domenica 9 agosto 2015

i del carretto

Peste e tasse a Racalmuto
Il carteggio illumina sull’esoso fiscalismo spagnolo ai danni dell’università feudale ed ha tratti inquietanti circa la disumanità viceregia.
Nel 1576 si era abbattuto su Racalmuto una immane pestilenza che ebbe pure a colpire l’Italia intera.
Del pari sconvolgente dovette essere lo scenario racalmutese: leggiamo nel carteggio che «per lo contaggio del morbo che in quella s’ha ritrovato che sono stati morti da tre mila persone [a Racalmuto]  restano solamente ... due mila e quattrocento delli quali la maggior parte sono fuggiti assentati e rovinati ...».
Nel precedente Rivelo del 1570  Racalmuto in effetti contava 5279 abitanti; ma in quello del 1583 scenderà ad appena 3823: una flessione che sinora nessuno era riuscito a spiegarsi e che Sciascia scarica sui del Carretto e sulle  sue tasse enfiteutiche del terraggio e del terraggiolo [Morte dell’Inquisitore, pag. 181].
Confesso che anch’io ero scettico su questo crollo demografico di Racalmuto prima della consultazione dei documenti del Fondo Palagonia. Ancor oggi non è che creda in pieno in questo tracollo: ci fu un’opportunità per sgravi fiscali e si cercò di scontare la tragedia della peste racalmutese del 1576 con qualche beneficio tributario.
Tuttavia, la flessione vi fu e forte. I nostri antichi progenitori parlano di un dimezzamento della popolazione nel vano intento di intenerire gli agenti delle tasse palermitani; ma per bocca del viceré don Carlo d’Aragona e della sua corte Sucadello, De Bullis ed Aurello, costoro non se ne diedero per intesi. Le “tande” - o più graziosamente “donativi” - andavano pagate sino all’ultimo grano a Sua Maestà Cattolica il re di Spagna. Ed andavano pagate anche le tasse arretrate, senza ulteriori indugi.
V’è agli atti una secca e perentoria negativa alla seguente perorazione dei Giurati racalmutesi:
«Ill.mo et Ecc.mo Signore, li Giurati della terra di Racalmuto exponino à vostra Eccellenza, dovendosi per l’Università di quella Terra molta quantità e somma di denari alla Regia Corte cossì per donativi ordinarij, et extraordinarij et altri orationi [per oblationi ?] fatti per il Regno à Sua Maestà,  come per le tande della Macina, non havendo quelli possuto satisfare per lo contaggio del morbo che in quella s’hanno ritrovato  ... ,  à vostra Eccellenza l’esponenti hanno supplicato che se li concedesse à pagare quel tanto che detta università deve alcuna dilattione competente [e che ] à detta Università fossero devenute [condonate] li tandi maxime quella della macina che si doveva pagare ..»
La burocratica risposta palermitana è spietata: la decisione (provista) di Sua Eccellenza si compendia in un “non convenit” “non conviene”. La tragedia racalmutese agli occhi palermitani si traduce in una gretta questione di convenienza. L’abbuono di tasse non è ammesso, non conviene alle esigenze del bilancio dello stato. Una storia dunque che si ripete; un localismo, il nostro, quello di Racalmuto,  che ha valenza oltre il tempo, oltre la landa municipale. Altro che isola nell’isola ..
Remissivamente i giurati di Racalmuto nel 1577 accettano il loro fato e fatalisticamente annotano:
[Ma tale petizione non ha avuto esito] “per lo chi attendo [attesa] la diminutione delle persone morti è stato per vostra Eccellenza provisto quod non convenit quo ad dilactionem [ f. 228] e poiche l’esponenti per li Commissarij che alla giornata si destinano contro loro, e detta città per l’officio del spettabile percettore s’assentano, e non ponno ritrovare modo alcuno di satisfare à detta Regia Corte e se li causano eccessivi danni, et interessi supplicano Vostra Eccellenza resta servita concederli potestà di poter fare eligere persona facultosa, poiché pochi vi sono in detta Terra di poter vedere augumentare, e raddoppiare alcune delle gabelle di detta università, e fare quel tanto che per consiglio si concluderà, acciò potersi sodisfare nullo preiudicio generato ad essa università circa detta diminuttione, e difalcatione che hanno supplicato doversi fare à detta Terra per detta mortalità, e mancamento di persone, e resti servita Vostra Eccellenza  sia quello mezzo che si concluderà quello che di sopra si è detto per detto consiglio concederli dilattione almeno di mesi due, altrimente stando assentati non potriano effettuare cosa alcuna e detta Regia Corte non verria ad esser sodisfatta ne tenendo detta università modo alcuno di sodisfare, ne tener altro patrimonio ut Altissimus. ..”»
La messa in mora  della locale amministrazione per ritardo nel versamento delle tande sulla macina scatena dunque la cupidigia di commissari palermitani sguinzagliati nel malcapitato paese moroso ad esigere, oltre alle imposte, pingui “giornate” (le attuali diarie per missioni) e ad aggravare le esauste finanze locali  «con eccessivi danni ed interessi».
Si accordino - si chiede da Racalmuto - due mesi di dilazione per trovare un sistema di reperimento dei fondi ed assolvere il cumulo tributario.
Questa seconda istanza viene accolta. Ma l’invadente autorità viceregia detta una serie di disposizioni sui modi, tempi e luogo delle procedure per un nuovo sovraccarico fiscale sulla cittadinanza racalmutese.
Il carteggio qui va attentamente studiato raffigurando istituti, costumi, organizzazioni pubbliche e territoriali del primo secolo dell’epoca moderna. Hanno una originalità che non mi pare sia stata debitamente messa in luce dalla cultura storica degli accademici.
Viene fuori uno spaccato dell’organizzazione statuale che non può ridursi al mero dato tributario (la gabella per assolvere gli oneri fiscali) ma che fa trasparire una vocazione democratica impensata. Per sopperire alle necessità tributarie, Racalmuto assurge al ruolo di Comune libero, democraticamente organato, con una sua assise plebiscitaria, avente poteri decisionali.
L’ordine, certo, arriva da Palermo, dall’autorità centrale, ma è ordine volto ad attivare le istituzioni democratiche comunali. Con aperture sociali che gli attuali consigli comunali sono ben lungi dall’avere, è il popolo che viene chiamato a raccolta, è il popolo che decide sui propri ineludibili gravami tributari, ovviamente sotto la guida e la direzione di quella che oggi chiameremmo la giunta comunale: la giurazia.
Affascinano questi passaggi delle carte palermitane:
vi diciamo, et ordiniamo che debbiate in giorno di festa e sono di campana come è di costume congregare il vostro solito consiglio sopra le cose contenute nel preinserto memoriale, e quello che per detto conseglio seù maggior parte di quello sarà concluso, et accordato, e sigillato lo trasmitterete nel Tribunale del real Patrimonio acciò di quello fattone relatione possiamo provedere come conviene. - data Panormi 11. Martij 5^ ind. 1577. Don Carlo d’ Aragona - Petrus Augustinus Sucadellus  ... conservatore [f. 229] Marianus Magister Rationalis, de Bullis Magister Rationalis, Franciscus de Aurello Magister Notarius, ..»
Il Consiglio comunale si svolge nella chiesa dell’Annunziata - che anche allora, molto prima che nascesse don Santo d’Agrò, era bene operante a Racalmuto -  ed abbiamo anche il verbale consiliare che mi pare opportuno rileggere, almeno nelle sue parti essenziali:
Racalmuti die 25. Aprilis 5^ Ind. 1577.
Die festivo supradicti Martij in Ecclesia Sanctae Mariae Annuntiatae dictae Civitatis existens in platea publica.=
Perche ritrovandosi l’università di questa Terra di Racalmuto debitrice in molta somma cossì alla Regia Corte

è stato supplicato da parte di detta Università per li Giurati di quella à Sua Eccellenza che per li detti debiti se li concedesse dilatione competente per potersi ritrovare il modo di quelle sodisfare, et in quanto à quelli della macina poiche avendosi fatto offerta à Sua Maestà, et ordinatosi quella dovere pagare per poche di persone di tutte città, e terre del Regno à raggione di denari novi per ogni tummino [f. 230] che per il ripartimento e numero di persone che allora vi erano in detta terra tocca à detta Università pagare in due tande once 24.5.11.2.
e vedendosi che tuttavia detta Università non si vederà libera à tal debito supplicano detti Giurati un’altra volta à Sua Eccellenza che resti servita concederli potestà di poter eligere persone facultose, ò vendere et augumentare, e raddoppiare alcune delli gabelle di detta Università, e fare quel tanto che si potesse per consiglio concludere acciò si potesse detta Università liberare di tal debito et interesse nullo prejudicio generato à detta Università sopra la diminutione, e difalcatione che se li deve fare per detta Regia Corte stante le raggioni predette come si contiene per memoriale alli quali s’abbia in tutto relatione [f. 231] et essendo stato provisto per la prefata Eccellenza Sua e Tribunale del Real Patrimonio che si congregasse sopra le cose contente in detto memoriale consiglio, e quello si trasmettesse per poter provvedere come convenisse, per ciò s’ha devenuto alla congregatione del presente consiglio come intesa la presente proposta habbiano sopra le cose prenominate ogn’uno possi liberamente dire il suo voto, e parere.
Il Magnifico Vincenzo d’Randazzo uno delli Magnifici Giurati di detta Terra, e locotenente del Magnifico Capitano di quella, è di voto, e parere che s’aggiongano onze quaranta di rendita da pagarsi quolibet anno come meglio e per manco interesse di detta Università si potrà accordare con quelle persone che vorranno attendere à tal compra di rendita.

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Per inciso, richiamiamo l’attenzione sul menzionato giurato racalmutese del 1577 Vincenzo Randazzo che sembra farla da presidente della giurazia. Viene indicato con il titolo di Magnifico, ma è plebeo, forse appartenente alla piccola borghesia agricola, un “burgisi” come si direbbe oggi. La madre di Diego La Matina era una Randazzo, famiglia questa genuinamente racalmutese. Il padre di Diego La Matina, Vincenzo era invece figlio di un oriundo da Pietraperzia.
Ritornando al nostro tema del carteggio del 1577, resta evidente che vi si trova uno spaccato della vita pubblica comunale, dal taglio democratico, con istituzioni pubbliche che esulano dal diritto romano e da quello del sorgere dello stato moderno; affiora qualche dato che fa pensare alla tipica organizzazione greca della Polis, con la sua Ecclesìa, e con il ricorso al voto cittadino espresso in una solenne adunanza tenuta nell’Ecclesiastérion.
Al suono della campana della Ecclesia dell’Annunziata, sita nel centro della grande piazza di Racalmuto che dal vecchio Santissimo si allargava nello spiazzo ove ora sorgono le torri campanarie della Matrice e si riversava nell’attuale Piazza Castello per risalire nel largo ove ora sonnecchiano i palazzotti degli invadenti Matrona [la vaniddruzza di Matrona].
Nel confrontare l’attuale assetto urbanistico con  quello che l’ex voto del Monte ci fa intravedere, c’è da esecrare la mania piccolo borghese degli arricchiti di Racalmuto dello scorso secolo di piazzarsi con i loro casamenti sopraelevati sulle case terrane (o al massimo solerate) nel bel mezzo della storica piazza dell’Università di Racalmuto. E dire che riuscirono a farsi credere anche dalle menti più elette del nostro paese  come dei benemeriti filantropi!
Certo marginale appare il ruolo dei del Carretto in questa vicenda fiscale. Quel che rileva è il ricorso pubblico al prestito, quello cioè che oggi avviene tra i Comuni e la Cassa Depositi e Prestiti. Solo che allora per Racalmuto siffatta Cassa DD.PP. era nient’altro che uno strozzino di Agrigento, tal Caputo, superriverito ed adulato dal pubblico notaio.
Popolazione racalmutese nel 1577
Sembra opportuno tracciare il grafico della popolazione di Racalmuto che tenga conto dei dati del carteggio del 1577.
La curva dell’andamento demografico della Racalmuto del ’500 si avvalla vistosamente, come è ovvio, nell’anno della peste del 1576, e così si dispiega:





Il crollo demografico del 1576, come si vede, sembra irreversibile (anche se fu dovuto  più alla fuga che alla morte dei racalmutesi: i superstiti quindi ebbero poi modo di ritornare nelle loro case di paese, lasciando - riteniamo - quelle di campagna). Occorrerà aspettare il 1658 (un secolo) per risalire a quota 5.165 e solo nel 1660 la popolazione supererà quella del 1570 assestandosi sui 5488 abitanti.
Quanto alle finanze locali, la crisi del 1577 fu in qualche modo tamponata; il bilancio comunale toccherà nel 1593 un disavanzo di appena 28 onze, un tarì e quattro grani (460 onze  d’introito ed onze 488, tarì 1 e grana quattro d’esito). La forte pressione fiscale - tutta basata sulle imposte indirette - finì di certo in una asfissiante strozzatura dei consumi da parte dei poveri. I proventi dalle rinomate salsicce racalmutesi furono pressoché nulli: pane, foglie, pilo, vino, formaggio, legname, pesci e qualche altra voce diedero un gettito tributario che si volatilizzò essenzialmente per le spese militari e per oltre la metà per ciò che era dovuto alla regia Corte a titolo imprecisato. Inoltre si pagavano sei onze annue per “tande”.

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Terraggio e terraggiolo sotto il primo conte di Racalmuto

In prossimità della morte, Girolamo primo del Carretto riusciva a raggiungere un accordo con i suoi vassalli di Racalmuto. Era l’anno 1580. Il 15 gennaio, a rogito del notaio Nicolò Monteleone di Racalmuto veniva stilata una transazione (transactio et accordium) 7 tra il conte e l’università variamente articolata; tra l’altro i cittadini e gli abitanti di Racalmuto s’impegnavano per loro e per i propri successori di corrispondere al conte e suoi successori il terraggiolo (tirragiolum) in ragione di due salme di frumento per ogni salma di terra seminata dai racalmutesi fuori del territorio dello stato comitale.

Il carteggio relativo a tale transazione del 1580 è disponibile presso il Fondo Palagonia dell’archivio di Stato di Palermo. Per i riverberi sulla storia locale, ci si deve qui dilungare nello stralciare ampi passi.
Iniziamo dal testo della lettera inviata dai deputati racalmutesi eletti in un apposito consiglio del 1580:
«Illustrissimo et eccellentissimo Signore, Bartolo Curto, Pietro Barberi, Giacomo Capobianco, Angelo Jannuzzo, Antonuzio Morreale, Cola Macaluso, Pietro Macaluso, Antonio Lo Brutto, Vito Bucculeri, Pietro d’Alaymo, Joan Vito d’Amella, Antonio Gulpi e Giacomo Morreale, li quali furo deputati eletti per consiglio congregato circa la questione e lite vertenti tra l’altri, e l’illustris.mo Conte di Racalmuto in la R.G.C. esponino a Vostra Eccellenza che sono più anni che in detta R.G.C. ha vertuto lite fra detto conte e suoi antecessori in detto contato ex una, e li Sindaci di detta terra ex altera sopra diversi pretenzioni, particularmente addutti nel libello, e processo fra loro compilato per li quali intendiano detti Sindaci essere esenti, e liberi di certi raggioni e pagamenti, come in detto processo si contiene, e poichè s’have trattato certo accordio fra esso conte ed essi esponenti come deputati eletti per detta università circa le pretentioni predetti, e circa il detto accordio s’hanno da publicare per mano di publico notaro per comuni cautela dell’uno, e l’altro, e stante che è notorio che detti capitoli s’habbiano da publicare con vocarsi per consiglio onde habbiano da intervenire li genti di detta università, e la maggior parte di quella per ciò supplicano a V. E. si degni restar servita provedere che s’abbia a destinare uno delegato dottore degente in la città di Girgenti per manco dispendio (o di spesa) dell’esponenti, e benvista a V.E. il quale s’abbia da conferire in detta università di Racalmuto,, ed in quella abbia da congregare consiglio si la detta università è contenta si o no di pubblicare il detto atto d’accordio, li quali si abbiano di fari leggiri per il detto delegato a tutte le persone che interverrano in detto consiglio per potersi stipulare il detto atto con lo consenso di tutta l’università, o maggior parte di quella - e restando l’esponenti d’accordio V.E. sia servita al detto delegato concederli autorità, e potestà di tutto quello e quanto sarrà concluso per detto accordio che possa interponere l’authorità, potestà, e decreto di V.E. e sopra questo possa interponere perpetuo silenzio, e decreto con tutte le clausole, e condizioni solite, e necessarie farsi in detti atti ut Altissimus. »
La curia viceregia acconsente ed impartisce le opportune istruzioni con lettera Data Panormi die vigesimo nono Februarij nonae Ind. 1580.
Il 3 gennaio 1581 si presenta a Racalmuto il magnifico ed esimio Ascanio de Barone della città di Agrigento con le sue credenziali. Il successivo giorno 5 si aprono i lavori del «Consilium congregatum » sotto la presidenza dell’esimio signor Ascanio de Barone “ad sonum campanae in maiori Ecclesia terrae Racalmuti die dominicae” chiamati e convocati i due terzi del popolo. I giurati Lorenzo Giustiniano, Giacomo Monteleone e Antonio Alaimo assicurano la regolarità della convocazione e certificano la presenza del numero legale. L’ordine del giorno consiste nell’approvazione dell’accordo fatto con l’illustre don Girolamo del Carretto.
 Viene subito introdotto l’argomento:
Magnifici Nobili, et persone decorate [a.v.: honorati] et altri populani, siti congregati in questo loco; sapiti ch’avendosi  tanto tempo  ed anni litigato infra l’università di questa terra con li spettabili illustri ed illustrissimi signori Baroni e Conti di questa terra sopra alcuni pretenzioni ed esenzioni di tirraggi di fora [a.v.: supra alcuni pretenzioni et exemptioni di alcuni soluptioni di dupli terragi di fora] et altri esenzioni come più largamente si contiene per lo libello e processo contenti nella R.G.C. con detti spettabili ed illustri signori Baroni e Conti di questa sudetta terra, ed avendosi tant’anni litigato non s’have mai finito per tanto si congregao consiglio, e si elessero deputati lo magnifico Gio: Vito d’Amella, Bartolo Curto, Pietro Barberi, Cola Capobianco, Angelo Jannuzzo, Antonuzio Morreale, Cola Macaluso, Pietro Macaluso, Antonino lo Brutto, Pietro d’Alaymo, Antonino Gulpi e Giacomo Morreale, li quali deputati esposiro a S.E. e R.G.C. che avendo più anni litigato in detta R.G.C. con li predecessori dell’illustre signor Conte di questa terra di Racalmuto ed anche con detto signor conte sopra diversi pretenzioni d’essere esenti e liberi di diversi raggioni e pagamenti in detto processo e libello addutti, e contenti, e che s’ave trattato accordio fra l’università e detto signor conte, e sopra ciò fatti certi capitoli li quali s’hanno da publicare per notaro publico per commune cautela ed era di publicarsi con la volontà della maggior parte del Popolo congregato per consiglio supplicando S.E. resti servita provedere e comandare che si destinasse un delegato in questa terra per congregare detto consiglio, ed essendo la maggior parte contenta dell’ accordio, farrà leggere li capitoli ed essendo contenti quelli detto delegato farrà publicare, e stipulare ed interponere l’authorità di S.E. e R.G.C. per ciò S.E. mi ha destinato delegato in questa terra, undechè personalmente mi conferisca a congregare detto consiglio, ed intendere la vostra volontà se volete accordio per questo siti convocati in questa maggior chiesa acciò ognuno di voi dasse il suo parere [a. v.: siti convocati in questa maggior Ecclesia a tal che ogn’uno di voi dugna lo suo pariri e vuci si vuliti accordio], se volete accordio con detto signor conte, perché volendo accordio si leggiranno li capitoli che mi sono stati presentati per detti deputati e notar publico, ed essendo contenti di detti capitoli per voi s’eligeranno dui Sindaci e procuratori per potere quelli publicare e fare instrumento pubblico con li soliti obligazioni,  renunciationi, stipulazioni giuramento firmato in forma, alli quali Io come delegato di S.E. e R.G.C. interponissi l’autorità e decreto acciò omni futuro tempore s’habbiano inviolabilmente osservare siché ogn’uno venga, e dona la sua vuci, e pariri, lo magnifico Gio: Vito d’Amella capo di detta terra di Racalmuto dice che è di voto, e parere, e si contenta che si faccia accordio stante li lite e questioni che sono stati et su infiniti e sono immortali e non hanno mai diffinizioni e sono dubbij ed incerti e per evitarsi tante spese che s’hanno fatto e si potranno fare tanto più che s’ha visto la buona volontà dell’illustrissimo signor conte lo quale per li capituli ni ha fatto molte grazie ed esenzioni in favore di quest’Università di Racalmuto e non facendosi accordio interim esigirà come per il passato s’have fatto e perché in l’accordio e in mancari quelle raggioni che siamo obligati paghari per questo è contente come è detto di sopra che si faccia detto accordio e si leggano li capitoli e doppo si contratta in forma; lo magnifico Lorenzo Justiniano giurato contiene [a.v.: concurri] con il detto magnifico Gio: Vito d’Amella, 

Già tutti voi esistenti in lo consiglio aviti inteso leggiri detti capitoli per notar Cola Monteleone si restati contenti di detti capituli ognuno dugna la sua vuci, e pariri, ed eliggia dui sindaci e procuraturi ad effetto di putiri publicare detti capituli e farsi istrumento publico con suoi patti renunciazioni cum juramento firmati in forma, lo magnifico Joan Vito d’Amella capitano di detta terra dici ed è di pariri che si contenta di detti capitoli letti nelli quali ci sù multi relasciti e gratij fatti per lo signuri Conti, e che si pubblicano ed eliggiasi per sindaci e procuratori ad Antonino Lo Brutto ed Antonuzzo Morreale, ad effetto di putiri fari publicari detti capitoli dictae universitatis con li soliti obligazioni stipulazioni juramento fitmati in forma; lo magnifico Lorenzo Justiniano concurri con detto d’Amella; lo magnifico Giacomo Monteleone ut proximus, lo nobile Antonino d’Alaymo ut proximus et sic omnes et singulae prenominatae personae concurrerunt cum dicto de Amella et de Monteleone de Justiniano et de Alaymo, capitaneus et jurati,
Capitoli dell’accordio si fà infra l’illustrissimo signor D. Hieronimo Carretto conte della terra di Racalmuto e per esso suoi figli utriusque sexus et suoi eredi e successori in dicto statu

Capitoli dell’accordio si fà infra l’illustrissimo signor D. Hieronimo Carretto conte della terra di Racalmuto e per esso suoi figli utriusque sexus et suoi eredi e successori in dicto statu

per lo quali si havi di promittiri di rato iuxta formam ritus di ratificari lu presenti contrattu à prima linea usque ad ultimam, ita che li masculi d’età si habbiano da fari ratificari infra mesi due da contarsi d’oggi innanzi, e li minuri quam primum erunt maioris aetatis cum pacto et condictione che la persona che rathifichirà s’habbia d’obligare di rato per li suoi figli utriusque sexus, e cossì li figli di figli in infinitum intendo per quelli che haviranno di succediri in detto stato e terra di Racalmuto, e non altrimente ne per altro modo s’intenda detta promissione di rato ut supra di l’una parti, e Bartolo Curto, Pietro Barberi, Cola Capobianco, Angelo Jannuzzo, Antonuzzo Morreale, Cola Macaluso, Pietro Macaluso, Antonino Lo Brutto, Vito Bucculeri, Pietro d’Alaymo, Joan Vito d’Amella ed Antonio Gulpi eletto di nuovo per la morte dello quondam Jacobo Morreale, deputati eletti per consiglio circa la questione e liti vertenti tra lo detto illustre signor conti e l’università di detta terra in la R.G.C. ed altri differentij che tra loro sono stati, in lo quali accordio s’intenda e sia imposto perpetuo silentio:
Testes magnificus Marianus Catalano, magnificus dominus Antonutius Cirami Ar: et Med:  doctor, magnificus Gaspar Lo Giudice, Mazziotta di Neri, Franciscus la Vecchia de civitate Agrigenti, reverendus d. Joseph de Averna, clericus Orlandus de Averna, reverendus pater Monserratus de Agrò et magnificus Hieronimus Riggio.
Ex actis quondam notarij Nicolai Monteleone extracta est presens copia per me notarium Michaelem Castrojoanne Racalmuti; dictorum actorum conservatorem collectione salva.
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Nei 27 articoli dell’accordo tra l’università di Racalmuto e il conte del Carretto abbiamo uno spaccato della vita sociale e civile del nostro paese, nell’ultimo ventennio del Cinquecento.
All’art. 1 abbiamo la singolare angheria di una gallina o di un galletto che ogni allevatore di polli doveva al governatore del castello, anche se a prezzo prestabilito.
All’art. 2 scatta il divieto di andare a lavare i panni alla fontana. La fontana dei nove cannoli c’era dunque anche allora e doveva avere l’aspetto che si arguisce dall’ex voto del Monte.
All’art. 3 viene imposta la macina nei mulini del conte, anche se ne viene attenuato il rigore con una disciplina abbastanza elastica. Interessante il richiamo ai mulini del Raffo, di cui ancor oggi è possibile ammirare la perizia della realizzazione, una pregevole opera di ingegneria idraulica del ’500.
L’art. 4 disciplina l’istituto della “baglia”, una magistratura feudale che giudicava dei piccoli forti e riscuoteva le multe per contravvenzioni ai locali regolamenti di polizia. 
L’art. 5 compendia norme sulla gabella della carne bovina, vaccina, ovina.
L’art. 6 getta spiragli di luce sulle intollerabili angherie personali che massari, donne di servizio, lavoratori subivano da parte della corte feudale.
L’art. 7 è quello nodale: reimposta i diritti di terraggio e di terraggiolo al centro dell’annosa controversia con il conte. Emergono arretrati d’imposta che i racalmutesi non hanno alcuna voglia di estinguere.
L’art. 8 esonera dal terraggio sul lino, che non crediamo dovesse essere intensamente coltivato.

L’art. 11 impartisce disposizioni sulle modalità delle estirpazioni delle vigne e sulle licenze comitali occorrenti.
L’art. 10 concerne la nomina del “rabbicoto” il commissario per il grano.
L’art. 11 contiene giusti divieti ad esigere le contravvenzioni della baglia  in natura come frumento, bestiame, etc.
L’art. 12 concerne le tasse feudali sui mosti.
Con l’art. 13 viene stilato un nuovo accordo sul terraggiolo.
L’art. 14 reimposta invece il diritto del terraggio.
L’art. 15 scende in dettaglio e disciplina i diritti dovuti quando gli abitanti di Racalmuto detengono campi di stoppie fuori dello stato o mantengono vacue le terre al di fuori del territorio feudale.
L’art. 16 ribadisce e approva la consuetudine circa il modo di tenere le bestie al tempo della mietitura nel territorio e nel feudo di Racalmuto e di Garamoli.

Con l’art. 17 viene disciplinato il diritto di portar seco animali quando si va a coltivare vigne o ‘chiuse’.
Con l’art. 18 si concede una sorta di sanatoria per le  vendite abusive di abitazioni all’interno dell’abitato di Racalmuto.
L’art. 19 detta norme sui tempi e modi di addurre prove nei processi.
L’art. 20 stabilisce una transazione sulle spese processuali fin allora sostenute, una sorta di reciproca rinuncia alle rispettive pretese.
Con l’art. 21 si stabilisce un rinvio ricettizio delle norme e consuetudini per quanto non espressamente previsto e stabilito.
L’art. 22 contiene l’assicurazione da parte del conte che per l’avvenire non potranno essere imposti nuovi tributi, servitù, angherie e consuetudini se non nelle forme pattizie concertate con il consiglio dell’Università.
L’art. 23 attiene alle forme pubbliche da conferire all’accordo che si è raggiunto.
L’art 24 stabilisce il terraggio per le terre “strasattate”.

L’art. 25 prevede la perpetuità degli obblighi contratti sia da parte del conte che da parte dell’Università.
L’art. 26 disciplina il terraggio in misura ridotta per le terre ingabellate inferiori a salme 50.
L’art. 27 stabilisce il numero massimo di bestie che possono tenersi nel territorio di Racalmuto, Garamoli e Culmitella, presumibilmente in esenzioni d’imposta.
L’organizzazione feudale del centro agrario di Racalmuto.

Sorprendentemente, i religiosi del Carmelo di fine ’500 detenevano tutta una documentazione8 sugli strani debiti di uno di tali rami cadetti.  Se ne ricava uno spaccato dell’organizzazione feudale di un centro agrario qual era Racalmuto. Con una “polisa” il 15 febbraio del 1569 il barone di Sciabica, don Federico del Carretto s’indebita con Antonio Pistone. «Io don Fidirico del Carretto per la presente polisa mi fazzo debitori ad Antoni Pistuni in salmi quaranta e tummina setti di frumento forti et sunno li detti ad complimento di salmi 70, tt.a 7 si comi chi mi prestao hora dui anni in lo fego di la Menta quali frumenti prometto darli per tutto lo misi di augusto proximo da veniri et ad sua cautela hajio fatto la presenti polisa scripta di mia propria mano in Girgenti a di 15 di frebaro XIJ^ Ind. 1579, dico salme 40 e tt.a 7 - ditto don Fiderico del Carretto.»
Quale il rapporto sottostante di questa transizione di frumento della Menta, non è dato di sapere. E’ da pensare ad una speculazione granaria. Il nobile agrigentino, un cadetto della celebre famiglia, ha entrature a Racalmuto. Qui pare che non manchino gli abbienti come questo Antonio Pistuni che può tranquillamente prestare ingenti quantità di frumento. Federico del Carretto cessò di vivere qualche anno dopo.
Si ricorda dei suoi debiti nel testamento: «E’ da sapere - si può volgere dal latino - come fra gli altri capitoli del testamento fatto  a mio rogito il 9 novembre p.^ Ind. 1572 dal quondam spettabile signor don Federico del Carretto un tempo barone di Sciabica, sussista l’infrascritto capitolo del seguente tenore:
«Del pari lo stesso spettabile testatore volle e conferì mandato che qualsiasi persona dovesse ricevere od avere dal detto spettabile testatore qualsiasi somma di denaro o quantità di frumento, di orzo o di altro sia saldata dalla propria moglie secondo diritto a valere sui redditi del detto spettabile testatore, sempreché quei debiti appaiano in atti pubblici o con testi degni di fede o in scritture ricevute da qualsiasi curia. E ciò volle  e non altrimenti né in altro modo.»
«Faccio fede, io notaio Giovan Battista Monteleone».
Vi è un atto esecutivo della Gran Corte del XV luglio 1573 dai toni pomposamente ultimativi ma che in definitiva non fanno altro che confermare i fatti suesposti.
La curialità cinquecentesca non scherzava davvero: «secondo la forma della nuova Prammatica, si dovrà procedere con l’accesso ed il recesso e per la soddisfazione di cui sopra pignorando qualsiasi bene e vendendo quelli privilegiati ... carcerando e scarcerando ed operando l’estradizione da un luogo ad un altro o da un castello all’altro ...» Ma ci limitiamo agli atti formali della locale curia racalmutese, emergendone procedure, figure locali,  personaggi pubblici.
«Racalmuto 28 gennaio 1572 - atti contro donna Eleonora del Carretto per Gaspare La Matina, baiulo.
«Testi ricevuti - alcuni passi sono in latino, ma qui ne diamo la traduzione - ed esaminati a cura dello spettabile baiulo della terra di Racalmuto ad istanza e richiesta di Antonuzzo Pistuni avverso e contro la spettabile donna Eleonora del Carretto tutrice testamentaria dei propri figli e figlie, eredi del quondam spettabile don Federico del Carretto suo marito, in ordine alla verifica dei documenti.»

Identica relazione fanno i sotto indicati personaggi:
11* nob. Giovanni Antonio Piamontisi, Secreto della terra di Racalmuto, con don Federico ha avuto “pratica et canuxi la sua manu”;
12* magnifico Jo: Saguales di Racalmuto, «che canuxi essiri la manu propria del ditto quondam et che ni havj multi polisi de causa sua et interrogatus dixit scire premissa per modum ut supra ditta sunt..»;
13* hon. Vincenzo Lo Perno di Racalmuto, «como pratico che era con lo ditto quondam don Fiderico ...»;
14* Diacono Martino Rizzo di Racalmuto, il quale «vitti quando ditto quondam don Fiderico scrivia la ditta polisa et la vitti scriviri et la ditta polisa scripta che fui l’appi in potiri lo ditto di Pistuni ....»;
15* Reverendo don Alerico Tudisco di Racalmuto, che sa «come quillo che a pueritia usque in diem obitus canuxi a ditto quondam del Carretto et canuxi essiri ditta polisa la sua propria manu modo quo supra...».
Risulta il tutto dagli atti della curia del baiulo della terra di Racalmuto, essendone stata fatta copia dal maestro notaro Giuseppe de Ugone (gli Ugo del Rivelo).
Sotto Girolamo I Racalmuto dunque consolida il suo vivere contadino: il conte è lontano, ma i suoi esattori onnipresenti. L’accordo è tutto a favore del feudatario. I racalmutesi non lo gradirono; cercarono di aggirarlo; lo contestarono. Le contese continuarono sotto tutti gli altri conti di Racalmuto. Fino al tempo dei Requisenz, quando il prete Figliola e l’arciprete Campanella riuscirono a far caducare dalla corte borbonica il terraggio ed il terraggiolo. Era il 28 settembre 1787 quando il Tribunale borbonico sentenziò: “ius terragii et terragiolii tam intra, quam extra territorrium declaratur non deberi”.
Ecco perché ci appaiono settari gli aculei che Sciascia (sull’onda degli anatemi del Tinebra) scagliò contro il solo - ed appena ventiquattrenne - Girolamo II del Carretto: ben altre erano le responsabilità dei predecessori; ancor più inique le pretese dei suoi successori e persino dei feudatari settecenteschi che non portavano più l’esecrato nome dei del Carretto.
Oltre ad una caterva di figlie femmine, Girolamo I del Carretto lasciò tre figli maschi: Giovanni IV, suo successore nella contea di Racalmuto, Aleramo, che diverrà conte di Gagliano e resterà famoso per gli abusi amministrativi, ed un tal Giuseppe, di cui si occuparono le cronache nere del tempo.

GIOVANNI IV DEL CARRETTO


Giovanni IV del Carretto fu un torbido personaggio di cui ebbero ad occuparsi le cronache nere del tempo, anche dopo la sua morte. Ma fu un personaggio che visse, operò, uccise e fu ucciso in quel di Palermo. Crediamo che a Racalmuto non abbia mai messo piede. Fece amministrare i suoi beni racalmutesi da un genero (Russo) che dovette essere parente della prima moglie e che fu sposo della figlia illegittima Elisabetta, alla quale però il conte teneva tanto da legittimarla.
Tinebra Martorana ed Eugenio Messana spendono varie pagine ad illustrare la figura di questo Giovanni del Carretto: i fatti di sangue che lo riguardano destano curiosità ed interesse cronachistico, anche a distanza di secoli. Non sono però molto attendibili questi nostri due storici locali. Sciascia, sul nostro conte Giovanni IV del Carretto, ragguaglia sapientemente nella sua ricostruzione  delle vicende di fra Diego La Matina (vedasi la pag. 185 della Morte dell’Inquisitore, ed. 1982 cit.)
Ad onta del fatto che il conte se ne stava a Palermo, o forse appunto per questo, Racalmuto prospera dopo la terribile peste del 1576. Divenuto contea, sistemata in qualche modo la faccenda del terraggio e del terraggiolo sotto Girolamo I, questo nostro centro attira contadini, mastri, piccoli imprenditori, anche usurai specie da Mussomeli, e diviene un paesone enorme per quei tempi: il rivelo del 1593 annovera circa quattromila e cinquecento abitanti, e molti di loro hanno patrimoni apprezzabili.
In un siffatto contesto demografico, il ‘rivelo’ del 1593 si colloca come il primo censimento che si ispira ad un certo rigore statistico. Si può pensare che ciò si deve alla lontananza del conte Giovanni del Carretto. In questi anni, infatti, Giovanni del Carretto è nel bel mezzo della sua bufera giudiziaria. Vi era incappato per una vicenda avvenuta attorno al 1590.
Ecco come ce la racconta un suo parente Vincenzo di Giovanni 9 «In questi tempi [tra il 1589 ed il 15 maggio 1591] successe che essendo  riportato a D. Giovanni Carretto, conte di Racalmuto, che Gasparo la Cannita gli faceva mal’opera riportando alcune sue opere, ed avendo colui lasciatosi trasportar dalla colera, dicendo contro quello parole ingiuriose, il detto della Cannita ebbe ardire di mandargli un disfido per una lettera, dicendogli che aspettava la risposta in Napoli.
 Gli mandò dietro il conte per farlo castigare della presunzione; ma fûro i messi ingannati ivi da quei, che gli avevano promesso far l’effetto: il che sentì gravemente il conte, ed attese a procurar meglio ricapito.
In questo, sentendo il conte di Albadalista, viceré in questo regno, tal negozio, fé venire il Cannita su la sua parola per farlo accordare col conte; ed assicuratosi di questo, si conferì a Palermo, non uscendo per la città, per dubbio, che aveva, se non quando andasse in palagio a trattare col viceré.
Tra tanto il conte di Racalmuto, sentita la venuta del Cannita, andava per le spie osservandogli i passi, perché aveva concertato genti per tal effetto.
Lo ingannâro due finalmente, che, offerendosi al Cannita di accompagnarlo a palagio, lo diedero in mano de’ nemici.
Aveva il conte concertato due con due pistole, e quattro per far salvar quelli dopo fatto il caso. Venendo a passare il pover’uomo, gli scaricarono coloro le pistole e l’uccisero; e quelli, che erano per salvarli, sbigottiti fuggirono.
Fuggì uno schiavo del conte: ma l’altro, essendo in fuggire, fu sopraggiunto dal marchese della Favara, e seguitandolo, fu preso e menato al viceré, dicendogli l’eccesso che fatto avea. Se corse [s’indispettì] assai quello, lo fé tormentare, e chiamato il conte, fé cercarlo con grande diligenza. Egli, vestito da monaco, fu uscito in cocchio da D. Francesco Moncata, principe di Paternò, e si salvò in modo, che per molti mesi non se ne seppe nova.
Salvatore lo Infossato, che era stato preso per l’omicidio, fu afforcato; e procedendosi in bando contro il conte, si fé dopo prendere in Messina da gente dell’Inquisizione, e pretese il foro.
Ma vennero lettere di Sua Maestà che fusse dato al viceré, perché era venuto ordine, che i signori non potessero essere del sant’Officio; ed in questo modo il viceré ebbe in potere il conte.
Pensò dargli il tormento della corda, con la clausola ‘citra paejudicium probatorium’, e gli aveva fatto provista, che non si eseguì per venire il giorno di festa con un altro seguente.
Si aspettava il dì di lavoro per eseguirsi la provista , quando la sera precedente venne un estraordinario con lettere, che aveva ottenuto D. Aleramo Carretto, suo fratello, che era alla corte, che soprasedesse il conte viceré sino ad altro ordine. Tra tanto era tenuto il conte di Racalmuto con dodici guardie.
Si adoperò in questo l’imperatore, che con i Carretti si trattava da parente; alle cui intercessioni vennero lettere di Sua Maestà, che il conte per qualche rispetto fusse rimesso al foro: il che sentì molto il conte d’Alba.
Fu rimesso; e fatte le sue defensioni in sant’Officio, dopo dieci anni di travagli e gravissime spese fu liberato, condennandolo solo ad onze mille, da pagarsi alla moglie del defunto, ed onze duecento al fisco. In questo modo ottenne il conte la sua liberazione.»
Il Tinebra Martorana ne fa una fantasiosa ricostruzione a pag. 120-123, apparendo partigiano dei del Carretto e contro il povero La Cannita quando ricama sul testo - invero arduo  - del Di Giovanni (che pure cita come fonte). Eugenio Napoleone Messana ricalca la narrazione, sia pure con qualche personale svolazzo e con qualche arbitraria annotazione (v. pag. 105-107).

L’intrico (veritiero) del conte Giovanni del Carretto.
Il Sant’Offizio.

Ma dobbiamo al Garufi10 queste esplicative note.
«S’aspettava ancora il giudizio della corte di Madrid su questa vertenza [quella relativa al caso Ferrante]  - scrive l’illustre storico - e chi sa per quanto tempo se il Conte d’Albadalista insieme al reclamo non avesse forse fatto pervenire al re le sue dimissioni per mezzo del D.r Morasquino, quando il 19 dicembre ‘89 i due Inquisitori, don Lope Varona e don Ludovico Paramo, spedirono al G. Inquisitore di Spagna, col Cardinale don Gaspare de Quiroga, un altro rapporto11 con le copie d’un nuovo processo contro Don Vincenzo Ventimiglia, e le informazioni su due nuovi fattacci occorsi al fratello del conte di Racalmuto ed ai fratelli La Valle. [...]
[E sono fatti diversi dalle] due sole notizie tramandateci dai contemporanei: l’una riguardante il fatto di “Giovanni del Carretto conte di Racalmuto, rimesso al foro del S. Officio per essere giudicato d’assassinio, fatto commettere appositamente e liberatosi mediante la multa di once mille”, e l’altra riferentesi al caso gravissimo del conte di Mussomeli, che turbò la cittadinanza palermitana e diede origine all’interdizione del regno, volendo l’Inquisitore “sostenere la giurisdizione del S. Tribunale esposta, come dice il Franchina, ad esser gravemente vilipesa”.  [...]».
Ed  il Garufi così illustra il caso che avrebbe coinvolto un fratello di Giovanni del Carretto, Giuseppe del Carretto: « [Dopo avere affrontato la vicenda del Ventimiglia] il rapporto  passa a parlare del fratello del conte di Racalmuto.
«Premetto che non è affatto a dubitare che il sistema di rappresaglia e soprattutto gli interessi materiali abbiano mosso gli Inquisitori a salvare don Giuseppe del Carretto, tramutato  per l’occasione in un misero commensale del fratello conte di Racalmuto “teniente de oficial” del S. Officio.
«Arrestato costui per una serie di gravi ed atroci delitti, a servirci dei termini usati dalla G. Corte, nel luogo della sua dimora, Messina, da cui foro giudiziario per le consuetudini della città non poteva esser distratto, gl’Inquisitori, a favorire il conte di Racalmuto che ne faceva una questione di decoro di famiglia o meglio di salvezza per il fratello, imbastirono le prove necessarie a dimostrare ch’egli era commensale di lui dimorante in Palermo, avendolo alimentato e mantenuto anche a sue spese a Messina: sotto lo specioso pretesto che il diritto di commensalità non si perde finché non sia intervenuta una regolare sentenza di magistrato.
«E giacché la G. Corte suggeriva di definire tale questione per via di consulta, secondo il Concordato dell’80, gli Inquisitori si rifiutarono dicendo:  che “di pieno diritto spettasse loro di giudicare se il del Carretto fosse o pur no commensale del fratello”.
«Affermato codesto principio con la sicumera di un diritto indiscusso, procedettero alle inibitorie ed alle scomuniche, e quindi fu necessario che la G. Corte sospendesse il processo, e il Viceré indirizzasse nuove proteste e nuovi reclami a Filippo II
«La moralità di tutta questa vertenza fu l’assoluzione di del Carretto con un mezzo molto simile a quello già fatto per il fratello di lui, conte di Racalmuto, condannato per assassinio ad una multa di mille fiorini.»
Confessiamo che le vicende ci appaiono piuttosto confuse. Propendiamo, comunque, per l’ipotesi che i due fatti siano interconnessi. Che per primo si ebbe a verificare l’incidente di Giuseppe del Carretto (sicuramente databile prima del 19 dicembre del 1589). La «mal’opera» che  Gasparo la Cannita - un personaggio importante se sta tanto a cuore al viceré Albadalista -  faceva  al conte Giovanni del Carretto riportando alcune sue opere, fu forse una pubblica accusa sul comportamento dell’arrogante conte di Racalmuto in occasione dell’intrigo giurisdizionale  del S. Officio contro la G. Corte per salvare l’omicida Giuseppe del Carretto. Altro che “gravi danni” inferti ai domini del Conte, come vorrebbero Tinebra Martorana ed Eugenio Messana. Dopo, si consuma l’orrida esecuzione del La Cannita, mandante Giovanni del Carretto. Quindi la reiterazione del gioco della competenza del foro per una sentenza di comodo.
Al conte Giovanni del Carretto - si sa - il crimine portò iella: il 5 maggio del 1608 cade a sua volta , folgorato con due schioppettate in pieno petto, in via Maqueda a Palermo.
Il figlio Girolamo del Carretto, se crediamo alle carte del sarcofago del Carmine, venne fatto fuori da un servo.
Morì il 1°12 ( e non il 6 maggio) del 1622 all’età di appena 24 anni, 7 mesi e 3 giorni.
Il nipote Giovanni del Carretto finisce giustiziato nel regio Castello di Palermo il 26 febbraio 1650 (AURIA, Diario Palermitano), colpevole più di avventatezza e boria che di alto tradimento verso Filippo IV, re di Spagna.
Ma qual era la situazione di Giovanni del Carretto nel  1593, all’epoca del ‘Rivelo’?
A noi sembra, decisamente compromessa.
Un sintomo si coglie in un lavoro dell’epoca di un funzionario napoletano 13 che, parlando della nobiltà di Palermo e di Messina, ignora del tutto la famiglia del Carretto.
I documenti lo vorrebbero in carcere per tutto il decennio della fine del secolo XVI. Questo sembrerebbe di capire dalla sibillina frase del Di Giovanni:« e fatte le sue defensioni in sant’Officio, dopo dieci anni di travagli e gravissime spese fu liberato..». Ma forse ebbe solo il fastidio di un processo decennale. Libero, però; limitato tutt’al più nei suoi movimenti e costretto a dimorare in Palermo.
Nel processo n. 3542 del 1600 14 , appare che Giovanni del Carretto, nel 1594, aveva potuto compiere tutte le procedure per assicurarsi l’investitura della terra di Cerami.
Avrebbe dovuto essere trattenuto in carcere, ma, sia pure tramite procuratori, riesce ad acquisire il titolo di barone di Cerami.

La presa del possesso di Racalmuto.
Veniamo innanzitutto a sapere che il primo don Girolamo del Carretto - quello che era riuscito a farsi rilasciare la patente di conte da Filippo II, facendogli magari credere che erano parenti alla lontana, per via delle pretesi origini sassoni dei del Carretto della originaria Liguria - aveva abbandonato il castello di Racalmuto, che pure aveva abbellito, e si era trasferito a Palermo.
Sappiamo che Girolamo, padre di Giovanni del Carretto, fu sepolto il 9 agosto XI indizione del 1583 nella chiesa di Santa Maria di Gesù fuori le mura di Palermo.
Defunto l’ex pretore di Palermo, il figlio Giovanni non ha il tempo - o la voglia - di recarsi a Racalmuto per prendere possesso della contea. Ne dà delega al parente agrigentino don Cesare del Carretto.
Eccone, in traduzione, l’atto di possesso:
«Atto di possesso - 8 agosto, XI^ indizione, 1583 -
«Si premette che il condam d. Girolamo del Carretto, conte della terra di Racalmuto, morì - come piacque a Dio - nella felice città di Palermo ed a lui successe - così come dovette e deve - nella contea predetta, per patto e provvidenza del principe, l’ill.mo don Giovanni del Carretto, in quanto figlio primogenito, legittimo e naturale, e successore in virtù dei suoi privilegi e degli altri atti e scritture.
«In relazione a ciò, nel predetto giorno,  lo spettabile don Cesare del Carretto della città di Agrigento - noto a me notaio, presente, innanzi a noi - come procuratore del prefato ill.mo signor don Giovanni, in forza della procura celebrata agli atti miei il giorno sette del presente mese, in virtù dei detti suoi privilegi ed anche dei relativi diritti, contratti e scritture,  con ogni miglior modo e forma, con i quali meglio e più utilmente poté essere detto, fatto e pensato, in favore e per l’utilità dello stesso illustrissimo signor don Giovanni come figlio primogenito ed indubitato successore per morte del prefato ill.mo signor don Girolamo del Carretto, suo padre, per patto e provvidenza del principe ed in forza dei suoi dei suoi privilegi ed in ogni miglior modo e nome e continuando nel possesso in cui fu ed è e per quanto occorra, il predetto procuratore prese e acquisì il reale, attuale, naturale, materiale, vacuo, libero e corrente possesso della detta terra di Racalmuto, della contea e dello stato della giurisdizione civile e criminale, nonché del mero e misto imperio e degli altri diritti ed universe pertinenze sue.
«E per me infrascritto notaio, ad istanza e richiesta dello spettabile procuratore predetto, fatte seriamente, lo stesso procuratore, per suo tramite ma in nome del delegante, è stato introdotto, posto ed immesso nello stesso possesso della predetta terra, contea e stato con tutti i singoli suoi diritti e le pertinenze universe, nonché nell’integrità dello stato, della giurisdizione  civile e criminale e nel mero e misto imperio, il tutto spettante alla detta contea in forza dei detti suoi privilegi ed altre scritture.
«E ciò per acquisizione delle chiavi del castello, con apertura e chiusura delle sue porte, entrando, uscendo e deambulando in esso castello e nelle sue stanze.
«Così come si è proceduto alla rimozione, destituzione e revoca dell’ufficio di castellanìa nella persona del magnifico Giovanni Bartolo Ciccarano, e dell’ufficio di secrezìa nella persona del magnifico Giovanni Antonio Piamontesi, dell’ufficio di capitano, giudice e maestro notaio nelle persone di magnifici Artale Tudisco, Nicolò di Monteleone e Rainero Fanara.
«E tanto si è fatto anche per i loro sostituti negli uffici della giurazìa nelle persone di mastro Martino Rizzo, Antonucio Morreali, Filippo Vaccari e Nicolò Capoblanco; e negli uffici di mastro notaro e dell’erario fiscale nelle persone di mastro Giacomo Puma e mastro Paolo Cacciaturi.
«Per nuova elezione e creazione negli uffici predetti, sono stati rinominati gli stessi ufficiali e gli stessi loro sostituti per beneplacito e sino ad altra nomina degli ufficiali in altra occasione o circostanza.
«Per la solenne celebrazione di un tale possesso ed a testimonianza di tale vero, reale, attuale, naturale e materiale possesso, ed a cautela del predetto ill.mo signor don Giovanni, viene redatto il presente strumento, corredato del timbro di avvaloramento, da me notaio Antonino de Gagliano, regio pubblico notaio di Cerami di questo Regno. L’atto viene rogato, in presenza di testimoni, e quindi registrato a suo tempo e luogo.
«Testi presenti: chierico Francesco Nicastro; m.° Pietro Romano; m.° Marino de Mulé e m.° Pietro Cacciatore.
«Nello stesso giorno, ai fini dell’estensione del possesso predetto, fu fatto accesso per me predetto infrascritto notaro e per il detto spettabile don Cesare del Carretto procuratore, con i testi infrascritti, fuori di Racalmuto presso il feudo detto di Racalmuto, e presso i feudi di Donnacale (Donnafala?), Garamoli e Culmitella, nonché presso i giardini, le sorgenti d’acqua, i vigneti della detta contea. Ne è stato preso possesso a nome del detto ill.mo don Giovanni, facendo l’entrata e l’uscita, visionando la concessione degli erbaggi, toccandone gli alberi, facendo il lancio di pietra, ispezionando il defluvio delle acque e compiendo gli altri riti atti a dimostrare la solenne presa di possesso.
«Testi: Nicolò di Mastrosimone, m.° Pietro de Pomis e m.° Pietro Buscemi.
Dagli atti miei notaio Antonino de Gagliano, di Cerami,  regio pubblico notaio del Regno.»
Il truce personaggio che fu don Giovanni del Carretto (il quarto della sua famiglia), se ebbe fretta a prendere possesso dell’eredità, appare poi in difficoltà quando deve prenderne l’investitura (con gli aggravi fiscali che comportava).
Ottiene due dilazioni e, finalmente, riesce a chiuderla questa fase dell’investitura, come da questa nota del citato processo:
«Messane die VI^ mensis Settembris XIII^ Ind. 1584  - prestitit juramentum [..]»
Giovanni del Carretto ereditò una caterva di beni, ma anche un’asfissiante massa di oneri, pesi e debiti.
Il “paragio”.

Tra tutti primeggiavano gli obblighi di “paragio”.
Il “paragio” fu un pernicioso istituto feudale siciliano in base al quale il feudatario era obbligato a dotare figlie, sorelle, zie, e nipoti femmine (ma per queste ultime solo nel caso che il genitore non vi potesse provvedere per indisponibilità economica) in misura adeguata al loro rango.
Simpatico o meno che sia il sanguigno Giovanni del Carretto di fine ’500, è certo che sul poveraccio cadde addosso una caterva di sorelle fameliche di ‘paragio’, due fratelli che non scherzavano in fatto di pretese economiche, una figlia ‘spuria’ da dotare bene per farla sposare dal nobile Russo - forse un parente della prima moglie -, un figlio infelice avuto tardivamente da una discendente della arrogante e burbanzosa famiglia Tagliavia-Aragona della vicina Favara.  
E per di più le disgrazie giudiziarie: soldi per i crimini del fratello Giuseppe (‘multa di mille fiorini’)  e per quelli suoi propri (condanna ad onze mille, da pagarsi alla moglie del defunto, ed onze duecento al fisco).
Sbuca poi un Vincenzo del Carretto che le carte della curia agrigentina danno come arciprete di Racalmuto al tempo di Girolamo del Carretto nel primo trentennio del ‘600.
Risulta da vari documenti 15 un  fratello dell’infelice conte di Racalmuto, quello ‘ucciso dal servo’ nel 1622.
Se è così, fu un altro figlio di Giovanni del Carretto (e nel caso un figlio illegittimo) da dotare se non altro per costituire il debito ‘patrimonio’ voluto dal Concilio di Trento per gli ecclesiastici.
I ‘paragi’ delle sorelle e dei fratelli buttano il germe di un tracollo finanziario dei del Carretto che avrà il suo patetico epilogo nel ‘700 (assisteremo persino ad acrimonie giudiziarie tra padre e figlio e cioè tra l’ultimo Girolamo del Carretto e suo figlio Giuseppe - chiamato così anche se il nonno si chiamava Giovanni, e forse per la perdurante vergogna della esecuzione di quel Carretto per alto tradimento nel 1650).
Racalmuto - questo feudo dei del Carretto - ne subì i danni?  Tutto lo fa pensare.
Donna Aldonza del Carretto

Un saggio della pretenziosità delle sorelle di Giovanni del Carretto ce lo fornisce la terribile virago Donna Aldonza del Carretto - sì, proprio quella che dota il convento di S. Chiara a Racalmuto - la quale pure sul letto di morte non resiste nel suo testamento dal dare sfogo al suo astio verso il fratello primogenito.
Lo esclude, innanzi tutto, dal nutrito numero dei suoi eredi universali, 16 che invece limita alle sorelle donna Diana, donna Ippolita, donna Giovanna, donna Eumilia e donna Margherita del Carretto «...eius sorores pro equali portione, salvis tamen legatis, fidei commissis, dispositionibus praedictis  et infrascriptis».
Dopo aver fatto alcuni lasciti per la sua anima ed aver  dato le disposizioni per l’erezione del convento di Santa Chiara, si ricorda del non amato fratello maggiore Giovanni in questi termini:
«..et perché a detta D. Aldonza ci competiscono li doti di paraggio sopra lo stato di Racalmuto et beni di detto quondam suo Padre una con li frutti di essi doti, pertanto essa D. Aldonza testatrici declara volere detti doti di paraggio una con li detti frutti di essi et volersi letari di quelli, in virtù di tutti e qualsivoglia  leggi et altri ragioni in suo favore dittarsi et disponersi, non obstante si potesse pretendere in contrario, in virtù di qualsivoglia testamento et dispositione, delle quali leggi in suo favore disponenti, essa voli et intendi servirsi et usari in juditiarij et extra, sempre in suo favore, conforme alle leggi et ragione di essa testatrice tiene, le quali doti di paraggio, una con li frutti di quelle, siano  et s’intendano instituti heredi universali per equale porzione atteso che di li frutti detti doti ni lassao et lassa à D. Gio: lo Carretto conte di Racalmuto suo frate onze duecento una volta tantum pro bono amore et pro omni et quocumque jure eidem Don Joanni quemlibet competenti et competituro et non aliter.
«Item dicta testatrice vole et comanda che della liti la quale have fatto di conseguitare la sua legittima che non ni possa consequire più di onze 600, oltra di quelli li quali essa D. Aldonza testatrici si ritrova havere havuto; li quali onze 600 essa testatrice lassao et lassa à d. Gio: Battista et D. Eumilia del Carretto soi soro oltre della loro portione [parte corrosa, n.d.r.] [di cui alla] presente heredità modo quo supra fatta et hoc pro bono amore et non aliter..»
Ma non tutte le sorelle erano eguali per la terribile donna Aldonza.
E solo dopo un paio di nipoti che si ricorda di avere un’altra sorella. A questa solo un legato di 200 once così condizionato:
«Item ipsa tetatrix legavit et legat D. Mariae Valguarnera comitissae Asari, eius sorori, uncias ducentas in pecunia semel tantum solvendas per supradictos heredes universales infra terminum annorum quatuor numerandorum a die mensis [mortis] ipsius testatricis et hoc pro bono amore».
Uguale trattamento per il fratello Aleramo:
«Item essa testatrice lassao e lassa à D. Aleramo del Carretto suo fratello, conte di Gagliano, onzi ducento della somma di quelle denari che essa testatrici pagao à Giuseppe Platamone per esso D. Aleramo delli quali detto D. Aleramo è debitori di essa testatrici et hoc pro bono amore et pro omni et quocumque jure eiusdem D. Aleramo competenti et competituro.
«Item essa testatrice declarao et declara che della legittima quale detto Don Aleramo divi pagando onsi secento tutto lo resto di detta legittima essa testatrice la lassao e lassa a detto D. Aleramo pro bono amore».
Nel testamento non troviamo alcunché che ricordi anche il fratello Giuseppe. Forse perché già morto?
Ma non basta. Se ci si addentra nei processi per investitura dei del Carretto, sbuca fuori un’altra sorella: Beatrice del Carretto, 17  morta nel settembre del 1592.

I del Carretto a fine secolo XVI.

Tirando le somme, su Giovanni del Carretto il buon genitore Girolamo scaricava le doti di ‘paragio’ di otto sorelle e due fratelli.
 Poi, si aggiungeranno i carichi di un paio di figli ‘illegittimi’ e, naturalmente, l’eredità ab intestato per l’unico figlio legale, il conte di Racalmuto per antonomasia, Girolamo del Carretto.
Su quest’ultimo si abbatteranno i fendenti di una tale complessa situazione patrimoniale, carica di soggiogazioni anche per le tanti doti di ‘paragio’. Sarà stato per questo, ma si dà il caso che il giovane conte del Carretto, all’età di ventitré anni si spoglia di tutto, facendone donazione ai due figli Giovanni e Dorotea e nominando governatrice la moglie Beatrice e tutore il fratello (o fratellastro) don Vincenzo del Carretto, arciprete di Racalmuto.
Un anno dopo, il primo maggio 1622, Girolamo del Carretto dava l’anima a Dio.
Ma torniamo al 1593, l’anno del censimento. Il conte Giovanni del Carretto, non era di sicuro nel suo castello racalmutese.
Una nota di cronaca lo accosta alla morte del celebre poeta  Antonio Veneziano, nel crollo delle carceri del Santo Offizio.
«In questo stesso anno [1593]  - precisa un diarista 18 -  dì 19 di agosto. Fu posto fuoco alla monizione della polvere che era in Castell’a mare di Palermo: perilché quasi tutto il castello brugiò, e morirono più di 200 persone, la maggior parte carcerati; fra’ quali morì Antonio Veneziano poeta, Argistro Gioffredo, il baron di Sinagra, due maestri di sant’Agostino che andorno a mangiare con l’inquisitori, et altri cavalieri e plebei.
«Scamporno l’inquisitori, il conte di Racalmuto, il barone di Siculiana, il castellano ed altri. Ivi fu roina grande delle case del castello et delli palazzi d’inquisitori; et allora, uscendosi d’ivi, andorno a stare alla casa di Monetta.»
Che cosa vi stesse a fare Giovanni del Carretto, non è chiaro. Certo egli era «teniente de oficial» del Santo Ufficio, ma il presidente della Gran Corte Giovan Francesco Rao ed il viceré Albadalista erano riusciti ad ottenere da Filippo II che i nobili non potessero far parte dell’Inquisizione.
Non era quindi per ragioni di ufficio del suo ruolo nel tribunale inquisitoriale che potesse stare in quelle carceri. La vicenda che abbiamo prima sunteggiato può dunque spiegare il perché. Vi stava forse in quanto ‘carcerato’ seppure di riguardo 19. Se è così, non poteva influire sull’andamento del rivelo di Racalmuto.
Che i guai di Giovanni del Carretto, per quell’efferata esecuzione di La Cannita, siano stati seri si desume dal fatto che dovette cedere il passo al fratello rampante, Aleramo del Carretto, nella carica di Pretore di Palermo.
I Diari 20 parlano del «pretore l’ill.mo sig. D. Aleramo del Carretto conte di Gagliano» sotto la data del 26 ottobre 1595, e narrano che l’11 aprile del 1596 costui, come pretore, ebbe a carcerare «tutti li mastri di piazza». Gli ascrivono poi a merito che in quel tempo «fece fare la scala nova della Corte del pretore e l’arcivo del capitano».
Giovanni del Carretto dovrà aspettare per tornare nel pubblico agone. Negli stessi Diari (pag. 142) lo incontriamo il 16 dicembre 1601, quando morì il Maqueda. Il feretro «andò alla chiesa maggiore sopra la lettiga. E lo portarono in spalla quattro titolati, che furono D. Francesco del Bosco duca di Misilmeri, D. Vincenzo di Bologna marchese di Marineo, il conte di Cammarata e quello di Racalmuto ..». Ultimo dei quattro, è vero, ma ci sta.
Giovanni del Carretto resta vedovo piuttosto presto di Beatrice Russo e Camulo di Cerami. Ha una relazione non ufficiale da cui - stando solo a ciò che è documentato - ha una figlia di nome Elisabetta.
Nella seconda metà dell’ultimo decennio del ‘500 la fa sposare con il nobile Girolamo Russo. A sua volta, il conte si risposa, piuttosto tardi, con Margherita Tagliavia di Favara, una potente famiglia che ci tiene a premettere al proprio cognome quello ancor più prestigioso di Aragona. Tutto fa pensare che il matrimonio sia stato celebrato nel 1596.
Il primogenito Girolamo del Carretto viene battezzato a Palermo il 28 ottobre 1597.
Dopo tante traversie giudiziarie e finanziarie, il conte è chiamato a reiterare l’investitura per la morte di Filippo II di Spagna (+ il 13/9/1598) Adempie il costoso rinnovo piuttosto tardi (difettava di liquidità?)  e presta giuramento il 18 settembre 1600. 21
I del Carretto, dopo il trasferimento a Palermo, non amavano frequentare Racalmuto, almeno sino all’infelice Girolamo del Carretto, che, dopo l’uccisione del padre, nel 1606, venne  ricondotto, insieme alla sorella, dalla madre nell’avito castello (e secondo le carte del Carmelo vi trovò anche la morte nel 1622).
Il figlio, Giovanni, si ritrasferisce a Palermo per farvisi giustiziare - come detto - nel 1650. Dopo di che, la famiglia del Carretto prende stabile dimora nel nostro paese, praticamente sino alla sua estinzione (1710).
Finché i del Carretto si accontentarono del titolo di barone di Racalmuto, vi stettero proficuamente abbarbicati. L’ultimo barone, Giovanni, muore nel 1560 nel “castro” racalmutese e viene seppellito a S. Francesco.
Ecco la testimonianza resa da un maggiorente locale:
«Nob. Innocentius de Puma de terra Racalmuti, repertus hic presens testes,  juratus et interrogatus supra capitulo probatorio dicti memorialis, dixit tamen scire qualiter:
«in lo misi di gennaro prossimo passato in la ditta terra di Racalmuto vitti moriri a lo speciale don Jo: de Carretto, olim baruni di ditta terra, lo quali si andao et seppellio in la ecclesia di Santo Francisco di ista terra, a lo quali successi et restao in ditta baronia ipso spett. don Hieronimo ... come suo figlio primogenito legitimo et naturali,  et accussì tempore eius vitae lo vidio teneri,  trattari et reputari  per patri et figlio,  et cussì da tutti quelli ca lu havino canuxuto et canuxino  ... quia instituit vidit et audivit ut supra de loco et tempore ut supra».22
Dal 1564 comincia la documentazione della Matrice di Racalmuto: battesimi e qualche atto di matrimonio.  Piuttosto rada all’inizio, verso la fine del secolo s’infittisce. Le presenze importanti in paese, o per un battesimo o per far da teste o da padrino o madrina, possono dirsi tutte documentate.
Quanto ai del Carretto, un Baldassare viene a Racalmuto, con la moglie, per fare da compare e comare al figlio di un grosso personaggio: i Vuo. La solennità dell’evento viene così segnata:
«Adi 9 marzo VIe Indiz. 1593  - Diego figlio del s.or Gioseppi e Caterina di VUO fu batt.o per me don Michele Romano archipr.te - il Compare fu l'Ill'S.or Don Baldassaro del CARRETTO - la Commare l'Ill. S.ora Donna Maria del Carretto.»
Quattordici anni prima, il 4 novembre 1579 si era fatto vivo per un’analoga circostanza don Giuseppe del Carretto: la cerimonia riguarda il battesimo della figlia Porzia del magnifico “Arthali magn. Thodisco”. Infatti, il documento recita: “I padrini: ill.mo don Joseppi de lo Carretto et donna Anna de Carretto”.
Troppo poco, come si vede.
Ebbe ad attestarsi a Racalmuto, invece, il genero del conte Giovanni, il marito della figlia illegittima Elisabetta.
Recenti ricerche d’archivio in Vaticano ci hanno permesso di appurare il ruolo di questo personaggio.
I del Carretto ed il vorace vescovo spagnolo di Agrigento Giovanni Horozco Covarruvias y Leyva.

Nel 1599 il vescovo spagnolo di Agrigento Giovanni Horozco Covarruvias y Leyva si vedeva costretto a difendersi presso la Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari, 23  avendo avuto sentore di un libello accusatorio contro di lui che non si è lungi dal vero ritenerlo ispirato, se non addirittura scritto, dalla potente famiglia locale dei Montaperto.
Il Presule agrigentino passa al contrattacco e descrive con toni acri le sopraffazioni dell’intera nobiltà dell’agrigentino, i del Carretto compresi.
La fosca storia del chierico Vella
Sulle vicende del chierico Vella fornisce notizie Mons. De Gregorio:24
«Le controversie poi per la giurisdizione o esenzione ecclesiastica non erano infrequenti.
«A Racalmuto il chierico in  minoribus Jacopu Vella fu “infamato” della morte di un vassallo del Conte il quale lo fece arrestare e volle procedere contro di lui, nonostante monitori e censure, e per sottrarlo al vescovo lo fece prima portare nelle carceri di Palermo e poi in quelle di Agrigento.
«“In detta terra li preti e clerici non godono franchezza nixuna et per ordine del conte non si da la franchezza della gabella et mali imposti et comprano come li seculari denegandoli la franchezza.
«”In detta terra, essendo mandati Vincenzo Carusio, sollicitaturi fiscali, e Giuseppi Gatta commissario per prendere a notaro Oruntio Gualtieri, foro detenuti dalli uffiziali temporali, carzerati per molti giorni tenendoli  a lassari exequiri l’ordini contra detto prosecuto”.
«Nella stessa terra lungamente il conte contrastò con il vescovo e il capitolo per il diritto di spoglio alla morte dell’arciprete Michele Romano.»
*   *   *
Nei registri della Matrice si hanno, tra l’altro, notizie sulla morte del detto arciprete. Nel libro dei matrimoni del tempo si annota, ad esempio: «die 28 Julii X Ind. 1597. Incomensa lo conto delli inguaggiati dopo la morte del arciprete don Michele Romano.»
Il benefizio di Sant’Agata

Al Vescovo di Agrigento facevano dunque gola i beni dell’arciprete racalmutese.
Rimane ancora l’eco di un suo maneggio sui beni di S. Agata.
Non si  sa se nel 1596 sorgesse nel Beneficio di S. Agata una qualche omonima chiesa.  In uno studio del 1908 25, F. M. Mirabella illustrava la figura di «Sebastiano Bagolino, Poeta latino ed erudito del Sec. XVI». Vi si parla anche dei difficili rapporti del poeta ed il vescovo di Agrigento Giovanni Horozco Covarrusias e Leyva di Toledo.
«Certo è che - si legge a pag. 188 - della sua traduzione [fatta dallo spagnolo in latino di alcune opere del vescovo] il Bagolino non si tenne adeguatamente compensato. Aveagli il vescovo fatto l'onore di ammetterlo alla sua mensa; aveva anche conferito a don Pietro Bagolino, fratello di lui, prima i beneficj di Santa Lucia e di S. Margherita in Castronovo, di S. Agata in Racalmuto, di S. Maria Maddalena in Naro, di S. Leonardo fuori le mura di Girgenti, e poi quello di S. Pietro nella stessa Girgenti col reddito annuo di 250 ducati. Ma questo al poeta non pareva un guiderdone condegno.»

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