martedì 3 ottobre 2017

LA VERA STORIA DI RACALMUTO.
UNA GRANDE MEMORIA DA RECUPERARE



Antichissima è la storia di Racalmuto. Essa è appassionante, piena di intrighi, tutta narrabile.

La conformazione del suolo, quale oggi ammiriamo, risale a sette milioni di anni fa: in pieno Pliocene. Sorsero allora dalle acque il Castelluccio, il Serrone, la Montagna, le colline del Nord, e si definirono le valli, i valloni, i declivi. L’altopiano di Racalmuto concluse il suo splendido maquillage che è la gioia dei nostri occhi.

Nel ventre racchiuse gesso ed alabastro, zolfo e salgemma, e giù nello sprofondo i sali potassici. Lo stillicidio delle acque formò splendidi cristalli  solforosi e salini che noi racalmutesi da sempre chiamiamo “brillanti”.

Subito vi si sparse una flora mediterranea e sopraggiunse una peculiare fauna. Anche animali preistorici, oggi estinti, vi si adattarono, dopo essere trasmigrati dall’Africa. Archeologi dilettanti ne hanno rinvenuto i resti e le testimonianze specie nella grotta di Fra Diego.

In quella grotta trovò ricettacolo il primo uomo, anch’esso venuto dal mare che congiunge con il continente africano. Dopo, circa dieci mila anni addietro, un popolo nuovo, i sicani, decisamente indigeno prosperò nelle contrade racalmutesi. A Gargilata, sotto la grotta di Fra Diego, vi fu il maggiore insediamento, come attestano le superbe tombe a forno di una necropoli oggi negletta per incuria delle Autorità. Ma altri insediamenti, più piccoli, si sparsero dappertutto: al Castelluccio, a Vircico, a S. Bartolomeo, a Garamuli, e persino giù nel vallone del Pantano. Fu una civiltà di cui sappiamo ben poco: argille, ceramica, tombe a forno e tholoi ci attestano però che fu civiltà meravigliosa, evoluta, che va studiata. Critichiamo aspramente le Autorità locali, provinciali, regionali, nazionali ed ora comunitarie per l’incuria che dimostrano.

Attorno al VI secolo avanti Cristo, i greci giunsero a Racalmuto e soppiantarono la civiltà sicana. Era stata gente rodia che si era trasferita a Gela; da lì una colonia si era attestata ad Agrigento (Agragas) e da Agrigento il dominio si era esteso a Racalmuto. Monete greche – in particolari monete di Agragas con il caratteristico granchio – sono state rinvenute a Racalmuto, a testimonianze di quella grande presenza. La mancanza di scavi scientifici ci impedisce di conoscere come quella sublime civiltà abbia trasformato il nostro paese. La lingua greca vi si diffuse e vi restò per quasi mille e tre cento anni, fino al dominio arabo. Noi pensiamo a quei greci di Racalmuto che potevano godersi lo spettacolo delle tragedie di Sofocle, Euripide, Eschilo, etc. nella madre lingua. Potevano ascoltare le intraducibili dolcezze delle odi di Pindaro. Fu gettato un seme del bello e dell’arte che tutti noi racalmutesi, ovunque oggi noi stiamo, portiamo nel sangue nel nostro DNA.

Roma vi portò invece i mali dello sfruttamento coloniale. Non si parlava latino. Si pagavano tasse in natura ed in denaro alla lontana Roma. Fummo stranieri e vessati. L’odio per la capitale vi dovette essere allora; continua adesso. Almeno c’è comprensibile distacco.

Subentrarono i bizantini. Parlavano greco come i racalmutesi. Vi fu affinità almeno linguistica. Monete di Eracleone e Tiberio II, rinvenute nel 1940 in contrada Montagna, attestano vivacità economica e laboriosità dei nuclei bizantini del nostro paese.

Poi la parentesi araba (dall’880 d.C. circa sino al 1087 d.C.). Si tende ad esagerare l’importanza della presenza araba a Racalmuto. Era poi una presenza berbera. Sparuti nuclei di contadini, dunque, che seppero soprattutto far crescere le verdure in orti sotto fontane perenni. Le verdure di Racalmuto sono ancora ineguagliabili. Per il resto, nessuna traccia archeologica, nessun documento scritto, nessuna teoria seria ci induce a credere in influenze significative degli arabi nel nostro centro. Può darsi che future ricerche archeologiche – in particolare sotto le torri del castello – ci restituiscano ceramiche e segni di una civiltà che oggi ignoriamo. Qualche sintomo, a dire il vero, va emergendo.

Arrivano i normanni. Sono predatori. Ma sono pochi e tutto sommato ininfluenti. Ormai nel territorio si parla arabo. I cosiddetti arabo-normanni sono disseminati in varie parti a Racalmuto. Soprattutto a Gargilata, allo Zaccanello ed a Garamuli. Affiorano a profusione ceramiche tipiche dell’epoca a testimoniarlo. Quei nostri antenati sono operosi, coltivano la terra, impiano vigneti, costruiscono palmenti, sanno convogliare le rade acque in gebbie. I vescovi di Agrigento, in nome di un preteso lascito di Ruggero il Normanno, li vessano. Esigono tasse, impongono balzelli, li costringono ad estranei riti cattolici. Si distingue su tutti il vescovo Ursone. Gli arabo-normanni si ribellano. Quelli di Racalmuto si uniscono a quelli del vicinato. In tutto il territorio agrigentino abbiamo una rivolta che arriva ad imprigionare il vescovo. A Palermo si è insediato Federico II. L’imperatore siculo-tedesco non tollera rivolte, neppure quelle contro i vescovi che in cuor suo ha in odio. Disperde i rivoltosi, anche quelli di Racalmuto.

Il nostro paese langue. L’agricoltura si deteriora. Fame, peste, malattie, spopolamento sono lo squallido retaggio di un altipiano, prima fiorente e prospero. Non può durare. Il provvido Federico II consente a Federico Musca, un nobile di Modica, di insediarsi là dove ora sorge Racalmuto. Siamo attorno al 1250. Federico Musca porta con sé una ventina di famiglie contadine. Esse trovano alloggio nelle grotte sotto il Carmine e la Centrale, anche in quelle attorno alla Madonna della Rocca. Nasce un nuovo paese. La vite ed il grano, i mandorli e gli ulivi, le tradizionali verdure, una agricoltura ferace, insomma, torna a fiorire nelle lande racalmutesi. Sorge la nostra nuova civiltà che oggi ha residua sede nel paese dell’agrigentino ma che si è mirabilmente irradiata a Buffalo come a New York, negli Stati Uniti come in Canada, in Francia, in Germania, in tutta Italia, ad Hamilton come in America Latina. Un romanziere di fama mondiale, Leonardo Sciascia, esalta quella civiltà con echi planetari.

Sotto Federico Musca Racalmuto diviene una “universitas”, un comune libero. E’ naturalmente assoggettato a tasse e balzelli vari, ma ha cariche elettive, uno statuto comunale e nomina propri “sindici” (amministratori comunali) democraticamente. Il comune ha così modo di prosperare, godendo di una sorta di libertà politica.

Ma giunge in Sicilia dalla Francia Carlo d’Angiò: suo fratello è re di Francia e sarà santo per la Chiesa. Tanto signore non è gradito a Federico Musca. Questi si ribella e Carlò d’Angiò lo priva della signoria di Racalmuto affidandola ad un napoletano: il milite Pietro Negrello di Belmonte. Era il 1271 come attesta un diploma che si custodiva a Napoli, nell’archivio angioino, prima che i tedeschi lo distruggessero nel 1943.

Il signorotto partenopeo forse non mise mai piede a Racalmuto.  Ebbe, comunque, poco tempo perché nel 1282, con i famosi Vespri Siciliani, i francesi con Carlo d’Angiò furono cacciati via dalla Sicilia.

Ma con i nuovi padroni spagnoli, per i racalmutesi le cose non andarono meglio. Tante imposte, sopraffazioni e soprattutto la perdita delle libertà comunali resero la cittadina terra di conquista da parte di un insorgente feudalesimo. Diversamente da quello che si dice – e si scrive – i primi signori di Racalmuto, dopo il Vespro, non furono i Del Carretto ma i Chiaramonte. Costoro erano insediati ad Agrigento. Si erano impossessati del feudo attraverso un cadetto della famiglia – Federico Chiaramonte - e questo appare strano: non era legale ma in tempo di ribellioni ciò potè agevolmente verificarsi.

Un religioso – alquanto pruriginoso -, l’Inveges,  racconta ben tre secoli dopo che  Federico II Chiaramonte aveva una figlia di nome Costanza. Giunge ad Agrigento un ligure, un uomo di mare che si fa chiamare Antonino del Carretto. Dice di essere il marchese di Finale e di Savona. Federico II Chiaramonte abbocca e gli dà in moglie la figlia Costanza, bellissima e molto giovane. Appena il tempo di generare Antonio II del Carretto ed il sedicente marchese di Savona muore. Il suocero in dote aveva però assegnato il feudo di Racalmuto. Il feudo passa allora al figlioletto Antonio II che resterebbe poco in Sicilia: si sarebbe trasferito a Genova (si badi bene: non a Savona) e là avrebbe fatto fortuna. Ha diversi figli. Si distinguono Gerardo, primogenito, e Matteo. Questi torna in Sicilia, si allea con i Chiaramonte, lotta contro i Martino venuti dalla Spagna. Siamo alla fine del XIV secolo.

I Chiaramonte soccombono nella lotta contro i Martino: Matteo cambia casacca, si allea con i vincenti spagnoli e diviene “barone di Racalmuto”. A partire dal 1396 non v’è più dubbio che il nostro paese sia diventato una melanconica baronia dei Del Carretto. E prima?

Dopo il Vespro il paese era sotto il dominio dei Chiaramonte – e questo si è già detto. Quella signoria durò sino a qualche anno prima dell’avvento di Matteo del Carretto e cioè sino al 1392. Documenti dell’Archivio Vaticano Segreto – ricercati, trovati e studiati dal dottore Calogero Taverna – lo comprovano. Si parla e si scrive della signoria dei Malconvenant che sarebbero stati padroni di Racalmuto ed avrebbero eretto la chiesa di Santa Maria nel 1108. Si scrive su una dominazione degli Abrignano. Si afferma pure che i Barresi sarebbero stati i feudatari del nostro paese – non si precisa però il periodo, arbitrariamente qualcuno fornisce la data del periodo immediatamente prima del Vespro (1282). Sono tutte tesi care agli storici locali. Ricerche e studi critici degli ultimi tempi dissolvono tutto ciò definendolo “una serie di cervellotiche congetture”. Tra gli eruditi locali è la guerra.

Nel 1282 (data del Vespro) a Racalmuto non c’erano più di quattrocento abitanti. Nel 1404 la popolazione era raddoppiata: stavamo però al di sotto della media dei grossi borghi del circondario. Peste e fame non erano mancate nel XIV secolo: per scongiurare la peste del 1375 il signore di Racalmuto, Manfredi Chiaramonte, chiede al papa perdono per le passate ribellioni politiche e per ottenere l’indulto tassa i suoi feudi in favore del papa. Arriva a Racalmuto, il 29 marzo del 1375, l’arcidiacono Bertand du Mazel: viene da Avignone, conta i casolari del nostro paese ed applica una tassazione tripartita: tre tarì per i ricchi, due per la classe media ed uno per i poveri. Si giunge alla cifra di 7 onze e 28 tarì: si erano contati 136 nuclei familiari (fuochi); molte case erano coperte da paglia; la popolazione non superava le 700 persone. Il documento, che si trova in Vaticano, ci fornisce una preziosissima descrizione della Racalmuto del tempo, diversamente del tutto ignota.

 Il Vaticano altra volta aveva tassato il paese nel secolo XIV: veramente erano stati due religiosi e si chiamavano Martuzio de Sifolono ed il presbiter Angelo de Monte Caveoso. Per le decime del 1308 e del 1310 avevano corrisposto, il primo un’oncia ed il secondo nove tarì. Il Sifolono godeva delle prebende della chiesa di Santa Maria: ricerche recenti inducono a pensare che si trattasse del convento carmelitano. In un affresco del  Convento di S. Angelo di Licata, nell’orbita di un tondo a modo di frutto di un grande albero raffigurante l’intera famiglia dei conventi carmelitani, sta scritto: «conventus Recalmuti, anno 1270». Se l’indicazione è esatta, il Carmine è la più antica chiesa di Racalmuto ed il relativo convento carmelitano risale appunto al 1270, agli albori dunque della fondazione del paese da parte di Federico Musca, sotto gli auspici di Federico II (†1250).

L’altra chiesa, retta dal presbiter Angelo de Monte Caveoso è rimasta anonima. Il testo in latino recita: «presbiter Angelus de Monte Caveoso pro officio suo sacerdotali, quod impendit in Casale Rachalamuti, solvit pro utraque tt. ix», cioè: il sacerdote Angelo de Monte Caveoso pagò per il suo ufficio sacerdotale che svolge nel casale di Racalmuti, per entrambe le decime, tarì 9. Tutto fa pensare, dunque, che si trattasse di un monaco venuto da Monte Caveoso, l’odierno Montescaglioso in provincia di Matera (Basilicata). Noi pensiamo ad un monaco del convento fondato dalla contessa Emma verso la fine del XII secolo.

Piccolo, specie se adottiamo i parametri dei nostri giorni, Racalmuto era diventato comunque un “casale” capace di attirare dalla lontana Basilicata un monaco che riusciva a viverci bene. Da notare però che chi aveva le prebende del Carmine viveva ancora meglio, se era costretto a pagare più tasse al pontefice di Roma. Nell’uno e nell’altro caso, era sulle magre spalle dei racalmutesi che papa e preti si appoggiavano per avere soldi ed oboli.



Il XV secolo Racalmuto lo trascorre sotto l’egida dei Del Carretto. Matteo del Carretto muore nel 1400; gli succede il figlio Giovanni che deve vedersela con gli esosi Martino. E’ costretto ad esibire una nutrita documentazione e pagare tante once per avere confermato il titolo di barone di Racalmuto. Vi riesce. E buon per noi perché possiamo ora consultare presso l’archivio di stato di Palermo quella documentazione ed avere preziose notizie sul nostro paese. Giovanni I del Carretto a noi sembra un barone oculato, laborioso e in definitiva attaccato al paese che sotto di lui cresce e si consolida. Ma lo storico francese Henri Bresc la pensa diversamente ed è sicuro che il figlio di Matteo finì male e dovette cedere la baronia agli Isfar di Siculiana. A conferma della sua tesi, cita documenti spagnoli. Li cita in termini talmente evasivi da impedirci, per il momento, riscontri convincenti. Siamo dunque costretti a lasciare in sospeso la questione.

La baronia ritorna, in ogni caso, ai Del Carretto: Federico, figlio di Giovanni I, riceve l’investitura da Alfonso d’Aragona l’11 febbraio 1451; viene salassato, deve corrispondere 20 once ogni anno, deve rendere omaggio nelle forme solenni, deve rispettare i diritti di “legnatico” dei cittadini racalmutesi, non è proprietario delle miniere, delle saline e delle antiche difese del luogo, deve salvaguardare la libertà di pascolo dei paesani e degli equipaggiamenti regi. In compenso ha il dominio assoluto sul feudo racalmutese che si estende però alla parte nord-ovest del paese. La parte sud-ovest (Gibillini ed il Castelluccio) costituisce un altro feudo (si diceva allora “stato”) ed apparteneva per due terzi alla famiglia De Marinis di Favara. Il restante terzo non si è mai saputo a chi appartenesse: solo nell’Ottocento vi è stata un’annessione da parte della famiglia Tulumello.

Federico Del Carretto fu un grande affarista: nel 1451 si associò con Mariano Agliata per un’operazione speculativa sul grano simile a certi contratti a termine dei nostri tempi (outright): i due consegnavano al Lomellina il vecchio frumento delle annate 1449 e 1450 e si assicuravano il raccolto dell’anno in corso, consegna a luglio prossimo presso il caricatoio di Siculiana.

Federico del Carretto dovette essere molto esoso con i suoi vassalli racalmutesi se questi nel 1454 si ribellarono violentemente. Il Del Carretto, intanto, procedeva ad acquistare un altro feudo, quello di Rabiuni di Mussomeli, preso da Pietro del Campo. Altri notabili racalmutesi erano diventati anche loro facoltosi: uno di loro, Mazzullo Alongi, teneva in affitto il feudo di San Biagio sempre a Mussomeli.per 14 onze annue, un castrato, un quintale di formaggio ed una “quartara” di burro.

Verso la fine del secolo Federico muore e gli succede il figlio Giovanni II. Forse visse poco, forse il contesto politico era molto agitato, forse era propenso ad evadere, fatto sta che non si sobbarcò alla procedura dell’investitura feudale e non corrispose i balzelli alla corte reale. Qualche anno dopo il Barberi, un ispettore regio particolarmente rigoroso, bolla i Del Carretto per questa evasione fiscale. Intanto era succeduto il figlio di Federico, il celebre Ercole Del Carretto ed anche lui incappa nelle censure dell’inquisitore: si era ben guardato dall’ottemperare agli obblighi feudali dell’investitura. Ed  eravamo già nel XVI secolo.

Racalmuto nel XV secolo passa da 800 a 2500 abitanti circa: più che triplicata, dunque, la popolazione. Non sarà stato tutto merito dei Del Carretto ma tale crescita non è stata almeno impedita; depone a merito dei locali baroni. Non potè trattarsi di mera crescita demografica: condizioni politiche, sociali ed economiche attraevano, di sicuro, gente dai dintorni che trovavano migliori possibilità di vita nella baronia dei Del Carretto.

Vi fu però un fatto gravissimo che palesa una mentalità antisemita. Un ebreo fu barbaramente trucidato a scopo di rapina. Era il 7 luglio 1474 VII Indizione, l’efferato crimine era già avvenuto. Ma Palermo vigila e non consente crimini dal vago sapore razziale. Il vicerè Lop Ximen Durrea dà allora commissione ad Oliverio RAFFA  di recarsi  a  Racalmuto per punire coloro che  uccisero  il giudeo Sadia  di  Palermo, e di pubblicare un bando a  Girgenti  per  la protezione di quei giudei. Nei giorni precedenti il giudeo Sadia di Palermo, abitante nel casale di Racalmuto, attendendo ad alcune sue faccende fu ferito mortalmente da un tal Leone, figlio di mastro Raneri. Altri facinorosi del luogo, congregatisi come in un branco, mi misero ad infierire contro il povero giudeo. Lo colpirono varie volte alla testa, gli tagliarono la lingua, gli ruppero costole mani e gambe, gli fracassarono i denti ed infine lo gettarono in una fossa. Lo ricoprirono quindi di paglia e vi diedero fuoco. Mentre bruciava gli tirarono pietre e terra. Gli ordini all’algozino (ufficiale di polizia) furono precisi e perentori. Soprattutto, però, bisognava tentare di recuperare “ uno gippuni  in lu quali si dichi erano cosuti chentochinquanta pezi d’oro” (una giacca nella quale si dice che erano cuciti dentro 150 pezzi d’oro). Non sappiamo sei soldi furono recuperati, pensiamo di no. Possiamo essere certi che davvero i responsabili, almeno i caporioni, furono tutti individuati ed insieme a Liuni figliastro di mastro Raneri finirono nelle carceri di Agrigento.

Passeranno meno di vent’anni e nel 1492 la regina Isabella la spunta nel cacciare via dalla Sicilia gli ebrei. Noi, in ogni caso, siamo convinti che solo gli ebrei ricchi emigrarono (soprattutto a Napoli, pare): i poveracci non sapevano dove andare. Cambiarono nome, cambiarono paese, non si circoncisero, divennero marrani e continuarono a vivere in Sicilia. Tanti ne vennero a Racalmuto come i tanti La Licata, Lintini, D’Asaro, Aiduni, Caltabiano, Caltavuturi, Camastra, Castronovo, Castrogiovanni, Chiazza, Madonia, Milazzo, Modica, Monreale, Montilioni, Nicastro, Noto, Petralia, Ragusa, Randazzo, Sicilia, Siragusa, Termini, Terranova, Vicari e simili -  che costellano la nomenclatura dell’anagrafe del ‘500 - fanno trasparire, sia pure con tutte le riserve e cautele del caso.

Gli esordi del XVI secolo sono all’insegna del sacro e del miracoloso. Nasce la saga della Venuta della Madonna del Monte. Narrarla comporta rischi: si può mancare di fede, di religiosità, di rispetto. Si può scadere nella profanazione. Per questo ci rivolgiamo al grande scrittore di Racalmuto, prendiamo a prestito la sua ineguagliabile prosa.

«Nel 1503, da Castronovo dove viveva – esordisce il sommo Racalmutese – il nobile Eugenio Gioeni, secondo alcuni afflitto da “filato ipocondriaco” (ipocondria), secondo altri da mal sottile, noleggiò un vascello e, in buona compagnia, andò come in crociera verso il Marocco … Cacciando un giorno in quelle terre d’Africa (non si sa precisamente dove), per un improvviso temporale trovò, con i suoi compagni, riparo in una grotta, il cui fondo – notarono ad un certo punto – era chiuso da un muro da mano umana edificato. Parve loro una stranezza, se ne incuriosirono ; e si adoperarono ad abbatterlo. Era piuttosto esile, per fortuna: ed apparve loro, splendente e dolcissima, la statua di una Madonna col Bambino. Pesantissima: e vi tornarono a prenderla con un carro, a portarla su quel loro vascello che subito, per l’impazienza di portare a Castronovo la statua così miracolosamente trovata, fece vela per la Sicilia.

Sbarcarono, come punto più vicino a Castronovo, nella cala di Punta Bianca, presso l’odierna Porto Empedocle; e da lì, caricata la statua su un carro trainato da sei buoi (le tradizioni quanto più sono inverosimili, tanto più sono nei dettagli precise), mossero verso Castronovo. Ma passarono, ahiloro!, per Racalmuto, vi si fermarono a dissetarsi in uno spazio dove era una piccola chiesa dedicata a santa Lucia. Era un caldo meriggio del mese di maggio: a vedere quella statua coricata sul carro, vivida di colori, soavisssima, la gente del paese accorse. Voci di stupore, invocazioni, preghiere: e ne giunse il brusio al conte Ercole del Carretto, che stava a far pennichella in una sala del castello. Ne domandò la ragione: e con scherani e paggi anche lui. Folgorato dalla bellezza della statua, ne chiese il prezzo al Gioeni che quasi se ne offese. Il conte offrì tanto oro quanto la statua pesava: ed ancor di più il Gioeni se ne sdegnò. Ordinò ai suoi di riaggiogare i buoi e di riprendere il cammino verso Castronovo: ma le ruote del carro, per quanti sforzi facessero i buoi pungolati a sangue e i famigli, non si mossero. Credette il Gioeni i racalmutesi avessero artatamente immobilizzato il caro, diede di piglio alla spada, il del Carretto alla sua: ma mentre già le incrociavano la folla con tale impeto gridò al miracolo che le spade si abbassarono e i due signori, commossi, finirono con l’abbracciarsi. La Madonna aveva deciso di restare a Racalmuto, ospite di santa Lucia – almeno provvisoriamente – e a dividere il patronato sul paese con santa Rosalia. Più tardi, le si edificò una più vasta e ricca chiesa e, benché come titolo ufficiale le restasse quello di compatrona, dimenticata fu santa Rosalia. E non solo: le si dedicò, per tre giorni dell’ultima settimana di maggio, una rutilante, fragorosa, insonne festa.»

Allo storico è interdetto di mettere becco in cose tanto di fede e di alta letteratura: egli si limita solo ad annotare che Ercole del Carretto non fu mai conte, solo modesto barone. Santa Rosalia padrona di Racalmuto lo fu soltanto a partire dal 1636. La Madonna del Monte da compatrona salì di grado nel 1848 con una bolla episcopale di mons. Lo Iacono, vescovo di Agrigento (allora si diceva: Girgenti) e divenne: «Patrona e regina di Racalmuto».

Sotto il profilo strettamente storico, occorre dire che già nel 1540 la statua della Madonna del Monte splendeva in una chiesa a lei dedicata, non ospite – o non più ospite – di santa Lucia. Gli inviati del vescovo di nobile famiglia mons. Pietro di Tagliavia ed Aragona sono molto burocratici ed accennano solo ad «una figura di nostra donna di marmaro». Ma nel 1608, per il vescovo del tempo, mons. Bonincontro, il simulacro è ora luccicante di ori, vivido di colori come dice Sciascia, imponente ed oggetto di grande culto da parte dei devoti racalmutesi. Per chi s’intende di latino, riportiamo il passo che riguarda l’intera chiesa del Monte. Per tanti versi Sciascia – con la tradizione che lui raccoglie - viene smentito:

«Visitavit ecclesiam Sanctae Mariae Montis, ubi prius conservabatur Sacramentum Eucharestiae, et erat ecclesia Archipresbitalis. Modo inservit d.e ecclesiae pro Cappellano D. Joannis Macaluso, qui tenetur celebrare tres missas in hebdomada et omnes dies festos, habet pro eius mercede uncias sex, quae solvitur a confratribus confraternitatis ibi fundatis sub titulo dictae ecclesiae, induunt saccis albis sine mozzettis.



Visitavit altare maius super quo est imago marmorea S.mi Virginis, ornata et admodum deaurata.


che per dicto altare si compri una croce saltim di legno

Ex parte sinistra altaris maioris est altare S. Luciae, in quo est imago dictae Sanctae de stuccho. Deaurata.


che l'altare si faccia più lungo, e vi si compri una Croce.

Fuerunt inventae quaedam reliquiae S.cti Crispini et Crispiniani, videlicet parvum frustum ossis, quod habet autenticum documentum in quadam capsula lignea. Mandavit

che si faccia un reliquario di argento dove si mettano dette reliquie.

che nell'altare di S. Margarita non vi si celebri mentri che non si accomada, facendosi più grande.

che per l'altare di S. Francesco si compri una Croci, et 2 candelabri.»



Ma la già nel 1686 la statua era considerata anche dall’ordinario diocesano “miracolosissima”. Ed il vescovo di allora, il francescano mons. Francesco Maria Rini di Palermo, era molto propenso al culto mariano, ma era dotto ed esperto per abbandonarsi ad incaute esaltazioni delle doti miracolose di una statua, sia pure della Madonna: segno dunque che anche allora la “Bedda Matri di lu Munti” godesse degli intensa devozione  che oggi il popolo racalmutese – ovunque si trovi – le tributa. Bene hanno fatto le autorità locali a spostare la festa – che non piaceva a Sciascia – da maggio alla seconda domenica di luglio: Chi può è felice di giungere a Racalmuto per godersi la festa, anche se rumorosa nella notte, se “insonne”, come direbbe il nostro grande scrittore.

Quanto merito abbia avuto in ciò il nobile Ercole del Carretto è arduo stabilirlo. Già è dubbio che a reggere la baronia di Racalmuto nel 1503 fosse lui. Non sappiamo la data della morte del padre Giovanni II del Carretto, non sappiamo la data del suo insediamento: non vi fu comunque “investitura”. Fece però testamento e sappiamo che morì il 27 gennaio 1517. Interessa poco che si sia sposato in prime nozze con una tale donna Marchisa da cui ebbe un figlio Giovanni che gli succedette. Dai pochi elementi biografici noti non sembra sia stato molto solerte: per noi, il suo grande merito è stato quello di essersi trasferito a Racalmuto, ove lo colse la morte. Tanto ci induce a pensare che o lui o suo padre fece costruire l’ala del castello incassata tra le due torri. Questa parte del fortilizio racalmutese va datata dunque tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo, come peraltro dimostra lo stato dell’arte muraria che si differenzia molto, specie per la disposizione delle pietre, sia dalle torri e sia dal restante corpo centrale dell’attuale androne d’ingresso.

Il merito di avere dotato una chiesa di Racalmuto con una statua di marmo - non abbiamo altri esempi nelle locali antiche chiese, almeno sino alla metà del ‘700 – Ercole del Carretto forse l’ebbe davvero. Crediamo che però giammai pensò di avere a che fare con una statua “miracolosissima”. Non è da escludere che prima o poi verrà fuori qualche atto notarile (forse a Palermo) che chiarirà molti aspetti dubbi della faccenda. Scrivevamo – e qui confermiamo – che: «Il nostro spirito laico ci è d’intralcio nel chiarire questioni come questa, che coinvolgono aspetti di sì rilevante delicatezza religiosa. Ci limitiamo a pensare che Ercole del Carretto ebbe davvero a costruire la prima chiesa del Monte (di una precedente chiesetta intestata a S. Lucia, non abbiamo alcun documento probante) ed ebbe ad arredarla facendo venire da Palermo una statua di marmo. Fu evento memorabile: quella Vergine marmorea, così somigliante alle giovani madri di Racalmuto, brevilinee e rotondette, dovette impressionare e sbalordire gli ingenui occhi dei contadini locali. Legarvi il senso del portento, del miracolo, fu semplice e travolgente.»

Nelle carte dell’investitura del figlio leggiamo che Ercole del Carretto  fu “signore e barone della terra di Racalmuto e tenne e possedette quella terra con il suo castello e fortilizio, nonché con tutti i suoi diritti e pertinenze”. “Vi cambiò tutti gli ufficiali tutte le volte che gli piacque”. “Ebbe a percepire o far percepire frutti, redditi e proventi della baronia di Racalmuto quale vero signore e padrone”. “Tenne il figlio Giovanni come figlio primogenito, legittimo e naturale e per tale lo trattava e come tale lo reputava così come veniva ritenuto, trattato e reputato dagli altri.”. “In qualità di signore e padrone della predetta terra e padre del signor Giovanni, piacendo a Dio morì e fu seppellito nel castello della terra di Racalmuto nel mese di Gennaio VI indizione del 1517, dopo avere redatto solenne testamento per mano del notaio Giovanni Antonio Quaglia della città di Agrigento il 16 del predetto mese di gennaio, ove ebbe ad istituire suo erede universale il detto magnifico signore Giovanni”.

 Sono espressioni rituali, ripetitive e non forniscono molta luce sulla vita del barone racalmutese. Vi si coglie, però, il senso di una signoria pesante, piena di imposte e di gravami per i racalmutesi. Ad onta di ciò questi aumentavano di numero e d’importanza. Si andava affermando anche una crescente prosperità economica: la statua di marmo e vari imponenti edifici lo attestano. Al Monte si ammira ancora un pregevole retablo  di alabastro risalente a quell’epoca. Vi era dunque allora una maestranza locale che sapeva lavorare quel difficile materiale gessoso: oggi solo un paio di vecchi “mastri” lo sa fare. Finendo loro, finisce un mestiere antico di secoli.

 Ad Ercole succede Giovanni del Carretto, il Terzo con tale nome.

Figura centrale nello snodo dei feudatari di Racalmuto, fu anche colui che seppe portare all’apice la signoria carrettesca della nostra terra. Alla morte del padre s’insedia nel castello baronale con puntiglioso rispetto della liturgia feudale. Invia a Palermo come suo procuratore il magnifico Artale Tudisco ed il 28 gennaio 1519 ottiene la rituale investitura.

Giovanni III del Carretto, appena barone, si sarebbe macchiato di un efferato delitto - sia pure come mandante - contro i Barresi di Castronuovo. Così racconta, oltre un secolo dopo, un sedicente suo lontano pronipote, Vincenzo di Giovanni.

Ma sarà stato poi vero? Si dà il caso che gli atti disponibili ce lo raffigurano  religiosissimo, al limite del bigottismo, prodigo con preti, monaci e chiese. Anche con il suo notaio, quel Jacopo Damiano che finì sotto tortura nelle segrete del Santo Uffizio. Per eresia, si scrisse. Per eccessiva accondiscendenza verso gli eccessi dissipatori del barone sul letto di morte, pensiamo noi.

Il Baronio ci descrive Giovanni III ovviamente in termini oltremodo elogiativi. Secondo quello storico di casa Del Carretto: «da Ercole si ebbe Giovanni III, singolare figura per prudenza e per intemerata virtù. Carlo V quando fu a Palermo lo coprì di mirabili onori. Di modo che, sia per la propria che per l’avita nobiltà, fu degno di stare con grande onore tra i Dinasti. Giovanni ebbe due figli: il primogenito Girolamo ed il glorioso Federico che divenne barone di Sciabica.»

Dal processo di investitura di Giovanni III Del Carretto emergono alcuni istituti molto peculiari del diritto feudale della nostra terra di Racalmuto:

1. Diritto dei baroni all’amministrazione della giustizia. Un secolo dopo, il pingue vescovo di Agrigento Horozco cerca pretestuosamente di contrastarlo, fingendosi paladino di un omicida, il chierico Jacobo Vella. Non vi riuscirà: il diritto baronale era ben saldo e neppure un vescovo spagnolo potrà scalfirlo.

2.  Diritto alla destituzione e nomina di tutte le cariche, civili e militari, di Racalmuto. I Tudisco, i Promontorio, i Piamontesi, i Neglia, i Puma, i Nobili, gli Acquisto, i Taibi, i Fanara,  i La Licata, i Gulpi, i Rizzo, i Morreali, i Vaccari, i Capobianco etc. hanno, tra il XIV ed il XVI secolo possibilità di farsi apprezzare dai locali baroni: ne diventano fiduciari; spesso si arricchiscono alle loro spalle; in ogni caso attecchiscono nella fertile terra del grano. Poi tanti svaniscono nel nulla. Qualcuno resta tuttora, ma senza più il ruolo di profittatori del regime.

3.  Non è ancora molto evidente il diritto al terraggio ed al terraggiolo [prestazioni in natura da parte dei coltivatori delle terre del barone, nel primo caso, e fuori la baronia, nel secondo].

4.  Il mero e misto imperio non viene ancora accordato: i Del Carretto lo conseguiranno alla fine del secolo.

Giovanni III del Carretto dovette subire due processi d’investitura. Come dire un raddopio di imposta: il primo nel 1519 (28 gennaio) ed il secondo l’11 marzo 1558.


Il 2 gennaio 1560 Giovanni del Carretto cessava di vivere: aveva tenuto saldamente in pugno la baronia di Racalmuto per oltre quarantatré anni, un’egemonia lunghissima specie se si tiene conto della striminzita vita media di quel tempo.

Ebbe a sposare una signora di riguardo, tale Aldonza, nome spagnoleggiante, di cui sappiamo ben poco. Alla data della morte del marito era già deceduta: quoddam spectabilis Domina Aldonsia, la si indica nel testamento. 

Nulla ha a che fare con la celebre Aldonza del Carretto, questa moglie di Giovanni III: quella che dota il convento di S. Chiara è la nipote. Costei inguaierà fratello, nipote e pronipote per il suo bizzarro disporre dei beni di “paraggio” che le spettavano. Ma questa è storia del Seicento.

Se in antico nel paese non vi erano più di due chiese, fragili e malandate, in piena signoria di Giovanni III del Carretto, le cose cambiarono notevolmente. Intanto la popolazione si accrebbe in modo considerevole. Nel censimento del 1548 il centro abitato enumera 896 fuochi (capi famiglia) e non si è lontani dal vero se si afferma che la popolazione ascendeva a quasi 3.500 abitanti.

 Dai 2.500 del 1505 ai quasi 3.500 abitanti del 1548 il salto fu rimarchevole: non poteva trattarsi solo di un normale fenomeno; sotto il barone di Racalmuto si erano quindi determinate condizioni di vita accettabili, da preferire a quelle dei feudi circostanti; contadini, mastri e forse anche mendicanti ebbero a concentrarsi nei quattro quartieri che ormai si erano stabilmente definiti: a) Santa Margaritella, tra l’attuale Carmine, bar Parisi e la Guardia; b) San Giuliano, tra Guardia, tabaccheria Fantauzzo, Collegio, Fontana e attuale chiesa di San Giuliano; c) Fontana o quartiere fontis, l’altro spicchio di nord-est tra la Fontana, il castello, la Matrice e la chiesa dell’Itria; d) quartiere del Monte o montis comprendente l’ultimo quarto a ridosso dell’omonima chiesa esistente anche allora.

Era tutto suolo baronale; per ergervi una casa occorreva pagare uno jus proprietatis ai del Carretto; se poi si era contadini e si andava a coltivare terre altrui nell’ambito del feudo (o Stato di Racalmuto) scattavano tributi in natura; se la coltivazione avveniva in feudi circostanti (Gibillini, Cometi, Grutticelli, Bigini, Aquilìa, Cimicìa, ed altri ancora), il tributo raddoppiava: terraggio (quello intrafeudo) e terraggiolo (quello extrafeudo) furono termini presto entrati in uso, a significare balzelli che pur tuttavia si accettavano non essendo diverso altrove.



Un vescovo agrigentino del tempo, il nobile Tagliavia nutrì eccessivo interesse per la comunità ecclesiastica di Racalmuto. Nel 1540 mandò suoi pignoli visitatori; tre anni dopo fece visita inquisitoria lui stesso. Poteva considerarsi apparentato con il bigotto Giovanni III del Carretto, ma il barone non viene neppure citato nelle relazioni episcopali che per nostra fortuna si conservano nell’archivio vescovile di Agrigento.

In tali atti vescovili viene descritta piuttosto diffusamente la condizione dell’organizzazione ecclesiale di Racalmuto.

Un fenomeno nuovo emerge con il suo peso sociale, economico e soprattutto bancario: quello delle confraternite. Le confraternite cinquecentesche di Racalmuto nascono come associazioni per garantire la “buona morte” che è come dire una onorevole sepoltura. Il culto dei morti da noi è stato sempre presente, ossessivo, dispendioso. Le confraternite vi speculano sopra e subito vengono in possesso di disponibilità finanziarie e monetarie, cosa di gran rilievo in un’angusta economia curtense. Esse assurgono a potentati economici molto simili alle attuali banche: finanziano, danno in affitto gli immobili di proprietà (sia pure relativa), danno in appalto la costruzione di chiese (fonte prima del loro guadagno per le sepolture a pagamento che vi vengono fatte); inoltre, le fanno riparare, e così via di seguito.

Non sono corporazioni di arti e mestieri, anzi sono essenzialmente interclassiste. Il prete vi svolge un ruolo, ma solamente religioso: è soltanto il cappellano spirituale. Nasce da qui il detto tutto racalmutese: monaci e parrini, vidici la missa e stoccaci li rini. Come dire, i preti ed i monaci nelle confraternite ci stano per celebrar messa, ma dopo bisogna loro “stuccarici li rini” beffarda espressione per specificare che ognuno deve poi girarsi su se stesso per le mansioni e competenze proprie, in assoluta indipendenza. I preti infatti non potevano inserirsi nella gestione economica, tutta affidata al governatore laico ed ai deputati – pure loro laici - che ogni anno si eleggevano. Il vescovo Tagliavia cerca d’irreggimentare il tutto, ma con scarso successo.





 Gli aridi inventari episcopali del 1540 e del 1543 ci consentono comunque di fare una ricognizione critica - senza le grandi sbavature cui gli storici locali indulgono - delle chiese veramente esistenti all’epoca. Abbiamo innanzi tutto la vetusta chiesa di S. Antonio: è parrocchiale, risale ad epoca immemorabile (noi pensiamo alla prima metà del Quattrocento). Al tempo di Giovanni III del Carretto è fatiscente; nessuno pensa a ricostruirla; la si lascia in abbandono ma alla fine la solerzia del vescovo Tagliavia è tale che risorge a nuova vita e il culto in essa perdura sino alle soglie del Settecento.



Monsignor Pietro Tagliavia ed Aragona, nel tempo in cui fu vescovo di Agrigento curò molto le visite pastorali. Racalmuto fu prima, nel 1540, assoggettato ad un’ispezione sommaria la cui verbalizzazione è contenuta in cinque fogli ove è riportata, in sostanza, un secco inventario dei beni delle più importanti chiese di allora: Nunziata, Santa Maria di Gesù, Santa Margherita, Madonna del Monte e San Giuliano. [1] Tre anni dopo, il paese subì una più seria indagine da parte del  vescovo in persona, che vi si recò il giorno 11 giugno 1543. Il taglio del resoconto è ora molto più articolato, e viene fornito uno spaccato della vita religiosa locale di grande interesse.[2]

Al centro della locale comunità religiosa è l’arciprete don Nicolò Gallotto (o de Gallottis). E’ originario della terra di San Marco, diocesi di Messina; è anche canonico agrigentino (“est etiam canonicus agrigentinus”). Non riusciamo a sapere, però, se risiede in paese. Gode di metà delle rendite e degli emolumenti, perché l’altra metà serve per il sostentamento di quattro cappellani che accudiscono alla chiesa e amministrano i sacramenti per l’intera popolazione (“dictus dopnis Nicolaus habet dimidiam omnium redditum et emolumentorum ... alia dimidia est assignata quatuor capellanis qui serviunt dicte ecclesie et administrant populo ecclesiastica Sacramenta.”).

Ricade su Racalmuto l’onere del sostentamento del suo arciprete, cui spetta per antico diritto (“ex disposictione”), il beneficio della “primizia”. E’ questo un gravame tributario in forza del quale ogni fuoco (famiglia) è assoggettato alla corresponsione di un tumolo di frumento ed un altro di orzo all’anno; le vedove sono obbligate solo per il tumolo di frumento; i non abbienti sono esonerati (”primitiam .. contigit dictus archipresbiter seu eius locum tenentes unaquaque domo dicte terre et illam solvunt hoc modo: unaqueque domus solvit tumulum unum frumenti et unum ordei, exceptuatis viduis, que solvunt tumulum unum frumenti tantum singulo anno”.)

Nella visita del 1540 era stato precisato che il Gallotto percepiva annualmente tale primizia nella misura di 25 salme di frumento e 22 di orzo. Considerando una salma formata di 16 tumoli, avremmo 400 fuochi di cui 48 quelli di vedove capo-famiglia. La popolazione abbiente ascenderebbe quindi a circa 1600 abitanti. Ma siamo molto lontani dai dati disponibili per quell’epoca. Nel rivelo del 1548, sotto Carlo V, Racalmuto risulta forte di 890 fuochi per oltre 3100 abitanti. Non crediamo che vi fossero 490 case di indigenti; il numero degli esonerati e degli evasori doveva essere molto elevato. Ed il fenomeno dovette essere duraturo. Un paio di secoli dopo, nel 1731, l’arciprete Algozini dava i seguenti ragguagli sulla primizia di Racalmuto, un diritto che evidentemente si perpetuava: «questa chiesa non ha decime ma la Matrice solamente ha ogni anno in primizie, tolti li miserabili e fuggitivi, formenti di lordo in circa salme quarantaquattro, in orzi salme sedici in circa, dovendo pagare ogni capo di casa tum.lo uno di formento e tum.lo uno d’orgio.» Tradotto in statistica demografica, abbiamo una popolazione di 2800 abitanti, a fronte di una popolazione effettiva dichiarata dallo stesso Algozini in 5134 anime suddivisa in 1200 famiglie. Sorprendono le analogie e le concomitanze con il fenomeno elusivo del 1540. A meno che in entrambi i casi si dichiarasse soltanto la metà (la dimidia pars di spettanza dell’arciprete).

Oltre alle primizie, l’arciprete Gallotto percepiva i proventi per quelli che l’Algozini due secoli dopo chiama diritti di stola: i proventi cioè dei funerali e dell’amministrazione dei servizi religiosi (“mortilitia et alia provenientia ex administratione cure”).

Nel 1540 si constatava che la chiesa dell’Annunziata dell’omonima confraternita fungeva anche da chiesa parrocchiale al posto della Matrice intitolata a S. Antonio e non si aveva nulla da eccepire. Visitata per prima, se ne annotava la doppia funzione: «Ecclesia di la Nuntiata  confraternitati et servi pro maiori ecclesia di ditta terra». E’ comunque alla chiesa maggiore che spetta il diritto delle primizie: essa, in quanto “maior ecclesia”, «habet primitias videlicet salme 25 frumenti et salme 22 ordei in persona domini Nicolai Gallocti cum onere unius misse quotidie»   Ma tre anni dopo, il vescovo Tagliavia ha di che ridire: per lui, l’Annunziata è “ecclesiola” e quindi non può fungere da chiesa madre; è un tempio «valde parvulum et angustum pro tanto populo”. La vecchia matrice di S. Antonio è diruta; ma poiché essa sarebbe adeguata alle esigenze di spazio dell’accresciuta popolazione, viene ordinato dal presule che venga restaurata e riedificata. «Et quia .. ecclesia [maior] est diructa, et hec que servit pro maiori ecclesia est valde angusta, ideo iussit provideri quo dicta maior ecclesia restauretur et reedificetur.» Non si mancò di eseguire gli ordini vescovili: sappiamo di certo che nel 1561 la chiesa Madre è proprio S. Antonio.

Le nostre notizie sull’arciprete venuto dalla diocesi di Messina sono tutte qui. Non abbiamo neppure un appiglio per formulare un qualsiasi giudizio sulla sua figura. Poté essere un bravo sacerdote, ma poté essere un semplice percettore di benefici ecclesiastici. Dei quattro cappellani che lo coadiuvarono (o lo sostituirono) non sappiamo neppure i nomi.



Le carte episcopali richiamate a proposito dell’arciprete Gallotto contengono accenni ad altri sacerdoti racalmutesi della metà del Cinquecento: fra loro spicca don Francesco de Leo, vicario foraneo della terra di Racalmuto. Si sa quanto importante fosse il ruolo del vicario che fungeva da rappresentante del vescovo sul luogo. A lui venivano demandati i compiti esecutivi della giurisdizione della Curia agrigentina, specie in materia penale. Il vicario era uomo temuto e rispettato, forse ancor più dell’arciprete, che spesso si limitava a percepire i frutti del beneficio ottenuto per entrature curiali e non metteva neppure piede nella parrocchia di cui era titolare.

Il de Leo era vicario, dunque, al tempo dell’arciprete Gallotto. Tra gli altri compiti aveva quello di curare gli interessi del canonico don Giovanni Puiates, titolare del beneficio di Santa Margherita. Naturalmente, anche questi si limitava a percepire i pingui proventi racalmutesi senza interessarsi neppure alla chiesa che sorgeva accanto a quella di Santa Maria di Gesù: a ciò pensava il vicario d. Francesco de Leo ed era incarico che espletava encomiabilmente. Il vescovo Tagliavia nel visitare, nel 1543, la chiesa di Santa Margherita la trova «satis bene composita» ed il merito l’attribuisce al vicario, «hoc propter bonam curam dopni Francisci de Leo, vicarii dicte terre.»

Del solerte vicario, oltre a questa notizia, non sappiamo null’altro. Possiamo giudicarlo, comunque, positivamente e tutto fa pensare che fosse racalmutese. Si spiega così perché tenesse  alla vetusta chiesa di S. Margherita che, se è da dubitare che risalisse al 1108 come scrisse nel 1641 il Pirri, era pur sempre un luogo di culto di cui ad un diploma del 1398. Il de Leo sembra avere care le tradizioni indigene. La chiesa, varie volte rinnovata e ricostruita, era da tempo immemorabile sede di un titolo canonicale agrigentino. «Ecclesia Sancte Margarite - si sa dalla visita del 1543 - est titulus canonicatus» che al tempo spettava al cennato canonico Pujades. I contadini racalmutesi dovevano corrispondere le decime al canonicato della Cattedrale di Agrigento e non risulta che il beneficiario sia stato mai un racalmutese.

Resta assodato che a Racalmuto il culto di Santa Rosalia è ben antico. Non sembra, però, che vi sia qualcosa su S. Rosalia nelle primissime visite pastorali agrigentine del 1540-3, dato che in quella del 1543 si accenna solo alle seguenti chiese racalmutesi:

1)               Chiesa Maggiore, sotto il titolo di S. Antonio;

2)               “Ecclesiola” sub titulo Annuntiationis Gloriose Virginis Marie, da tempo sede di una confraternita e dove era stato trasferito il Santissimo, chiesa adibita ormai al posto di quella Maggiore, perché fatiscente;

3)               Chiesa di Santa Maria del Monte;

4)      Chiesa di santa Maria di Gesù;

5)      Chiesa di Santa Margherita;

6)      Chiesa di San Giuliano;



Nella precedente visita del 1540 abbiamo:

1)      Chiesa della “NUNTIATA”

2)      Chiesa di Santa Maria di Gesù (Jhù)

3)      Chiesa di Santa Margherita;

4)      Chiesa di “Santa Maria di lo Munti”;

5)      Chiesa di S. Giuliano.

Passando al setaccio i radi accenni delle carte episcopali del 1540-1543 abbiamo che non proprio recenti erano questi luoghi sacri:



la Nunziata, visto che vi si trovava una vecchia tunichella di damasco turchino ( Item uno paro di tunichelli una di villuto iridato cum soj frinzi di varij coluri et l’altra di damasco turchino vechia);

Santa Maria di Gesù col suo vecchio paramento di borchie stagnate (Item uno casubolo  di borcati vecho stagnato);

Santa Margherita sia per quel che sappiamo dalle antiche fonti sia come testimoniano gli “avantiletto” lisi (item dui avantiletti vechi). Significativo invece che a S. Giuliano non v’era nulla di vecchio.





Di Giovanni del Carretto è consultabile il testamento ([3]) steso sul letto di morte: a raccoglierlo il notaio Jacopo Damiano, quello finito sotto le grinfie del Santo Ufficio. La vita del barone viene in qualche modo abbozzata.

In epigrafe, la data: 2 gennaio 1650. Riguarda il “molto spettabile signor D. Giovanni de Carrectis, domino e barone della terra di Racalmuto, cittadino della felice città di Palermo, dimorante nel Castello della detta terra e baronia di Racalmuto, che fa testamento dinanzi il notaio ed i testi”.  “Sebbene infermo nel corpo, è tuttavia sano di mente ed intelletto, con la parola ed i sensi integri”.



Il testamento esordisce con una sorpresa: erede universale non viene nominato il primogenito (Girolamo, futuro primo conte di Racalmuto), ma il secondogenito, “lo spettabile signor don Federico de Carrectis barone di Sciabica, secondogenito legittimo e naturale nato e procreato dallo stesso spettabile signor testatore e dalla fu spettabile donna Aldonza consorte del medesimo”.

Ripete in dialetto, il morente barone: “legitimo e naturali, procreatu da me e dalla  condam Aldonsa mia mugleri in tutti e singuli beni, e cosi mei mobili e stabili presenti, e futuri, e massime in la Vigna e loco chiamato di lo Zaccanello, con tutti soi raggiuni e pertinentij, e suo integro statu, pretensioni, attioni, e ragiuni, frumenti, orzi, cavalli, e scavi; superlectili di casa, massarij, boi et altri animali, et instrumenti di massaria, vasi di argento manufatti esistenti in lo detto Castello con li nomi di miei debitori ubicumque esistenti e meglio apparenti”.



Se si è avuta la pazienza di scorrere questa specie d’inventario, si ha un’idea di quanto ricco e bene arredato fosse il castello; vi era una frotta di servitù e vi erano veri e propri schiavi (“scavi”).



A don Federico vanno 200 once di rendita annuale, oltre alla definitiva proprietà di mille once promesse a suo tempo dal testatore come dote assegnata nel contrarre matrimonio con donna Eleonora di Valguarnera.



“Del pari il prefato signor testatore volle e diede mandato che lo stesso spettabile D. Federico erede universale abbia e debba sopra la restante eredità versare al signor don Girolamo del Carretto la somma occorrente per le spese del funerale quale dovrà essere celebrato in relazione alla qualità della persona dello stesso spettabile testatore sino alla somma di once 100 da prelevarsi da quelle 600 once che stanno nella cassaforte (in Arca) del medesimo testatore ed essendoci più bisogno di più si aviranno da pagare communiter da entrambi gli eredi don Federico e don Girolamo”.

“Del pari il prefato testatore istituisce suo erede particolare il molto spettabile signor D. Girolamo de Carrectis suo figlio dilettissimo primogenito, legittimo e naturale nato dal medesimo Testatore e dalla spettabile quondam Donna D. Aldonza sua consorte, cui va la baronia nonché i feudi della terra di Racalmuto con tutti ed ogni giusto diritto, con le giurisdizioni civili e criminali, il mero e misto imperio giusta la forma dei privilegi ottenuti nella regia curia, con le prerogative sui feudi, sul Castello, sugli stabili e con tutti gli altri diritti quali il terraggiolo, le gabelle ed ogni altra consuetudine spettante alla predetta baronia. A questo del Carretto suo indubitato figlio primogenito spetta pertanto nella detta Baronia ogni pretesa, azione, ed imposizione. Gli competono altresì denaro, frumento, orzo, servi, suppellettili di casa, buoi e messi ovunque esistenti, nonché gli animali ovunque si trovino, come i frumenti nelle masserie, i vasi d’argento esistenti nel Castello e tutte le ragioni creditorie con le eccezioni che seguono”.

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