrizzì gli occhi, avvilendosi tutto dentro. Deglutì. Tacque. Per mesi bighellonò, neghittoso, succubo, per nulla reattivo ai lazzi dek capo. Il quale, sadicamente, soffrendo d’insonnia costringeva i suoi due giovani collaboratori ad eterne e notturne partite a “scala quaranta” nella hall dell’hotel Aleramo.



Un sabato, quando il capo stava a Roma per il fine settimana in famiglia, scoppiò lo scandalo: In ABC si affermava di giri di assegni a vuoto per una speculazione edilizia nell’Agro Romano coinvolgenti il direttore generale della cassa ed il tale capoccione della Milizia fascista, quello che aveva schiaffeggiato Toscanini, riluttante ad eseguire “Giovinezza”. (Ho consultato all’archivio di stato di Roma i faldoni della “segreteria particolare del duce, e l’episodio mi è apparso dubbio o enfiato).



Aurelio, smarrito, telefonò. Il capo fece subito ritorno. Giudicò il direttore innocente (autoproclamando un intuito infallibile). Disse che il lunedì voleva mari di banconote dietro le vetrate protettive delle casse. ‘Si doveva evitare il panico dei depositanti’, compiacendosi ripeteva di continuo. Gli astigiani erano gente neghittosa per formalizzarsi su un articolo di ABC. Non successe il paventato panico.



Dopo settimane telefonò addirittura il presidente democristiano della camera; consolò il direttore generale; gli accreditò la sua fiducia. Suggerì imperiosamente che non era il caso di querelare il giornalista di ABC. Il direttore ubbidì. A tempo debito ricevette una parcella plurimilionaria. Il presidente della camera esigeva la liquidazione della sua assistenza legale (mai richiesta). Erano i tempi antecedenti la prima repubblica.



Supra tuttu, s’iu vi futtu

Iu mi sentu furtunatu,

nun invidiu li ricchizzi

o la sorti d’autri pizzi,

ca li cunni chiù prigiati

si gudisciuni a michiati.





Non chiedetemi perché mi va di scomodare Domenico Tempio, il diverso Muzzicapassuli della “grammatica pilusa”, nel sentirsi fortunato se consegue l’osceno coito, mi richiama gli echi di quella era democristiana quando le propensioni anali erano figurate ma anche vere.



Capitolo secondo

L’osceno Aurelio

E per stare in armonia con la scurrilità di così spregevole richiamo letterario (ma in incomprensibile vernacolo), corre qui l’obbligo (come burocratese non è poi da buttar via) di rimembrare il secondo ceffone della vita del dottore Aurelio La Matina Calello.

Nel tedio delle sere del sabato, Aurelio, rimasto solo, amava raggiungere l’uggiosa Torino. Vi si annoiava ancor più ma non desisteva. Soddisfaceva invero un suo vizietto occulto: comprare riviste porno, complici ed invoglianti nelle sue solitarie masturbazioni nel vacuo lindore della stanza d’albergo, che pur era matrimoniale ed ampia. Comprarle ad Asti, si vergognava, temeva di essere riconosciuto.

Ed una volta l’attrasse un’inserzione osée: coppia disinibita accoglieva nel proprio talamo purché .‘dotato’. «Lui contemplativo», nel gergo di allora (come dire: nessun pericolo omosessuale … ed Aurelio odiava l’omosessualità virulentemente. “Garrusazzu”, restava per lui vituperevolissimo figuro).

Si lasciò adescare: “fermo posta”; foto riservata (andò da un valentissimo fotografo astigiano), etc. etc., tutto l’armamentario per siffatti incontri, insomma.

Quando un sabato sera, freddissimo ma terso e stellato, suonò alla porta di una signorile villetta di via Morgari Aureliò dilagò in vertigini, eccitamenti, sensi di colpa, smarrimenti. Venne accolto da un signore cinquantenne, brizzolato, composto, quasi ieratico.

  • si accomodi dottore, ma nell’androne-soggiorno, luci diffuse sì ma rivelatrici, il disappunto dell’ospite fu palese. Con piemontese autocontrollo, il moto ostile slabbrò subito in un sorriso affabile ed accogliente.
  • il drink glielò servo io, capisce la servitù l’ho lasciata libera, ed ovvio, fu inappuntabile.

Aurelio strabiliava: era un bell’uomo, charmant, ricco ed allora perché? Volle credere a qualche carenza fallica.

  • la signora sta facendo toilette. La scusi.

E qui l’anfitrione iniziò una loquela inarrestabile.

  • io sono ebreo, sa. Ma diverso. La mia è una schiatta nobile … molto nobile … ineguagliabile. Non so se sa di bibbia. Leggiamo Genesi, 19, 30 e successivi: «poi Lot partì da Zoar ed andò ad abitare sulla montagna, insieme con le due figlie, perché temeva di stare in Zoar, e si stabilì in una caverna con le sue due figlie. [L’immondo citava a memoria, con presumibili svarioni e licenze. Io, Meluccio Cavalieri di Giorgenti vado consultando gli “appunti autobiografici” di Aurelio e lì vi è solo il riferimento al passo biblico. Integro traslando da una “Marietti 1820”].

«Ora la maggiore disse alla più piccola: “il nostro padre è vecchio e non c’è nessuno in questo territorio per unirsi a noi … pater noster senex est, et nullus virorum remansit in terra qui possit ingredi ad nos iuxta morem universae terrae. Vieni facciamo bere del vino a nostro padre, e poi corichiamoci con lui … Veni inebriemus eum vino, dormiamus cum eo .. (oh quel dormiamus per coitiamo, quanto pudore nella ‘vulgata’), così faremo sussistere una discendenza da nostro padre.

«Quella notte fecero bere del vino al loro padre e la maggiore andò a coricarsi con il padre … dormivitque cum patre (si chiavò il padre, siamo espliciti) .. ma egli non se ne accorse (o finse) né quando essa si coricò, né quando essa si alzò. All’indomani la maggiore disse alla più piccola: ‘ecco, ieri mi sono coricata con nostro padre: facciamogli bere del vino anche questa notte e va’ tu a coricarti con lui.» E qui la reiterazione dell’incesto fecondo della figlia minore. Erano .. erano …. Erano vergini le due sorelle? Certamente no. Vero è che Lot, pur di salvare integro il deretano dei due angelici stranieri tentò di offrire l’imene delle due figliole ai vogliosi sodomiti. “Habeo duas filias, quae necdum cognoverunt virum”. Forse il vecchio non mentiva; i sodomiti non abboccarono, dunque sapevano … di furtive concessioni … forse di orge … non escluso il meretricio. Diversamente, dinanzi ad un virgineo banchetto (anzi duplice) come non assentire? Lot, in ogni caso, è vecchio sozzo: due avvenenti angeli valgono di più di due intatte (o credute tali) figlie. Esplodeva anche in lui l’attrazione contro natura? (Tanto non è mio padre, posso infierire.) Credo che Lot sapesse e vi speculasse .. il pretium sceleris gli faceva un comodo della madonna. ‘Pappone? A Roma, in sicilia come si dice? Non v’è lemmo equivalente … ruffianu .. beccu … mizzanu … non rende … non rende. Curnutazzu … sì curnutazzu … può andare … po’ jiri .. Pronuncio bene il suo dialetto? …. Ah! Ah! Ah! … po’ jiri ? … simpatico … spiritoso. Dunque dicevamo: da quegli incesti proliferarono i moabiti e gli ammoniti … due popoli infami, reietti, ma veri e prischi ebrei. Diffusi per il mondo, giungono sino a noi sono diffusi ovunque … anche in Italia .. anche in Sicilia. Già, quel popolo incuneatosi nelle più profonde latebre del tessuto sociale della Sicilia del XV secolo da dove vuole che discenda .. ma dai frutti incestuosi delle due figlie di Lot? E non è vero che Isabella di Castiglia sia riuscita a far sloggiare i figli dell’incesto dalle sue terre siciliane … sì nel 1492 appunto. Sappiamo di quel domenicano Torrecremata capace di terrorizzare la regina (il re, pare, era più laico e più propenso a preferire le trentamila auree onze di Sicilia alla postuma vendetta di un deificio mai provato: la regina condivise col domenicano le somiglianze esecrande tra i trenta denari del tradimento di Giuda e le trentamila onze dello scellerato patto con i deicidi di Sicilia.) Ascolti il suo paesano Giuseppe Picone (Aurelio ne ignorava allora l’esistenza, davvero, seppe poi, il Picone era quasi un suo compaesano, di Racalmuto appunto, nota mia): «.. stanchi gli ebrei del modo onde i regi ufficiali incrudelivano sovr’essi, partirono a trnt’uno dicembre del 1492, lasciando ai nostri avi i proclami di Carlo II e Carlo V, onde gli ebrei venivano richiamati in Sicilia. La nostra terra inospitale fu esacrata non solo dagli ebrei, che si sparsero in altre regioni, ma bensì da qualunque nazione commerciante. Essi partivano, e il nostro popolo ne fece baldoria, e vittima dei falsati principi , propagati da un governo ignorante ed ingordo, e da preti non meno ingordi e fanatici, ne tripudiò … ma ne pianse in seguito del pianto della miseria che gli sopravvenne.» E qui però il Picone erra, almeno in parte. Non tutti gli ebrei trasmigrarono (a Napoli, pare): solo quelli ricchi, abbienti … gli altri si mimetizzarono, presero nomi locali, banali … la licata … la matina (Aurelio arrossì, si guardò pero bene dal denunciare il suo cognome … ebreo secondo il Corrotto) … parisi … lintini …Guardi … guardi negli archivi parrocchiali e dovrà convenire con me.

Fu a questo punto che apparve finalmente la signora. Un miraggio, un incanto. Cerulea negli occhi, sciolti i capelli lunghi, in profluvio biondo sino al sorgere delle arcate in delicato modularsi nel retro del corpo minuscolo diafano angelico eppure ammiccante vivido sinuoso. In tulle di color purpureo, trasparentissimo per mostrare le carni del desiderio e la mise della lussuria. In pizzo i generosi involucri dei seni composti e compatti, senza osceni debordi. Invitante la guêpière. Niente giarrettiere, le calze fiorate cessavano sopra il ginocchio fissate da guigge a festoni di color citrino. Laggiù, invero, v’era contrasto le coperture dell’alto: quasi le ambiguità delle Pornokrates di Ferdinand Rops. Malizia e sberleffo: l’angelo scendeva nel bordello. Il tocco del dottor Ba’alzebub evidente, perfido.

  • Ofelia …, il dito esigeva risposta,
  • Lio.
  • Già Lio, che strano nome per un siciliano. Diminutivo di che?
  • Aurelio.
  • Notevole … notevole. Ma il suo nome non lo svelò.

Ofelia andò compassata a sedersi a fianco di Aurelio. Lasciò divaricare i lembi della veste. Bianchissimo il modularsi delle cosce. Per il momento impenetrabile alla vista il configurarsi del sesso.

  • Dicevamo .. dicevamo. Sì, voi siciliani non siete arabi, non siete normanni, non siete spagnoli, né greci né tampoco romani. Solo in minuscola parte. Sostanzialmente siete i figli delle incestuose figlie di Lot. Lei no, Lio. Lei .. vediamo … lei, ma è evidente lei è berbero. Ricciuto, rinsecchito, elettrico, sopra la media, lungo collo ma testa oblunga. E lì, lì in basso … lo vedremo dopo. Non ci avrà ingannato proclamandosi “superdotato”. E’ circonciso .. no, è vero? Diversamente con un glande scappucciatissimo chissà a quali lunghezze perverremmo? Sbaglio? Ofelia è gracile di costituzione e certe lunghezze non le recepisce. Le danno dolore. Si rifiuta. Capisce? Ma i cosi troppo piccoli non sono … fallici. Leda ed il cigno … va bene, ma con il pene adatto al coito sadico-anale.

Sarà stato per quel linguaggio, sarà stato per l’effluvio erotico che veniva dall’abbordabile Ofelia, Aurelio cominciò qui ad eccitarsi. Mirò la partner. Le toccò il ginocchio. Salì sopra la guiggia. La pelle fresca, liscia e linda dava sensi di ebbrezza. Salì ancora. Ofelia, impassibile. Ma il dottor Ba’alzebub dette segni di nervosismo. ‘Strano’, si disse Aurelio e proseguì sino a sostare sulla copertura del sesso. Ofelia, impassibile. ‘Fantasmatica’, pensò Aurelio venendogli alla mente un termine letto nei testi della psicanalisi che in quel tempo lo appassionavano.

  • Ofelia ebrea non è. Come del resto potrebbe esserlo, così eterea, così cerulea, tanto … immacolata? E disse quel termine con tono indecifrabile.
  • Io, sì … ma non sono figlio di quelle putride figlie? Non mi vede … non c’è compatibilità … Io sono figlio … Ma che fa?



Proprio in quel momento, Aurelio eccitatissimo aveva portato la mano di lei sul suo sesso gonfio sotto la patta. Il dottor Ba’alzebub si alzò di scatto e andò a mollare un gran ceffone sulla guancia di Aurelio. Il quale, confuso, smarrito ed anche indolenzito, farfugliò:

  • mi scusi dottore .. io non volevo ..
  • non volevo un corno. Non permetto a chicchesia che si manchi di rispetto a mia moglie.

Aurelio, allora, fece segno di alzarsi per andarsene.

  • ma dove cazzo va? Stia lì. Ogni cosa a suo tempo, ogni cosa a suo tempo.

Aurelio ubbidì, mansueto e basito.

  • Eppure sono figlio della mogile di Lot. – riprese il dottor Ba’alzebub col tono di prima, stralunato ma serafico. – Sì. Ha capito bene ….Quella della Genesi … Duo angeli advenientes in domum Lot … Surge , tolle uxorem tuam. Ed era bellissima la moglie di Lot … matura ma splendida nei suoi trentacinque anni …. Anche Ofelia ha trentacinque anni … Bruttissimo, lui … vecchio, cadente e cornutazzo … Seconda, terza, quarta moglie … non so. Brutalizzata appena quindicenne partorì la prima delle figlie … poi la seconda … poi il sesso bandito … lui impotente, non capace più di erezione alcuna. I due angeli l’abbagliarono. Erano angeli ma non serafini, anzi rigonfi di maschi attributi … Si insinuò tra loro nella notte successiva all’accecamento repressivo … et eos qui foris erant, percuserunt caecitate a minimo usque ad maximum, ita ut in ostium invenire non possent ... Ebbe eccitazione forte la moglie di Lot mirando le depravate voglie dei sodomiti … ebbe appagamento memorabile tra i due angelici maschi … davanti e dietro … e po dietro e davanti, scambiandosi gli angeli le fenditure del piacere della moglie di Lot. Da chi fui generato, se dal seme del primo o da quello del secondo, non so. Non mi è stato rivelato quella notte sul Tabor … Non ero ancora sposato. Sopra la collina di Yizre’el, la notte d’agosto, quando stelle a frotte solcavano il cielo sopra le rovine avvolte di vegetazione, nella parte della cima ellittica, spentosi lo scenario dello splendido panorama dei monti di Nazareth, resistente ancora ad ovest dopo ore dal calar del sole, nudo, crocifisso sulla nuda terra, il mio sesso ebbe ad innalzarsi sino a vette mai raggiunte prima. Mi apparve l’angelo, sì l’angelo mio padre … e tutto mi disse, tutto mi svelò … Non credete, scettici … Non credete! …Ma io so la verità. Ego sum veritas… Dopo, per non procreare più altri mirabili angeli, avendo in me ormai l’irrefutabile verità, il mio sesso scomparve … si prosciugò … neppure i testicoli resistettero … solo una enfiatura per la minzione … e sotto un prurito, simile forse al desiderio, inappagabile.

S’immalinconì il dottor Ba’alzebub. Sospeso nei suoi pensieri o ricordi, entrò come in trance. Ofelia, impassibile. Quindi il sussulto, il ritorno all’empio recitare … Una sigaretta accesa … d’odore strano … un’altra passata ad Ofelia.

  • a lei no, vero? Lei non fuma marijuana.

Lio, in effetti, all’epoca ne sconosceva persino l’esistenza. Il tempo dello “spinello” era ancora di là da venire.

Anche Ofelia sembrò rianimarsi. Brividi quasi impercettibili, specie là vicino. Lui si alzò.

  • ed ora all’opera. Vada in bagno, si mondi, si unguenti … e poi nudo in camera da letto. Ecco che gliela mostro.

Il dottor Ba’alzebub acquisì come d’incanto toni imperiosi cui non si poteva sottrarsi. Lio ubbidì remissivo e fu remissivo anche dopo per tutta la serata, per quasi un paio d’ore. Veniva addirittura plagiato da un eunuco.



* * *





Nel dondolarsi sopra lo sferragliamento del treno da Torino ad Asti, solo in uno scomparto di seconda, per risparmiare, nel succedersi di lampi di luce e di profondità buie, in penombra, quella fioca delle luci della notte, Lio rimembrava, il sonnecchiare era lancinante per il patire rimorsi: crudi, spietati, come vampe infernali dell’anima. Si era prostituito. Era divenuto il transfert di Belzebù senza ritegni, privo di ogni umana dignità, cui aveva abdicato miserevolmente, persino sconciamente. Belzebù seduto … assiso sul trespolo .. su una inconsueta poltrona adagiata su un alto podio in ferro battuto .. per vedere meglio .. godere meglio … dirigere imperioso … regolare luci, musica … amore .... sesso …

  • questo è il sublime Johannes Brahms, il concerto n. 2 per piano …. Ricominci …. Parti dall’avvio, un invito con un titillamento … sì sul suo clitoride … una toccata del piano … una risposta orchestrale della mano … sì, bravo … martelli … ma piano … come i passaggi del piano forte. Lei è il pianoforte …. maschio …. virile … ma dia fiato alle trombe … ella è casta … ella è pura … va svegliata … coi trilli delle trombe … ed ora in concerto … mani bocca ansimi sesso stringimenti ma cautamente. Ofelia non l’ama- Ama me, desidera me, ma io sto qua lontano, impotente eppure presente, prendo a prestito il suo coso, enorme, bestiale, disumano, voglioso, sovrabbondante …. Si è spento? Già come una pausa sinfonica, cioè un lieve sussurro, in cicalare tra piano ed orchestra. Il desiderio si appanna. Si lasci andare, si lasci andare. Il piano si anima … Vibri colpi col pene sulle sue grandi labbra … Il glande non entra … aspetti, aspetti perdio, non vede che è ancora asciutta, inaccogliente. Ma lei è quasi all’eiaculazione … si fermi e parti … entri .. entri.

Ofelia gridò di dolore, la sua apertura era ancora stretta per l’enorme priapo. Il piano dialogava, l’orchestra rispondeva. Sembrò corrispondere, ma si smarrì … il piano riprese voluttuoso … sinuoso …. Parve ritrarsi … labile … nel rutilare di note flebili … ma si andava dai bassi agli acuti, avanti e indietro, senza foga … bussava … picchiava … non veniva aperto … eppure paziente … non desisteva. Le anche si alzavano, si abbassavano, si alzavano. Ancora niente. Interrogativi del piano, pausa, silente l’orchestra … un singulto … una risposta piu estesa …. dolce ora il piano … Finalmente il grido liberatore. I due o tre gemiti dell’orgasmo … non sincronico … ma di entrambi.

Belzebù aveva cercato affannosamente il piacere … strofinando frenetico il bozzo fra gli inguini … ma nulla … ma nulla.

  • l’angelo mio padre non permette … non consente.





A quello sconcio squarcio della memoria, Lio sprofondò nella vergogna, nelle frustrazioni della sadica curiosità dei terapeuti analisti. Castrazioni, invidia del pene, pulsioni sadico-anali, e via discorrendo, ma in forma d’umano annichilamento, come il disprezzarsi fino alla voglia di morte. Antiche vergogne e freschi ricordi di un sesso senza amore, volgare, depravato, depravante.

Povero Lio! L’abbandono al suo intimo distruggersi. “Cupio dissolvi”, ma era acre soffrire. Leggo fra gli appunti rievocativi siti in files varie volte abrasi (e da me pervicacemente ripresi). Mi muove pietà. Quel giorno, di mattina, alla biblioteca centrale Lio aveva ripescato il vecchio testo del DIADECTICON. Ne riporto il titolo per come lo rintraccio nel suo computer:



MARCO ANTONIO ALAYMO - DIADECTICON - PALERMO 1636

(Dalla Biblioteca Nazionale - microfilm delle pagg.1-38 e 295 335)



W

DIADECTICON

SEU

DE SUCCENAREIS MEDICAMENTIS

OPOSCULUM

Nèdum Pharmacopulis necessarium, verum et Medicis,

Chimicisvè maximè utile, in quo nova, & admiranda Naturae Arcana reconduntur.

A U C T O R E

M A R C O A N T O N I O

A L A Y M O



Philosopho, &t Medico, Siculo, Racalmutensi, civeque Panormitano Ill. &t Prothomedici eiusdem Fel. Urbis Consultore, &t Deputationis Sanitatis Deput.

Indice locupletissimo tum capitum, tum rerum notabilium, tumquè Auctorum in opere Citatorum illustratum.

[Pertinet ad Bibliotecam S, Francisci tran Tiberim]



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PANORMI, Apud Alphonsum de Isola Impress. Curiae Archiep. M.DC.XXXVI. Superiorum Permissu.



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L’immagine di Ofelia, femminea angelica attraente, era scomparsa. Se era stata la villica della radura francese dietro il Monte bianco, se era apparsa normanna, bionda ed esile, residuo grazioso di nozze nordiche non promiscue, ora appariva deforme, demoniaca, asessuata mezzana, peccatrice, infernale. E Lio si ripetè i versi del Veneziano che quello strambo di suo paesano, il medico Marco Antonio Alaimo, dimentico delle sue frequentazioni con il padre La Naza, il santo gesuita nato da fedifraga copula, include maliziosamente nel suo medico trattato:



Per la quartana, ch'è sua malatia

Si cuverna di signi lu Liuni,

E per lu mal suttili, ed Ethicia

Cimici vivi s'agghiuttinu alcuni;

Lu mentri lu bisognu mi primia

Per longu spatiu di tridici Luni

Contra l'humuri miu gustai di tia

Cimicia in modi, e Signa alli fazzuni.



Lio, nel suo animo, ebbe talmente a vomitare di donne e di sesso con donne, che da quel d^ non si congiunse più con femmina alcuna, sino alla sua morte violenta. Non violentò più donne, … fu violentato da donna?

E qui rientro nei panni di improvvisato e letterario detective.





* * *



Non andava forte la dottoressa Evelina Adelaide Mangoni Mistretta, commissario capo della questura di Agrigento. Sulla Peugeot 306 rallentò ancora alla curva del bivio per Castrofilippo, mirò forse – non era superstiziosa – la villa in cima dei Bonadonna, paurosa per la diceria di “signureddi” ognor presenti. Rallentò ancor di più nell’inforcare la bretella per Racalmuto. Una motrice di un articolato stazionava ai bordi appena prima dell’inizio della rampa. Mi mise in moto, accelerò: sul cavalcavia speronò la peugeot che piroettò in area, si sfracellò di sotto, nell’area laterale del traliccio, ed infiammandosi s’incenerì. Questo, a dire di testi, quanto attendibili c’è proprio da dubitarne.

- da lu Chiuppu vinni, a lu Chiuppu turnà, ripeteva beota Liddu Marino, pazzo più che stupido, personaggio emblema di Racalmuto. Fascistissimo in memoria del padre, odiava comunisti ed i simboli della “falce e martello”. Alle elezioni, staccava gli odiati manifesti. Quando, inaccessibili, gli furono sfacciatamente ostensi nel balcone dinanzi il sagrato di S. Giuseppe, trillò, chiese, inascoltato, rimozioni, si impermalosì sino a rabbie che al limite potevano esplodere minacciose.

  • picchì? Picchì?, bofonchiava Franciscu, che da giovane, quando era sano di mente, comunista lo era stato.
  • Mi l’hannu a livari, mi l’hannu a livari….. entrambi non smisero però di sorseggiare le buatte di birra gelata.

Liddu Marinu non pisciava però sull’iperealistica statua bronzea di Sciascia, posta sul marciapiedi ‘di li galantuomini’. E ‘ddo’ Sciascia lo era stato, persino la carica di cassiere del ‘casino di li civili’ ebbe a rivestire, ma alla fine degli anni quaranta. Franciscu invece, con scandalo degli ‘adoratori perpetui’ dello scrittore, ci scialava proprio ad irrorare di biondo liquame, abbondantissimo per birra e vino trangugiato senza limiti, il piede sinistro dell’immagine bronzea.

Liddu Marinu non era attendibile .. non poteva esserlo. Alle prese con fascine di legna, che poi fiero portava a “lu chianu castieddu” per la ‘vampa’ di S. Giuseppe, in cerca di asparagi selvatici ed anche di “bbabaluci” “muntuna” e “judischi” - quando era il suo tempo – raramente varcava il recinto merlato dei pizzi del serrone .. e “lu chiuppu” era di là. E poi come credere ad un alienato di mente? A Racalmuto, il suonare la corda pazza è abitudine diffusa …. Ma Liddu Marinu, che poi loquace non lo era neppure, tutte le sue corde aveva pazze.

A lu chiuppu” c’era un tempo villa sontuosa e misteriosa, quasi all’ americana, di un boss narese… ma quello era fallito e gazebi aiuole aranceti androni panchine foresterie marcirono ed intristirono sino alla sterilità sino dirupare sino a spallare. Se no, davvero si poteva pensare “al padrino” vindice di una poliziotta un po’ troppo ficcanaso nelle faccende postsindoniane, magari a rimorchio della vecchia ispezione che si attribuiva ad Aurelio La Matina Calello. E sulla morte di Aurelio La Matina Calello la dottoressa Evelina Adelaide Mangoni Mistretta alacremente inflessibilmente indagava. Sindona mafia ispezione bankitalia ed avvelenamento di Lio Calello erano per la poliziotta un cerchio unico in successioni causali. La chiamavano “la poliziotta” perché come tale accedette alla polizia. Il concorso a commissario, dopo, appena conseguita la laurea … in pedagogia. Era una virago, da poliziotta. Irruppe nel covo di Brusca ed alla Zingarella lo braccò con forza erculea. Faceva anche culturismo.

La presero carbonizzarla. Ce ne volle prima di identificarla. E così le sue carte sono passate a me.



* * *





Dopo Asti, il dottore Aurelio La Matina Calello imboccò una prestigiosa stagione ispettiva; pur con grado gramo fu capo-missione in quasi tutte le quattro o cinque ispezioni punitive permessesi dalla Banca Centrale. A volere il Calello era lo scorbutico vice direttore generale dell’epoca, gran massone ma puritano, inflessibile, napoletano e calvinista. L’apprezzamento per il giovane ispettore derivava dal fatto che non si era lasciato infinocchiare in una verifica ad una banca di Terzigno, decotta ed ammanigliatissima.

Non aveva conclusa l’ispezione ad asti il dottore La Matina: sul finire era stato incluso in un viaggio-premio nell’allora misteriosa Unione Sovietica. Di là degli steccati ideologici, le banche centrali dialogavano fraternamente fra di loro, anche quella sovietica. Dall’Italia partì uno stuolo di giovani e rampanti dirigenti. Da Via Nazionale a Mosca. Da poco introdotta la centrale dei rischi, sembrava un miracolo di efficienza bancaria. Cicciu Ciciru, volle interrogare il funzionario bancario russo dai ponti metallici sgangheratamente in risalto tra intartarati denti propri. «Avete anche voi la centrale dei rischi?» Il funzionario non capì ma con orientale furbizia aggirò brillantemente l’ostacolo. I colleghi di Ciccio ne trassero altri spunti per la usuale derisione del Ciciro.

Al ritorno dalla Russia, trovò il capo missione malconcio a Roma, in via dell’Acqua Bullicante, a casa sua, oltremodo gessato, il suo giovane collega. Andati a gozzovigliare a Cocconato, dopo abbondanti libagioni (carne cruda e barolo, insomma, ed altro), rimessisi in viaggio per il mero rito dei lavori ispettivi del pomeriggio, si addormentarono sulla pur robusta vettura “Lancia”, sbatterono contro un piliere sul ciglio della strada. Medicatosi appena, il capo raccolse le carte e tornò a Roma. L’ispezione fu chiusa. Ma non v’era “FAI” decente, i fogli di analisi ispettivi avevano sì e no i dati del Mod. 81 Vig. Un disastro. La questura tentò di indagare sull’incidente. Il direttore generale ricambiò la cortesia ed il caso fu archiviato, senza denunce alle superiori autorità (la magistratura penale).

Irridevano quelle tre o quattro paginette di “penna d’oro”. Eppure “Penna d’oro” non volle o seppe vendicarsi: prese il FAI e vi scrisse sopra, a lungo, doviziosamente, pungentemente. Ne trasse un ponderoso “rapporto”. Il capo firmò felice e sollevato. Non pensava che “Penna d’oro” potesse avere tanta proficua fantasia. Quel rapporto passò in Vigilanza come un modello da imitare. La vicenda dell’intreccio di assegni a vuoto e la sottesa grande speculazione edilizia dell’ex federale e del sussiegoso piemontese finì eclissata.

Dopo Asti, un paio di pause di riflessione: in subordine a Fabriano e Morciano in ispezioni di poco conto. Poi gli scottanti incarichi che un qualche strascico nella storia dei crack bancari del dopoguerra l’hanno avuto. Si pensi: echi persino in parlamento ed a S. Marcuto. Sono vecede su cui forse dovrò tornare, al momento vediamo di svelare il mistero della morte del mio ormai diletto Aurelio. Già, quasi dimenticavo di dirvi che il povero Aurelio defunse per cianuro, ma un cianuro strano, non in commercio: pare posseduto solo dai maldestri servizi segreti iracheni. Impressionante: anche Diodona, il banchiere del crack su cui indagò il mio ispettore della Banca d’Italia, cessò di vivere alla Pitrusa con l’identico strano ‘cianuro’. Non pensate a Pisciotta: non c’entra.

Per Diodona si parlò di suicidio: ma nessuno ormai ci crede, come per Sindona, come per Calvi, come per altri banchieri, finanzieri …. di moda ora parlare di “faccendieri”, come se poi vi fosse davvero differenza.

Sia fatta la volontà di Dio: affrontiamo codesto nodo gordiano. Il rag. Giorgio Diodona era nativo di Barcellona Pozzo di Gotto, tra Palermo e Messina ma sia nell’entroterra della provincia della città del faro. E non finiscono qui le somiglianze con l’altro celeberrimo banchiere, l’avvocato Sindona. Anche Giorgio Diodona si trasferì piuttosto giovane a Milano e riuscì a far fortuna nel mondo delle banche. V’era pur sempre quel Virgillitto che tra un diadema per la Madonna e qualche brillante per le madonne dei suoi amici politici determinò il salto di qualità degli affari di Cosa Nostra d’oltreoceano o dimorante di qua dello stretto. Navigò con gli inglesi. Amò gli svizzeri. Seppe delle isole Cayman. Non capì gli americani ma facendo grossi affari con loro credette di coglionarli. Ne fu coglianato. Con i russi, affari d’oro con la pesca le armi ed il grano americano. Col Vaticano, preghiere indulgenze opere pie denaro … e sesso per i vogliosi arcivescovi e si disse anche cardinali. Con il papa … Dio ne scansi e liberi … si sghignazzò di un giovanetto molto bello ed aggraziato … tanto femmineo, fu celebre latin lover del cinema italiano. Non mi va di proseguire: svilirei i fatti del mio giallo.

Col caso Sindona vi fu un’impressionante sinergia. Furono due crack alla carta carbone, una sorta di clonazione anzitempo ed extra moenia. Nel mondo dell’alta finanza può succedere, ogni umana fantasia è impari. Lo disse anche De Martino a S. Marcuto e lui fu sommo maestro, anche di storia del diritto romano. Presiedette indagini parlamentari bancarie, pur ignaro di partite doppie, accrediti, spot, swap, foward, outright, borsa, mercato parallelo, redditività, patrimonializzazione dei conti d’ordine, conti bilanciati, gergo dei ragionieri, quello degli agenti di cambio, quello borsistico.

Va ribadito qui con robusto tono che il dottor Aurelio La Matina Calello nulla ebbe a che fare con il caso Sindona: le sue incombenze, i suoi accertamenti, le sue allucinazioni, i suoi successi, il suo valore e la sua morte riguardano l’analogo e quasi coevo caso Diodona. Se qualcuno continuerà a confondere, io non ne rispondo. Non mi si potrà querelare. Distinzione .. distinzione, sia chiaro!

Il pasticcio della confusione s’origina forse dal fatto che, beffardo ed ironico, il dottore Aurelio La Matina Calello, sicuramente per invidia, si intromise negli sviluppi del crack Sindona prima aizzando Lotta Continua nel semestre finale del 1979 e poi cooperando – una cooperazione quasi integrale, tota ed ampla – nella stesura del pamphlet anonimo “Goodwill” a firma di un improbabile Colbert.

Detto fra noi, è scritta quasi tutta di suo pugno, di Aurelio cioè, la parte da pag. 37 a pag. 187. Le pagine di ‘premessa’, e quelle dell’«antefatto», e poi quelle sugli artefici del sacco immobiliare di Roma sono rimasticature della truculenta letteratura giornalistica di quei giorni, un giornalismo ruffiano, pronto a traghettare sulla palude dell’incombente compromesso storico di Berlinguer. Scritte benissimo quelle pagine spurie – e non originali – risentono della bravura di un editorialista sommo come Dellacipolla, di un mistico come ci appare l’eterno ed immacolato parlamentare Beato Minutolo e di un ignoto – ai più – “alto esponente del mondo bancario”, abile e pungente, rimasto indisturbato dentro quel mondo, sino ai nostri dì.

Tutti pensano che il caso Sindona narrato in quel libro abbia travolto come ispettore il nostro Aurelio. Errore. Ma che vi abbia messo la mano sua beffarda ed ingannatrice è evidente sin dalle (sue) prime pagine. Leggiamole insieme.

«Racalmuto è il paese di Sciascia, ma – diversamente da come lo scrittore ama presentarlo – non è avvolto da nessun velo di onirica malinconia; umidiccio, con case disfatte intonacate di bianco, esso è disseminato lungo un declivio che si sperde tra calanchi e fiancate di colli minerari.

«A Michele Sindona questo squallido scenario apparve, improvvisamente, all’uscita di un’ennesima curva davanti al muso del suo traballante “dodge”.

«Proveniva da Patti. Affari arditi spingevano il giovane nell’entroterra agrigentino: approvvigionarsi di frumento in tempi di proibizionismo granario, compiacente il governo militare alleato, l’Amgot, per poi rivenderlo, a prezzi lucrosi, alla stessa Amgot. Era il 1944.

«Se nella vita dei santi, i segni precorritori si colgono in tenera età, i segni precoci della valentia affaristica del futuro finanziere si hanno evidenti ed avvincenti fino dalla prima giovinezza. Giunto a Racalmuto, Sindona aveva un personaggio preciso da incontrare: Baldassare Tinebra. Costui era sindaco imposto nel 1943 dalle truppe americane, su segnalazione di don Calogero Vizzini.

«Don Calogero Vizzini, di Villalba, accreditato – fino dal fascismo – come capo carismatico della mafia, ebbe a ritirarsi a Racalmuto, dopo il 1926. Si associò al Tinebra nella gestione della miniera di zolfo, la “Gibillini”, al confine con Montedoro, il luogo natale dell’onorevole Calogero Volpe, altro rispettato “notabile”. Labbro enfiato e pendulo, sempre seduto al sole con neghittosità e trascuratezza, don Calogero Vizzini s’industriava ad apparire insignificante – almeno agli occhi dei racalmutesi.

«In realtà, don Calò godeva di molta considerazione negli ambienti italo-americani tanto da essere prescelto come interlocutore privilegiato, i primi giorni del luglio ’43, quando le truppe alleate iniziarono la loro conquista rapida ed indolore della Sicilia.,

«Dimostrazione affettuosa fu quella elargita al vecchio socio d’affari, il Tinebra. Il quale, grassoccio, piccolo e volgaruccio di parola, fu il primo sindaco di Racalmuto, scacciato il predecessore dell’epoca fascista che medievalmente s’indicava come “podestà”.

«Baldassare Tinebra – insediatosi al Comune – un compito lo svolse bene: quello di dare protezione agli affaristi locali e no, che commerciavano al mercato “nero” della principale risorsa del paese, il grano. Protezione non del tutto disinteressata, a dire dei malevoli. Vi fu atto di corruzione da parte del Sindona nei confronti del neo-sindaco degli “alleati”? Non può più chiedersi ad alcuno. Sindona è oggi esule negli Stati Uniti [eravamo nel gennaio del 1980, ndr.]. Il Tinebra è finito morto ammazzato, un anno dopo la vicenda che si narra [o forse pochi mesi, ndr], in pieno centro, fra la gente. Ne fu incolpato un tipo del paese, conosciuto con la”’ngiuria” (nomignolo) di “Centeddeci”. Indiziariamente, fu condannato. Il figlio lavorava presso la miniera “Gibillini” [pare però che solo vi cercasse lavoro, ndr,] che sappiamo essere stata di Tinebra e Vizzini. Cercò di far luce sul delitto, convinto dell’innocenza del padre. Finì in un forno “Gill”, liquefatto tra lo zolfo. “Disgrazia grande fu” – si disse in paese.»



Non possono negarsi efficacia e sintesi. Aurelio non fu scrittore ma cercò di esserlo. Or non è molto, è uscito un libretto di un giovane narratore che riesuma quella vicenda, senza, però, la suggestiva venuta di Sindona. S’intitola: «Il silenzio dei congiurati». Ho dovuto prefazionarlo. Non so se mi è piaciuto o no. Ho scritto: «queste sono le cose che ho notato e che mi sono molto piaciute in quella che è la progettazione del romanzo.» Poiché voler narrare non significa saper narrare, retoricamente mi sono domandato se il giovane fosse riuscito nell’intento. Non sapendo che rispondere, me la son cavata da gesuita smaliziato: «”amicu miu ora tu cuntu un fatto”». Il fatto è stato narrato. Come? Ho parlato del mio leggere ad alta voce i “cunti mia e chiddi di l’antri”.

Sfogliando, tra sbadigli reiterati, in crescendo, giungo a pagina 67: i caratteri si rimpiccioliscono; c’è da faticare ancor di più. Ora Aurelio ha voglia di cuntari lu cuntu: ci mette della fantasia, vediamo un po’. Non comincia con il classico e racalmutese «s’arraccunta e s’arrapprisenta». No, vuol fare persino lo sceneggiatore: «Interno di un palazzo umbertino in Roma» Oh! La presunzione dei dilettanti. Smette però subito: comincia ad essere accattivante.

«vi si aggira una signora di vetusta avvenenza, amante ormai dimessa del banchiere. Egli è lì, tra fascicoli e bilanci, ieratico e dai toni ironici ma nel fondo dello sguardo mediterraneamente malinconico. Trilla il telefono: è Londra. Dagli Hambro viene l’assenso al prestito per l’acquisto della grande Immobiliare romana, messa in vendita dall’IOR per timore della cedolare.

V’è, dopo, un moto liberatorio ed il banchiere si concede un attimo di umana effusione.

Spaccato della vita economica e politica romana.

La corsa in via Nazionale per l’incontro nella sala del San Sebastianino con il governatore della banca centrale. Penombra schizofrenica attorno al grand-commis della finanza nazionale che ascolta la versione del banchiere sull’operazione dell’Immobiliare con barbagli di raggelante distacco.

Po d’imperio: “L’estero acquisti dal Vaticano ma con holding controllate dall’Italia: non voglio stranieri in Roma … in mezzo all’edilizia della capitale.”

Ho due banche agenti in Milano che son pure abilitate alle operazioni con l’estero; potranno svolgere il ruolo da lei indicato nel flusso dei capitali valutari.”

Ciò è demandato alla fantasia dell’imprenditore privato … Il nostro indirizzo verte su obiettivi globali e nazionali.”

Sillaba a mo’ di maestoso imporre, il governatore; annuisce senza umiliazione il banchiere.

L’incontro con il primo ministro – che, gobbo, sarcastico, è partecipe palese della soddisfazione del banchiere – ha toni distesi, amichevoli come un socio d’affari, sia pure occulto. Dallo studio del ministro, la chiamata telefonica oltre Tevere. All’IOR quel grosso prete americano ascolta, rintuzza … quasi tentenna. Ci si vede alla villa dei Castelli. Il banchiere si rivolge alla bionda amica per agganciare la valletta televisiva, la minorenne quasi impubere all’acqua e sapone. Del resto è una stipendiata delle sue banche proprio per curare le relazioni sociali. Tutti alla villa per accogliere il grosso prete americano.

All’aeroporto arriva, giovanile ma composto, il delfino dell’ebraica famiglia di banchieri inglesi.

Nell’occiduo chiarore collinare, tra ulivi e merli dal mellifluo richiamo, il concitato dialogare tra il prete gigante, il gelido inglese ed il banchiere del sud. Medie delle quotazioni del titolo, “goodwill” dell’azienda, redditualità, prezzi, pacchetti azionari di controllo, la holding Idera, Trinico, Liechtenstein o Nassau: il folklore dell’alta finanza, insomma e la difficoltà a concludere. Si arriva a tarda sera, infruttuosamente. Il rito della sontuosa cena a lume di candela. Accanto al prete, tanto scorbutico nelle trattative, è la valletta in audacissimo décolleté. Ora il prete si ammansisce e diviene persino galante. La valletta sorride con delizia e adesca l’orco americano. Nelle grandi terrazze della villa, nella camera riservata di lui, lei abbozza discorsi sull’esistenza di Dio, sulle sue crisi, sulle sue angosce. E’ notte!

All’indomani l’orco americano – dopo avere celebrato messa nella cappella gentilizia – è arrendevole negli affari. Viene ceduto il quaranta per cento dell’Immobiliare al banchiere del sud o meglio alle sue finanziarie estere a loro volta sovvenzionate dagli Hambro.

Il nostro banchiere chiede ed ottiene dal monsignore dell’IOR l’amministrazione dei capitali in dollari conseguiti dalla vendita dell’immobiliare romana. Unica condizione al perfezionamento dell’investimento ideato è il consenso all’acquisto di una banca americana che il banchiere sta trattando da tempo. L’amor patrio del monsignore è quasi solleticato e l’accordo immediatamente siglato.

Le trattative a New York con padrini di riguardo: alcuni consulenti del presidente degli Stati Uniti alla cui campagna elettorale l’uomo del sud aveva contribuito con consistenti elargizioni.

E l’iniziativa ha felice esito.

A Milano, nell’attico a ridotto della Scala, il banchiere è al culmine del suo successo. Giù. Telescriventi intrecciano messaggi in inglese con banche di mezzo mondo: da New York a Tokio, da Londra a Parigi e a Francoforte. Pacchetti azionari passano di mano, la borsa impazzisce, gli gnomi della finanza abbondano. Pavidi speculatori soccombono e le loro piccole immobiliari vengono fagocitate dal finanziere siculo con strascichi giudiziari che compiacenti giudici riescono ad archiviare. Lui: quasi triste, ormai brizzolato, persino mistico.

Fabbriche e palazzi si vendono o si addossano scompostamente con vorticoso giro di cambiali portate allo sconto nelle sue banche. Idee anche bizzarre quali l’acquisto di brevetti per la costruzione di macchine capaci di trasformare miscugli alimentari in gelati! Finanziamenti ai colonnelli greci e poi a quelli (meglio generali di casa nostra. Fondi alla Nova Scotia, camuffati da intrecci perdenti di outright, per finanziare il Mossad. Intanto dalla banca americana prestiti in dollari vengono convogliati in Italia e da qui all’estero per consentire la fuga dei capitali dei nostri industrialotti. Abile il banchiere nello sfruttare la loro insipienza. Si fa pagare da loro dollari del mercato nero a lire 750 e poi glieli acquista sotto forma di finanziamenti di holding estere a lire 650. Il banchiere si espande: compra banche in Svizzera, in Germania, in Francia e ne inventa a Nassau o a Cayman Islands o a Panama City. E’ un impero finanziario con stuoli di brokers e tecnici dal gergo per iniziati (outighy; spot; swap; forward rate; time deposits, stand-by …)

All’EUR, nel solito palazzo a vetri, si susseguono i consigli di amministrazione dell’Immobiliare il cui capitale sociale passa da 30 a 40 a 60 a 100 a 120 a 160 miliardi. Le azioni inondano la borsa, il “parco buoi” abbocca. V’è sempre il banchiere con le sue finanziarie a partecipazione estera a far quotare oltre le lire 1000 le azioni inflazionate da lire 240 di valore nominale.

Dalle sue banche il sostegno finanziario, sempre più intenso, sempre più ambiguo, sempre più illecito. Dagli istituti previdenziali depositi alla banche. Di conseguenza, interessi neri o provvigioni ai dirigenti “politici” degli enti previdenziali. Il banchiere è munifico; l’onda della corruzione monta, senza argini, ammaliante, impetuosa.

Nel consiglio di amministrazione dell’Immobiliare siedono i probi presidenti delle banche pubbliche del sud. Vi siedono perché favoriscono l’aggiotaggio del banchiere. Dalle sue banche partono depositi fittizi presso le banche pubbliche che li destinano, sotto forma di riporto, alle finanziarie del banchiere detentrici del capitale azionario di controllo dell’Immobiliare. Una baraonda simboleggiata dall’atmosfera orgiastica delle serate distensive nella villa dei Castelli, dopo le riunioni del consiglio di amministrazione. I pingui e frustrati burocrati – assurti a strateghi della finanza per voto democristiano – si divertono chiassosamente, scompostamente con le ragazze approntate dal banchiere. In controluce, lui, dignitoso, parco, come in religiosa estasi.»



- Oddio! … Oddio! …. Oddio, ma ecco qui tutto l’arcano, la vita e la morte, gli affari e gli intrighi, le connivenze ed i rinvii …. Eccetera, eccetera.. si sussurrava Meluccio Cavalieri di Giorgenti.

Strano, nessun accenno a fatti di mafia. Compiacente il siciliano e racalmutese Aurelio La Matina Calello. Si sussurrò una volta ma era panzana. Aurelio odiava la mafia. Nessuno della sua famiglia avevava avuto mai a che fare con l’onorata società. Ne provava disgusto. La considerava un’accolta di imbecilli … ed anche sanguinari.Un mafioso artefice di volpini intrecci affaristici, era idiozia, per Aurelio da sghignazzarci solo sopra. Le vicende delle banche siciliane di Milano degli anni sessanta, settanta ed ottanta era un baluginare di accecante intelligenza: altro che un ragliare di mafia.

Lu sciccareddu” della dirimpettaia “Vecchia Maniera”, ragliando con la solita simpatica sconcezza, gli rammentò la succulenta e conviviale “mangiata a la racarmutisa” cui era invitato. Ebbe voglia di chiudere per quel giorno. Rimise ordine nelle carte del villino di Aurelio a Bovo. Ma ancora una sorpresa: sulla foderina color senape del carteggio con Melissa Cohen stava scritto, a matita,:

la donna

del Mossad

in un miscuglio di rosso e di blu che il suo grave daltonismo non consentiva di miscelare passabilmente.

- E qui un’altra fottuta! Altro che vendetta della mafia per come si ostinò a pensare sino alla morte la dottoressa Evelina Adelaide Mangoni Mistretta. Se ci stanno di mezzo i servizi segreti (oddio! quelli israeliani, no. Sono sanguinari) sono proprio fottuto. Allora? … scendiamo giù alla Vecchia Maniera. Vediamo se sono riusciti a capirmi, nelle mie ricette culinarie. In quello eccello … sono imbattibile.













1 ) non nel senso del Traina (= parlar con facezie), ma in quello del paese mio, come dire agghindate ma sciattamente; intraducibile dunque.

2 ) al maschile come usa a Racalmuto

3 ) Il senso va molto più in là del casto Traina.

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