martedì 15 marzo 2016


FEDERICO  DEL CARRETTO

 

 

Singolare quel nome che come quello di Ercole figura una sola volta nella genealogia dei baroni del Carretto di Racalmuto. Di Federico del Carretto abbondano però le cronache agrigentine, ma trattasi di figure dei vari rami cadetti.

Non possiamo revocare in dubbio che sia il figlio legittimo e naturale di Giovanni I del Carretto. Con Federico si iniziano i processi palermitani dell’investitura del titolo feudale di Racalmuto e lì - in diplomi a ridosso degli eventi - la sequenza genealogica è indubitabile (come abbiamo visto dai passi in latino sopra riferiti).

“Filius legitimus et naturalis” di Elsa e Giovanni I del Carretto; non manca del requisito della primogenitura maschile come imposto dal diritto feudale dell’epoca [1].  Giovan Luca Barberi - quanto pignolo Dio solo sa - non ha dubbi ed avalla l’investitura nei seguenti termini:

«E morto Giovanni, successe Federico del Carretto, suo figlio primogenito, legittimo e naturale, il quale Federico ottenne dal condam Simone arcivescovo palermitano l’investitura della detta terra per sé ed i suoi eredi sotto vincolo del consueto servizio militare e con riserva dei diritti della regia curia e delle costituzioni del signor Re Giacomo e degli altri predecessori regali edite sui beni demaniali, come risulta nel libro grande dell’anno 1453 nelle carte 565. » [2]

Nel 1410 la Sicilia visse la svolta del vuoto di potere determinatosi per il decesso senza eredi legittimi dei due Martino e subì i traumi dell’interstizio determinato dalla contrastata reggenze della regina Bianca. Con il 1416 si apre la lunga gestione di Alfonso d’Aragona che dura ben 42 anni. Ed è verso la fine del regno alfonsino che Federico del Carretto s’induce a sborsare i quattrini per avere il riconoscimento della baronia di Racalmuto. Alfonso d’Aragona gli accorda quella investitura ma a queste condizioni:

n presti il cosiddetto servizio militare e cioè corrisponda 20 once ogni anno;

n renda l’omaggio nelle forme solenni del tempo;

n restino salvi i diritti di legnatico dei cittadini racalmutesi;

n e del pari restino riservate  alla Corona le miniere, le saline, le foreste e le antiche difese;

n resti salvaguardata la libertà di pascolo nel casale e nell’annesso feudo per gli equipaggiamenti regi.

Per il resto possesso assoluto sino al mare.

Una cosa è certa; Federico del Carretto era saldamente insediato nella baronia di Racalmuto ben prima che avesse l'investitura da Alfonso d'Aragona l'11 febbraio 1453. Reperibile presso l'archivio di Stato di Palermo il contratto che lo vedeva associato nel 1451 con Mariano Agliata per uno scambio di grano delle annate del 1449 e 1450 contro quello di Girardo Lomellino consegnabile a luglio E il Bresc [op. cit. pag. 884] commenta: «ce qui permet une fructueuse spéculation de soudure». In termini moderni si parlerebbe di forward in grano. La domiciliazione sarebbe stata pattuita presso il "Caricatore" di Siculiana. Fonte citata: ASP ND G.Comito; 18.1.1451, cioè Archivio di Stato di Palermo - Notai Defunti - Giacomo Comito (1427-1460) - n.° 843 a 850

Sempre il Bresc fornisce nella citata opera un'altra interessante notizia. Secondo quello che appare nella tavola n.° 200 di pag. 893, Federico del Carretto sarebbe stato coinvolto in una rivolta antifeudale estesasi anche a Racalmuto. Questa volta la fonte citata è un libro: «Luigi Genuardi,  Il Comune nel Medio Evo in Sicilia, Palermo, 1921».

 

 

GIOVANNI II  DEL CARRETTO

 

La rivolta a Racalmuto del 1454 di cui parla il Genuardi dovette essere cosa seria se da quel momento sino al 1519 i processi d’investitura tacciono.

Dalla ficcante indagine del Barberi sappiamo - e non c’è motivo per dubitarne - che a Federico successe Giovanni II del Carretto. Non sappiamo quando e come. Il Baronio, lo storico di famiglia del Carretto del 1630, ne sa ben poco: «Ioannes natus maior, cum familiam rebus praeclare gestis aeternitati commendasset. Herculem, ac Paulum habuit sibi, nec maioribus dissimilem suis. In unoquoque semper avitae nobilitatis fulgor eluxit.» Parole di circostanza per colmare evidenti carenze di notizie. Quali siano quelle gesta che affidarono la famiglia alla memoria dei tempi futuri, non ci dice e noi non ne abbiamo nessuna  ... memoria. Accontentiamoci del fatto che fosse il figlio maggiore  [natus maior] e che avesse partorito il successore Ercole, il celebre falso conte della venuta della Madonna del Monte, e Paolo di cui gli archivi vescovili di Agrigento ci hanno tramandato qualche dato sulla sua litigiosità con i sindaci di Racalmuto [3].

Apprendiamo dalla valida ricerca del Sorge su Mussomeli [4] che «lu fegu di Rabiuni lu teni lo Mag.co Baruni di Regalmuto per anni ... vinduto per lo Mag.co Signuri Pietro lo Campo unzi trentacincho, uno vitellazzo, una quartara di burru, uno cantaro di formaggio

Quando sia avvenuta quella vendita non sappiamo; il rendiconto è del 1486 e come si è visto, non è neppure detto a quali precedenti anni si riferisse la vicenda di cui alla posta contabile. Da quel che si legge nel Sorge (op. cit. pag. 209 e segg.) potrebbe trattarsi degli anni attorno all’11 ottobre 1467 (data in cui “venne stipulato il contratto col quale il procuratore di Ventimiglia rivendette a Pietro Del Campo la baronia di Mussomeli, col suo castello ...”). Le nostre successive indagini presso gli Archivi di Palermo (in particolare “Archivio Campofranco, Fatto delle cose notabili etc.” e “Conservatoria, Privilegia, confiscationes bonorum et investiturae, 1459 e 1489, foglio 536”, di cui in Sorge) non ci hanno sinora consentito di chiarire alcunché quanto ai del Carretto e specificatamente a chi si riferisse l’atto di vendita del feudo Rabiuni di Mussomeli. Azzardiamo il nome di Federico del Carretto. Sembra dunque appurato che dal 1459 al 1489 la famiglia del Carretto di Racalmuto si sia bene ripresa dalla crisi del 1454 ed abbia avuto fondi sufficienti per acquistare il costoso feudo Rabiuni di Mussomeli e mantenerlo anche se notevolmente oneroso. Del resto, in quel tempo, Racalmuto dovette divenire un centro di abbienti: nello stesso “conto del segreto Bonfante del 1486” (di cui in Sorge pag. 386) si accenna al possesso feudale di un altro racalmutese. «Lu fegu di Santu Blasi - vi si annota - lu teni Mazzullo di Alongi di la terra di Regalmuto per anni 3 videlicet quinte Ind. 6 Ind. e 7 Ind. et pri unzi quattordichi quolibet anno uno crastatu, uno cantaro di formaggio, et una quartara di burru quolibet anno da pagarsi la mitati a menzu Septembru et la mitati a la fera di Santu Juliano intentendosi quindici anni primi poi di Pasqua[5]

Il Barberi, che l’inchiesta - piuttosto acidula contro i del Carretto  - la fa a ridosso degli anni della baronia di Giovanni II, ha questi appunti critici:

«E morto il cennato Federico, gli successe Giovanni del Carretto, suo figlio, il quale, come appare dall’ufficio della regia cancelleria, non prese giammai l’investitura della detta terra.»


IL QUATTROCENTO ECCLESIASTICO A RACALMUTO


Il quattordicesimo secolo vede i Carretto impossessarsi, prima, e padroneggiare, dopo, la Terra di Racalmuto. Come questa famiglia genovese (o di Finale Ligure) si sia impadronita di Racalmuto, facendone un personale feudo con mero e misto impero, è mistero ancor oggi non dipanato. Vi fu al tempo del figlio di Matteo del Carretto - all’inizio del secolo XV - una necessità difensiva di fronte alle inchieste di Martino e, in parte fondatamente, in parte capziosamente, si fecero risalire al matrimonio di una Costanza Chiaramonte con Antonio del Carretto le origini della baronia di Racalmuto in capo a quella famiglia  proveniente da Genova. In un atto - mezzo falso e mezzo vero del 13 aprile 1400([6]) - abbiamo le ascendenze ed i titoli per la legittimazione baronale di Racalmuto. Lasciamo qui agli araldici ed agli storici il compito di far luce sulla questione, che inquinata com’è nelle sue più antiche fonti,  difficilmente potrà essere del tutto chiarita. Ed è comunque questione che poco ha a che vedere con la storia religiosa del nostro paese: la storia che specificatamente interesse noi in questa sede.([7])

Quel che ci preme è qui sottolineare come proprio sotto Matteo del Carretto fu scritta e tramandata un’importante pagina di storia sacra locale. Al barone di Racalmuto si rivolgeva Re Martino per la traslazione del beneficio canonicale di S. Margaritella da un canonico fellone ad altro di Paternò, fedele alla causa dei Martino, pur soggetti a cocenti scomuniche papali. Si era conclusa la triste vicenda della ribellione dei Chiaramonte - che pur dovevano essere legati da vincoli di sangue ai del Carretto - ed era stata domata la resistenza palermitana di Enrico Chiaramonte. Il re aragonese, tra l’altro, cominciò a metter mano alla riforma ecclesiastica. In un certo senso ne aveva diritto per quello strano istituto tutto siciliano e peculiare che fu la Legazia Apostolica. Per la liberazione dai saraceni da parte dei Normanni, il Papa aveva accordato ai regnanti di Sicilia una inconsueta rappresentanza religiosa in forza della quale il legato  del Pontefice anche in materia religiosa in Sicilia era proprio il re. E Martino ne approfittò per togliere e donare canonicati, prebende e riconoscimenti onorifici di natura ecclesiastica.

Anche Racalmuto, con il suo vetusto beneficio di S. Margaritella, entrò in questo aberrante gioco politico-religioso. Chiarisce bene la vicenda il documento che qui riportiamo in una nostra traduzione dal latino ([8]): «Martino etc. Al reverendo padre GERARDO DE FINO arciprete della terra di Paternò, cappellano della nostra regia cappella, predicatore e familiare nostro devoto, grazia etc..

I lodevoli meriti delle vostre virtù ci inducono ad elevare la vostra persona agli onori ed ai  grati riconoscimenti. E così  apprezziamo quelli che sappiamo essere  i morigerati vostri costumi di vita  di cui v’è generale stima e nei quali noi siamo pienamente fiduciosi, e pertanto per l’autorità apostolica in ciò a noi sufficientemente accordata, il canonicato di Santa Margherita di Racalmuto della diocesi di Agrigento con prebenda, redditi e i suoi debiti e consueti proventi - canonicato che si è reso vacante in atto per il nefando tradimento del prete Tommaso de Manglono, nostro ribelle al tempo della secessione contro le nostre benignità - fiduciariamente vi commendiamo e per grazia vi conferiamo, concediamo e doniamo in modo che possediate la prebenda, l’aumentiate, la teniate, ne usufruiate e l’amministriate con i suoi redditi e proventi che potrete destinare alla vostra comodità affinché in modo più consono - Dio permettendo - possiate trarne mezzi di sussistenza durante la nostra vita e finché quel canonicato ci resterà affidato dall’autorità apostolica.

Ai nunzi ed agli incaricati presso il venerabile eletto governatore della predetta maggiore chiesa agrigentina nonché al consesso dei canonici diamo incarico acché vi pongano e vi immettano nel materiale e reale possesso di quel canonicato, con prebenda redditi ed i suoi debiti e consueti proventi, per l’autorità delle presenti credenziali, oppure che ve ne rendano il possesso per il tramite di altri, non mancando di tenerlo intatto e di salvaguardarlo e di rendervelo quindi integro sia per quanto attiene allo stesso canonicato sia alla pertinente prebenda nei consueti termini giuridici.

Noi, infine, ci rivolgiamo e diamo mandato al nobile Matteo del Carretto barone di Racalmuto, nostro consigliere ed ai restanti ufficiali nonché alle altre persone del nostro regno che ci sono fedeli tanto presenti quanto future acciocché a voi ed ai vostri procuratori facciano rendere integralmente e pienamente  la prebenda, i redditi con i consueti e dovuti proventi di pertinenza dello stesso canonicato, se desiderano e possono mantenere la nostra benevolenza.

Dato in Siracusa, l’anno del Signore, VII^ Ind. 1398.

.... Re Martino - »

Il documento fu ben presente a Gian Luca Barberi che gli tornava acconcio per ribadire l’autorità delegata dal Pontefice ai re di Sicilia per i benefici ecclesiastici. Sul passo del Barberi si basa poi il Pirri per assegnare il beneficio di S. Margaritella di Racalmuto ai canonici di Agrigento. ([9]) Nel diploma si accenna solo al ‘canonicatus Sancte Margarite de Rachalmuto’: diversamente da quanto poi afferma Luca Barberi, quando scrive attorno al 1511, nell’originale non si fa accenno di sorta ad alcuna chiesa dedicata alla santa in Racalmuto. I benefici, sì, ma la chiesa è dubbia. Intanto si è certi che solo in prossimità del 1511 è provata l’esistenza in Racalmuto di una chiesetta del canonicato di Agrigento dedicata a S. Margherita. E prima?

Tanti collegano - come già detto - quella chiesa ad un diploma del 1108, ma ciò origina da una interessata tesi della curia agrigentina. Il beneficio può benissimo essere sorto a metà del XV secolo per accordo tra la curia vescovile ed i Chiaramonte, più verosimilmente  Manfredi Chiaramonte, oppure per benevola concessione di quest’ultimo a peste cessata ed a suggello del concordato col Papa.

GLI EBREI  A RACALMUTO


La presenza di ebrei a Racalmuto e la loro convivenza con la locale cristianità sono dati certi, ma non tanto per la contrada del Giudeo (Judì) o per il singolare nome di una lumaca (lu judiscu), quanto per quello che ci dicono i due fratelli Lagumina (di cui uno, Bartolomeo, è stato vescovo di Agrigento), nella loro monumentale opera sugli ebrei di Sicilia, prima della cacciata da parte di Isabella nel 1492. ([10])

Raccapricciante lo squarcio di cronaca nera che gli archivi palermitani ci hanno tramandato. Insieme, viene fornito uno spaccato degli usi e costumi racalmutesi in quel periodo. Era l’anno 1474 ed a Racalmuto veniva commesso un efferato crimine contro un ricco ebreo, dedito certamente all’usura. Trattasi di documento  interessante e che va qui riportato integralmente sia per la singolarità della testimonianza sia pure per l’affiorare di antichi termini dialettali della nostra terra.

«Il Vicere’ Lop Ximen Durrea dà commissione ad Oliverio RAFFA  di recarsi  a  Racalmuto per punire coloro che  uccisero  il  giudeo Sadia  di  Palermo, e di pubblicare un bando a  Girgenti  per  la protezione di quei giudei

«Ioannes etc. Vicerex etc. nobili oliverio raffa militi algoczirio regio fideli dilecto salutem. diviti sapiri comu quisti iorni prossimi passati sadia di palermo iudeu lu quali habitava in lu casali di raxalmuto actendendo ad alcuni soy fachendi li quali fachia in lu  dictu casali fu primo locu mortalmenti feruto da uno liuni figlastro di mastro raneri et dapoy alcuni altri di lu dictu casali  quasi  a tumultu et furia di populu dediru infiniti colpi a lu dictu iudeu non  havendu  timuri alcuno di iusticia. Immo  diabolico  spiritu ducti  tagliaro  la lingua et altri menbri et  ruppiro  li  denti usando in la persuna di lu dictu iudeu multi crudelitati et demum lu  gettaru  in una fossa et copersilu di pagla et  gictaru  foco petri  et  terra.  la qual cosa essendo di  malo  exemplo  merita grande  punicioni et nui tali commoturi di popolo et  delinquenti volimo siano ben puniti et castigati a talchi ad ipsi sia pena et supplicio et a li altri terruri et exemplo. E pertanto confidando di  la vostra prudencia ydonitay et sufficiencia havimo  provisto per  sapiri la veritati e quilli foru a tali malici participi  et culpabili. et per la presenti vi dichimo commictimo et  comandamo che  vi digiati personaliter conferiri in lu dictu casali et  cum quilla  discrepcioni  lu casu riquedi digiati inquisiri et investigari cui dedi a lu dictu et li persuni li quali si trovaro a lu dictu tumultu et actu. et eciam si lu populu fra loru accordaru amazari lu dictu iudeu et cui si trovau presenti  et partechipi a la dicta morti et delicto. et de  tucti li sopradicti cosi fariti prindiri in scriptis informacioni et in reddito vestru li portariti a nui. comandanduvi chi cum  diligencia  et cum quilla discrecioni da vui confidamo digiati  prindiri de  personis tucti quilli foru culpabili et si trovaro alo  dicto acto et quilli digiati minari in la chitati di girgenti et carcerarili  in  lu castellu di la dicta chitati in modo  chi  non  si pocza  di loro fuga dubitari. E perche siamo informati che  a  lu dictu iudeu fu prisa certa roba et intra li altri uno gippuni  in lu quali si dichi erano cosuti chentochinquanta pezi doro farriti di  lo  dicto gippuni e di tucta laltra roba libri  et  scripturi diligenti  investigacioni  et perquisicioni cui li  prisi  et  in putiri  di chi persuna sono. et trovandoli cum ydonia  et  sufficiente pligiria de restituirili ad omni simplichi requisicioni di la  regia  curia li restituiriti a li heredi di lu  dictu  iudeu. preterea  perche multi audachi et temerari persuni li quali  poco timino  la iusticia presummino in la chitati di girgenti  parlari et  usari  alcuni prosuncioni et adminanzi ac iniurij  contra  li iudei  di dicta chitati di che porria suchediri inconvenienti  et scandalu  non  senza disservicio di la regia curti.  a  li  quali inconvenienti volendo debitamente providiri actento chi li  iudei sono servi di la regia cammara  et non si divino lassari  indebitamente   vexare ne molestari. vi comandamo chi eciam vi  digiate conferiri  in la dicta chitati di girgenti per li lohi soliti  et consueti  farriti voce preconis emictiri banno puplico  sub  pena vite et publicacionis bonorum et altri a vui meglo visti chi  non sia  persuna  alcuna  digia ne persuna  cuiusvis  condicionis  et gradus  chi digia palam vel oculte de die nec de nocte intus  nec extra civitatem offendiri vexari ne molestari li dicti iudey.  ne alcuno di loro tanto masculi comu fimini tanto grandi comu pichuli  ne  loru beni re facto verbo et opere. et  chi  lo  capitaneo iurati  gubernaturi di li iudei et altri officiali  digiano  ipsi iodey  favoriri et defendiri contro omni persuna chi indebite  li volissi offendiri et molestari. lu quali banno post eius  pubblicacionem   farriti reduchiri in scriptis ut appareat in  futurum. et si alcuno volissi dimandari iusticia  oy incusari alcunu iudeu digia  compariri davanti di nui et farrimo debito complimento  di iusticia.  in modo chi cui havira commissu malificio et delicto sarra debitamente castigato. Nam in  premissis et circa ea cum dependentibus emergentibus et annexis vi damo et conferimo plena bastanti et sufficienti potestati per  presentes.  per  li  quali comandamo a tutti et  singoli  officiali  et persuni  di  la chitati nec non a lu nobili baruni  officiali  et persuni di lo dicto casali chi in la execucioni di li  sopradicti cosi cum li dipendenti emergenti et quilli vi digiano obediri  et assistiri  ac  prestari omni aiuto consiglio et  faguri  et  loro brazo  si et quociens opus erit et per vos fuerint requisiti  nec contraveniant auti aliquem contravenire permictant ratione aliqua sive causa sub pena unciarum mille regio fisco applicandarum. vui vero  in la execucioni di li dicti cosi vi haviriti et  portariti in tali modo et omni quilla diligencia  chi pozati  meritatamente essiri  inanzi  nui comandatu. Dat. panormi die VII  Iulij  VIIe Indicionis  M° CCCCLXXIIII°. post datam. constituimo a vui  dicto nobili per vostri iornati et salario ad racionem de tarenis  octo pro  quolibet die dum in premissis legitime vacaveretis. Dat.  ut supra.

Lop Ximen Durrea» ([11])

In piena estate, il 7 luglio del 1474, il vicerè Lop Ximen Durrea dava, dunque, ordine all’algoziro (a metà tra il capitano dei carabinieri dei nostri giorni ed il sostituto procuratore) Olivero Raffa di recarsi a Racalmuto per indagare su una efferata esecuzione dell’ebreo Sadia di Palermo. L’orribile uccisione era avvenuta alcuni giorni prima ed era avvenuta quasi a furore di popolo. Artefice e sobillatore era stato tale Liuni, figliastro di mastro Raneri. Ma tanti altri lo avevano assecondato. Il povero Sadia di Palermo stava attendendo ad alcune sue faccende nei dintorni del Casale di Racalmuto, quando venne assalito, bastonato e quel che è quasi incredibile selvaggiamente mutilato. Tagliata la lingua, evirato, rottigli i denti, l’odiato ebreo venne buttato ancor vivo in una fossa e ricoperto di paglia venne dato alle fiamme.

Non sembra che tanto accanimento fosse ispirato da furore religioso. Dovette, dunque, trattarsi di rabbia per l’esosità dei prestiti e per l’inflessibilità nel loro recupero. Che Sabia di Palermo fosse ricco si desume dal fatto che sembra avesse cuciti nel ‘gippuni’ (giubbotto) qualcosa come 150 pezzi d’oro  - una enormità per i tempi e le condizioni della Racalmuto di allora -  e di quel denaro se ne persero ovviamente le tracce.

L’algoziro Raffa dovrà svolgere un’indagine di polizia, con prudenza ed acume. Dovrà appurare tutte le circostanze dell’atroce esecuzione del giudeo. Complici e fiancheggiatori dovranno essere individuati e perseguiti dal funzionario viceregio che non può delegarvi nessuno ma deve esplicare l’incarico recandosi di persona sul luogo del delitto. In particolare, conta scoprire se trattasi di moto criminale di singoli o se è lo sfogo di un latente tumulto popolare. Non va trascurata l’eventualità che addirittura si consumata una vendetta collettiva dell’intera popolazione racalmutese. Di tutto va fatta una puntuale relazione scritta. Quindi, sempre con prudenza ma inflessibilmente, andranno carcerati tutti i sospetti colpevoli e tradotti nella città di Agrigento, per essere affidati alle carceri del castello ivi esistente, per evitare ogni possibilità di fuga. La città di Agrigento, invero, è nota per il suo antisemitismo e molti indulgono in vessazioni e ingiurie contro gli ebrei. E’ un costume non tollerato dal potere regio. L’algoziro abbia ben presente che  gli ebrei sono servi della regia Camera e quindi non si devono né vessare né molestare. Chi ha accuse da rivolgere agli ebrei si rivolga alle sedi istituzionali e si astenga da ogni iniziativa privata. L’algoziro Raffa operi in stretto collegamento  con le autorità locali agrigentine e quelle racalmutesi.

E’ uno spaccato del vivere sociale locale che trascende l’efferatezza del crimine e la condizione ebraica verso lo spirare del Medio Evo. Se tanta solerzia traspare nell’ordinanza viceregia nel perseguire gli imperdonabili criminali, ciò connota il fatto che normalmente l’ebreo poteva vivere e prosperare nell’assetto comunale come quello racalmutese. E qui vi erano ebrei operosi ed abbienti, non segregati, non chiusi in ghetti, non relegati allo ‘Judì’, come si è cercato di farci credere. Nel quattrocento, Racalmuto ha un buon assetto politico ed amministrativo. Già prima che arrivasse l’algoziro, il colpevole del crimine è individuato e, pensiamo, assicurato alla giustizia. Il messo viceregio dovrà limitarsi ad appurare le connivenze e gli aspetti di contorno. L’organizzazione è accentuatamente feudale: il barone (i Del Carretto) è all’apice del potere locale. E’ contornato da ufficiali pubblici. Non è però un potere assoluto. La corte viceregia sovrasta, controlla e vigila oculatamente.

RACALMUTO NEL QUADRO STORICO DELLA SICILIA DEL ‘400

 

Poco abbiamo sul feudo racalmutese durante il ‘400: qualche scisti documentale emerge dalle carte dei del Carretto. Un truce episodio di antisemitismo getta sinistra luce sull’intolleranza razziale di Racalmuto a ridosso dalla tristemente nota cacciata degli ebrei dalla evoluta Girgenti di fine secolo. Il medioevo si chiudeva a Racalmuto con sinistri bagliori di morte, con misfatti e depredazioni letali che richiamano il biblico Caino, sotto un’intermittente signoria carrettesca – non si sa bene se diretta ed insediata al Cannone oppure dimorante nel bel palazzo di proprietà a fronte della opulenta sede dei vescovi agrigentini.

Pochi tratti della più generale vicenda storica possono illuminarci del contesto in cui visse il contado racalmutese in quel torno di tempo.

Sino al 1412 i Martino – con quel tragico succedere del padre al giovane figlio morto in guerra per un empito di personale orgoglio -  mantengono un sia pur scialbo barlume d’indipendenza della nazione siciliana. Poi, nel 1413, la successione di Alfonso stronca ogni velleità indipendentista  - per unione personale del regno di Sicilia con quello aragonese, si scrive. «Il ristagno della vita morale – catoneggia il De Stefano [12] -  congiunto al mancato ricambio della vita economica e sociale, aveva causato la corruzione politica. Baroni e città non avevano acquistato la coscienza dello stato; la sovranità di esso si era frantumata nell’anarchia baronale e nel municipalismo cittadino. La tendenza anarchica del baronaggio fu aggravata dalla eterogeneità della sua costituzione e dalle influenze esterne a cui era sensibile. Eccettuati pochi, e questi stessi in rare occasioni, i feudatari rimasero sordi agli appelli dei sovrani e passarono chi da una chi dall’altra parte dei pretendenti al trono siciliano. Il vizio costituzionale del regno, la mancanza di equilibrio tra le forze sociali e politiche, lo strapotere di un ceto, lo scarso sentimento del pubblico bene in tutti avevano reso lo stato siciliano incapace di resistere all’urto esterno. Il regno [..] di Sicilia non durò, e a stento, che centotrent’anni, perché in esso più presto [rispetto a Napoli] giunse a maturità la crisi interna e su di esso si fecero presto sentire gli influssi della mutata situazione internazionale.»

La Sicilia perde la sua indipendenza senza eroismi, senza azioni epiche, priva di ogni furore, di ogni empito vuoi ribellistico vuoi di generosa dedizione. Il parlamento  del 1413 si limita a chiedere che venisse in Sicilia l’aragonese o almeno un suo figlio. Non fu esaudito. Venne persino disattesa l’istanza che almeno a siciliano fosse affidato il governo.

Tralasciamo qui le brighe del Cabrera. Limitiamoci a segnalare che nel 1415 venne il primo viceré, l’infante Giovanni, duca di Peñafiel. Nel 1416 lo stesso parlamento siciliano tentò di acclamare proprio il viceré, ma l’infante Giovanni rifiutò.  

Sotto Alfonso il Magnanimo abbiamo un sottile gioco terminologico che può abbagliare, ma la sostanza resta: scatta un sistema impositivo in favore di un dominatore straniero che non s’incentra più sulla “colletta”, sibbene – più graziosamente – sul “donativo”, con il che si voleva far credere che si trattasse di erogazione volontaria per pubbliche finalità. Era comunque un’imposta straordinaria che si aggiungeva al reticolo fiscale, specie a livello locale, con l’aggiunta delle tante tasse religiose che curie vescovili e strutture parrocchiali esigevano puntigliosamente.

Migliora l’ordinamento giudiziario e di polizia, ma la condizione di pubblica sicurezza non sempre poté fare l’auspicato salto di qualità. «Un complesso di cause  - scrive sempre il De Stefano [13]   - l’impedì: la concessione del mero e misto impero, prima provvisoria e limitata ai grandi feudatari, con la riserva della necessità, per il suo esercizio, dell’atto sovrano della concessione, dell’appello dei vassalli alla Magna Curia e del rispetto della procedura; la difesa vigile e gelosa del privilegio del foro locale da parte delle città demaniali, non solo per le cause civili ma anche per le penali, e tanto per le cause riguardanti i singoli cittadini che il comune; […] la dilatazione del foro militare a spese del civile; i conflitti di giurisdizione, gli abusi di autorità, l’influsso di parentele che legavano i funzionari ai “gentiluomini” e ai principali cittadini; e, infine, il privilegio baronale dell’«affidare», per cui “delinquentes, malfactores, omicidas et debitores et bannitos et alios” si rifugiavano in “locki de baruni et da loru non si po fari ne haviri justicia”.»

Con fermezza Alfonso contrastò i casi di eterodossia: resta memorabile la decisione regia nel conculcare l’eresia che un minorita, nel 1434, andava diffondendo nel trapanese. Fu arrestato il minorita visto che propalava «multa enormia concernentia contra catholicam fidem.»

Alfonso (1416-1458) ebbe il dominio della Sicilia per lungo tempo, per quarantadue anni: morto il re, il successore, nel 1460, per decisione sovrana annunciata alle Cortes, volle che l’Isola entrasse formalmente a far parte della monarchia spagnola. Con nobiltà d’intenti, ma con palese faziosità, il De Stefano [14] crede che la Sicilia vi entrò «forte della sua coscienza autonomistica, con un’anima e un pensiero suoi propri saldamente confermati che i secoli di quella appartenenza nulla tolsero o poco modificarono del suo patrimonio spirituale. La cultura giuridica e l’erudizione storica la tennero salda nelle sue istituzioni particolari; quella umanistica conservò tenaci i suoi spirituali con la grande nazione italiana.»

Giovanni d’Aragona (1458-1479) resse una Sicilia ove sommosse popolari causate da carestie e odi baronali (come il famoso caso di Sciacca del 1459), nonché l’efferata uccisione della baronessa di Militello, donna Aldonza Santapau, sgozzata nel 1475 dal marito Antonio Barresi, contrassegnarono quei ventuno anni  di regno aragonese.

Nel 1475 fu creato un organo speciale, detto deputazione del regno, per l’esecuzione delle decisioni parlamentari. Solo che il potere del parlamento andò sempre più decadendo e i rappresentanti dei tre bracci (militare o baronale, ecclesiastico e demaniale) disertavano le adunanze e si facevano spesso rappresentare dai loro delegati.

Succede a Giovanni d’Aragona Ferdinando il Cattolico (1479-1516) che sposa Isabella di Castiglia e riuscì ad unificare la Spagna. Di notevole personalità furono i viceré che inviò in Sicilia come Gaspare De Spes (1479-1488), Ferdinando De Acugna (1489-1494) e Ugo Moncada (1509-1516).

Il Sant’Uffizio venne introdotto in Sicilia sotto il vicereame di Gaspare De Spes, nel 1487, per iniziativa del frate Antonio della Pegna. Al tempo del viceré Ferdinando De Acugna, con l’editto del 31 marzo 1492, si ha l’espulsione  degli ebrei dalla Sicilia, con danni gravi per l’economia e la cultura.

In tale contesto, Racalmuto fa raramente capolino, come si è detto. La sua vicenda storica, in questa congiuntura, si fonde e finisce per coincidere con quella tutta baronale dei Del Carretto. Almeno per la prima metà del secolo, occorre mutuare le ricerche di Henri Bresc[15] per capire che cosa ha significato il regime aragonese e come questo si sia riflesso sul baronaggio (e di conseguenza su Racalmuto).

 

Con lo storico francese dobbiamo convenire che gli  anni 1390-1416 introdussero nella storia del feudalesimo una rottura evidente: le grandi signorie sono domate e solo due conti, Ventimiglia e Centelle di Collesano e Cabrera di Modica tennero testa alla monarchia. Il sogno feudale finisce: non si ha notizia, dopo il 1400, che di rare donazioni che i signori della terra fanno ai loro fedeli. [16] Il sistema feudale si semplifica; una sorveglianza efficace e puntigliosa sanziona ormai ogni infrazione della legge sul feudo, affidata ad una burocrazia largamente in mano agli spagnoli. La medesima disciplina regola i rapporti fra l’aristocrazia feudale, città demaniali e chiesa; la Monarchia controlla l’espansione dei patrimoni nobiliari; essa permette o proibisce a seconda dei sui interessi strategici e, in ogni caso, fa pagare cara ogni sua elargizione. Essa vigila sulle combinazioni dei matrimoni eccellenti. [17] La nobiltà feudale, largamente rinnovata, e fortemente contrassegnata dall’elemento catalano ad opera dei Martino, deve fronteggiare l’avversa congiuntura che caratterizzò la fine del XIV secolo: una rendita decrescente che non compensa più le usurpazioni facili delle rendite del Patrimonio reale,  ora difese da un’amministrazione castigliana strettamente legata alla casa d’Oltremare ed un indebitamento cronico in crescita insopportabile a causa degli sperperi per doti insufflate. Nel servizio reale la concorrenza dei giuristi e dei tecnici dell’amministrazione limita i profitti ed i posti prestigiosi riservati all’aristocrazia regnicola. Essa difenderà duramente i suoi privilegi e lotterà qualche volta ad armi eguali, fornendo a sua volta chierici e letterati – conforme al modello ispanico. [18]

Questi ostacoli, la rivalità di una giovane nobiltà burocratica, l’impoverimento dei baroni, l’emergere di una classe di notabili della piccola borghesia comunale, determinano un ripiegamento sui valori sicuri, sulla terra e sul potere signorile.

Una buona gestione patrimoniale, il consenso generale della pubblica opinione e della monarchia che vedono nella classe feudale l’asse insostituibile della società e dello Stato, la ripresa economica dopo una pausa di più di 50 anni,[19] permettono al feudalesimo siciliano di superare senza troppo danno il punto di svolta dell’avversa congiuntura. Il prestigio è salvo – e questo è l’essenziale; la ripresa delle rendite, cui seguono subito la crescita demografica ed il grande movimento commerciale. All’inizio in modo incerto e dopo con regolarità si risolve, a ridosso del 1450, la precaria situazione economica della nobiltà fondiaria e del clero. I primi indici di questo raddrizzamento si percepiscono nei feudi vicino Palermo, dove l’aumento delle rendite dell’erbaggio è sensibile dal 1420. Poi s’estende ai feudi dell’interno. [20] Nel 1513, Giovan Luca Barberi farà una descrizione dettagliata d’una Sicilia feudale che ha ritrovato e superato largamente le rendite descritte nel Rollo del 1336: in media, per 36 feudi non abitati nelle due fonti che riportano la  rendita – sulla quale poggia l’imposta feudale -, l’aumento sarà del 113% : esso si alzerà al 190% nel Val Demone e al 193,8% in Val di Noto; infine esso sarà minore in Val di Mazara, dove il campione comprende senza dubbio dei feudi minori e smembrati nel corso di questi due secoli. Una cosa è sicura: le modifiche della geografia feudale sono, in effetti, numerose.

L’interesse  dell’aristocrazia feudale e delle famiglie della nobiltà urbana alle rendite terriere non spiega solo la corsa ai  “latifondi” che riesplode, dopo la fase di stanca avutasi tra il 1350 ed il 1390, quando solo una dozzina di donazioni di feudi ai monasteri aveva avuto corso, e ritorna l’antico costume della rifeudalizzazione dei beni ecclesiastici e dei patrimoni municipali. Feudatari e nobili di estrazione modesta e con titolo recente rivaleggiano per ottenere una investitura di beni ecclesiastici o l’assegnazione di un baglio. Essi spogliano puntualmente vescovadi e monasteri delle relative rendite e si adoperano per la risoluzioni di antichi contratti.[21]  Ora hanno maggior fiducia in loro stessi ed estendono la loro supremazia incrementando il possesso delle terre, rafforzando a proprio beneficio i vincoli fondiari ed accrescendo il peso dello stato feudale terriero.

Del pari, dopo una dura battaglia contro i loro vassalli, i baroni titolari di “terre” abitate assicurano una amministrazione efficace dei loro diritti sugli uomini. Usciti generalmente vittoriosi da questi conflitti, la classe baronale estende il potere feudale su numerose “università” demaniali: gabelle, diritti di giustizia, bannalità, tutto un patrimonio strappato alla corte reale, in cambio di finanziamenti della lunga e costosa impresa napoletana. Un obiettivo viene sempre più perseguito: quello di ripopolare le “terre”. Ora, i baroni, dopo la parentesi della catastrofe demografica, ritornano alla loro tradizione volta alla difesa dell’abitato rurale; ottengono, così, un migliore sfruttamento della terra, un incremento della rendita di quanto dato in gabella, una più redditizia gestione della giustizia; e l’aumentato peso politico vale bene il sacrificio di qualche salma di terra, per giardini o per le infrastrutture sociali occorrenti ai nuovi abitanti.

Questa nobiltà che accetta la pace col re, non rinuncia né al prestigio della cavalleria né al dominio violento. Se, nella mischia feudale, le grandi famiglie cozzano fra loro, la nobiltà terriera tiene comunque al suo stile di vita, alla sua autorità, ai propri vassalli, altera del suo rango. Ma non si lascia andare alle “serrate”: questa aristocrazia resta aperta all’ascesa dei nobili municipali e dei mercanti-banchieri. Piuttosto: autorità, distinzione, prestigio attirano, affascinano. E il rinnovamento delle famiglie permette la mobilità del capitale feudale e, spesso, disinnesca gli scontri frontali tra le oligarchie municipali e l’aristocrazia fondiaria.

 


 

 


 

 

 

 

INVEGES

 

LA CARTAGINE SICILIANA - HISTORIA DIVISA IN DUE LIBRI.

 

 

Nel I. si ragiona del Nome, Sito, & Origine dell'antichissima Città di Caccabe, hoggi Caccamo.

Nel II. si riporta la discendenza di XIV Nobilissime famiglie Normanne, Francese, e Spagnuole, che dalla libertà Normanna infin'al presente giorno l'han signoreggiato.

 

Segeyo, Bonello, Lamardino, Cicala, Podio Riccardi, Stendardo, Prefolio, Chiaramonte, Aragona, Queralto, Prates, Cabrera, Enriquez, Amato.

 

 

 

COMPOSTA DA D. AGOSTINO INVEGES - Sacerdote Siciliano, da Sciacca. L'anno 1660.

 

In PALERMO, Nella typograph. di Giuseppi Bisagni. 1661.

 

 

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pag. 159 Delle Famiglie Padroni di Caccamo - (libro secondo cap. quinto)

[Marchesa Prefolio] Si morì carica d'anni S. Contessa nella stessa Città di Giorgenti circa l'anno 1300, si sepellì nella Maggior Chiesa della medesima città con pompa di marmorea urna; ove in terra piana anche fù sepellito Federico Chiaramonte suo figlio loco depositi con ordine; che ivi si fabricasse una Cappella; & ogni dì si celebrasse una Messa; come appare per lo [pag. 160] testamento 1 [nota 1: In Tab. Conventus S. Dominici Agrig.] celebrato in Girgenti anno Dominicae Incarnationis 1311, Mense Decembris 27. Indict. 10. regnante Serenissimo Domino N. Domino Friderico III. Rege anno sui regiminis 16. Ove si leggono queste sollenni parole: Item eligo mihi Sepulturam in Maiori Agrigentina Ecclesia in terra ante sepulturam Dominae Matris meae. Questa Marchisia Prefolio dal suo Marito Chiaramonte hebbe tre figliuoli de' quali sappiamo il nome. Manfredo primogenito è primo di questo nome Primo Conte di Modica, e Signore di Caccamo del quale largamente favelleremo più a basso. Gio. il Vecchio, il quale si casò con Lucca Palizzi, e secondo Antonio Herrera,& il Fazello fù Conte di Chiaramonte nel Val di Noto: e Federico marito di Giovanna, che fù Signore di Racalmuto, e Siculiana. Però dal testamento di questo Federico, del quale faremo memoria appresso, si cava non oscuramente, che l'istessa Marchisia al suo marito partorito habbia altri figli, oltre li memorati, benche li loro nomi sono à noi incogniti, imperoche instituendo la sua unica figlia Costanza herede universale, chiama in suo difetto alla successione il fratello Conte Manfredo, e gli altri fratelli con queste parole, videlicet: Si forte quod absit dicta Domina Constantia absque liberis statim dies impleverit, quod ipsa hereditas ad Dominum Manfredum Comitem Mohac, et ipsos de Claramonte Milites Fratres meos legitime, et integre reservatur, etc.Non lasciarò di avvertire, che in alcune scritture si ritrova il cognome di questa Famiglia scritto, e chiamato Profolio, ma il più ordinario è Prefolio.

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pag. 174

 

L'asserisce l'autentico testamento dell'istesso Federico sollennizato in Girgenti nel 1311 à 27 di Decembre 10. Ind. regnando Rè Federico [pag. 175]  II nella Sicilia: ove si dice: Item eligo sepulturam in Maiori Agrigentina Ecclesia in Terra, ante sepulturam Dominae Matris meae Marchisiae. E che questo Federico sia stato fratello di Giovanne Chiaramonte il Vecchio nell'istesso testamento à questo modod si dichiara, Item lego Mamfriduccio filio nob. Domini Ioannis de Claramonte fratris mei pro uno equo uncias auri 25. In oltre, che l'istesso Federico sia fratello di Manfredo nel principio del medesimo testamento si espone Si forte, quod absit, dicta domina Constantia absque liberis statim dies impleverit; quod ipsa hereditas ad Dominum Manfredum Comitem Mohac, et ipsos de Claramonte milites fratres meos legitime, et integre revertatur: ove Chiaramonte si vede; ch'hebbe più Fratelli.

 

 

 

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pag. 186

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nella sopracitata scrittura si vede nel 1220 Federico Chiaramonte creato Cavaliere da Honorio III per i servitij fatti da lui personalmente, e dai suoi antenati nella Guerra sacra, potentissimus et magnificus Princeps et Dominus D. Federicus Claramonte consanguineus noster miles, creatus nuper à Sanctissimo in Christo Patre, et Domino Nostro Honorio, Divina Providentia Papa tertio, et ab eo potestas tradita est, qua possit pugnare pro Iustitia ad Honorem Dei, et etiam propter Sanctam Rom. Ecclesiam et maximè contra Sarracenos, seù infideles, et schismaticos, et ut elapsis temporibus semper fecerunt potentissimi etc. Di più leggo nel testamento di Federico Signor di Rachalmuto, fratello del conte Manfredo I e di Gio. il Vecchio, figlioul di Marchisia Prefolio, sollennizato nell'anno 1311, che lascia a sue spese quattro Cavalli armati, per soccorso della sudetta Guerra Sacra. Item lego Sancto Passagio equos quatuor armatos semper ad omnes expensas meas, et de hoc onus exhibeo haeredi meae (filiae Constantiae) et fidei commissariis meis, quod non deficiant in praemissis. Di qui .....

 

 

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