mercoledì 8 aprile 2015

fALSO STORICO: LA VIRAGO DONNA ALDONZA DEL CARRETTO NON FECE ALCUN CONVENTO DI CLARIS


Il “paragio”.

 

 

Tra tutti primeggiavano gli obblighi di “paragio”.

Il “paragio” fu un pernicioso istituto feudale siciliano in base al quale il feudatario era obbligato a dotare figlie, sorelle, zie, e nipoti femmine (ma per queste ultime solo nel caso che il genitore non vi potesse provvedere per indisponibilità economica) in misura adeguata al loro rango.

Simpatico o meno che sia il sanguigno Giovanni del Carretto di fine ’500, è certo che sul poveraccio cadde addosso una caterva di sorelle fameliche di ‘paragio’, due fratelli che non scherzavano in fatto di pretese economiche, una figlia ‘spuria’ da dotare bene per farla sposare dal nobile Russo - forse un parente della prima moglie -, un figlio infelice avuto tardivamente da una discendente della arrogante e burbanzosa famiglia Tagliavia-Aragona della vicina Favara.  

E per di più le disgrazie giudiziarie: soldi per i crimini del fratello Giuseppe (‘multa di mille fiorini’)  e per quelli suoi propri (condanna ad onze mille, da pagarsi alla moglie del defunto, ed onze duecento al fisco).

 

Sbuca poi un Vincenzo del Carretto che le carte della curia agrigentina danno come arciprete di Racalmuto al tempo di Girolamo del Carretto nel primo trentennio del ‘600.

Risulta da vari documenti  un  fratello dell’infelice conte di Racalmuto, quello ‘ucciso dal servo’ nel 1622.

Se è così, fu un altro figlio di Giovanni del Carretto (e nel caso un figlio illegittimo) da dotare se non altro per costituire il debito ‘patrimonio’ voluto dal Concilio di Trento per gli ecclesiastici.

 

I ‘paragi’ delle sorelle e dei fratelli buttano il germe di un tracollo finanziario dei del Carretto che avrà il suo patetico epilogo nel ‘700 (assisteremo persino ad acrimonie giudiziarie tra padre e figlio e cioè tra l’ultimo Girolamo del Carretto e suo figlio Giuseppe - chiamato così anche se il nonno si chiamava Giovanni, e forse per la perdurante vergogna della esecuzione di quel Carretto per alto tradimento nel 1650).

 

Racalmuto - questo feudo dei del Carretto - ne subì i danni?  Tutto lo fa pensare.

 

Donna Aldonza del Carretto

 

 

Un saggio della pretenziosità delle sorelle di Giovanni del Carretto ce lo fornisce la terribile virago Donna Aldonza del Carretto - sì, proprio quella che dota il convento di S. Chiara a Racalmuto - la quale pure sul letto di morte non resiste nel suo testamento dal dare sfogo al suo astio verso il fratello primogenito.

 

Lo esclude, innanzi tutto, dal nutrito numero dei suoi eredi universali,  che invece limita alle sorelle donna Diana, donna Ippolita, donna Giovanna, donna Eumilia e donna Margherita del Carretto «...eius sorores pro equali portione, salvis tamen legatis, fidei commissis, dispositionibus praedictis  et infrascriptis».

 

Dopo aver fatto alcuni lasciti per la sua anima ed aver  dato le disposizioni per l’erezione del convento di Santa Chiara, si ricorda del non amato fratello maggiore Giovanni in questi termini:

«..et perché a detta D. Aldonza ci competiscono li doti di paraggio sopra lo stato di Racalmuto et beni di detto quondam suo Padre una con li frutti di essi doti, pertanto essa D. Aldonza testatrici declara volere detti doti di paraggio una con li detti frutti di essi et volersi letari di quelli, in virtù di tutti e qualsivoglia  leggi et altri ragioni in suo favore dittarsi et disponersi, non obstante si potesse pretendere in contrario, in virtù di qualsivoglia testamento et dispositione, delle quali leggi in suo favore disponenti, essa voli et intendi servirsi et usari in juditiarij et extra, sempre in suo favore, conforme alle leggi et ragione di essa testatrice tiene, le quali doti di paraggio, una con li frutti di quelle, siano  et s’intendano instituti heredi universali per equale porzione atteso che di li frutti detti doti ni lassao et lassa à D. Gio: lo Carretto conte di Racalmuto suo frate onze duecento una volta tantum pro bono amore et pro omni et quocumque jure eidem Don Joanni quemlibet competenti et competituro et non aliter.

 

«Item dicta testatrice vole et comanda che della liti la quale have fatto di conseguitare la sua legittima che non ni possa consequire più di onze 600, oltra di quelli li quali essa D. Aldonza testatrici si ritrova havere havuto; li quali onze 600 essa testatrice lassao et lassa à d. Gio: Battista et D. Eumilia del Carretto soi soro oltre della loro portione [parte corrosa, n.d.r.] [di cui alla] presente heredità modo quo supra fatta et hoc pro bono amore et non aliter..»

 

Ma non tutte le sorelle erano eguali per la terribile donna Aldonza.

E solo dopo un paio di nipoti che si ricorda di avere un’altra sorella. A questa solo un legato di 200 once così condizionato:

 

«Item ipsa tetatrix legavit et legat D. Mariae Valguarnera comitissae Asari, eius sorori, uncias ducentas in pecunia semel tantum solvendas per supradictos heredes universales infra terminum annorum quatuor numerandorum a die mensis [mortis] ipsius testatricis et hoc pro bono amore».

 

Uguale trattamento per il fratello Aleramo:

«Item essa testatrice lassao e lassa à D. Aleramo del Carretto suo fratello, conte di Gagliano, onzi ducento della somma di quelle denari che essa testatrici pagao à Giuseppe Platamone per esso D. Aleramo delli quali detto D. Aleramo è debitori di essa testatrici et hoc pro bono amore et pro omni et quocumque jure eiusdem D. Aleramo competenti et competituro.

«Item essa testatrice declarao et declara che della legittima quale detto Don Aleramo divi pagando onsi secento tutto lo resto di detta legittima essa testatrice la lassao e lassa a detto D. Aleramo pro bono amore».

 

Nel testamento non troviamo alcunché che ricordi anche il fratello Giuseppe. Forse perché già morto?

Ma non basta. Se ci si addentra nei processi per investitura dei del Carretto, sbuca fuori un’altra sorella: Beatrice del Carretto,   morta nel settembre del 1592.

 

 

I del Carretto a fine secolo XVI.

 

 

Tirando le somme, su Giovanni del Carretto il buon genitore Girolamo scaricava le doti di ‘paragio’ di otto sorelle e due fratelli.

 Poi, si aggiungeranno i carichi di un paio di figli ‘illegittimi’ e, naturalmente, l’eredità ab intestato per l’unico figlio legale, il conte di Racalmuto per antonomasia, Girolamo del Carretto.

Su quest’ultimo si abbatteranno i fendenti di una tale complessa situazione patrimoniale, carica di soggiogazioni anche per le tanti doti di ‘paragio’. Sarà stato per questo, ma si dà il caso che il giovane conte del Carretto, all’età di ventitré anni si spoglia di tutto, facendone donazione ai due figli Giovanni e Dorotea e nominando governatrice la moglie Beatrice e tutore il fratello (o fratellastro) don Vincenzo del Carretto, arciprete di Racalmuto.

Un anno dopo, il primo maggio 1622, Girolamo del Carretto dava l’anima a Dio.

Ma torniamo al 1593, l’anno del censimento. Il conte Giovanni del Carretto, non era di sicuro nel suo castello racalmutese.

Una nota di cronaca lo accosta alla morte del celebre poeta  Antonio Veneziano, nel crollo delle carceri del Santo Offizio.

«In questo stesso anno [1593]  - precisa un diarista  -  dì 19 di agosto. Fu posto fuoco alla monizione della polvere che era in Castell’a mare di Palermo: perilché quasi tutto il castello brugiò, e morirono più di 200 persone, la maggior parte carcerati; fra’ quali morì Antonio Veneziano poeta, Argistro Gioffredo, il baron di Sinagra, due maestri di sant’Agostino che andorno a mangiare con l’inquisitori, et altri cavalieri e plebei.

«Scamporno l’inquisitori, il conte di Racalmuto, il barone di Siculiana, il castellano ed altri. Ivi fu roina grande delle case del castello et delli palazzi d’inquisitori; et allora, uscendosi d’ivi, andorno a stare alla casa di Monetta.»

 

Che cosa vi stesse a fare Giovanni del Carretto, non è chiaro. Certo egli era «teniente de oficial» del Santo Ufficio, ma il presidente della Gran Corte Giovan Francesco Rao ed il viceré Albadalista erano riusciti ad ottenere da Filippo II che i nobili non potessero far parte dell’Inquisizione.

Non era quindi per ragioni di ufficio del suo ruolo nel tribunale inquisitoriale che potesse stare in quelle carceri. La vicenda che abbiamo prima sunteggiato può dunque spiegare il perché. Vi stava forse in quanto ‘carcerato’ seppure di riguardo . Se è così, non poteva influire sull’andamento del rivelo di Racalmuto.

Che i guai di Giovanni del Carretto, per quell’efferata esecuzione di La Cannita, siano stati seri si desume dal fatto che dovette cedere il passo al fratello rampante, Aleramo del Carretto, nella carica di Pretore di Palermo.

I Diari  parlano del «pretore l’ill.mo sig. D. Aleramo del Carretto conte di Gagliano» sotto la data del 26 ottobre 1595, e narrano che l’11 aprile del 1596 costui, come pretore, ebbe a carcerare «tutti li mastri di piazza». Gli ascrivono poi a merito che in quel tempo «fece fare la scala nova della Corte del pretore e l’arcivo del capitano».

Giovanni del Carretto dovrà aspettare per tornare nel pubblico agone. Negli stessi Diari (pag. 142) lo incontriamo il 16 dicembre 1601, quando morì il Maqueda. Il feretro «andò alla chiesa maggiore sopra la lettiga. E lo portarono in spalla quattro titolati, che furono D. Francesco del Bosco duca di Misilmeri, D. Vincenzo di Bologna marchese di Marineo, il conte di Cammarata e quello di Racalmuto ..». Ultimo dei quattro, è vero, ma ci sta.

 

Giovanni del Carretto resta vedovo piuttosto presto di Beatrice Russo e Camulo di Cerami. Ha una relazione non ufficiale da cui - stando solo a ciò che è documentato - ha una figlia di nome Elisabetta.

Nella seconda metà dell’ultimo decennio del ‘500 la fa sposare con il nobile Girolamo Russo. A sua volta, il conte si risposa, piuttosto tardi, con Margherita Tagliavia di Favara, una potente famiglia che ci tiene a premettere al proprio cognome quello ancor più prestigioso di Aragona. Tutto fa pensare che il matrimonio sia stato celebrato nel 1596.

Il primogenito Girolamo del Carretto viene battezzato a Palermo il 28 ottobre 1597.

Dopo tante traversie giudiziarie e finanziarie, il conte è chiamato a reiterare l’investitura per la morte di Filippo II di Spagna (+ il 13/9/1598) Adempie il costoso rinnovo piuttosto tardi (difettava di liquidità?)  e presta giuramento il 18 settembre 1600.

 

I del Carretto, dopo il trasferimento a Palermo, non amavano frequentare Racalmuto, almeno sino all’infelice Girolamo del Carretto, che, dopo l’uccisione del padre, nel 1606, venne  ricondotto, insieme alla sorella, dalla madre nell’avito castello (e secondo le carte del Carmelo vi trovò anche la morte nel 1622).

Il figlio, Giovanni, si ritrasferisce a Palermo per farvisi giustiziare - come detto - nel 1650. Dopo di che, la famiglia del Carretto prende stabile dimora nel nostro paese, praticamente sino alla sua estinzione (1710).

 

Finché i del Carretto si accontentarono del titolo di barone di Racalmuto, vi stettero proficuamente abbarbicati. L’ultimo barone, Giovanni, muore nel 1560 nel “castro” racalmutese e viene seppellito a S. Francesco.

Ecco la testimonianza resa da un maggiorente locale:

«Nob. Innocentius de Puma de terra Racalmuti, repertus hic presens testes,  juratus et interrogatus supra capitulo probatorio dicti memorialis, dixit tamen scire qualiter:

«in lo misi di gennaro prossimo passato in la ditta terra di Racalmuto vitti moriri a lo speciale don Jo: de Carretto, olim baruni di ditta terra, lo quali si andao et seppellio in la ecclesia di Santo Francisco di ista terra, a lo quali successi et restao in ditta baronia ipso spett. don Hieronimo ... come suo figlio primogenito legitimo et naturali,  et accussì tempore eius vitae lo vidio teneri,  trattari et reputari  per patri et figlio,  et cussì da tutti quelli ca lu havino canuxuto et canuxino  ... quia instituit vidit et audivit ut supra de loco et tempore ut supra».

 

Dal 1564 comincia la documentazione della Matrice di Racalmuto: battesimi e qualche atto di matrimonio.  Piuttosto rada all’inizio, verso la fine del secolo s’infittisce. Le presenze importanti in paese, o per un battesimo o per far da teste o da padrino o madrina, possono dirsi tutte documentate.

 

Quanto ai del Carretto, un Baldassare viene a Racalmuto, con la moglie, per fare da compare e comare al figlio di un grosso personaggio: i Vuo. La solennità dell’evento viene così segnata:

«Adi 9 marzo VIe Indiz. 1593  - Diego figlio del s.or Gioseppi e Caterina di VUO fu batt.o per me don Michele Romano archipr.te - il Compare fu l'Ill'S.or Don Baldassaro del CARRETTO - la Commare l'Ill. S.ora Donna Maria del Carretto.»

 

Quattordici anni prima, il 4 novembre 1579 si era fatto vivo per un’analoga circostanza don Giuseppe del Carretto: la cerimonia riguarda il battesimo della figlia Porzia del magnifico “Arthali magn. Thodisco”. Infatti, il documento recita: “I padrini: ill.mo don Joseppi de lo Carretto et donna Anna de Carretto”.

Troppo poco, come si vede.

 

Ebbe ad attestarsi a Racalmuto, invece, il genero del conte Giovanni, il marito della figlia illegittima Elisabetta.

Recenti ricerche d’archivio in Vaticano ci hanno permesso di appurare il ruolo di questo personaggio.

I del Carretto ed il vorace vescovo spagnolo di Agrigento Giovanni Horozco Covarruvias y Leyva.

 

 

Nel 1599 il vescovo spagnolo di Agrigento Giovanni Horozco Covarruvias y Leyva si vedeva costretto a difendersi presso la Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari,   avendo avuto sentore di un libello accusatorio contro di lui che non si è lungi dal vero ritenerlo ispirato, se non addirittura scritto, dalla potente famiglia locale dei Montaperto.

Il Presule agrigentino passa al contrattacco e descrive con toni acri le sopraffazioni dell’intera nobiltà dell’agrigentino, i del Carretto compresi.

La fosca storia del chierico Vella

 

Sulle vicende del chierico Vella fornisce notizie Mons. De Gregorio:

«Le controversie poi per la giurisdizione o esenzione ecclesiastica non erano infrequenti.

«A Racalmuto il chierico in  minoribus Jacopu Vella fu “infamato” della morte di un vassallo del Conte il quale lo fece arrestare e volle procedere contro di lui, nonostante monitori e censure, e per sottrarlo al vescovo lo fece prima portare nelle carceri di Palermo e poi in quelle di Agrigento.

«“In detta terra li preti e clerici non godono franchezza nixuna et per ordine del conte non si da la franchezza della gabella et mali imposti et comprano come li seculari denegandoli la franchezza.

«”In detta terra, essendo mandati Vincenzo Carusio, sollicitaturi fiscali, e Giuseppi Gatta commissario per prendere a notaro Oruntio Gualtieri, foro detenuti dalli uffiziali temporali, carzerati per molti giorni tenendoli  a lassari exequiri l’ordini contra detto prosecuto”.

«Nella stessa terra lungamente il conte contrastò con il vescovo e il capitolo per il diritto di spoglio alla morte dell’arciprete Michele Romano.»

*   *   *

Nei registri della Matrice si hanno, tra l’altro, notizie sulla morte del detto arciprete. Nel libro dei matrimoni del tempo si annota, ad esempio: «die 28 Julii X Ind. 1597. Incomensa lo conto delli inguaggiati dopo la morte del arciprete don Michele Romano.»

 

Il benefizio di Sant’Agata

 

 

Al Vescovo di Agrigento facevano dunque gola i beni dell’arciprete racalmutese.

Rimane ancora l’eco di un suo maneggio sui beni di S. Agata.

Non si  sa se nel 1596 sorgesse nel Beneficio di S. Agata una qualche omonima chiesa.  In uno studio del 1908 , F. M. Mirabella illustrava la figura di «Sebastiano Bagolino, Poeta latino ed erudito del Sec. XVI». Vi si parla anche dei difficili rapporti del poeta ed il vescovo di Agrigento Giovanni Horozco Covarrusias e Leyva di Toledo.

«Certo è che - si legge a pag. 188 - della sua traduzione [fatta dallo spagnolo in latino di alcune opere del vescovo] il Bagolino non si tenne adeguatamente compensato. Aveagli il vescovo fatto l'onore di ammetterlo alla sua mensa; aveva anche conferito a don Pietro Bagolino, fratello di lui, prima i beneficj di Santa Lucia e di S. Margherita in Castronovo, di S. Agata in Racalmuto, di S. Maria Maddalena in Naro, di S. Leonardo fuori le mura di Girgenti, e poi quello di S. Pietro nella stessa Girgenti col reddito annuo di 250 ducati. Ma questo al poeta non pareva un guiderdone condegno.»

 

IL MERO E MISTO IMPERIO

 

Nel 1582, nel testamento di don Girolamo del Carretto primo conte di Racalmuto, il lascito a Don Giovanni quarto comprende, senza ombra di equivoco, la contea di Racalmuto con il «..mero et misto imperio dicti comitatus ac titulo dicti comitatus aquisito  per dictum dom. testatorem ...».

Ma viste le successive contese, giocò forse il fatto che nel più importante privilegio di casa del Carretto - quello della sua erezione a contea con firma autografa di Filippo II di Spagna - latita un esplicito richiamo al mero e misto imperio, anche se non mancano le locuzioni equipollenti. 

Tra le varie clausole scegliamo questa (che traduciamo dal latino):

«Concesse e concede a Don Giovanni del Carretto, suo figlio primogenito, successore indubitato in detto stato, terra, titolo, feudi .. con le modalità specificate .. il predetto stato e contea di Racalmuto .. con tutti i suoi singoli feudi, gabelle, mercati, terre, terraggi, terraggioli, censi, servitù,  giurisdizioni civile e criminale, mero e misto imperio, con il titolo e la dignità di conte.»

Concetto che ritorna subito dopo: « Del pari, doniamo tutti ed integralmente i beni stabili e mobili, allodiali e burgensatici, redditi, diritti, censi e tutti gli altri diritti, .. nonché il detto stato di Racalmuto con tutti i singoli relativi feudi, gabelle, mercati, terre, terraggi feudali, giurisdizioni civile e criminale, nonché il “mero e misto imperio” con la dignità ed il titolo di conte...».

 

Nel Privilegium concessionis Comitatus Racalmuti in personam Don Hieronimi  de Carretto, dopo la buriana dell’esecuzione per alto tradimento dell’ultimo Giovanni del Carretto, il “mero e misto imperio” non si dubita neppure essere prerogativa della Contea di Racalmuto.

Il diploma regio è chiaro: «...il feudo, lo stato ed il titolo confiscati, doniamo, rimettiamo, con la nostra indulgenza, ed a te don Girolamo del Carretto e Branciforti doniamo di nuovo e concediamo, investendotene, il feudo e la contea di Racalmuto, con la sua terra, i suoi dominî, il vassallaggio e con tutti i suoi singoli feudi e territori, nonché la baronia come si dice di Gibillini e Fico, entro i loro confini, con le case, i mulini, i corsi  d’acqua, i boschi, e con tutte le altre singole cose della detta Contea e Baronia e relative pertinenze, comunque e dovunque inerenti, unitamente all’integrità dello stato con ogni sua causa e modo, nonché alla giurisdizione, il mero e misto imperio, la ’baglîa’, le gabelle, i censi e tutti gli universi singoli diritti a detta Contea e Baronia spettanti, con tutte le prerogative, dignità, preminenze e clausole come tuo padre e tuo nonno ed i tuoi antecessori legittimamente avevano avuto, tenuto e posseduto ... »

  

Resta ancora poco chiaro come venissero corrisposti i pesi feudali ai del Carretto, se in natura (come i termini “terraggio” e “terraggiolo” fanno pensare) o in contanti (come tanti atti dell’epoca lasciano intendere) o in forma mista.

 

Non vi erano solo i diritti feudali veri e propri, ma anche i beni allodiali della famiglia del Carretto, per la gran parte in mano ai rami cadetti (che erano soliti dimorare ad Agrigento) a motivo forse del dispersivo gioco del ‘paraggio’.

 

 

 

 

 

 

Racalmuto secondo il rivelo del 1593.

 

I beni ecclesiastici di Racalmuto.

 

Il singolare vescovo di Agrigento Horozco, con cui già ci siamo imbattuti, ebbe modo d’interessarsi delle finanze ecclesiastiche concernenti Racalmuto nella seconda “Relatio ad limina” della diocesi di Agrigento, datata 1599 (la prima è del 14 settembre, VIII^ ind. 1599). Il vescovo dichiarava di essere affetto dalla sciatica «per la quale gli fù bisogno andare alli bagni » e pertanto non «hà possuto venire personalmente a baciar i piedi di Nostro Signore e visitare li santi Apostoli». Non era più suo fiduciario l’arciprete di Racalmuto don Alessandro Capoccio. Al suo posto aveva prescelto come suo mandatario per la visita tridentina al Papa Giovanni Chimia. Lo stato di infermità del vescovo veniva certificato da un appartenente all’odiata famiglia dei del Carretto, appunto da quel don Cesare del Carretto, preso di mira dall’Horozco nel libello prima cennato. Non si poteva evitare: il 17 di agosto 1598 il potente (e prepotente) don Cesare era “juratus civitatis Agrigenti” [cfr. Relatio cit. f.15].

Dalla documentazione vaticana risulta che la “Ecclesia Cathedralis Agrigentina” era in grado di “ingabellare”  9.500 onze di rendita diocesana. In via diretta o indiretta, Racalmuto è così chiamato in causa:

                al 15° posto risulta censita la “prebenda di Racalmuto che vale di Mensa onze 130”;

                tra i “Beneficij semplici de Mensa”, al n.° 3 viene rubricata “la prebenda Teologale [che] si dà al Teologo quale eligino il Vescovo ed il Capitulo: è titulo di Sta Agata [che sappiamo di Racalmuto, come sappiamo che talora il vescovo la utilizzava non per remunerare teologi ma il fratello di un letterato, per come abbiamo sopra visto, n.d.r]: [vale] onze 100;

                l’arcipretura di Racalmuto è segnata al n° 12 e “vale de mensa onze 250”.

Tirando le somme, i racalmutesi a fine secolo XV erano chiamati per decime religiose e tasse episcopali a qualcosa come onze 480, senza naturalmente includervi tutti gli oneri di battesimo, matrimonio morte e simili, da conteggiare a parte. Era un gravame misurabile in tarì 3 e 5 grana annui pro-capite.

Ma, allora - come del resto anche oggi - le pubbliche autorità, civili e religiose, non amavano riscuotere direttamente le loro tasse: le davano in appalto (in gabella, recita il documento) e gli aggi esattoriali Dio solo sa a quanto ascendessero. Pensare ad un 25% d’aggravio è forse da ottimisti.

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