mercoledì 8 febbraio 2017

Renzi non forzerà sul voto a giugno per evitare la scissione di Bersani

Se convocherà il congresso, spariglierà le carte al cantiere della sinistra di D’Alema
ANSA


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Pubblicato il 08/02/2017
roma
La linea viene trasmessa dai colonnelli più alti in grado del renzismo: il leader Pd non forzerà la mano sul voto a giugno per non spaccare il partito. O meglio: cercherà un accordo con tutte le componenti sulla legge elettorale e sui tempi del voto; ma se non lo troverà - e non sarà facile raggiungerlo vista la babele di posizioni in campo - non romperà con tutte le correnti pur di andare a votare subito. Anzi in quel caso concederà alla sinistra il congresso, leggermente anticipato nella tempistica, per convocare i gazebo sulla leadership in autunno invece che a dicembre.

Un modo per creare da una parte seri problemi al cantiere della sinistra in costruzione sotto la regia di D’Alema, «visto che molti nostri compagni sarebbero tentati di restare nel partito per combattere la battaglia congressuale», ammette uno di quelli presenti alla manifestazione di sabato 28 gennaio a Roma. Ma anche per sparigliare i giochi accettando le richieste di Bersani, che non vuole votare a giugno e chiede di fare il congresso. Evitando così di fornire alla fronda interna argomenti per una scissione che evidentemente sarebbe una iattura sotto il profilo elettorale. Gli alleati più stretti del segretario negano alcuna preoccupazione in merito, («come fanno Bersani e i suoi a spiegare che fanno una scissione per un problema di date?», chiede il presidente Orfini. «E poi non avrebbero gran seguito, visto che la nostra gente non vuol sentire parlare di divisioni». Insomma, anche se si cerca di far passare il refrain che non sia un gran problema, è innegabile che una scissione di Bersani e compagni, uniti a D’Alema e a spezzoni della sinistra, al di là dei numeri che potrebbe ottenere nelle urne, farebbe rischiare a Renzi un risultato ben al di sotto del 30% ora raffigurato dai sondaggi alla voce Pd. Preoccupante pure sotto il profilo della classifica elettorale: in pratica il Pd renziano rischierebbe di arrivare secondo dopo i 5Stelle, con tutto quel che ne conseguirebbe.

Ma non solo: il concetto espresso da vari maggiorenti come Fassino e Guerini - che non sarebbe pensabile allearsi con chi ha spaccato il Pd - porterebbe su un sentiero altamente scivoloso sulle coalizioni possibili dopo il voto; e sui numeri in Parlamento per ottenere una maggioranza con cui sostenere un governo. «Matteo comunque cercherà di ricucire su tutto, dai tempi del voto alla legge elettorale», dicono i colonnelli. «La nostra convinzione è che votare a giugno sia meglio che a febbraio 2018, ma non a scapito del paese e del partito». Parole che fanno capire come sia in corso una riflessione sui pro e contro di una forzatura. Che a quanto pare non ci sarà. Dunque se non si troverà alcun accordo sulla legge elettorale a breve, il segretario Pd non dovrebbe operare uno strappo per andare a votare lo stesso con le leggi uscite dalla Consulta. Che ancora deve partorire le sue motivazioni, attese tra venerdì e lunedì prossimo. In ogni caso la Direzione, servirà a tastare il polso di tutte le anime. «Io andrò come sempre, ma deciderò se parlare dopo aver sentito cosa viene detto», fa sapere Bersani. Giovedì sera riunirà tutta la sua corrente con Speranza, Epifani, deputati e senatori al gran completo. «Si possono discutere le proposte e non gli indovinelli», dice Bersani, alludendo alle tante versioni girate in questi giorni. E negando di aver in programma un incontro con Renzi. I mediatori renziani all’opera fanno però sapere che la proposta sul premio di coalizione vale solo per l’oggi, perché se non si vota a giugno, la «mozione Renzi» andrà al congresso con la linea della vocazione maggioritaria del Pd e di una legge elettorale che dia un vincitore e alleanze chiare la sera del voto. Insomma, Berlusconi, Alfano, ma anche Bersani, sono avvisati.  

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