martedì 7 luglio 2015

la fine del Trecento


La fine del Trecento

L’ultimo quarto di secolo coinvolge la Sicilia in un groviglio di eventi più narrati che spiegati. Sono mutamenti genetici dell’intero tessuto sociale e politico siciliano: sono sconvolgimenti del periferico fluire della vita paesana racalmutese. Storia del paese e storia di Sicilia hanno ora un tale contiguità da rasentare la coincidenza. Non è questa la sede per affrontare l’intero ordito storico siciliano di quel torno di tempo, ma un qualche aggancio si rende indispensabile.
Il 27 luglio 1377, a 36 anni, moriva Federico IV, quello della diplomatistica avignonese coinvolgente la tassazione papale di Racalmuto. Per gli storici, quella morte avveniva tra l’indifferenza del ceto nobile. «Come i suoi predecessori - Scrive il D’Alessandro [1] - e certo molto più che Pietro II e Ludovico, aveva avuto coscienza della realtà che affliggeva il regno, degli ostacoli alla Corona; più di quei sovrani aveva desiderato riportare l’isola ad una normalità di vita ormai tanto lontana dalla passata storia. Il suo proponimento, dopo tanti anni di regno, restava solo una aspirazione. Nel suo testamento, dopo la parte dedicata alla successione, egli disponeva anche una revoca di tutte le concessioni sul patrimonio demaniale sin allora erogate e confermate: un “impeto di giusto dispetto” come poi fu detto, ma che poco prima di morire annullava con un codicillo.»
Il regno passa alla figlia Maria - troppo giovane e troppo inesperta per essere regina sul serio - ma solo pro forma visto che è Artale I Alagona a succedere nella gestione del potere regio come Vicario. Ciò è per volontà testamentaria del defunto re. L’Alagona non si reputa sicuro e chiede subito l’appoggio, in un convegno a Caltanissetta, degli altri maggiori baroni Manfredi III Chiaramonte, Francesco II Ventimiglia e Guglielmo Peralta.
La vita riprendeva apparentemente normale, ma trattavasi di fittizia regolarità. In effetti si aveva una equiparazione dei poteri fra costoro e cioè fra i cosiddetti quattro Vicari: il governo del regno isolano era in mano loro. Per Racalmuto non cambiava alcunché dato che da tempo era assoggettato a Manfredi Chiaramonte. Pensare ad una qualche influenza dei Del Carretto, oltreché storicamente non documentabile, sembra esulare da ogni logica: tutto lascia intendere che costoro se ne stesserro ancora a Genova a curare i nuovi loro affari in seno a compagnie marittime.
Racalmuto scade però in una vera e propria terra feudale «ove tutto era il signore: la legge e la giustizia, l’economia e la vita sociale.» [2] Solo che il signore era Manfredi Chiaramonte e non certo i Del Carretto.
La tregua cessa con l’insorgere di un nuovo personaggio: il conte di Augusta Guglielmo III Moncada: riesce costui a strappare dalla sorveglianza degli alagonesi, dal castello Ursino di Catania, la regina Maria. Il conte ha l’appoggio di Manfredi III Chiaramonte. La regina viene mercanteggiata come un oggetto da baratto. Le trattative sono con Pietro IV d’Aragona, il quale viene messo alle strette, non lasciandogli altra via che quella di una spedizione in Sicilia per riannetterla alla monarchia iberica.
Rientrava in scena la chiesa di Roma: Urbano VI (1378-1389), attraverso gli arcivescovi di Messina e Monreale e il vescovo di Catania, sobillava i nobili siciliani in contrapposizione agli intenti della corte aragonese.
Ribolliva l’intrico di corte spagnola con il dissidio fra re Pietro ed il primogenito Giovanni che ricusava le nozze con la regina Maria per amore di Violante di Bar. Il re Pietro finiva allora col pensare all’Infante Martino per dar corpo alle pretese sulla Sicilia: un matrimonio fra l’omonimo figlio dell’Infante Martino con la regina Maria avrebbe consentito una sostanziale riappropriazione della Sicilia, anche se formalmente sarebbero rimaste distinzioni ed autonomie. In tale quadro, toccava al vecchio Martino curare gli affari di Sicilia della corte aragonese. Fervono quindi i preparativi per una spedizione militare. Tanti sono i maneggi tra i nobili e Martino il Vecchio. Nel 1382 Filippo Dalmao di Rocaberti riesce senza ostacoli a liberare dall’assedio  Maria e portarla in Sardegna, pronta per le nozze con il figlio di Martino.
Nel 1389 moriva Artale I Alagona, considerato il capo della “parzialità” catalana. Per l’Infante Martino quella morte suonava di buon auspicio. Fin qui i rapporti tra l’emissario spagnolo e Manfredi Chiaramonte possono dirsi del tutto amichevoli e consociativi.
Morto anche Pietro IV (gennaio 1387), succedeva Giovanni con il quale si iniziava un periodo di scabrosi movimenti in seno al regno: tra l’altro veniva riconosciuto l’antipapa Clemente VII (1378-1394) e di conseguenza scoccava la scomunica e l’opposizione della Chiesa di Roma e del papa legittimo Urbano VI. L’Infante Martino era però ora tutto dalla parte del fratello asceso al trono.
Nel 1389, allo scoppio di tumulti in Sardegna, il vecchio Martino, nuovo duca di Montblanc, si adoperò subito per il trasferimento della regina Maria in Aragona. Cresceva frattanto la posizione egemone di Manfredi Chiaramonte. Il duca di Montblanc, anche se scemavano le difficoltà d’Aragona, non trascurava di apprestare un’armata che egli concepiva comunque necessaria all’insediamento del figlio sul trono di Sicilia. Ma le forze della Corona aragonese non sembravano atte a finanziare quel progetto. Nel 1390, ad ogni modo, si potevano celebrare a Barcellona le nozze tra il giovane Martino e Maria, evento nodale della storia di Sicilia.
Si giunge così al 1391 quando nel marzo viene a morire Manfredi III di Chiaramonte, personaggio di grossa statura politica e gran signore di Racalmuto. Sul suo successore e su altri nobili di Sicilia - punta il nuovo pontefice romano Bonifacio IX (1389-1404): si rassoda un movimento isolano tendente a contrastare gli scismatici aragonesi. Le vicende della Chiesa romana si riflettono dunque anche nella periferica terra di Racalmuto. In quell’anno si dava incarico al giurisperito Nicolò Sommariva di Lodi «per frenare le bramosie dei magnati e coagulare attorno agli arcivescovi di Palermo e Monreale un fronte d’opposizione ai Martini.» [3]
Nel frattempo Martino raccolse un esercito promettendo feudi e vitalizi in Sicilia a spagnoli impoveriti e scontenti. Barcellona e Valenza aderiscono con generosità ed entusiasmo al progetto martiniano. Una famiglia avrà poi fortuna a Racalmuto: la denomineranno “Catalano”, in evidente collegamento a quel lontano approdo dalla Catalogna. Ai nostri giorni, gli ultimi eredi diverranno personaggi di inobliabile folklore. Chi non ricorda Tanu Bamminu? Pochi rammentano che il cognome era appunto “Catalano”. Ai tempi in cui il padre di Marco Antonio Alaimo era apprezzato medico racalmutese (fine del ‘500) i Catalano, ottimati rispettati, abitavano proprio all’incrocio tra l’attuale corso Garibaldi  e la strada intestata al celebre medico racalmutese.
Nel 1392 gli spagnoli sbarcarono finalmente in Sicilia, guidati dal loro generale Bernardo Cabrera. Due dei quattro vicari passarono subito dalla parte dei conquistatori: anche in Sicilia ed anche a quel tempo il vizietto tutto italico di correre in soccorso dei vincitori - avrebbe detto Flaiano - era piuttosto diffuso. Ma Andrea Chiaramonte - succeduto a Manfredi Chiaramonte - continuò a credere nel Papa e nella possibilità di resistere ai catalani. Asserragliatosi a Palermo, resistette per un mese agli attacchi spagnoli. Racalmuto venne coinvolto nelle azioni di guerriglia con distruzioni, fughe in massa, ribellismi, violenze, grassazioni, furti e ladronecci. Palermo finì con l’arrendersi ed Andrea Chiaramonte fu decapitato. Le sue vaste proprietà furono arraffate da nuovi nobili. E qui rispunta finalmente la famiglia Del Carretto che, prima a fianco dei Chiaramonte e subito dopo a sostegno del vittorioso Martino, si riappropria di Racalmuto e dà  inizio al lungo periodo della sua baronia vera e storicamente documentata.
Si dissolveva così il quadro politico che si era riusciti a stabilire il 10 luglio 1391 quando si era celebrato il convegno di Castronono in cui si era giurata fedeltà alla regina Maria ma in opposizione al giovane Martino non riconosciuto né legittimo sovrano né legittimo marito. Allora i vicari, fautore il Chiramonte, erano ancora uniti. Ma non passò neppure lo spazio di un mattino ed ecco alcuni convenuti iniziare intese occulte con il duca di Montblanc, «del quale, evidentemente, si volevano forzare progetti e profferte; e più di prima isolatamente procedevano tali patteggiamenti che rinnegavano i giuramenti. Era del 29 luglio la risposta [stracolma di suasive profferte] ad Antonio Ventimiglia ed a Bartolomeo Aragona che avevano mandato un’ambasceria.»  [4]  Bartolomeo Aragona di lì a poco riappare nella diplomatistica dei Del Carretto come colui che riesce a riaccreditare presso i Martino il neo barone di Racalmuto Matteo Del Carretto, che si era lasciato coinvolgere dai soccombenti nemici dei catalani invasori, per “necessità” finge di credere alla nuova triade regale di Palermo.
Ancora nell’ottobre del 1391 Manfredi e Andrea II Chiaramonte ritenevano opportuno di mandare propri inviati a Barcellona. Il duca di Montblanc poteva fondatamente ritenere che i nobili di Sicilia erano dopo tutto non alieni dall’accogliere la spedizione militare aragonese.
Gli eventi precipitano: il 22 marzo 1392 approdava la spedizione all’isola della Favignana presso Trapani. Il duca, a nome dei sovrani, ingiungeva ai baroni di portarsi entro sei giorni a Mazara per il dovuto omaggio. I due vicari Antonio Ventimiglia e Guglielmo Peralta ed altri nobili quali Enrico I Rosso  non mancavano di prestare giuramento e dare l’omaggio ai nuovi sovrani il giorno stesso del loro arrivo. Tripudiava la popolazione di Trapani al passaggio dei giovani regali. Sembrava andare tutto liscio, sennonché la notoria instabilità sicula cominciò ad affacciarsi: Andrea II Chiaramonte mutava atteggiamento. Dopo essersi rivolto favorevolmente a Guerau Queralt, rappresentante della corona, era indi passato ad un attendismo ed a moti di diffidente attesa verso il Montblanc ed al figlio Martino il giovane. Il duca si irritava a sua volta nei confronti del Chiaramonte. Il 3 aprile 1392 l’altezzoso e crudele duca di Montblanc dichiarava ribelli il Chiaramonte e con lui Manfredi e Artale II Alagona. Venivano confiscati ed ascritti alla Curia tutti i loro beni che passavano di mano venendo assegnati a Guglielmo Raimondo III Moncada. Vi rientrò Racalmuto?
Chiaramonte si asserragliava, come detto, a Palermo. Il 17 maggio 1392 si induceva a prestare omaggio ai sovrani. Il giorno successivo Andrea Chiaramonte, insieme all’arcivescovo di Palermo, l’agrigentino Ludovico Bonit (eletto dal Capitolo palermitano per volontà degli stessi Chiaramonte), chiedeva di conferire con i sovrani per trattare dei suoi beni. Ma Martino il vecchio non indugiava: li faceva prontamente imprigionare. La sorte di Andrea Chiaramonte  si concludeva il primo giugno 1392, quando viene decapitato nel piano antistante il suo stesso palazzo di Palermo, il celebre Steri. Il Chiaramonte si sarebbe sporcato anche di una delazione ed avrebbe incolpato, per cercare di avere salva la vita, Manfredi Alagona delle passate vicende. Il 1° giugno 1392, con quella decapitazione, Racalmuto cessava definitivamente di essere un feudo chiaramontano.
I Martino e la regina Maria riescono a divenire gli incontrastati padroni della Sicilia. Ma c’erano da fronteggiare decenni di anarchia. Restaurare la legge e le prerogative regali era impresa ardua ma non impossibile. I registri erano stati smarriti o distrutti e le antiche tradizioni e consuetudini obliate. Martino, con l’aiuto di talune città, può armare un esercito regolare che lo affranca dai nobili. Per le peculiarità siciliane, era indispensabile un registro feudale: la corte si adoperò per una riedizione critica. Vedremo come i Del Carretto devono fornire carte e prove per far valere la loro titolarità del feudo di Racalmuto ... e sobbarcarsi a pesantissimi oneri finanziari. Per di più Martino dichiarò abrogate le clausole del tratto del 1372 e si dichiarò Rex Siciliae.  Approfittando di uno scisma del papato, ripudiò la signoria feudale del papa e ribadì il proprio diritto al titolo di legato apostolico, che comportava la potestà di nominare vescovi e di sovrintendere alla chiesa siciliana.
Il re convocò due parlamenti a Catania nel 1397 e a Siracusa nel 1398: riprendeva la peculiare tradizione parlamentare di Sicilia che si era interrotta nel 1350. Le assemblee convocate da Martino testimoniavano che era ritornata un’autorità centrale. Il parlamento presentò una petizione al re perché nominasse meno catalani in posti nevralgici e perché applicasse leggi siciliane e non quelle aliene di Catalogna.
Martino I rimase fortemente sotto l’influenza di suo padre anche quando quest’ultimo divenne re d’Aragona. Martino il vecchio continuava a sorvegliare l’amministrazione della Sicilia fin nei più minuti aspetti. Questa sudditanza attira ancora l’attenzione degli storici che ne danno spiegazioni persino di sapore psicanalitico. Scrive Denis Mack Smith «Martino, perciò, rimase più un infante d’Aragona che un re di Sicilia, e fu in qualità di generale spagnolo che, nel 1409, guidò una spedizione a spese siciliane per domare una insurrezione in Sardegna.» [5] Martino il giovane trovò la morte proprio in Sardegna e la Sicilia finisce in successione insieme ad ogni altra proprietà personale al vecchio Martino: le corone di Aragona e di Sicilia perdono ora ogni distinzione, si ritrovano così nuovamente riunificate. Ancora lo Smith: «Non si verificarono nuovi Vespri per dimostrare che questo era sgradito, né vi furono molti segni di malcontento, sia pure di minore rilievo, poiché una parte sufficiente della classe dirigente era ormai o di origine spagnola o legata da interessi materiali alla dinastia aragonese. Durante l’unico anno in cui Martino II regnò, la Sicilia fu perciò governata direttamente dalla Spagna.» [6]
I DEL CARRETTO BARONI DI RACALMUTO

Quando il 22 marzo 1392 la spedizione spagnola approdava a Favignana, dalla lontana Genova i Del Carretto si decidevano a veleggiare verso la Sicilia per riprendersi le terre racalmutesi cui pensavano di avere diritto per successione diretta e per lascito di Matteo Doria. Racalmuto si presenteva tripartita: a sud-est il Castelluccio, munito già della sua fortezza, e dintorni era feudo denominato Gibillini e di pertinenza dei signori di Favara; a nord il castello chiaramontano era coronato da case coperte di paglia e con il suo toponomo arabo costituiva la terra abitata di un feudo ampio che meglio definiremo dopo; ed a sud-ovest le ampie pianure della Menta della Noce del Rovetto erano considerate terre burgensatiche, di personale proprietà del feudatario.
Le terre dello stato di Racalmuto, soggette a vincolo feudale, non si estendevano dunque per tutto il territorio extraurbano: un qualche rilievo di autonomia mostrava, come si è visto,  la contrada della Menta (sempre dei del Carretto) che talora è stata denominata ‘feudo’. Sono dei del Carretto i fertili fondi di Garamoli, ma appaiono come terre allodiali.
Lo stato di Racalmuto parte dalla contrada di Cannatuni (come ai giorni nostri)  e da quel versante nord va verso ponente: coinvolge Santa Margaritella e Santa Maria di Gesù, arriva alle porte di Grotte (Rina o Scavo Morto); si diffonde nella fertile piana di Fico Amara o Fontanella della Fico; sale sulla Montagna; gira per Rocca Russa e per Bovo; include una parte del Serrone (un altro versante è detto appartenere al feudo di Gibbillini); scende per Judio, Malati, Casalvecchio e Saracino,  annettendo le contrade di San Giuliano, Baruna[7] e Difisa; e chiude quindi l’irregolare circonferenza inerpicandosi per le contrade della Pernice fino a Quattro Finaiti.
Menta, Noce, Garamoli Roveto e Zaccanello sono pertinenze del feudo dei Del Carretto, ma hanno una loro distinta configurazione.
Negli atti notarili non sempre è chiara la peculiarità feudale di queste terre dei del Carretto che talora vengono segnate come un distinto ‘feudo’ (fego della Menta o della Nuci), tal altra no, e comunque, come si vedrà per l’indebitamento granario di don Federico del Carretto, restano talora attratte nell’intreccio delle doti di ‘paragio’ dei cadetti e delle figlie di quella famiglia.
L’importanza dei possedimenti di Garamoli si coglie da questa pagina della ‘Fabrica’[8] della Matrice del 1658.  La fiumara di Garamoli doveva essere contornata da un bosco  fitto con alberi ad alto fusto. Da lì si ricavava il legname per costruzione, fonte di grossi affari. La famiglia Napoli, quella degli Alcello e l’altra dei Gueli fornivano maestranze specializzate, ben pagate per l’epoca.
Per coprire il tetto della Matrice occorrevano “burduna” di enormi proporzioni. Si trovavano nel mezzo della fiumara di Garamoli. Per trarli fuori provvede la maestranza  ma soprattutto un nugolo di nerboruti facchini che vengono pagati in modo inconsueto: con salsicce e vino. La pagina della “fabrica” del dicembre 1658 appare degna di essere riportata qui diffusamente:
«.. al d. di Napoli con dui figli et m.° Alcello tarì  11; ...
·      alli d. di Napoli,  Alcello et dui altri mastri tt. 12.10;
·      alli d. di Gueli et Napoli et un giovane per pulire travetta et intravettare tt. 12;
·      alli d. di Gueli et Napoli et suo figlio per havere andato in Garamoli per sbarrare li travetti et li burduna n.° tre che mancano al complimento della nave tt. 11.10;
·      per havere fatto portare dui carichi di travetti di Garamoli tt. 5;
·      alli d. di Gueli et Napoli con dui figli tt. 14. per havere comprato deci lignami da Vincenzo Pitrozzella per mancanza di forbici onze 3.10;
·      più per havere fatto venire dui burduna da Garamoli tt. 20;
·      e più per pani salzizza e vino a vinti homini che uscirno detti burduna dentro la fiumana  e ni portaro uno tt. 15.8
Piena autonomia ha sempre invece il feudo di Gibbillini. Feudi dei dintorni di Racalmuto sono - stando a certi atti notarili - quelli Di Grotte, del Chiuppo, di Scintilia e del Nadore.
*   *   *
Il grandissimo storico spagnolo Surita ha una pagina che ci coinvolge, che attiene proprio ai Del Carretto fiancheggiatori del Duca di Montblanc. Essa recita [9]:
Antes que la armada lle gasse a Sicilia; el Rey dio su senteçia contra el Conde de Agosta, como contra rebelde, è in gratissimo a las mercedes y beneficios que avia recebido del y del Rey fu padre, y se confiscaron a la corona las islas de Malta, y del Gozo, y las vallas de Mineo y Naro, y otros muchos lugares de los varones que se avian rebelado, y el Conde murio luego: y con la llegada de la armada la execucion se hi zo rigorosamente contra ellos, y di se entonces el officio de maestre justicier al Conde Nicolas de Peralta, que vivio pocos meses despues. Murio tambien en este tiempo Ugo de Santapau, y quedo en servicio del Rey de Sicilia Galceran de Santapau su hermano: y por este tiempo embio el Rey a don Artal de Luna, hijo de don Fernan Lopez de Luna a Sicilia, para que se  criasse en la casa del Rey su hijo, que era su primo, y sucedio despues en la casa de Peralta, que era un gran estado en aquel reyno. Sirvio tambien al rey de Sicilia en esta guerra, que duro algunos annos, Gerardo de Carreto Marques de Sahona: y haziendose la guerra muy cruel contra los rebeldes, el Conde de Veyntemilla, que sucedio en el Contado de Golisano al conde Francisco su padre se reduxo a la obediencia del Rey ...
Per il Surita, dunque, fu Gerardo del Carretto, Marchese di Savona, che si mise al servizio del re di Sicilia, Martino, nella nota guerra che durò alcuni anni. Lo spagnolo desunse questa notizia dagli archivi aragonesi, di certo, ma abbiamo il dubbio che ad ispirarlo siano state le cronache cinquecentesche, specie quelle del Fazello. Se attendibili, queste note di cronaca ci svelano il fatto che Gerardo del Carretto attorno al 1392 si faceva passare come marchese di Savona, il che non collima proprio con la storia di quella città ligure. Più che il fratello Matteo del Carretto, sarebbe Gerardo a darsi da fare in un primo tempo per accattivarsi le simpatie dei Martino. Sarebbe sempre Gerardo a mettersi a guerreggiare in difesa dei catalani nella lotta contro la parzialità latina di Sicilia. Quanto credito si possa concedere è questione ardua, non risolvibile allo stato delle attuali conoscenze.
Una documentazione probante della titolarità su Racalmuto i Del Carretto sono, comunque, costretti a darla alla fine del secolo, quando la cancelleria dei Martino diviene intransigente e vuole prove certe delle pretese feudali. Alle prese con la corte non è più però Gerardo ma Matteo, il fratello cadetto. Fu vero l’atto transattivo tra i fratelli che fu presentato alla corte in quello che può considerarsi il primo processo per l’investitura della baronia di Racalmuto? Davvero avvenne il riparto dei beni tra i due fratelli? Fu solo formalizzata l’assegnazione delle possidenze genovesi al primogenito Gerardo e l’attribuzione dei beni feudali e burgensatici di Sicilia - in particolare il castro di Racalmuto - al cadetto Matteo Del Carretto? Interrogatvi cui non siamo in grado di dare risposte certe. 


I DEL CARRETTO VERSO LA SIGNORIA DI RACALMUTO

Il quattordicesimo secolo vede i del Carretto impossessarsi, prima, e padroneggiare, dopo, la Terra di Racalmuto. Come questa famiglia genovese (o di Finale Ligure) si sia impadronita di Racalmuto, facendone un personale feudo con mero e misto impero, è mistero ancor oggi non dipanato. Vi fu al tempo del figlio di Matteo del Carretto - all’inizio del secolo XV - una necessità difensiva di fronte alle inchieste di Martino e, in parte fondatamente, in parte capziosamente, si fecero risalire al matrimonio di una Costanza Chiaramonte con Antonio del Carretto le origini della baronia di Racalmuto in capo a quella famiglia  proveniente da Genova. In un atto - mezzo falso e mezzo vero del 13 aprile 1400 - abbiamo le ascendenze ed i titoli per la legittimazione baronale di Racalmuto. Lasciamo agli araldici ed agli storici il compito di far luce sulla questione, che inquinata com’è nelle sue più antiche fonti,  difficilmente potrà essere del tutto chiarita. Quel che ci preme è qui sottolineare come proprio sotto Matteo del Carretto fu scritta e tramandata un’importante pagina di storia sacra locale. Al barone di Racalmuto si rivolgeva Re Martino per la traslazione del beneficio canonicale di S. Margaritella da un canonico fellone ad altro di Paternò, fedele alla causa dei Martino, pur soggetti a cocenti scomuniche papali. Si era conclusa la triste vicenda della ribellione dei Chiaramonte - che pur dovevano essere legati da vincoli di sangue ai del Carretto - ed era stata domata la resistenza palermitana di Enrico Chiaramonte. Il re aragonese, tra l’altro, cominciò a metter mano alla riforma ecclesiastica. In un certo senso ne aveva diritto per quello strano istituto tutto siciliano e peculiare che fu la Legazia Apostolica. Per la liberazione dai saraceni da parte dei Normanni, il Papa aveva accordato ai regnanti di Sicilia una inconsueta rappresentanza religiosa in forza della quale il legato  del Pontefice anche in materia religiosa in Sicilia era proprio il re. E Martino ne approfittò per togliere e donare canonicati, prebende e riconoscimenti onorifici di natura ecclesiastica.
Anche Racalmuto, con il suo vetusto beneficio di S. Margaritella, entrò in questo aberrante gioco politico-religioso. Chiarisce bene la vicenda il documento che qui riportiamo in altra parte del presente lavoro.
Il documento fu ben presente a Gian Luca Barberi che gli tornava acconcio per ribadire l’autorità delegata dal Pontefice ai re di Sicilia per i benefici ecclesiastici. Sul passo del Barberi si basa poi il Pirri per assegnare il beneficio di S. Margaritella di Racalmuto ai canonici di Agrigento. Nel diploma si accenna solo al ‘canonicatus Sancte Margarite de Rachalmuto’: diversamente da quanto poi afferma Luca Barberi, quando scrive attorno al 1511, nell’originale non si fa accenno di sorta ad alcuna chiesa dedicata alla santa in Racalmuto. I benefici, sì, ma la chiesa è dubbia. Intanto si è certi che solo in prossimità del 1511 è provata l’esistenza in Racalmuto di una chiesetta del canonicato di dedicata a S. Margherita. E prima?
Tanti collegano quella chiesa ad un diploma del 1108, ma ciò origina da una interessata tesi della curia agrigentina. Il beneficio può benissimo essere sorto a metà del XV secolo per accordo tra la curia vescovile ed i Chiaramonte, più verosimilmente  Manfredi Chiaramonte, oppure per benevola concessione di quest’ultimo a peste cessata ed a suggello del concordato col Papa.
LA CONTROVERSA BARONIA DEI DEL CARRETTO NEL XV SECOLO

Il secolo XV vede Racalmuto saldamente in mano a Giovanni del Carretto, figlio di Matteo, di quell’avventuriero, cioè che si era arrabattato  alla fine del secolo precedente. Henri Bresc vorrebbe questo Giovanni del Carretto come un disastrato, finito in mano degli Isfar di Siculiana. A noi risulta il contrario. Lo vediamo rapace esportatore di grano locale dal caricatoio del suo feudo minore di Siculiana. Appare come creditore dei Martino, acquirente di quote di feudi in quel di Mussomeli, ma lo storico francese è perentorio: «La baisse du prix de la terre - que l’on suit sur la courbe des prix moyens des fief vendus par la noblesse - oblige - ritorna sull’argomento in pubblicazioni a spese della Regione Siciliana e nella sua madre lingua, visto che mostra gallica diffidenza verso un traduttore siciliano di una precedente sua opera storica di analogo argomento -   à un endettement toujours plus grave et à une gestion très rigoureuse du patrimoine résiduel. Et l’on s’achemine vers l’intervention de la monarchie et de la classe féodale dans l’administration des domaines fonciers et des seigneuries: Giovanni Del Carretto est ainsi dépouillé en 1422 de sa baronnie de Racalmuto, confiée en curatelle à son gendre Gispert d’Isfar, déjà maître de Siculiana

Di questa espoliazione della baronia di Racalmuto a favore di Gispert d’Isfar, non trovasi riscontro alcuno nell’altra pubblicistica di nostra conoscenza. Il Barone (o Baronio) che scrive nel 1630 ([10]) sembra escludere del tutto una sì infausta cessione. Ma quel non spregevole latinista, addentro di sicuro alle segrete cose dei del Carretto, è smaccatamente elogiativo per dargli eccessivo credito. Come può vedersi dai lunghi passi in latino riportati in calce, l’interruzione della baronia dal 1422 al 1553 (data del processo d’investitura, varie volte qui richiamato) non viene neppure sospettata. Così è anche in una lunga comparsa giudiziale della fine del seicento, presentata dall’ultimo Girolamo del Carretto.
Gibert Isfar avrebbe sposato una figlia di Giovanni I del Carretto nel 1418 ([11]); il personaggio è arrogante, intraprendente, si dà all’usura, sa farsi nominare mastro portolano. Il Bresc è prodigo di notizie sul suo conto. Tra l’altro, compra per 10.000 fiorini la castellanìa e la “secrezia” di Sciacca (Bresc, op. cit. pag. 857); opera a tassi usurari del 7% (ibidem pag. 859); è bene insediato a Siculiana (ibidem pag. 887). Soprattutto riesce a farsi nominare feudatario di tale centro dell’agrigentino nel 1430 per ripopolarlo (ibidem pag. 895; ASO Canc. 65, f. 42).
Ma nulla emerge che possa accreditarlo come padrone - sia pure temporaneo di Racalmuto. Il Sorge, nella sua pregevole opera su Mussomeli, parla sia pure per un tempo di poco successivo di un barone di Ragalmuto che avrebbe acquistato quote dei locali feudi. 
Attorno alla metà del secolo, subentra nella baronia di Racalmuto Federico del Carretto. Il 3 agosto 1452 ne viene ratificata l’investitura stando agli atti del  protonotaro del Regno in Palermo. Un grave episodio di intolleranza religiosa contro gli ebrei - in cui però preminente è l’aspetto di comune criminalità - si verifica nelle immediate adiacenze di Racalmuto nell’anno 1474. E’ l’efferata esecuzione dell’ebreo locale Sadia di Palermo. In un documento del 7 luglio 1474,  Ind. VII vengono narrate le circostanze raccapriccianti del crimine. Leggiamo: Il Vicere' Lop Ximen da' commissione ad Oliverio RAFFA di recarsi  a  Racalmuto per punire coloro che  uccisero  il  giudeo Sadia  di  Palermo, e di pubblicare un bando a  Girgenti  per  la protezione di quei giudei
Il Cinquecento si apre con la pia leggenda della venuta della Madonna del Monte. Dominava il barone (non certo conte) Ercole Del Carretto. Ebbe costui il suo bel da fare con Giovan Luca Barberi, che sembra essere venuto proprio a Racalmuto per meglio investigare sulle usurpazioni della potente famiglia baronale. Il Barberi arriva persino a dubitare sul concepimento nel legittimo letto di alcuni antenati del povero barone Ercole Del Carretto. Gli contesta molte irregolarità d’investitura ed il padrone di Racalmuto è costretto a ricorrere ai ripari formalizzando i suoi titoli nobiliari presso la corte vicereale di Palermo, a suon di once. La ricaduta - oggi si direbbe: traslazione d’imposta - sui disgraziati racalmutesi dovette essere espoliativa. In compenso - direbbe Sciascia - fu profuso il succo gastrico delle opere di religione. Non proprio una “venuta” miracolosa, ma una statua di marmo della Madonna fu certamente fatta venire da Palermo - genericamente si dice dalla scuola del Gagini - e posta in bella mostra su un altare, maestosa, della chiesa del Monte, che ad ogni buon conto preesisteva. Ai parrocchiani, questo non può di sicuro venire predicato. Se ne scandalizzerebbero oltre misura. Ma qui, in un orecchio, può venire sommessamente e riservatamente sussurrato. Chi ha orecchie da intendere, intenda.




PERCHE' UNA STORIA SUI DEL CARRETTO

Astrette in un paio di pagine sono godibili le riflessioni terminali (1984) di Leonardo Sciascia ([12]) su tutta la storia racalmutese.  Desolato il quadro: per lo scrittore è flebile l'eco dell’antica 'dimora vitale', che si amplifica forse una sola volta quando Racalmuto «piccolo paese, 'lontano e solo', come sperduto nel Val di Mazara, diocesi di Girgenti , ... dall'oscurità di secoli emerge, nella prima metà del XVII, a una vita che Américo Castro direbbe 'narrabile' .... grazie alla simultanea presenza di un prete che vuole una chiesa 'bella' e vi profonde il suo denaro, di un pittore, di un medico, di un teologo; e di un eretico.» Di solito, invece, «per secoli, vita appena 'descrivibile', nell'avvicendarsi di feudatari che, come in ogni altra parte della Sicilia, venivano dal nord predace o dalla non meno predace 'avara povertà di Catalogna'; col carico di speranze deluse e delle rinnovate e a volte accresciute angherie che ogni nuova angheria apportava.»
Sull'altipiano solfifero ebbe quindi a trascorrere un’oscura, millenaria vicenda umana; ma era una 'vita pur sempre tenace e rigogliosa che si abbarbicava al dolore ed alla fame come erba alle rocce'.
Promana quasi un monito a non indugiare sulle araldiche traversie dei signori di Racalmuto. Eppure noi si accingiamo ugualmente a scrivere sui Del Carretto ed altri feudatari locali. Abbiamo rovistato a lungo negli archivi (dalla locale matrice al lontano archivio segreto del Vaticano; da Agrigento ai ponderosi fondi di Palermo); abbiamo rinvenuto carte, documenti, diplomi, testamenti, codicilli che una qualche luce nuova la proiettano sul vivere feudale dei racalmutesi. Tanto ci pare sufficiente a superare remore e riserbi.
L'avvicendarsi dei feudatari è stato sinora narrato dagli eruditi locali con topiche, errori, guazzabugli: correggerli alla luce dei documenti d'archivio un qualche valore dovrebbe pure rivestirlo. Incapperemo sicuramente anche noi in sviste ed abbagli: consentiremo, così, ad altri il gusto di rettificarci. Niente è più proficuo dell'errore, quando provoca ulteriori ricerche. Il silenzio equivale al nulla: è sintomo d'accidia, uno dei sette peccati capitali, almeno per i cattolici.

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Sui Del Carretto di Racalmuto è reperibile una folta letteratura, specie fra storici ed eruditi del Seicento; ma solo Sciascia (vedansi Le parrocchie di Regalpetra e Morte dell'inquisitore), scavalcando il vacuo curiosare araldico, scandaglia gli amari gravami di quella signoria feudale. Peccato che il grande scrittore si sia voluto attenere, sino alla fine dei suoi giorni, ai dati cronachistici dell'acerbo Tinebra Martorana. Finisce, così, col dare fuorviante credibilità a vicende inventate o pasticciate. Sono da notare, ad esempio, queste topiche piuttosto gravi:
1.         Il 'Girolamo terzo Del Carretto' che «moriva per mano del boia: colpevole di una congiura che tendeva all'indipendenza del regno di Sicilia» ([13]) è inesistente. A salire sul patibolo allestito nel 'regio castello' di Palermo era stato lo scervellato Giovanni V del Carretto il 26 febbraio 1650. Quello che si indica come Girolamo quarto è invece il terzo. Dopo una parentesi in cui il feudo di Racalmuto risulta della vedova del malcapitato Giovanni V, la contea viene restituita, nel 1654, al predetto Girolamo III. Costui, finché subì l'influenza della prima moglie Melchiorra Lanza Moncada figlia del conte di Sommatino, fu munifico verso conventi, ospedale e chiese. Ma quando fu prossimo ai cinquant'anni,([14]) forse perché oberato dai debiti, si scatenò contro il clero di Racalmuto, denegandogli le esenzioni terriere risalenti all'ultimo barone Giovanni III Del Carretto ([15]) ed intentando contro di esso, presso il Tribunale della Gran Corte, una causa che poteva costargli una scottante scomunica.
Alla fine dei Seicento, il 2 giugno 1687, Girolamo III del Carretto si spoglia della contea, sicuramente per sfuggire ai creditori, facendone donazione al figlio Giuseppe. Ma costui premuore al padre e pertanto il feudo ritorna sotto la titolarità di Girolamo III sino alla sua morte, con la quale si estingue la signoria dei Del Carretto su Racalmuto. Un Girolamo IV ([16]), dunque, non è mai esistito.
2.         Giovanni V Del Carretto non "contrasse parentado con Beatrice Ventimiglia, figlia di Giovanni I, principe di Castelnuovo" come vorrebbe - sulla scia del Villabianca ([17]) - il Tinebra-Martorana, riecheggiato più volte da Sciascia. Costei, invero, ne era la madre ed era proprio quella Beatrice protagonista del pasticciaccio che  nel maggio del 1622  sarebbe stato perpetrato insieme "al priore degli agostiniani ed al servo di Vita" ([18]).
3.         Che Girolamo II Del Carretto sia il massimo responsabile della «vessatoria pressione fiscale» del terraggio e del terraggiolo, «canoni e tasse enfiteutiche ... applicati con pesantezza ed arbitrio» ed «in modo particolarmente crudele e brigantesco» ([19]) dal conte in parola, è forzatura storica. Il terraggiolo fu tassa sui 'cittadini et habitaturi' della Terra di Racalmuto osteggiata sin dai tempi degli ultimi baroni del Cinquecento. Nel 1580 il neo-conte Girolamo I, dissanguato finanziariamente dalla sua mania per i titoli altisonanti - quello di conte riesce a conseguirlo, quello di marchese, no -, trova giurati compiacenti ed ordisce una 'transazione consensuale'. Nel 1609, quando Girolamo II è appena dodicenne, il suo tutore architetta con i maggiorenti di Racalmuto una furbata che verrà poi del tutto cassata nel 1613: si pensa di sostituire il terraggiolo con una donazione una tantum di 34.000 scudi da far gravare su tutti gli abitanti di Racalmuto. Gli effetti furono disastrosi, pensiamo più per il conte che per racalmutesi. I fondi della donazione risultarono irreperibili. Si optò per un reddito annuo del 7% (2.380 scudi) da far pagare a tutti i residenti, dovessero o non dovessero il terraggiolo (e cioè due salme di frumento per ogni salma di terra coltivata in feudi diversi da quello di Racalmuto). Furono 700 le famiglie che presero la fuga. Nel 1613, avendo maggior peso il sedicenne Girolamo Del Carretto, si ritornò all'antico regime sancito nel 1580. L'anno dopo, frate Evodio di Polizzi fondava il convento degli agostiniani 'riformati di S. Adriano' a San Giuliano. Rem promovente Hieronymo Comite, scrive il Pirro. Che ragione avesse poi, otto anni dopo, il frate a mutare la doverosa gratitudine in rancore omicida non può spiegarsi con la stravagante tradizione riportata dal Tinebra. A ben vedere, il frate ebbe a limitare la sua opera alla primissima fase. Passò quindi ad altri conventi ed a Racalmuto con tutta probabilità non mise più piede. Le carte della Matrice, così diuturnamente puntuali per quel periodo, giammai accennano al padre agostiniano (Evodio o Fuodio o Odio, comunque si chiamasse).   
Val dunque la pena di tentare una veridica storia dei Del Carretto? A noi pare di sì. In definitiva, anche se di  vita 'appena descrivibile', si tratta pur sempre della storia di Racalmuto.

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Sul ramo di Sicilia della famiglia Del Carretto, nulla è reperibile in letteratura sino a tutto il secolo XV. Agli albori del XVI,  il rancoroso Giovan Luca Barberi si produce in una maligna stroncatura della legittimità del titolo baronale di Racalmuto della rampante famiglia d'origine ligure.
Stando ad una nostra traduzione dal latino, ecco come tratta i Del Carretto quel temibile inquisitore in un'apposita "ALLEGACIO RAYALMUTI" del suo «magnum capibrevium» ([20]):
In effetti, per questa terra di Racalmuto, niente trovo in favore del diritto del sacro regio demanio ad eccezione del fatto che nessun titolo risulta del modo come la predetta terra sia venuta nelle mani ed in potere del prenominato Antonio del Carretto. Ed a tal fine  è soprattutto da vedere la forma della prima alienazione della già detta terra per sapere se avvenne legittimamente che essa fosse staccata dal sacro demanio. Certo sembra lecito per quella clausola insita nel privilegio del signor Re Martino, quella che recita: «Gli cediamo e concediamo, in forza della presente grazia, tutti i singoli diritti che vantiamo su detto casale o che possiamo vantare per qualsiasi fatto o diritto, ecc. ... ». Se ne trae l'incontrastabile diritto del sacro regio demanio sulla detta terra. C'è allora da chiedersi  quale causa e quale riguardo abbiano spinto lo stesso signor Re Martino  a fare la detta cessione di diritti al predetto Matteo. Infatti è chiaro che il re stesso non poteva minimamente fare ciò in pregiudizio dei signori re successori. Così la vostra Maestà Cattolica, giusta quanto sopra detto,  ha pienamente il fondato diritto di chiedere all'attuale possessore della terra di Racalmuto il titolo rilasciato da tutti i suoi predecessori affinchè si dipani la totale verità.
Del pari e poiché al detto Matteo successe Giovanni del Carretto che nel privilegio o investitura venne chiamato «figlio ed erede di Matteo» ma non venne indicato quale «figlio legittimo e naturale»,  nel qual caso è di diritto da reputarsi bastardo. A tal fine abbiamo chiesto, se la forma della alienazione della detta terra era tale, il titolo in base al quale poteva estendersi l'alienazione stessa ai bastardi o illegittimi. Similmente l'attuale possessore deve presentare e la sua investitura  e quella del condam Giovanni, suo padre, nell'interesse della regia curia.
Abbiamo scritto una volta e ci pare opportuno ripeterlo qui che, nella sua verve investigativa, G.L. Barberi sia andato un po' oltre nell'insinuare l'illegittimità della nascita di Giovanni I Del Carretto.  Nel processo d'investitura di Federico Del Carretto del 1453, i testi concordi avevano dichiarato: «Item quod dictus quondam magnificus dominus  Mattheus de Garrecto et quondam magnifica domina Alionora fuerunt et erant ligitimi maritus et uxor ex quibus jugalibus natus et procreatus fuit magnificus quondam dominus Joannis de Garrecto qui subcessit in dicto casali et castro Rayalmuti tamquam filius legitimus et naturalis percipiendo fructus reditus et proventus usque ad eius mortem et de hoc fuit vox notoria et fama publica». Avevano mentito?
Ha invece ragione da vendere il Barberi quando contesta l'ammissibilità della prima investitura baronale in favore di Matteo del Carretto dopo la cessione da parte del fratello maggiore Gerardo, primogenito, peraltro, di Antonio del Carretto. 
In Palermo, infine, non vi era nei primi anni del '500 - né vi è tuttora - alcun documento dell'investitura di Giovanni II del Carretto né del figlio Ercole, proprio quello della Madonna del Monte. Ne fa diligente annotazione lo stesso inquisitore Giovan Luca Barberi.
Ancor oggi non possiamo discostarci da quello che scrive, dopo il 1519, quel diligente inquisitore sull'origine e sui primi sviluppi dell'impossessamento feudale di Racalmuto da parte dei Del Carretto. Ribadiamo che non pochi dubbi nutriamo sull'attendibilità delle antiche notizie di una terra feudale racalmutese in mano a Federico II  Chiaramonte, cui succede la figlia Costanza. Non è storicamente provato che da Costanza Chiaramonte, sposatasi in prime nozze con Antonio Del Carretto, il feudo sia passato al figlio di primo letto Antonino Del Carretto e da questi al primogenito Gerardo Del Carretto, che, per un concambio con 28 'lochi de communi' in quel di Genova, si sarebbe indotto a cederlo al fratello minore Matteo (l'altro fratello Giacomino era, frattanto, deceduto). Ma avremo tempo per indugiare sui nostri dubbi.
Prima che l'Inveges - un furbo religioso del Seicento, nativo di Sciacca - confezionasse nella sua notoria Cartagine siciliana (Palermo 1651), testamenti ed atti notarili, che nessuno mai ha poi avuto la ventura di reperire, per un'epopea spesso mistificatoria sui Chiaramonte (e di striscio sui Del Carretto), l'accorto Barberi ([21]) aveva così ricostruito, sulla base dei documenti della cancelleria di Palermo, l'avvento ed il consolidamento a Racalmuto della 'predace' famiglia ligure:
La terra con il suo castello di Racalmuto è sita e posta nel Regno di Sicilia in Val Mazara ed era un tempo posseduta dal condam Antonio del Carretto.
Morto costui, doveva succedere nella stessa terra Gerardo del Carretto, come figlio primogenito, che però vendette definitivamente tutti i diritti che aveva sopra l'anzidetta terra e su tutti gli altri beni del cennato suo padre e soprattutto quei diritti che aveva e poteva avere  per ragione di successione e di eredità da parte di Costanza di Chiaramonte sua nonna, nonché quegli altri diritti dell'eredità del detto condam Antonio del Carretto e donna Salvasia suoi genitori e del condam Giacomo  suo fratello, e particolarmente i diritti sopra Giuliana, Garrivuli ... al condam Matteo del Carretto, marchese di Savona, fratello secondogenito del predetto Gerardo.
Il condam Matteo del Carretto, marchese di Savona, acquista i predetti beni e diritti dal  fratello Gerardo,  per il prezzo di 3250 fiorini. Ciò appare nel pubblico strumento celebrato e pubblicato per il giudice Giacomo de Randacio in data 11 marzo - VIII^ Indizione - 1399. Il contratto fu accettato e confermato dal signor Re Martino a vantaggio dello stesso Matteo del Carretto e dei suoi eredi e successori, in perpetuo, come risulta nel privilegio di tal conferma dato in Catania il 13 aprile del detto anno, annotato nel libro del predetto anno 1399, VIII^ indizione f. 38. Questo Matteo aveva avuto prima la conferma della detta terra dal detto signore Re Martino con la seguente clausola «gli cediamo e concediamo, in forza della presente grazia, tutti i singoli diritti che vantiamo su detto casale o che possiamo vantare per qualsiasi fatto o diritto, ecc. ..», come risulta nel libro dell'anno 1391 XV^ indizione f. 71. Sennonché il cennato Matteo del Carretto si ribellò contro il suo re signore. Furono così devoluti al regio fisco tutti i suoi beni. Ma tornato, alla fine, nell'obbedienza, ottenne dal detto signor Re Martino la remissione e l'indulgenza con la restituzione della detta terra e degli altri beni, con revoca e annullamento di tutti i decreti, sentenze ed atti contro di lui emanati o fatti, come risulta nel privilegio della detta remissione notato nel libro dell'anno 1396 V^ indizione, nelle carte 33.
  E morto Matteo, gli successe nella detta terra Giovanni del Carretto [I], suo figlio ed erede, che ebbe anche dal Re Martino la conferma della detta terra  in un diploma ove risultano inseriti i predetti privilegi ed il contratto di vendita fatta al predetto condam Matteo per Gerardo del Carretto, come risulta nel privilegio del detto re dato in Catania il 5 agosto VIIII^ indizione 1401 e nella Regia Cancelleria nel medesimo libro dell'anno 1399, notato nelle carte 177.
          E morto Giovanni, successe Federico del Carretto, suo figlio primogenito, legittimo e naturale, il quale Federico ottenne dal condam Simone arcivescovo palermitano l'investitura della detta terra per sé ed i suoi eredi sotto vincolo del consueto servizio militare e con riserva dei diritti della regia curia e delle costituzioni del signore Re Giacomo e degli altri predecessori regali edite sui beni demaniali, come risulta nel libro grande dell'anno 1453 nelle carte 565.
          E morto il cennato Federico, gli successe Giovanni del Carretto [II], suo figlio, il quale, come appare dall'ufficio della regia cancelleria, non prese giammai l'investitura della detta terra.
          Morto il detto Giovanni, gli successe Ercole del Carretto figlio legittimo e naturale e maggiore del detto Giovanni, del quale del pari non risulta investitura alcuna ed al presente si possiede quella terra per lo stesso Ercole del Carretto, con un reddito annuo superiore ad once 700.

          E morto il detto Ercole successe nella detta terra Giovanni del Carretto [III], suo figlio, primogenito, legittimo e naturale, che prese l'investitura della detta terra tanto per la morte del detto suo padre quanto per la morte del signore Re Ferdinando in data 31 gennaio VII^ Ind. 1519, notata nel libro dell'anno 1518 VII^ Indizione f. 462 e dichiara un reddito di 420 once; e ciò sebbene il  padre non avesse preso l'investitura e reso l'omaggio entro l'anno della morte del  proprio genitore. ([22])

Quanto alla ricostruzione del Barberi, dobbiamo annotare come questi si astiene dall'attribuire ogni titolo feudale su Racalmuto a Costanza Chiaramonte (del padre, Federico, non vi è neppure cenno). Costei, nonna dei fratelli Gerardo e Matteo Del Carretto, viene indicata come dante causa  per ragione di successione e di eredità di generici diritti che aveva e poteva avere. G.L. Barberi si attiene rigorosamente al testo dell'atto notarile, come abbiamo avuto modo anche noi di constatare. L'unico neo che ci pare di cogliere nella sua ricognizione è quel dar credito al notaio di Girgenti per avere una volta chiamato di straforo marchese di Savona Matteo Del Carretto, titolo che la cancelleria di Martino riserba solo a Gerardo Del Carretto. Ma vedremo che in ogni caso era una mera millanteria di questi liguri sbarcati in Sicilia, che dei veri marchesi di Savona e Finale erano, sì e no, lontani parenti.
I Capibrevia magna sono preziosi per la ricognizione critica dell'avvento a Racalmuto dei Del Carretto e del loro consolidarsi, lungo il secolo XV, nel possesso baronale di questa terra. In un punto, poi, l'inquisizione del Barberi è fondamentale: solo in base ad essa abbiamo la ragionevole certezza che nessuna cesura successoria vi fu tra Federico e Giovanni II. Al riguardo, altre testimonianze non vi sono; men che meno fonti coeve. La letteratura, anche quella storiografica contemporanea (citiamo per tutti il Bresc), mette talora in dubbio la regolarità della successione di padre in figlio della baronia di Racalmuto nel XV secolo. Francesco San Martino de Spucches, nella sua accreditata storia dei feudi dalle origini al 1925, aggancia, ad esempio, il subingresso nel feudo di Ercole Del Carretto, sempre quello della Madonna del Monte, anziché alla morte di Giovanni II, a quella di Federico (che era dopotutto il nonno), ritenendolo del tutto fallacemente «suo fratello, morto senza figli». Ed aggiunge: «Non risulta investitura (Vedi Vincenzo Di Giovanni, Palermo restaurato, libro 4°, f. 229).» ([23])
Il Di Giovanni aveva scritto quegli appunti prima del 1627. Era un discendente dei Del Carretto per via di Paolo, secondogenito di Giovanni II e fratello di Ercole, che era suo 'avo materno'. Aveva molto correttamente rappresentato il succedersi dei feudatari racalmutesi a cavallo fra XV e XVI secolo come può vedersi da questo stralcio: «a Federico successe Giovanni; a Giovanni, Ercole, e Paolo, secondogenito, mio avo materno; ad Ercole, Giovanni; a Giovanni, D. Geronimo; a D. Geronimo, D. Giovanni; a D. Giovanni, D. Geronimo, al presente conte di Ragalmuto.» ([24]) Il Di Giovanni, invero, uno svarione l'aveva commesso a proposito della successione di Matteo Del Carretto, quando gli aveva fatto immediatamente subentrare il nipote Federico. Tanto non doveva essere bastevole per indurre il San Martino De Spucches alla topica dianzi sottolineata. G. L. Barberi risulta, comunque, anche qui provvidenziale, consentendoci di non lasciarci disorientare da pur eccelsi araldisti.
In effetti, le fonti documentali sono carenti in ordine a questa prima serie di successioni. Presso il Protonotaro del Regno è consultabile il processo di investitura di Federico del 1453 che ci permette di seguire la successione baronale da Matteo a Giovanni I e da questi allo stesso Federico. Si passa poi al processo dell'investitura di Giovanni III del 1519 che suona, tra l'altro, come sanatoria dei passaggi ereditari da Giovanni II ad Ercole e da questi allo stesso Giovanni III. Tra Federico e Giovanni II il vuoto. Senza i Capibrevia del Barberi, brancoleremmo nel buio. Certo, qualche ipercritico potrà obiettare che il Barberi al riguardo parla solo per sentito dire e Dio sa quanto menzogneri  fossero quei nobili, specie se dovevano rendere conto a fastidiosi inquisitori come l'autore dei Capibrevia. Noi, fino a prova contraria, pensiamo, ad ogni buon conto, che sul punto al Barberi vada prestata totale fede.

Il Fazello, restando nell'ambito della storiografia feudale del Cinquecento, non mostra interesse alcuno verso quelli che dovettero apparirgli incolti e violenti nobilotti di campagna: i Del Carretto, appunto. Il colto storico è involontario protagonista (in negativo) nella ricostruzione della  storia di Racalmuto per avere ispirato due tradizioni che reggono imperterrite tuttora: la prima accredita Federico II Chiaramonte (+ 1313) padrone e barone del feudo, ove avrebbe fatto costruire l'attuale castello ("Lu Cannuni"), e ciò è congettura forse accettabile; la seconda tradizione è quella della signoria dei Barresi. Qui il Fazello, però,  è del tutto incolpevole. Si pensi che l'intera faccenda poggia - responsabili Vito Amico([25]) ed il Villabianca, quello della Sicilia Nobile([26])  -  su un'evidente distorsione di un passo dell'opera storica dello storico di Sciacca. ([27]) Questi, parlando dei Barresi, aveva scritto ([28]): Matteo Barresi succede ad Abbo, che aveva ricevuto da Re Ruggero l'investitura di Pietraperzia, Naso, Capo d'Orlando, Castania e molti altri "oppidula" (piccoli centri). Chissà perché tra quegli oppidula doveva includersi proprio Racalmuto. Così congetturarono i cennati eruditi del Settecento, non sappiamo su che basi, e così si racconta tuttora dagli storici locali che hanno in tal modo il destro per appioppare a Racalmuto le vicende avventurose di quella famiglia. Ma di ciò a suo tempo e luogo.
Allo spirare di quel secolo, il vescovo di Agrigento Giovanni Horozco Covarruvias y Leyva ha modo di scontrarsi con la potente famiglia dei Del Carretto. La reputa alla stregua di un groviglio di vipere, a capo di una conventicola di nobili, fra di loro apparentati, che vessa tutto l'agrigentino e quel che è peggio - per il vescovo - conculca i sacri diritti della Chiesa agrigentina. Ne scrive, persino, al Papa. «Beatissimo Padre - esordisce il prelato - l'Episcopo di Girgente del Regno di Sicilia dice a V.B. che l'è pervenuto notitia che alcune persone maligne [si sono messe a] calunniare la bona vita et amministration che l'ha fatto et fa esso supplicante. [Esse sono] don Petro et don Gastone del Porto, il Principe di Castelvetrano, la duchessa di Bivona, il Marchese di Giuliana, il Conte di Raxhalmuto, il conte di Vicari,  il Baron di Rafadal, il Baron di San Bartolomeo Don Bartolomeo Tagliavia, diocesani di esso exponente, la magior parte delli quali son parenti [.....]
 Il detto Conte di Raxhalmuto per respetto che s'ha voluto occupare la spoglia del arciprete morto di detta sua terra facendoci far certi testamenti et atti fittitij, falsi et litigiosi, per levar la detta spoglia toccante a detta Ecclesia, per la qual causa, trovandosi esso Conte debitore di detto condam Arciprete per diverse partite et parti delli vassalli di esso Conte, per occuparseli esso conte, come se l'have occupato, et per non pagare ne lassar quello che si deve per conto di detta spoglia, usao tal termino che per la gran Corte di detto Regno fece destinare un delegato seculare sotto nome di persone sue confidenti per far privare ad esso exponente della possessione di detta spoglia, come in effetto ni lo fece privare, con intento di far mettere in condentione la giurisditione ecclesiastica con lo regitor di detto Regno.
Et l'exponente processe con tanta pacientia che la medesme giustitia seculare conoscio haver fatto errore et comandao fosse restituta ad esso exponente la detta spoglia.
Ma con tutto questo, esso Conte non ha voluto pagare quello che si deve et si tene molti migliara di scudi et molti animali toccanti a detta spoglia, non ostanti l'excommuniche, censure et monitorij promulgati per esso exponente et che detta spoglia tocca al exponente appare per fede che fanno li giurati, per consuetudine provata, et per le misme lettere della giustitia secolare che ordinao fosse restituta al exponente.

Et più esso Conte ha voluto et vole conoscere et haver giurisditione sopra li clerici che habitano in detta sua terra di Raxhalmuto et vole che stiano a sua devotione privi della libertà ecclesiastica, con poterli carcerare et mal trattare come ha fatto a Cler: Jacopo Vella che l'ha tenuto con tanto vituperio et dispregio dell'Ecclesia in una oscura fossa in umbra mortis, con ceppi, ferri et muffuli per spatio di doi anni et fin hoggi non ha voluto ne vole remetterlo al foro ecclesiastico.
Anzi, perchè il vicario generale d'esso exponente impedio a don Geronimo Russo, genniro d'esso Conte et gubernatore di detta sua terra, che non dasse, come volia dare, certi tratti di corda a detto clerico et essendo stato bisognoso per tal causa procedere a monitorij et excommunica, il detto Conte fece tanto strepito appresso lo regitore di detto Regno che fece congregare il Consiglio per farlo deliberare che chiamasse ad esso exponente et al detto Vicario Generale et lo reprendesse, che è stata la prima volta che in detto Regno si mettesse in difficultà la potestà delli prelati per la potentia di detto Conte.
Con lo quale di più esso exponente have liti civili per causa di detti beni ecclesiastici, per causa di detto archipretato.

Et di più don Cesare parente di detto Conte, per il suo favore, fece scappare dalle carceri a doi prosecuti dalla corte episcopale di Girgente, et perchè ni fù prosecuto, diventano innimici delli prelati.» ([29])

Il secolo XVI, dunque, si apre e si chiude con acri rapporti contro i Del Carretto. Poi non succederà più: avremo solo libelli encomiastici o ricognizioni genealogiche o diplomi, documenti, atti giudiziari, testamenti, processi di investitura, inventari, note di cronaca e comunque rispettose testimonianze (Sciascia a parte, naturalmente).
La vera pubblicistica sui Del Carretto nasce e si sviluppa nel Seicento. Tutto sorge - a nostro avviso - da un Del Carretto che diviene, nel 1617, cavaliere gerosolimitano presso il Gran Priorato di Messina. E' il Fra Don Alfonso Del Carretto, figlio di don Baldassare e nipote di Federico il secondogenito dell'ultimo barone di Racalmuto, don Giovanni III Del Carretto. Deve fornire le sue credenziali nobiliari e queste sono, nel caso, davvero cospicue. Fra Don Alfonso fa ricerche, può consultare gli archivi di famiglia, è diligente. Ne vien fuori un lavoro ben fatto: «egregium opus, nihil in eo vel fictum, vel excogitatum», lo definisce il Baronio. Una ricerca documentata, senza falsità o invenzioni, dunque. E tutto fa pensare che quella ricerca sia stata  la base di un libro scritto poi, nel 1630, proprio dal Baronio. ([30])
Nel frattempo aveva buttato giù le sue note il Di Giovanni che rimasero a lungo manoscritte presso la Biblioteca Comunale di Palermo. Abbiamo già accennato al suo Palermo Restaurato. Come leggesi nel risvolto della copertina del volume pubblicato dalla Sellerio (v. nota 11), il gentiluomo Vincenzo Di Giovanni aveva abbozzato una «storia encomiastica della città e [una] descrizione del rinnovamento urbano che faceva di Palermo uno scrigno di nobiltà. L'opera, fino alla pubblicazione del 1872 nella Biblioteca Storica e Letteraria di Sicilia di Gioacchino Di Marzo, era un testo manoscritto del 1627.» Ebbe modo di consultarla il nostro Tinebra Martorana, che, qua e là, non manca di citarla (sia pure con la piccola storpiatura: Di Giovanni, Palermo ristorato).
Cenni ai Del Carretto si hanno nella Sicilia Sacra del Pirro: ma qui quella famiglia entra in gioco solo se le vicende hanno riferimento alla storia religiosa (come nel caso citato della iniziativa di Girolamo II Del Carretto nell'insediamento a Racalmuto degli agostianiani a S. Giuliano.) Quel testo, tuttavia, è stato recepito acriticamente per il rabberciamento (spesso cervellotico) della prima storia medievale di Racalmuto - tale è la storiella di un Malconvenant primo barone di Racalmuto, che nel 1108 avrebbe dotato un suo parente di terre feudali e villani purché edificasse la prima chiesa, quella di S.Margherita a tre lanci di pietra dal paese, in località che dopo si chiamerà di S. Maria; e tale è la dubbia sequenza successoria da Federico II Chiaramonte alla figlia Costanza che avrebbe sposato Antonio Del Carretto figlio del marchese di Finale, da cui avrebbe avuto nell'anno 1311 (sic) Arelamus de Carretto, personaggio del tutto inesistente nella nostra storia feudale. Si tenga presente che l'Aleramo Del Carretto che ricorre nelle cronache opera a cavallo dei secoli XVI e XVII e non fu mai conte o barone di Racalmuto, pur se figlio di Giovanni IV Del Carretto.
Il Mugnos nel suo Teatro Genealogico dedica le pagine 237-240 ([31]) alla famiglia "CARRETTO", ma per buona parte si diffonde nella inverosimile narrazione delle origini regali così come se le era inventate fra Giacomo Filippo da Bergamo. Fornisce, ad ogni modo, una preziosa testimonianza di come fosse nota l'antica nobiltà dei Del Carretto nella prima metà del Seicento in Palermo e nei circoli culturali dell'epoca. La ricostruzione genealogica ci pare, però, molto arruffata, contribuendo anche certe spigolosità dello stile narrativo che possono indurre in errore (sempreché di effettivi errori si tratti). Ci si riferisce in particolar modo al passo riguardante il successore di Girolamo I, don Giovanni Del Carretto: sembrerebbe, a prima lettura, che Giovanni, Aleramo e Giuseppe Del Carretto siano figli del secondo anziché del primo Girolamo Del Carretto. E questo sarebbe gravissimo abbaglio; vi sarebbe confusione tra nonno e nipote, confusione del resto abbastanza consueta tra gli storici del ramo siciliano dei  Del Carretto anche per quelle omonimie ricorrenti (cinque Giovanni e tre Girolamo in tre secoli). Altra grave topica attiene alla successione di Matteo cui in effetti succede Giovanni I e non Federico, come pretende il Mugnos: Federico subentra al padre, Giovanni I - sempreché non emergano documenti inediti che rettifichino questa incerta successione. Il padre di Ercole, quello della venuta della Madonna del Monte, è Giovanni II (e non Giovanni I, diversamente da quello che si arguisce dal passo del Mugnos). Una girandola di nomi come si vede che non agevola la precisione e la correttezza nel tracciare la vicenda «appena descrivibile del succedersi dei feudatari». E qui Sciascia ha ben ragione a mostrare tedio nei confronti della trama successoria dei padroni di Racalmuto. Il Mugnos si ferma al "vivente don Giovanni conte di Racalmuto", cioè a qualche anno prima del 1650, data della 'mesta fine' di quel personaggio, giustiziato a Palermo per delitto di lesa maestà.
Intervallati da più di un decennio escono a Palermo due lavori dell'erudito del Seicento, il sacerdote di Sciacca don Agostino Inveges: il primo, Palermo antico, è del 1649, anno in cui è all'apice la fortuna dei Del Carretto; il secondo, La Cartagine Siciliana, è datato 1661  ([32]) e può dirsi che dopo l'esecuzione di Giovanni V per quella famiglia fosse scattata l'inesorabilità del declino.   Forse per questo, nel secondo lavoro non si trova molto sui Del Carretto. Quello storico si diffonde sui Chiaramonte ed i feudatari di Racalmuto di origine ligure vi entrano solo per i legami trecenteschi con Federico II e Costanza Chiaramonte. Gli studiosi moderni non sono propensi ad accreditare troppo l'Inveges. Illuminato Peri, ad esempio, mette in dubbio persino l'autenticità degli atti notarili trascritti dal sacerdote di Sciacca, e considera quel libro nient'altro che un testo di piaggeria araldica. ([33]) Si dà il caso che l'opera dell'Inveges venne, specie nel Settecento, considerata la indubitabile fonte del vero evolversi del feudo racalmutese, nel trapasso dai Chiaramonte ai Del Carretto. Citano in tal senso l'Inveges il padre Caruselli nel 1856 (pag. 18) e nel 1929 il San Martino-De Spucches (Vol. VI pag. 182). Se le vicende chiaramontane raccontate nella Cartagine Siciliana sono inficiate da falsificazioni di atti notarili, la storia racalmutese di quel tempo è da riconsiderare in passaggi molti salienti. Il testamento di Federico II Chiaramonte ([34]) è il fulcro della legittimità feudale in capo a Costanza Chiaramonte che sappiamo aliunde essere davvero la nonna di Gerardo e Matteo Del Carretto. Sul testamento di Costanza fornisce elementi il lavoro dell'Inveges ([35]), ma sono elementi vaghi, ambigui. L'atto sarebbe stato in mano dei Del Carretto, ma noi non l'abbiamo rinvenuto né tra i processi d'investitura né tra le carte del Fondo Palagonia. Se davvero l'avessero avuto, non avrebbero mancato, costoro, di farne varie copie e di esibirlo nelle diverse congiunture giudiziarie, quando sarebbe tornato molto utile.

Efferati delitti, vendette cruente, esecuzioni capitali segnano, tra il Cinquecento ed il Seicento, la storia dei Del Carretto. Vi è molta materia per accedere alla cronaca nera o in quella particolare cronaca del tempo quale viene annotata nel riserbo delle proprie case da strani diaristi. Tali Paruta e Palmerino, ad esempio, si occupano della famiglia Del Carretto nell'ultimo scorcio del Cinquecento.([36]) Valerio Rosso accenna allo scampato pericolo del conte di Racalmuto nell’incendio a Castellamare del 19 agosto 1593, ove perì il poeta Antonio Veneziano. ([37])
Eclatante il mortale attentato in cui perse la vita Giovanni IV del Carretto la sera del lunedì del 5 maggio 1608. Ce lo descrive un anonimo diarista palermitano. ([38]) Quando, ai primi di gennaio del 1650 e precisamente in quel martedì dell'11 gennaio, fu arrestato D. Giovanni del Carretto conte di Racalmuto, l'impressione a Palermo dovette essere enorme. Il conte è imputato del delitto di lesa maestà, come uno dei capi principali di una congiura andata del tutto fallita. Nel suo diario ne fa diligente annotazione il dottor Vincenzo Auria ([39]) che poi segue passo passo lo sviluppo giudiziario fino alla esecuzione avvenuta per "affogamento" «privatamente dentro del castello» (v. op. cit. pag. 367) il 26 febbraio di quell'anno, giorno di sabato.





[1] ) Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonerse - U. Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 107.
[2]) Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonerse - U. Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 108.

[3] ) Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonerse - U. Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 120.

[4] ) Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonerse - U. Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 121. Continua il D’Alessandro: «ascoltati gli emissari, i quali “latius narraverunt”, il duca rispondeva che “super praedictis providebimus et providere curamus taliter quod gratias et alia quae per dictos nuncios a nobis postulata fuerunt celerem sortientur effectum et proinde vos, et alii nostri servitores, dante Deo, merito contentari.»

[5] ) Denis Mack Smith - Storia della Sicilia medievale e moderna - Bari 1972, vol. I pag. 115.
[6] ) Denis Mack Smith - Storia della Sicilia medievale e moderna - Bari 1972, vol. I pag. 116.
[7]) Il toponimo è presente negli atti notarili per lo meno per lo meno dal 1714: non può quindi riferirsi a nessuna Baronessa Tulumello.
[8]) Archivio Parrocchiale della Matrice di Racalmuto  - LIBRO D'INTROITO ED ESITO di denari per conto      della fabrica della Matrice Chiesa di Racalmuto, incominciando dalli 29 di novembre 8a Ind. 1654 et infra -D. Lucio Sferrazza - Vol. I “Esito n.° 7 dell’11/12/1658”.
[9] )  ÇURITA GERONYMO, CHRONISTA DE ISTO REYNO:  ANALES DE LA CORONA DE ARAGON - ÇARAGOÇA 1610 - Libro X de los Anales - Rey don Martin - 1398 Pag. 429.
[10]) D. Francisci Baronii ac Manfredi - De Maiestate Panormitana libi IV - Panormi apud Alphonsum de Isola - MDCXXX. Citiamo i paragrafi 72; 73 e 74: «Matthoeus ergo del Carretto secundo loco genitus Marchionis Savonae, ac Finarij filius Racalmuti, Calatabiani, ac Siculianae [ex Reg. tab. in lib. An. 5 Ind. 1396] Dominus Mag. Rationalis Singulare munus id temporis, cum id Regum dumtaxat consanguineis conferebatur, Rege Martino praesente, atquae annuene [ V. ib. Ann. 1392] in una cum illis primariis viris Francisco Valguarnera II ac Raymundo de Aptilia Urbis Praetore, literas accepit a Rege, ut Comitem Andream de Claramonte Panormum occupantem deprehenderet. Quod effectum plane, cum deprehensum illum Regi tradiderit, atque Panormitanam Urbem ab omni improborum hominum seditione liberavit. Quo plane munere sic perfenctus est Matteus, ut Rex ipse de huiusce virtute confisus totius Siciliae Vicarii munus summa cum voluntate contulerit.
Ǥ 73 (Cabr. In reg. tab. in oppid. Racalm.) Matthaeo successit Ioannes primus, qui cun haereditario quodam iure masculam Patris virtutem fuisset haereditatus, semper vel publicis ob eundis muneribus, vel in periculis adeundis, vel in Regis amplificanda gloria fortem se praebuit, ac strenuam, ut merito dixerit ea tempestate non nemo, Patris Filius.
«§ 74. Ioanni I, Fidericus. Hic a maioribus non degener et prudentia et magnanimitate et virtute praeclarus. Duos hic suscepit liberos Ioannem II ac Caesarem primum optima prole florentem. Ioannes natus maior, cum familiam rebus praeclare gestis aeternitati commendasset. Herculem, ac Paulum habuit sibi, nec maioribus dissimilem suis. In uno quoque semper avitae nobilitatis fulgor eluxit.»  
[11] ) Henri Bresc, Un monde, op. cit. pag. 869. Anche qui il francese esige un atto di fede assoluta in quel che scrive e non cita né fonti né particolari. Si limita a questo: «La sicilianitation des noblesses immigrées est opérée sans doute assez vite; l’intermariage est géneral; [...] Del Carretto - Isfar en 1418 [..]»
[12]) Leonardo Sciascia: Un pittore del profondo sud, in Leonardo Sciascia e Malgrado Tutto - Editoriale «Malgrado Tutto» - Racalmuto 1991, pag. 21 e segg.
[13]) Leonardo Sciascia, Morte dell'inquisitore - Bari 1982, pag. 182.
[14]) Anche se non disponiamo dell'atto di nascita, siamo quasi certi che Girolamo III Del Carretto sia nato nel 1648. Lo desumiamo da un documento della Gancia  (Anno 1651 vol. 609 - Archivio di Stato Palermo - Gancia - P.R.P.)  che vuole: «Donna Maria del Carretto e Branciforte, contessa di Racalmuto, cittadina oriunda della città di Palermo, relitta del Conte, figli don Girolamo di anni 3 e Anna Beatrice. Rendite: don Nicolau Placido Branciforte, principe di Leonforte, once 300 ogni anno sopra detto stato di Branciforte che à raggione del 5% il capitale spetta onze 6000; inoltre rende ogni anno donna Margherita d'Austria onze 382  e tt. 5 per il principato di Butera quale che tiene il capitale di onze 5277 per un totale di 11277 onze, 13 deve a d. Michele Abbarca della città di Palermo onze 2600 per tanto che ci ha dato; deve a donna Maria Morreale e del Carretto onze 500 per tanto prestatoci.» La moglie di Girolamo III, Melchiorra Lanza di Trabia, era più vecchia di quasi 18 anni. E ciò se crediamo all'atto di morte che si custodisce presso la Matrice di Racalmuto (libro dei morti 1694-1707), ove si annota: Die 10 Aprilis 1701 ind.nis  9^  Ecc.ma Domina D. Melchiora Lanza uxor ecc.mi Principis comitis Racalmuti Hieronimi del Carretto annorum 70 circiter, in communione s.  matris eccl.ae, in sua propria domo h.t. Racalmuti, animam Deo reddidit. Cuius corpus sepultum in Ecclesia sanctae Mariae de Jesu in venerabili Cap.a Sanctissimi Rosarii huius terrae Racalmuti  et praesidio omnium sacramentorum munita, et roborata, per me D. Fabritium Signorino Archipraesb. huius  matricis Eccl.ae terrae praedictae.
[15]) Ampia è l'esenzione fiscale dell'ultimo barone come può vedersi da questa disposizione del testamento del 1560:
Item dictus dominus testator voluit et mandavit, ac retulit et refert spectabili domino D. Hieronymo de Carrecto eius filio et successori in dicta Baronia et pheudis, quod omnes et singulae Personae Ecclesiasticae dictae Terrae Racalmuti sint et esse debeant immunes, liberi et exempti ab omnibus et singulis gabellis, et constitutionibus solvendis spectabili domino eius successori, videlicet à gabella saluminis, vini, carnis, granorum et olei, et hoc pro usu tantum dictarum personarum ecclesiasticarum, et ita voluit, et mandavit.

















[16]) Leonardo Sciascia, op. cit., pag. 182.
[17]) F.M. EMANUELI e GAETANI - Della Sicilia Nobile - PARTE II. libro I - DELLA SICILIA NOBILE [VILLA BIANCA]
[18]) Leonardo Sciascia, op. cit., pag. 182.
[19]) Leonardo Sciascia, op. cit., pag. 181.
[20]) Giovan Luca Barberi - Il «Magnum Capibrevium» dei feudi maggiori - a cura di Giovanna Staleri Ragusa - Università degli Studi di Palermo - Facoltà di Giurisprudenza - Dipartimento di Storia del Diritto - Palermo 1989, pag. 445 (f. del ms. 528v).
[21]) Giovan Luca Barberi - Il «Magnum Capibrevium» dei feudi maggiori - op. cit. - pag. 526 e segg.
[22]) G.L. Barberi aveva conseguito la nomina a Maestro Notaro della Cancelleria nel 1491. Gli viene quindi affidato il compito di svolgere le inquisitiones che gli serviranno per la compilazione dei Capibrevia.
Le sue indagini sono svolte prevalentemente sui registri della Cancelleria. Scrive G. Staleri Ragusa: «E dai polverosi archivi vengono fuori i personaggi di due secoli di storia siciliana, dei quali il Barberi non manca di interpretare i caratteri....  La morte di Ferdinando nel 1516 - soggiunge l'A. (pag. 14) -  poneva fine alle preoccupazioni di feudatari, ecclesiastici e ufficiali del Regno, che sentivano il loro potere insidiato dal Maestro Notaro: la sua opera alla quale, pure, andava facendo piccole aggiunte annotandoci le ulteriori successioni nei feudi o nei benefici ecclesiastici, non pare avere sortito l'effetto che Ferdinando aveva sperato nel suo disegno.
Ferdinando, in effetti, aveva affidato quelle ricerche d'archivio ad una persona di sua fiducia qual era il Barberi per avere materiale di scambio - ed anche di ricatto - per ricostituire il patrimonio della Corona.» Il terribile e puntiglioso Inquisitore non è certo tenero verso i nobili, specie con le sue allegationes.
Quella che stila contro i Del Carretto poteva, invero, procurargli una scopettonata. Si vede che a quel tempo i baroni di Racalmuto non avevano raggiunto l'alterigia del secondo conte, quel Giovanni del Carretto IV, mandante nell'omicidio di La Cannita.
[23]) Francesco San Martino de Spucches, La storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia dalla loro origine ai nostri giorni (1925). Lavoro compilato su documenti ed atti ufficiali e legali. - Volume sesto, Palermo 1929 - quadro 783 - Conte di Racalmuto - pag. 182 e segg.
[24]) Vincenzo di Giovanni, Palermo restaurato. Citiamo dalla edizione di Sellerio editore Palermo - 1989 - pag. 191. Evidentemente questa parte del manoscritto che viene datato 1627 era stata scritta prima del maggio 1622, epoca della morte (o omicidio) di Girolamo II Del Carretto.
[25])  Vito Maria Amico Statella - Lexicon Topographicum Siculum - Tomi secundi pars altera, Panormi 1757-60 - voll. 6. [Biblioteca Nazionale V.E. Roma pos. 1.24.C. 19/24] In proposito, il passo in latino di pag. 115 è il seguente: « ... Barresiis subinde datum [Racalmuto, cioè]; Joannes subinde eiusdem familiae ad Andegavensium  partes deficiens, secum opida sibi subdita traxit, Petrapretiam, Nasum, Rahalmutum et alia.»  Gioacchino Di Marzo ne fece questa traduzione: « .... dato poscia a' Barresi; poichè Giovanni della medesima famiglia essendosi ribellato in pro delle parti angioine, seco trasse i soggetti paesi Pietraperzia, Naso, Racalmuto ed altri.»
[26]) F. M. Emanueli e Gaetani - Della Sicilia Nobile - parte IV - Forni Editore [copia anastatica dell'edizione Palermo 1759 - Parte II, libro IV, pag. 199 e segg. Invero, l'A. sembra voglia far ricadere la colpa al padre Aprile. Noi, a dire il vero, non abbiamo avuto modo di consultare l'opera di questo storico siciliano che scrisse nel 1725. Disponiamo solo di una bibliografia del Bresc ovè è così segnato: Francesco Aprile, Della cronologia universale della Sicilia, Palerme, 1725, XXIV-808 p. [centré sur Caltagirone]. Vedi Henri Bresc: Un monde méditerranéen - économie et société en Sicile - 1300-1450 - Palermo 1986, pag. 48. Ad altri studiosi quindi il compito ed il gusto di correggerci ed eventualmente integrarci.
[27]) Anche se non l'artefice primo della fantasiosa baronia racalmutese dei Barrese, il Villabianca è responsabile degli abbagli storici degli ereduti di Racalmuto - a cominciare dal padre Bonaventura Caruselli da Lucca [Sicula], non proprio indigeno, dunque, ma pur sempre autore principe del racconto della 'venuta' della Madonna del Monte. Questi a pag. 2 del suo libretto Maria Vergine del Monte in Racalmuto, Palermo 1856, testualmente annota: «L'ultimo di questa dinastia fu Giovanni Barrese, il quale al riferire del padre Aprile (Cron. Sic. cap. 1 f. 164) [corsivo ns.] si rese indegno del dono, oscurando col più turpe tradimento la fede siciliana. Nella guerra tra Carlo d'Angiò Conte di Provenza e Manfredi lo Svevo Re legittimo del regno di Sicilia e Napoli fu il primo che vilmente desertò le bandiere del suo Re, e passò al partito Angioino acquistandosi il nefando nome di traditore della patria e del suo Re, una marca indelebile di eterna infamia, e la perdita totale di tutti i beni, giusto e ben dovuto premio dei traditori. Ma l'infamia a chi tocca: il vespere Siciliano manifestò al mondo il valore dei figli di Sicilia, e la lor fedeltà ai legittimi Sovrani.» La frase che abbiamo riportato in corsivo svela la totale sudditanza del p. Caruselli dal Villabianca (a parte la diversa pagina: 164 al posto di 144, evidentemente un mero errore). Ecco infatti cosa aveva scritto il celebre autore della Sicilia Nobile a pag. 199 e ss. - parte seconda, libro IV: Racalmuto «credesi indi concessa dal Rè Ruggieri Normanno figlio del liberatore testè accennato ad ABBO BARRESE in consuso con quelle Terre, che sotto l'aggettivo di pleraque oppida per conto di esso Barrese numera FALZELLO nella sua Stor. di Sic. dec. 2. lib. 9. cap. 9 f. 184 avvegnachè sullo spirare del secolo decimoterzo stava ella in potere di Giovanni BARRESE, il quale al riferire del Padre APRILE Cron. Sic. f. 144 c. 1 [corsivo nostro] fu il primo tra i Baroni del nostro Regno, che nelle guerre fatte dall'armi dei Collegati Angioini in quest'Isola passasse al loro partito col suo vassallaggio consistente nelle Terre di PIETRAPERZIA, NASO, RAGALMUTO, CAPO D'ORLANDO, E MONTEMAURO, terra oggi disfatta, situata in quel monte, che si alza fra la Città di Piazza e 'l MAZZARINO presso il fiume Braeme. Sicchè dichiarato fellone esso Giovanni, cadde Tal Baronia nelle mani del Reg. Fisco.» (Vedasi: F.M. EMANUELI e GAETANI - Della Sicilia Nobile - parte IV - Forni Editore [Copia anastatica dell'edizione Palermo 1759] - RAGALMUTO - [pag. 199 e ss. Parte II Libro IV).
Il padre Caruselli sicuramente non consultò il p. Aprile, come noi del resto. Ma fu abbaglio suo personale quello di credere che Giovanni Barrese sia stato privato delle sue terre per aver tradito Manfredi a favore di Carlo d'Angiò, grosso modo tra il giugno del 1265 ed il febbraio del 1266. Le turbolenze di Giovanni
BARRESE avvennero invece nella contesa tra i due fratelli Federico III e Giacomo II d'Aragona e cioè tra il 1298 ed il 1302, circa vent'anni dopo i Vespri Siciliani: Illuminato Peri (vedasi La Sicilia dopo il Vespro - uomini, città e campagne 1282/1376 - Laterza Bari 1982, pag. 39) data la dissidenza di quel nobile attorno al 1299 (ed era solo signore di Pietraperzia, Naso e Capo d'Orlando, come da pag. 39 e nota 44). Il padre Caruselli non era ovviamente ferrato nella storia medievale della Sicilia, e l'intrigo degli eventi lo giustifica. Ma quell'accenno ai Vespri Siciliani ebbe grande fortuna. Il Tinebra Martorana, con la sua «aura romantica e un tantino melodrammatica», per dirla alla Sciascia, vi si buttò a capofitto vergando il capitolo IV su Racalmuto e la famiglia Barrese (pag. 58 ed. 1982). Eugenio Napoleone Messana diviene incontenibile - da pag. 54 a pag. 58 - nella sua storia su Racalmuto (ed. 1969). Purtroppo anche il valido padre Calogero Salvo cade nella trappola, in ispecie a pag. 25 del suo Ecco tua Madre - Racalmuto 1994.  Non si lascia ingannare, invece, da quell'ambiguo parlare di un passaggio "ad Andegavensium partes" dell'Amico l'avv. Francesco San Martino De Spucches: Egli bene inquadra la congiuntura storica: «Questi [Giovanni Barrese] - scrive a pag. 181 del quadro 783, op. cit. -  visse sotto Re Giacomo d'Aragona e seguì il suo partito. Re Federico, fratello di Giacomo, divenuto Re di Sicilia, dichiarò esso Giovanni fellone e gli confiscò i beni. Da questo momento comincia una storia certa e noi cominciamo da questo momento ad elencare i baroni di Racalmuto con numero progressivo...» 
[28]) F. TOMAE FAZELLI SICULI OR. PRAEDICATORUM - DE REBUS SICULIS DECADE DUAE, NUNC PRIMUM IN LUCEM EDITAE - HIS ACCESSIT TOTIUS OPERIS INDEX LOCUPLETISSIMUS - Panormi ex postrema Fazelli authoris recognitione. Typis excudebant, Ioannes Mattheus Mayda, et Franciscus Carrara, in Guzecta via, quae ducis ad Praetorium, sub Leonis insigni, anno domini M.D.LX. mense iunio. [Biblioteca Nazionale - manoscritti e libri rari - 10.7.E.5] Barrese (origine e genealogia) pag. 592 - De rebus .. posterioris decadis liber nonus - cap. Nonum
Hic genus suum ad Abbum Barresium, cuius pater ex proceribus, qui cum Rogerio Normanno ad propulsandos  Sarracenos in Siciliam venerunt, unus fuit, ut Rogerij Regis diplomate constat, hoc ordine refert. Ex Abbo, qui Petrapretiam, Nasum, Caput Orlandi, Castaniam, et pleraque alia oppidula à Rogerio Rege adeptus est, Matthaeus.


[29])  Archivio Segreto Vaticano - SACRA CONGREGAZIONE VESCOVI E REGOLARI  - Anno 1599 - pos. C-L
[30]) D. Francisci Baronii ac Manfredis - De Majestate Panormitana libri IV - Panormi apud Alphonsum de Isola - MDCXXX - [Biblioteca Nazionale V.E. - Roma - 7.4.L.31.
[31]) Filadelfio Mugnos, Teatro genealogico delle famiglie nobili, titolate, feudatarie ed antiche del fedelissimo regno di Sicilia, viventi ed estinte, 3 volumi, Palermo 1647, 1655; Messina 1670. [Dalla ristampa anastatica di Arnoldo Forni editore, pagg. 237-240 del Libro I].
[32]) D. Agostino Inveges - Palermo antico - Palermo 1649 e D. Agostino Inveges - Sacerdote Siciliano, da Sciacca - Anno 1660. - La Cartagine Siciliana, historia in due libri, pubblicata in Palermo, nella typograph. di Giuseppi Bisagni. 1661.

[33]) Illuminato Peri, Per la storia della vita cittadina e del commercio nel medio evo - Girgenti porto del sale e del grano - in Antichità ed alto Medioevo, Studi in onore di A. Fanfani, I - Giuffrè Editore Milano 1962, pag. 607. A proposito del monastero di S. Spirito di Agrigento, il grande storico annota che il relativo «documento di dotazione è noto attraverso A. Inveges, La Cartagine Siciliana, Palermo 1651, pp. 192-200 (e da qui, G. Picone, op. cit., pp. XXXV-XLII). Non è in originale, ma in un transunto notarile con data 1321, anno 26° di Federico e II di Pietro, cui non corrisponde l'Ind. (XV, anziché V). .... La natura del libro dell'Inveges lascia dubitare  che la sospetta falsificazione ebbe fini araldico-celebrativi piuttosto che giuridico-patrimoniali.»
[34]) L'Inveges ci informa a pag. 159 che Marchisia Prefolio «si morì carica d'anni ... nella stessa Città di Giorgenti circa l'anno 1300, si sepellì nella Maggior Chiesa della medesima città con pompa di marmorea urna; ove in terra piana anche fù sepellito Federico Chiaramonte suo figlio loco depositi con ordine; che ivi si fabricasse una Cappella; & ogni dì si celebrasse una Messa; come appare per lo [pag. 160] testamento 1 [nota 1: In Tab. Conventus S. Dominici Agrig.] celebrato in Girgenti anno Dominicae Incarnationis 1311, Mense Decembris 27. Indict. 10. regnante Serenissimo Domino N. Domino Friderico III. Rege anno sui regiminis 16. Ove si leggono queste sollenni parole: Item eligo mihi Sepulturam in Maiori Agrigentina Ecclesia in terra ante sepulturam Dominae Matris meae. Questa Marchisia Prefolio dal suo Marito Chiaramonte hebbe tre figliuoli de' quali sappiamo il nome. Manfredo primogenito è primo di questo nome Primo Conte di Modica, e Signore di Caccamo del quale largamente favelleremo più a basso.» Il passo del testamento che riguarderebbe Racalmuto è il seguente: Item instituo, facio, et ordino haeredem meam universalem in omnibus bonis meis Dominam Costantiam Filiam meam, Consortem Nobilis Domini Antonini, Marchionis Saonae, et Domini Finari. Cui Dominae Constantiae haeredi meae, eius filios, et filias in ipsa haereditate substituo, ita tamen, quod si forte, quod absit, dicta Domina Costantia absque liberis statim anno impleverit; quod ipsa haereditas ad Dominum Manfridum Comitem Mohac, et Ioannem de Claramonte Milites, Fratres meos, legitime et integre revertatur. (Pag. 228) E trovasi in questo contesto narrativo: «Federico Chiaramonte II. di questo nome Signore di Rachalmuto, Siculiana, e Favara, fù fi- [pag. 228] gliuolo Terzo genito à nostro parere di federico I. Chiaramonte, e di Marchisia Prefolio, e fratello di Manfredo Conte di Modica, e di Giovanni il Vecchio. come à pieno dimostrammo di sopra [N. 9 § 1. ca. 6 f. 175]. Hebbe Federico per moglie Giovanna, si come si lege nel suo testamento: Item eligo meos fidecommissarios Dominum Bertoldum de Labro Episcopum Agrigentinum; Dominam Ioannam consortem meam, etc. Di qual famiglia ella si fosse, a noi non è palesa. Da questo nobile matrimonio  nacque Costanza unica figliuola, che nel 1307 nobilmente si casò con Antonino del Carretto; Marchese di Savona, e del Finari, con ricchissima dote e facendosi il contratto matrimoniale in Girgenti nell'atti di Not. Bonsignor di Thomasio di Terrana à 11. di Settembre 1307 doppo ratificato in Finari l'istesso anno. come riferisce Barone, [De Maiestat. Panorm. litt. C.] raggionando di questa casa Carretto nel suo libro: l'istesso che ci confirma il testamento nel 1311. à 27 di decembre 10 Ind. e poscia publicato à 22 di Gennaro del 1313. nell'atti di Not. Pietro di Patti ...»
[35]) Citiamo sempre da La Cartagine Siciliana (pag. 228 e ss.):  Venne Costanza per la morte di federico Padre ad esser Signora, e padrona dell'opolenta eredità paterna; e dal suo matrimonio nascendo Antonio del Carretto primo genito, li fece doppò libera e gratiosa donatione della Terra di Rachalmuto: come appare nell' [pag. 229] nell'atti di Notar Rogieri d'Anselmo in Finari à 30 d'Agosto 12. Ind. 1344. quale insin ad hoggi detta famiglia Del Carretto possede.
[36]) Diario della città di Palermo dai mss. di Filippo Paruta e Niccolò Palmerino - in Diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX, per cura di Gioacchino Di Marzo, Vol. I - Palermo 1869  pag.  136.
[37]) Varie cose notabili occorse in Palermo ed in Sicilia, copiate da un libro scritto da Valerio Rosso. 1587-1601 in Diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX, per cura di Gioacchino Di Marzo, Vol. I - Palermo 1869  pag.  283.
[38]) Aggiunte al diario di Filippo Paruta e di Nicolò Palmerino, da un manoscritto miscellanio segn. Qq C 28 in Diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX, per cura di Gioacchino Di Marzo, Vol. II - Palermo 1869, pag. 24 e ss.

[39]) Diario delle cose occorse nella città di Palermo e nel regno di Sicilia dal 19 agosto 1631 al 16 dicembre 1652, composto dal dottor D. Vincenzo Auria palermitano, dai manoscritti della Biblioteca Comunale ai segni Qq C 64 a e Qq A 6, 7 e 8, in  Diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX, per cura di Gioacchino Di Marzo, Vol. III - Palermo 1869, pag. 359 et passim.

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