martedì 12 aprile 2016


IL FEUDO DI GIBILLINI


Feudo, Racalmuto, lo fu parzialmente: dalla diplomatistica  emerge come il feudo di Gibillini sia cosa ben diversa dalla contea racalmutese. Per Gibillini, s’intende il territorio degradante tutt’intorno al castello - oggi denominato Castelluccio - e non soltanto la contrada della omonima miniera, che forse un tempo non faceva neppure parte di quella terra feudale, almeno integralmente.
Il primo accenno storico a Gibillini risale al 21 aprile 1358 ;[1] Giuseppe Cosentino, valente diplomatista, così sintetizza il documento che non ritiene di pubblicare:
«Il Re concede al milite Bernardo de Podiovirid e ai suoi eredi il castello de GIBILINIS, vicino il casale di Racalmuto e prossimo al feudo Buttiyusu [feudo posto vicino SUTERA n.d.r.], già appartenuto al defunto conte SIMONE di CHIAROMONTE traditore, insieme a vassalli, territori, erbaggi ed altri dritti; e ciò specialmente perchè il detto Bernardo si propone a sue spese di recuperare dalle mani dei nemici il detto castello e conservarlo sotto la regia fedeltà: riservandosi il Re di emettere il debito privilegio, dopoché il castello sarà ricuperato come sopra.»
Pare che Bernardo de Podiovirid non sia riuscito a prendere possesso di Gibillini: il feudo ritorna prontamente in mano dei Chiaramonte. Simone Chiaramonte è personaggio ben noto e fu protagonista di tanti eventi a cavallo della metà del XIV secolo. Michele da Piazza lo cita varie volte. Il fiero conte ebbe a dire recisamente a re Ludovico «prius mori eligimus, quam in potestatem et iurisdictionem  incidere catalanorum»: preferiamo morire anziché finire sotto il potere e la legge dei catalani. Mera protesta, però; il Chiaramonte è costretto a fuggire in esilio presso gli angioini. Scoppia la guerra siculo-angioina che si regge sull’apporto dei traditori. Secondo Michele da Piazza, i chiaramontani, non contenti né soddisfatti di tanta immensa strage, da loro inferta ai siciliani, si rivolsero agli antichi nemici della Sicilia per spogliare dello scettro re Ludovico.
Nel marzo del 1354 i primi rinforzi angioini pervennero a Palermo e Siracusa. In tale frangente fame e carestia si ebbero improvvise in Sicilia, favorendo gli invasori. Ne approfittò Simone Chiaramonte “capo della setta degl’italiani - secondo quel che narra Matteo Villani -   [promettendo] ai suoi soccorso di vittuaglia e forte braccia alla loro difesa: i popoli per l’inopia gli assentirono”.[2] Prosegue Giunta [3] «queste premesse spiegano il rapido inizio dell’impresa dell’Acciaioli, il quale accanto a 100 cavalieri, 400 fanti, sei galere, due panfani e tre navi da carico, si presentò “con trenta barche grosse cariche di grano e d’altra vittuaglia”, sì da ottenere  festose accoglienze da parte dei Palermitani “che per fame più non aveano vita”, nonché il rapido dilagare della insurrezione a Siracusa, Agrigento, Licata, Marsala, Enna “e molte altre terre e castella”». Tra le quali possiamo includere tranquillamente Racalmuto e Gibillini.
Simone Chiaramonte muore a Messina avvelenato nel 1356, un paio d’anni prima del citato documento. Ma da lì a pochi anni, Federico IV, detto il Semplice riuscì a riconciliarsi con i Chiaramonte e nel febbraio del 1360 accordava un privilegio tutto in favore di Federico della casa chiaramontana.
Il feudo di Gibillini appare sufficientemente descritto nell’opera del San Martino de Spucches .[4] Secondo l’araldista il feudo di Gibillini, quello di Val Mazara, territorio di Naro, da non confondersi con l’altro ancor oggi chiamato di Gibellina, appartenne, “per antico possesso” alla famiglia Chiaramonte. Srabbe stato Manfredi Chiaramonte [5] a costruirvi la fortezza, quella che ora è denominata Castelluccio. L’ultimo della famiglia a possedere il feudo fu Andrea Chiaramonte, quello che, dichiarato fellone, ebbe la testa tagliata  a Palermo nel giugno del 1392, nel palazzo di sua proprietà, lo Steri.
Re Martino e la regina Maria insediarono quindi Guglielmo Raimondo Moncada, conte di Caltanissetta. Il feudo divenne ereditario,  iure francorum, con obbligo di servizio militare e cioè con due privilegi, il primo dato in Catania a 28 gennaio 1392 (registrato in Cancelleria nel libro  1392 a foglio 221) [6]; col secondo diploma, dato ad Alcamo, il 4 aprile 1392 e registrato in Cancelleria nel libro 1392 a foglio 183, fu dichiarato consanguineo dei sovrani, ebbe concessi tutti i beni stabili e feudali, senza vassalli, posseduti da Manfredi ed Andrea Chiaramonte, dai loro parenti e dal C.te Artale Alagona, beni siti in Val di Mazara, eccetto il palazzo dello Steri ed il fondo di S. Erasmo e pochi altri beni. Nel 1397 ad opera del cardinale Pietro Serra, vescovo di Catania e di Francesco Lagorrica, il Moncada  fu deferito come reo di alto tradimento, avanti la gran Corte, congregata in Catania; ivi con sentenza 16 novembre 1397 fu dichiarato fellone e reo di lesa maestà ed ebbe confiscati tutti i beni. Morì di dolore nel 1398.
Subentrò Filippo de Marino, fedelissimo vassallo del Re (1398); non abbiamo la data precisa della concessione; per quel che vale il de Marino figura possessore del feudo di Gibillini nel ruolo del 1408 dello pseudo Muscia.[7] 
 Il feudo pervenne successivamente a Gaspare de Marinis, forse figlio, forse parente. Da questi, passa al figlio Giosué de Marinis che ne acquisì l’investitura il 1° aprile 1493 more francorum,  [8] per passare quindi a Pietro Ponzio de Marinis, investitosene il 16 gennaio 1511 per la morte del padre  e come suo primogenito. [9]  Costui sposò Rosaria Moncada che portò in dote i feudi di   Calastuppa, Milici, Galassi e Cicutanova, membri della Contea di Caltanissetta, come risulta dall'investitura presa  dalle figlie Giovanna e Maria il  22 settembre 1554 (R. Cancelleria, III Indizione f.96).
Succede Giovanna De Marinis e Telles, moglie di Ferdinando De Silva, M.se di Favara con investitura del 15 gennaio 1561, come primogenita e per la morte di Pietro Ponzio suddetto (Ufficio del Protonotaro, processo investiture libro 1560 f. 271).

Maria De Marinis Moncada s'investì di Gibillini il 26 dicembre 1568, per donazione e refuta fattale da Giovanna suddetta, sua sorella (Ufficio del Protonotaro, XII Indiz. f.479) .
Beatrice De Marino e Sances  de Luna s'investì di due terzi del feudo il 17 ottobre 1600, per la morte di Alonso de Sanchez suo marito, che se l'aggiudicò dalla suddetta Giovanna suddetta, M.sa di Favara (Cancelleria libro dell'anno 1599-1600, f. 15); peraltro v’è pure un’investitura di questo feudo, datata 7 agosto 1600, a favore di  Carlo di Aragona de Marinis, P.pe di Castelvetrano, figlio di detta Maria de Marinis (R. Cancelleria, XIII Indiz., f.160); un’altra investitura la troviamo in data 28 agosto 1605 a favore di Maria de Marinis per la morte di Carlo suo figlio (R. Cancelleria, III Indiz. , f. 491); dopo non ci sono investiture a favore dei Moncada.
Diego Giardina s'investì di due terzi il 24 gennaio 1615, per donazione fattagli da Luigi Arias Giardina, suo padre, a cui le due quote furono vendute da Beatrice suddetta, agli atti di Not. Baldassare Gaeta da Palermo il 5 dicembre 1608 (Cancelleria, libro 1614-15, f. 265 retro). Vi fu quindi una reinvestitura in data 18 settembre 1622, per la morte del Re Filippo III e successione al trono di Filippo IV (Conservatoria, libro Invest. 1621-22, f. 283 retro).

Subentra - sempre nei due terzi - Luigi Giardina Guerara con investitura del 28 febbraio 1625, come primogenito e per la morte di Diego, suo padre (Cancelleria , libro  del 1624-25, f. 214);  viene quindi reinvestito il 29 agosto 1666 per il passaggio della Corona da Filippo IV a Carlo II (Conservatoria, libro Invest. 1665-66, f. 119). Il Giardina  morì a Naro il 24  novembre 1667 come risulta da fede rilasciata dalla Parrocchia di S. Nicolò.
Diego Giardina da Naro, come primogenito e per la morte di Luigi suddetto, s'investì dei due terzi il 7 ottobre 1668  (Conservatoria, libro Invest. 1666-71, f. 89).
Luigi Gerardo Giardina e Lucchesi prese l’investitura il 9 settembre 1686  dei due terzi, per la morte e quale figlio primogenito di Diego suddetto (Conservatoria, libro Invest. 1686-89, f. 17).

Diego Giardina Massa s'investì il 26 agosto 1739, come primogenito e, per la morte di Luigi Gerardo suddetto, nonché come  rinunziatario dell'usufrutto da parte di Giulia Massa, sua madre, agli atti di Not. Gaetano Coppola e Messina di Palermo, del 1° ottobre 1738 (Conservatoria, libro Invest. 1738-41, f. 58).

Giulio Antonio Giardina prese l’investitura dei due terzi il 3 dicembre 1787, come primogenito e per la morte di Diego suddetto (Conservatoria, libro Invest. 1787-89, f. 25).

Diego Giardina Naselli s'investì dei due terzi del feudo di Gibellini il 15 luglio 1812, quale primogenito ed erede particolare di Giulio suddetto (Conservatoria vol. 1188 Invest., f. 124 retro); non ci sono ulteriori investiture o riconoscimenti.

Ma a questo punto scoppia il caso Tulumello. Il San Martino de Spucches, da qui, non segue bene le vicende feudali di Gibillini.  Comunque nel successivo volume IX - quadro 1454, pag. 221 - intesta: “onze 157.14.3.5 annuali di censi feudali - GIBELLINI - Cedolario, vol. 2463, foglio 204” ed indi rettifica:
«Giulio GIARDINA GRIMALDI, Principe di Ficarazzi s'investì di due terzi del feudo di GIBELLINI a 3 dicembre 1787 come figlio primogenito ed indubitato successore di Diego GIARDINA e MASSA (Conservatoria, libro Investiture 1787-89, foglio 25).
1. - Quindi vendette agli atti di Not. Salvatore SCIBONA di Palermo li 22 luglio 1796 a D. Giovanni SCIMONELLI, pro persona nominanda annue onze 157, tarì 14, grana 3 e piccioli 5 di censi sopra salme 57, tumoli 11 e mondelli 2 di terre, dovute sul feudo di Gibellini; e ciò per il prezzo in capitale di onze 3500 pari a lire 44.625. Il detto Scimoncelli dichiarò agli atti di Notar Giuseppe ABBATE di Palermo che il vero compratore fu il Sac. D. Nicolò TOLUMELLO. Per speciale grazia accordata dal Re a 29 aprile 1809 fu confermato lo smembramento di dette onze 157 e rotte dal feudo di GIBELLINI già effettuate senza permesso Reale (Conservatoria, libro Mercedes 1806-1808, n. 3 foglio 77).

2. - D. Giuseppe Saverio TOLUMELLO s'investì a 7 giugno 1809 per refuta e donazione a suo favore fatte dal Sac. D. Nicolò sudetto agli atti di Notar Gabriele Cavallaro di Ragalmuto li 22 aprile 1809 (Conservatoria, libro Investiture 1809 in poi, foglio 40). Questo titolo non esce nell'«Elenco ufficiale diffinitivo delle famiglie nobili e titolate di Sicilia» del 1902. L'interessato non ha curato farsi iscrivere e riconoscere.»

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Le vaghe fonti storiche sembrano dunque assegnare l’erezione del Castelluccio a Manfredi Chiaramonte: la data sarebbe quella del primo decennio del XIV secolo, la stessa del Castello eretto entro il paese. Manfredi era il fratello di Federico II Chiaramonte, ritenuto l’artefice “di lu Cannuni”. Perché due fratelli abbiano deciso di erigere due castelli diversi in territori così contigui, resta un mistero. Forse la tradizione - tramandataci dal Fazello e dall’Inveges - è fallace. Quello che è certo che sia il feudo di Gibillini (da Sant’Anna al Castelluccio sino alla contrada dell’attuale miniera di Gibillini), sia il feudo di Racalmuto (da Quattrofinaiti al confine con Grotte; dalla Montagna al Giudeo sino alla Difisa) erano possedimenti della potente famiglia chiaramontana, e tali sostanzialmente rimasero sino al loro tracollo, alla fine del XIV secolo, allorché il duca di Montblanc ebbe modo di tagliar la testa ad Andrea di Chiaramonte. Il feudo di Gibillini passa alla famiglia Moncada, ma per breve tempo, e quindi alle scialbe case baronali dei Marino, prima, e Giardina, poi. Passa, quindi, ai Tulumello  per mano di un prete e ciò ad onta di tutte le prerogative del feudalesimo siciliano. La cosa, del resto, finì nei tribunali per una lunga vicenda giudiziaria – questa volta, tutta ottocentesca – che rimase impressa nella memoria dei racalmutesi, ostile e beffarda verso i nuovi nobili racalmutesi, provenienti da una famiglia di gabelloti sino al tardo Settecento. Più vindice che ragionato il gran dispitto che Sciascia dispensa, qua e là, a codesti baroni di nuovo conio, come prima abbiamo avuto modo di scrivere. Oggi i rampolli dei Tulumello – che discendono sia da questa casata sia da quella ostile dei Matrona, per felici matrimoni– meritano ogni rispetto. E noi non vorremmo davvero qui maculare l’amicizia che a loro ci lega.

La svolta del 1374


Ma quando agli inizi del 1373 Palermo e Napoli ebbero per certe le condizioni di pace, divenne più agevole definire il concordato con il papato che manteneva sulla Sicilia il suo irriducibile interdetto.  La corte pontificia, ancora ad Avignone, versava in ristrettezze economiche: se la Sicilia si mostrava disponibile ad una tassazione straordinaria aveva possibilità di una rimozione del gravame papale. Fu così che si fece strada la soluzione della controversia con il papa: bastava assicurare il pagamento di un sussidio il cui peso sarebbe finito direttamente sulle vessate popolazioni dell’Isola, compreso Racalmuto naturalmente.
E qui la minuscola vicenda racalmutese si aggancia ai grandi eventi della storia medievale di quel torno di tempo. Affiora, ad esempio, un nesso tra papa Gregorio XI e la reggenza di Racalmuto nel 1374. Gregorio XII era in effetti Pietro Roger de Beaufort nato a  Limoges nel  1329; morirà a Roma nel 1378. Eletto papa nel 1371, ristabilì a Roma la residenza pontificia ponendo fine alla cosiddetta "cattività avignonese". La fine del suo pontificato fu contraddistinta dalla rivolta generale delle province italiane. Nel 1375 e nel 1376, nel momento in cui Firenze ingaggiava contro la Santa Sede la guerra degli «8 santi», novanta città e castelli dello Stato pontificio si sollevavano contro gli ufficiali apostolici e demolivano le fortezze edificate antecedentemente dal cardinale Albornoz. La rivolta può venire considerata causa del definitivo tracollo del papato francese in Italia, che non riesce più a percepire i sussidi straordinari imposti dal 1370 al 1375 nei domini della Santa Sede.
Negli ultimi anni della loro dominazione in Italia, i papi avignonesi ricorsero molto spesso alla generosità dei loro sudditi con richiesta di sussidi straordinari, tanto da trasformarsi in imposte ordinarie. Quanto al consenso dei parlamenti, divenuto alla lunga puramente formale, a partire dal 1374 esso tendeva a sparire del tutto.
 Dal 1369 al 1371 si trascina la guerra di Perugia e diviene controversa l’esazione dei sussidi della Tuscia in favore del patrimonio della Santa Sede. [10] Scoppia quindi la guerra milanese ed insorgono difficoltà per l’acquisizione dei sussidi relativi agli anni 1372-1373. L’Italia conosce, nel 1374 e nel 1375, la devastazione della peste e della fame. L’epidemia di peste bubbonica affiorata a Genova nel 1372 si diffonde a poco a poco per il resto d’Italia, e nel 1374 raggiunge la Francia meridionale.
Una grande siccità imperversò alla fine del 1373. Dopo, nel successivo aprile, cominciarono piogge torrenziali e protratte che rovinarono la mietitura e provocarono la carestia. Un coacervo dunque di circostanze per le quali Gregorio XI si vide costretto a sollecitare un nuovo aiuto economico da parte dei sudditi italiani per sostenere la guerra che continuava, più furibonda e più rovinosa che mai, contro il signore di Milano.
All’inizio del 1375, la Camera apostolica non incontra difficoltà soltanto in alcune province dell’Italia centrale. La carenza contributiva si estende alla Cristianità intera. Salvo forse la Francia, la percezione dell’obolo è un totale fallimento nel reame di Napoli e, specialmente, in Sicilia. L’Inghilterra si era sollevata contro le pretese di Gregorio XI. Il clero di Castiglia e di Lione e quello del Portogallo rifiutava ogni aiuto. Il papa fu allora costretto a revocare le vecchie tasse e dichiarare che si accontentava di somme relativamente modeste (qui 20.000 e là 25.000 fiorini). Nella stessa Italia, gli ecclesiastici fanno orecchi da mercante e rifiutano di consegnare al collettore Luca, vescovo di Narni, i contributi che pure avevano promesso. I mercenari non sono pagati e, per calmarli, Gregorio XI deve conferire terre della Chiesa ai loro capi.
La guerra milanese è frattanto prossima a concludersi. Il 4 giugno 1375, la tregua con i Visconti è sancita. Ma, lungi dal riassettare una situazione fortemente compromessa, la fine delle ostilità aggrava le tensioni. I mercenari, privi del loro soldo, sono lì lì per costituirsi in compagnia e rifarsi con i saccheggi. Non basta, certo, un’ipotetica retribuzione a frenarli. Solo degli espedienti possono salvare provvisoriamente la Camera apostolica.  Gregorio XI si fa prestare somme enormi.
L’incapacità del papato di procurarsi il denaro necessario al finanziamento della guerra contro Bernabò Visconti è il segno del fallimento finale della fiscalità avignonese. Questo fallimento deborda dai limiti dello Stato pontificio e si estende a tutta la Cristianità, come mostra il rifiuto pressoché generale di pagare i “sussidi della carità” sollecitati da Gregorio XI nel 1373.
Per un sussidio di carità può però la Sicilia togliersi da dosso l’interdetto, conseguenza del Vespro: lo può l’intera Sicilia ed è perdonata; lo può Manfredi Chiaramonte e tutte le sue terre sono perdonate;  lo può Racalmuto ed il 29 marzo 1375 viene solennemente assolto, con un cospicuo “sussidio della carità” , di una colpa mai commessa. 
Storici di acuto intelletto scrivono che «c’è un elemento comune del mondo moderno che è stato considerato come il fondamento del suo processo evolutivo, nelle forme di stato e Chiesa, costumi, vita e letteratura. Per produrlo le nazioni occidentali dovettero formare quasi un unico stato spirituale e temporale insieme.» [11] Ma ciò per un breve momento. Sorgono quindi le lingue nazionali; si sfalda il precedente mondo monolitico e «un passo dopo l’altro, l’idioma della Chiesa si ritirò dinanzi alle impellenze delle varie lingue delle varie nazioni.»  L’universalità perse terreno; l’elemento ecclesiastico che aveva sopraffatto le nazionalità entra in crisi; i popoli si mettono in cammino lungo percorsi  nuovi, in incessante trasformazione, e sempre più accentuatamente distinti e separati. La potenza dei papi era assurta ad altissimi livelli in un mondo coeso. Ma ecco che nuovi momenti cominciano ad eroderla. Furono i francesi che opposero la prima decisa resistenza alle pretese dei papi. Si opposero, in concordia nazionale, alla bolla di condanna di Bonifacio VIII; tutti i corpi di quel popolo espressero il loro consesso agli atti del re Filippo il Bello.
Seguirono i tedeschi. L’Inghilterra non rimase estranea per lungo tempo a questo movimento; quando Edoardo III non volle più pagare il tributo al quale i re suoi predecessori si erano impegnati, ebbe l’assenso del suo parlamento. Il re prese allora misure per prevenire altri attacchi della potenza papale.
Una nazione dopo l’altra si rende autonoma; le  pubbliche autorità rigettano le idee di sudditanza ad una autorità superiore, sia pure a quella del papa. Anche la borghesia si discosta dall’umile sottomissione ai papi. E gli interventi di costoro vengono respinti dai principi e dai corpi statali.
Il papato cade allora in una situazione di debolezza e di imbarazzo che rese possibile ai laici, che sinora avevano cercato di difendersi, di passare al contrattacco. Si ebbe addirittura lo scisma. I papi poterono essere deposti per volontà delle nazioni. Il nuovo eletto doveva adattarsi a stabilire concordati con i singoli stati.
E così da Avignone il papa dovette tornarsene a Roma. E’ questo un momento cruciale della crisi che abbiamo fugacemente additata. Ed in questa congiuntura, cade appunto la remissività papale verso la Sicilia. In cambio di un obolo supplementare si può procedere alla revoca di un interdetto, frutto di potenza, arroganza ed al contempo di remissività verso la Francia.


[1] ) DOCUMENTI PER SERVIRE ALLA STORIA DI SICILIA - SERIE DIPLOMATICA VOL. VIIII (NOVE) - PALERMO 1885 - CODICE DIPLOMATICO DI FEDERICO III DI ARAGONA RE DI SICILIA (1355-1377) - DI GIUSEPPE COSENTINO. VOL. I - PAG. 451-452. DOCUMENTO DCLVII (657) - CEFALU', 21 aprile 1358. ind. XI.

[2] ) Matteo Villani, Cron., IV,3.
[3] ) Francesco Giunta, Aragonesi e catalani nel Mediterraneo, Palermo 1953, I, pag. 49 e segg.
[4]) Avv. Francesco SAN MARTINO de SPUCCHES - La storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia dalla loro origine ai nostri giorni - 1925 - Palermo 1929 - vol. IV - Quadro 435 - pag. 80.
[5] ) ma vedansi i dubbi che si sollevano dopo.
[6] ) con tale privilegio  furono concessi i seguenti beni confiscati ad Andrea Chiaramonte cioé: la contea di Malta e di Gozzo col titolo di Marchese e l'isola di Lipari, la città di Naro, di Mineo e di Sutera, la terra di Delia, di Mussumeli, Manfredi, Gibillina, Favara, Misilmeri,  e la Rocca di Mongellino (PIRRI, Sicilia Sacra, f. 757 - APRILE,  Cronaca Sicula, f. 200 - INVEGES, Cartagine Siciliana, libro 2°, cap. 6, f. 300);
[7] ) MUSCIA, Sicilia Nobile, pag. 72
[8] ) Cancelleria, 1492-93, foglio 114.
[9] ) Conservatoria, libro INVEST. , 1495-1511, f. 1182; fu poi reinvestito il 20 gennaio 1417 per il passaggio della Corona (UFFICIO PROTONOTARO DEL REGNO, PROCESSI INVESTITURE, 1560-61).
[10] ) Jean Glénisson: les origines de la revolte de l’état pontifical en 1375, in Rivista di Storia della Chiesa in Italia, Anno V  . n. 2 1951, pag. 147 e segg.
[11] ) L. von Ranke - Storia dei Papi - Sansoni Firenze 1965, vol. I pag. 34.

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