mercoledì 8 aprile 2015

UN CONCORDATO CONSILIARE, PRELUDIO DI UN MODERNO DIBATTITO MUNICIPALE - I


Capitoli dell’accordio si fà infra l’illustrissimo signor D. Hieronimo Carretto conte della terra di Racalmuto e per esso suoi figli utriusque sexus et suoi eredi e successori in dicto statu

 

 

 

Capitoli dell’accordio si fà infra l’illustrissimo signor D. Hieronimo Carretto conte della terra di Racalmuto e per esso suoi figli utriusque sexus et suoi eredi e successori in dicto statu

 

 

per lo quali si havi di promittiri di rato iuxta formam ritus di ratificari lu presenti contrattu à prima linea usque ad ultimam, ita che li masculi d’età si habbiano da fari ratificari infra mesi due da contarsi d’oggi innanzi, e li minuri quam primum erunt maioris aetatis cum pacto et condictione che la persona che rathifichirà s’habbia d’obligare di rato per li suoi figli utriusque sexus, e cossì li figli di figli in infinitum intendo per quelli che haviranno di succediri in detto stato e terra di Racalmuto, e non altrimente ne per altro modo s’intenda detta promissione di rato ut supra di l’una parti, e Bartolo Curto, Pietro Barberi, Cola Capobianco, Angelo Jannuzzo, Antonuzzo Morreale, Cola Macaluso, Pietro Macaluso, Antonino Lo Brutto, Vito Bucculeri, Pietro d’Alaymo, Joan Vito d’Amella ed Antonio Gulpi eletto di nuovo per la morte dello quondam Jacobo Morreale, deputati eletti per consiglio circa la questione e liti vertenti tra lo detto illustre signor conti e l’università di detta terra in la R.G.C. ed altri differentij che tra loro sono stati, in lo quali accordio s’intenda e sia imposto perpetuo silentio:

 

Testes magnificus Marianus Catalano, magnificus dominus Antonutius Cirami Ar: et Med:  doctor, magnificus Gaspar Lo Giudice, Mazziotta di Neri, Franciscus la Vecchia de civitate Agrigenti, reverendus d. Joseph de Averna, clericus Orlandus de Averna, reverendus pater Monserratus de Agrò et magnificus Hieronimus Riggio.

Ex actis quondam notarij Nicolai Monteleone extracta est presens copia per me notarium Michaelem Castrojoanne Racalmuti; dictorum actorum conservatorem collectione salva.

 

*   *   *

Nei 27 articoli dell’accordo tra l’università di Racalmuto e il conte del Carretto abbiamo uno spaccato della vita sociale e civile del nostro paese, nell’ultimo ventennio del Cinquecento.

All’art. 1 abbiamo la singolare angheria di una gallina o di un galletto che ogni allevatore di polli doveva al governatore del castello, anche se a prezzo prestabilito.

All’art. 2 scatta il divieto di andare a lavare i panni alla fontana. La fontana dei nove cannoli c’era dunque anche allora e doveva avere l’aspetto che si arguisce dall’ex voto del Monte.

All’art. 3 viene imposta la macina nei mulini del conte, anche se ne viene attenuato il rigore con una disciplina abbastanza elastica. Interessante il richiamo ai mulini del Raffo, di cui ancor oggi è possibile ammirare la perizia della realizzazione, una pregevole opera di ingegneria idraulica del ’500.

L’art. 4 disciplina l’istituto della “baglia”, una magistratura feudale che giudicava dei piccoli forti e riscuoteva le multe per contravvenzioni ai locali regolamenti di polizia. 

 

L’art. 5 compendia norme sulla gabella della carne bovina, vaccina, ovina.

 

L’art. 6 getta spiragli di luce sulle intollerabili angherie personali che massari, donne di servizio, lavoratori subivano da parte della corte feudale.

L’art. 7 è quello nodale: reimposta i diritti di terraggio e di terraggiolo al centro dell’annosa controversia con il conte. Emergono arretrati d’imposta che i racalmutesi non hanno alcuna voglia di estinguere.

 

L’art. 8 esonera dal terraggio sul lino, che non crediamo dovesse essere intensamente coltivato.

 

 

L’art. 11 impartisce disposizioni sulle modalità delle estirpazioni delle vigne e sulle licenze comitali occorrenti.

 

L’art. 10 concerne la nomina del “rabbicoto” il commissario per il grano.

 

L’art. 11 contiene giusti divieti ad esigere le contravvenzioni della baglia  in natura come frumento, bestiame, etc.

 

L’art. 12 concerne le tasse feudali sui mosti.

 

Con l’art. 13 viene stilato un nuovo accordo sul terraggiolo.

 

L’art. 14 reimposta invece il diritto del terraggio.

 

L’art. 15 scende in dettaglio e disciplina i diritti dovuti quando gli abitanti di Racalmuto detengono campi di stoppie fuori dello stato o mantengono vacue le terre al di fuori del territorio feudale.

 

L’art. 16 ribadisce e approva la consuetudine circa il modo di tenere le bestie al tempo della mietitura nel territorio e nel feudo di Racalmuto e di Garamoli.

 

 

Con l’art. 17 viene disciplinato il diritto di portar seco animali quando si va a coltivare vigne o ‘chiuse’.

 

Con l’art. 18 si concede una sorta di sanatoria per le  vendite abusive di abitazioni all’interno dell’abitato di Racalmuto.

 

L’art. 19 detta norme sui tempi e modi di addurre prove nei processi.

 

L’art. 20 stabilisce una transazione sulle spese processuali fin allora sostenute, una sorta di reciproca rinuncia alle rispettive pretese.

 

Con l’art. 21 si stabilisce un rinvio ricettizio delle norme e consuetudini per quanto non espressamente previsto e stabilito.

 

L’art. 22 contiene l’assicurazione da parte del conte che per l’avvenire non potranno essere imposti nuovi tributi, servitù, angherie e consuetudini se non nelle forme pattizie concertate con il consiglio dell’Università.

 

L’art. 23 attiene alle forme pubbliche da conferire all’accordo che si è raggiunto.

 

L’art 24 stabilisce il terraggio per le terre “strasattate”.

 

 

L’art. 25 prevede la perpetuità degli obblighi contratti sia da parte del conte che da parte dell’Università.

 

L’art. 26 disciplina il terraggio in misura ridotta per le terre ingabellate inferiori a salme 50.

 

L’art. 27 stabilisce il numero massimo di bestie che possono tenersi nel territorio di Racalmuto, Garamoli e Culmitella, presumibilmente in esenzioni d’imposta.

 

L’organizzazione feudale del centro agrario di Racalmuto.

 

 

Sorprendentemente, i religiosi del Carmelo di fine ’500 detenevano tutta una documentazione sugli strani debiti di uno di tali rami cadetti.  Se ne ricava uno spaccato dell’organizzazione feudale di un centro agrario qual era Racalmuto. Con una “polisa” il 15 febbraio del 1569 il barone di Sciabica, don Federico del Carretto s’indebita con Antonio Pistone. «Io don Fidirico del Carretto per la presente polisa mi fazzo debitori ad Antoni Pistuni in salmi quaranta e tummina setti di frumento forti et sunno li detti ad complimento di salmi 70, tt.a 7 si comi chi mi prestao hora dui anni in lo fego di la Menta quali frumenti prometto darli per tutto lo misi di augusto proximo da veniri et ad sua cautela hajio fatto la presenti polisa scripta di mia propria mano in Girgenti a di 15 di frebaro XIJ^ Ind. 1579, dico salme 40 e tt.a 7 - ditto don Fiderico del Carretto.»

 

Quale il rapporto sottostante di questa transizione di frumento della Menta, non è dato di sapere. E’ da pensare ad una speculazione granaria. Il nobile agrigentino, un cadetto della celebre famiglia, ha entrature a Racalmuto. Qui pare che non manchino gli abbienti come questo Antonio Pistuni che può tranquillamente prestare ingenti quantità di frumento. Federico del Carretto cessò di vivere qualche anno dopo.

Si ricorda dei suoi debiti nel testamento: «E’ da sapere - si può volgere dal latino - come fra gli altri capitoli del testamento fatto  a mio rogito il 9 novembre p.^ Ind. 1572 dal quondam spettabile signor don Federico del Carretto un tempo barone di Sciabica, sussista l’infrascritto capitolo del seguente tenore:

«Del pari lo stesso spettabile testatore volle e conferì mandato che qualsiasi persona dovesse ricevere od avere dal detto spettabile testatore qualsiasi somma di denaro o quantità di frumento, di orzo o di altro sia saldata dalla propria moglie secondo diritto a valere sui redditi del detto spettabile testatore, sempreché quei debiti appaiano in atti pubblici o con testi degni di fede o in scritture ricevute da qualsiasi curia. E ciò volle  e non altrimenti né in altro modo.»

«Faccio fede, io notaio Giovan Battista Monteleone».

Vi è un atto esecutivo della Gran Corte del XV luglio 1573 dai toni pomposamente ultimativi ma che in definitiva non fanno altro che confermare i fatti suesposti.

La curialità cinquecentesca non scherzava davvero: «secondo la forma della nuova Prammatica, si dovrà procedere con l’accesso ed il recesso e per la soddisfazione di cui sopra pignorando qualsiasi bene e vendendo quelli privilegiati ... carcerando e scarcerando ed operando l’estradizione da un luogo ad un altro o da un castello all’altro ...» Ma ci limitiamo agli atti formali della locale curia racalmutese, emergendone procedure, figure locali,  personaggi pubblici.

«Racalmuto 28 gennaio 1572 - atti contro donna Eleonora del Carretto per Gaspare La Matina, baiulo.

«Testi ricevuti - alcuni passi sono in latino, ma qui ne diamo la traduzione - ed esaminati a cura dello spettabile baiulo della terra di Racalmuto ad istanza e richiesta di Antonuzzo Pistuni avverso e contro la spettabile donna Eleonora del Carretto tutrice testamentaria dei propri figli e figlie, eredi del quondam spettabile don Federico del Carretto suo marito, in ordine alla verifica dei documenti.»

 

 

Identica relazione fanno i sotto indicati personaggi:

                nob. Giovanni Antonio Piamontisi, Secreto della terra di Racalmuto, con don Federico ha avuto “pratica et canuxi la sua manu”;

                magnifico Jo: Saguales di Racalmuto, «che canuxi essiri la manu propria del ditto quondam et che ni havj multi polisi de causa sua et interrogatus dixit scire premissa per modum ut supra ditta sunt..»;

                hon. Vincenzo Lo Perno di Racalmuto, «como pratico che era con lo ditto quondam don Fiderico ...»;

                Diacono Martino Rizzo di Racalmuto, il quale «vitti quando ditto quondam don Fiderico scrivia la ditta polisa et la vitti scriviri et la ditta polisa scripta che fui l’appi in potiri lo ditto di Pistuni ....»;

                Reverendo don Alerico Tudisco di Racalmuto, che sa «come quillo che a pueritia usque in diem obitus canuxi a ditto quondam del Carretto et canuxi essiri ditta polisa la sua propria manu modo quo supra...».

 

Risulta il tutto dagli atti della curia del baiulo della terra di Racalmuto, essendone stata fatta copia dal maestro notaro Giuseppe de Ugone (gli Ugo del Rivelo).

Sotto Girolamo I Racalmuto dunque consolida il suo vivere contadino: il conte è lontano, ma i suoi esattori onnipresenti. L’accordo è tutto a favore del feudatario. I racalmutesi non lo gradirono; cercarono di aggirarlo; lo contestarono. Le contese continuarono sotto tutti gli altri conti di Racalmuto. Fino al tempo dei Requisenz, quando il prete Figliola e l’arciprete Campanella riuscirono a far caducare dalla corte borbonica il terraggio ed il terraggiolo. Era il 28 settembre 1787 quando il Tribunale borbonico sentenziò: “ius terragii et terragiolii tam intra, quam extra territorrium declaratur non deberi”.

Ecco perché ci appaiono settari gli aculei che Sciascia (sull’onda degli anatemi del Tinebra) scagliò contro il solo - ed appena ventiquattrenne - Girolamo II del Carretto: ben altre erano le responsabilità dei predecessori; ancor più inique le pretese dei suoi successori e persino dei feudatari settecenteschi che non portavano più l’esecrato nome dei del Carretto.

 

Oltre ad una caterva di figlie femmine, Girolamo I del Carretto lasciò tre figli maschi: Giovanni IV, suo successore nella contea di Racalmuto, Aleramo, che diverrà conte di Gagliano e resterà famoso per gli abusi amministrativi, ed un tal Giuseppe, di cui si occuparono le cronache nere del tempo.

 

 

GIOVANNI IV DEL CARRETTO

 

 

 

 

Giovanni IV del Carretto fu un torbido personaggio di cui ebbero ad occuparsi le cronache nere del tempo, anche dopo la sua morte. Ma fu un personaggio che visse, operò, uccise e fu ucciso in quel di Palermo. Crediamo che a Racalmuto non abbia mai messo piede. Fece amministrare i suoi beni racalmutesi da un genero (Russo) che dovette essere parente della prima moglie e che fu sposo della figlia illegittima Elisabetta, alla quale però il conte teneva tanto da legittimarla.

Tinebra Martorana ed Eugenio Messana spendono varie pagine ad illustrare la figura di questo Giovanni del Carretto: i fatti di sangue che lo riguardano destano curiosità ed interesse cronachistico, anche a distanza di secoli. Non sono però molto attendibili questi nostri due storici locali. Sciascia, sul nostro conte Giovanni IV del Carretto, ragguaglia sapientemente nella sua ricostruzione  delle vicende di fra Diego La Matina (vedasi la pag. 185 della Morte dell’Inquisitore, ed. 1982 cit.)

 

Ad onta del fatto che il conte se ne stava a Palermo, o forse appunto per questo, Racalmuto prospera dopo la terribile peste del 1576. Divenuto contea, sistemata in qualche modo la faccenda del terraggio e del terraggiolo sotto Girolamo I, questo nostro centro attira contadini, mastri, piccoli imprenditori, anche usurai specie da Mussomeli, e diviene un paesone enorme per quei tempi: il rivelo del 1593 annovera circa quattromila e cinquecento abitanti, e molti di loro hanno patrimoni apprezzabili.

 

In un siffatto contesto demografico, il ‘rivelo’ del 1593 si colloca come il primo censimento che si ispira ad un certo rigore statistico. Si può pensare che ciò si deve alla lontananza del conte Giovanni del Carretto. In questi anni, infatti, Giovanni del Carretto è nel bel mezzo della sua bufera giudiziaria. Vi era incappato per una vicenda avvenuta attorno al 1590.

Ecco come ce la racconta un suo parente Vincenzo di Giovanni  «In questi tempi [tra il 1589 ed il 15 maggio 1591] successe che essendo  riportato a D. Giovanni Carretto, conte di Racalmuto, che Gasparo la Cannita gli faceva mal’opera riportando alcune sue opere, ed avendo colui lasciatosi trasportar dalla colera, dicendo contro quello parole ingiuriose, il detto della Cannita ebbe ardire di mandargli un disfido per una lettera, dicendogli che aspettava la risposta in Napoli.

 

 Gli mandò dietro il conte per farlo castigare della presunzione; ma fro i messi ingannati ivi da quei, che gli avevano promesso far l’effetto: il che sentì gravemente il conte, ed attese a procurar meglio ricapito.

In questo, sentendo il conte di Albadalista, viceré in questo regno, tal negozio, fé venire il Cannita su la sua parola per farlo accordare col conte; ed assicuratosi di questo, si conferì a Palermo, non uscendo per la città, per dubbio, che aveva, se non quando andasse in palagio a trattare col viceré.

Tra tanto il conte di Racalmuto, sentita la venuta del Cannita, andava per le spie osservandogli i passi, perché aveva concertato genti per tal effetto.

Lo ingannro due finalmente, che, offerendosi al Cannita di accompagnarlo a palagio, lo diedero in mano de’ nemici.

Aveva il conte concertato due con due pistole, e quattro per far salvar quelli dopo fatto il caso. Venendo a passare il pover’uomo, gli scaricarono coloro le pistole e l’uccisero; e quelli, che erano per salvarli, sbigottiti fuggirono.

Fuggì uno schiavo del conte: ma l’altro, essendo in fuggire, fu sopraggiunto dal marchese della Favara, e seguitandolo, fu preso e menato al viceré, dicendogli l’eccesso che fatto avea. Se corse [s’indispettì] assai quello, lo fé tormentare, e chiamato il conte, fé cercarlo con grande diligenza. Egli, vestito da monaco, fu uscito in cocchio da D. Francesco Moncata, principe di Paternò, e si salvò in modo, che per molti mesi non se ne seppe nova.

Salvatore lo Infossato, che era stato preso per l’omicidio, fu afforcato; e procedendosi in bando contro il conte, si fé dopo prendere in Messina da gente dell’Inquisizione, e pretese il foro.

Ma vennero lettere di Sua Maestà che fusse dato al viceré, perché era venuto ordine, che i signori non potessero essere del sant’Officio; ed in questo modo il viceré ebbe in potere il conte.

Pensò dargli il tormento della corda, con la clausola ‘citra paejudicium probatorium’, e gli aveva fatto provista, che non si eseguì per venire il giorno di festa con un altro seguente.

Si aspettava il dì di lavoro per eseguirsi la provista , quando la sera precedente venne un estraordinario con lettere, che aveva ottenuto D. Aleramo Carretto, suo fratello, che era alla corte, che soprasedesse il conte viceré sino ad altro ordine. Tra tanto era tenuto il conte di Racalmuto con dodici guardie.

Si adoperò in questo l’imperatore, che con i Carretti si trattava da parente; alle cui intercessioni vennero lettere di Sua Maestà, che il conte per qualche rispetto fusse rimesso al foro: il che sentì molto il conte d’Alba.

Fu rimesso; e fatte le sue defensioni in sant’Officio, dopo dieci anni di travagli e gravissime spese fu liberato, condennandolo solo ad onze mille, da pagarsi alla moglie del defunto, ed onze duecento al fisco. In questo modo ottenne il conte la sua liberazione.»

 

Il Tinebra Martorana ne fa una fantasiosa ricostruzione a pag. 120-123, apparendo partigiano dei del Carretto e contro il povero La Cannita quando ricama sul testo - invero arduo  - del Di Giovanni (che pure cita come fonte). Eugenio Napoleone Messana ricalca la narrazione, sia pure con qualche personale svolazzo e con qualche arbitraria annotazione (v. pag. 105-107).

 

 

L’intrico (veritiero) del conte Giovanni del Carretto.

Il Sant’Offizio.

 

 

Ma dobbiamo al Garufi queste esplicative note.

«S’aspettava ancora il giudizio della corte di Madrid su questa vertenza [quella relativa al caso Ferrante]  - scrive l’illustre storico - e chi sa per quanto tempo se il Conte d’Albadalista insieme al reclamo non avesse forse fatto pervenire al re le sue dimissioni per mezzo del D.r Morasquino, quando il 19 dicembre ‘89 i due Inquisitori, don Lope Varona e don Ludovico Paramo, spedirono al G. Inquisitore di Spagna, col Cardinale don Gaspare de Quiroga, un altro rapporto con le copie d’un nuovo processo contro Don Vincenzo Ventimiglia, e le informazioni su due nuovi fattacci occorsi al fratello del conte di Racalmuto ed ai fratelli La Valle. [...]

[E sono fatti diversi dalle] due sole notizie tramandateci dai contemporanei: l’una riguardante il fatto di “Giovanni del Carretto conte di Racalmuto, rimesso al foro del S. Officio per essere giudicato d’assassinio, fatto commettere appositamente e liberatosi mediante la multa di once mille”, e l’altra riferentesi al caso gravissimo del conte di Mussomeli, che turbò la cittadinanza palermitana e diede origine all’interdizione del regno, volendo l’Inquisitore “sostenere la giurisdizione del S. Tribunale esposta, come dice il Franchina, ad esser gravemente vilipesa”.  [...]».

 

Ed  il Garufi così illustra il caso che avrebbe coinvolto un fratello di Giovanni del Carretto, Giuseppe del Carretto: « [Dopo avere affrontato la vicenda del Ventimiglia] il rapporto  passa a parlare del fratello del conte di Racalmuto.

«Premetto che non è affatto a dubitare che il sistema di rappresaglia e soprattutto gli interessi materiali abbiano mosso gli Inquisitori a salvare don Giuseppe del Carretto, tramutato  per l’occasione in un misero commensale del fratello conte di Racalmuto “teniente de oficial” del S. Officio.

«Arrestato costui per una serie di gravi ed atroci delitti, a servirci dei termini usati dalla G. Corte, nel luogo della sua dimora, Messina, da cui foro giudiziario per le consuetudini della città non poteva esser distratto, gl’Inquisitori, a favorire il conte di Racalmuto che ne faceva una questione di decoro di famiglia o meglio di salvezza per il fratello, imbastirono le prove necessarie a dimostrare ch’egli era commensale di lui dimorante in Palermo, avendolo alimentato e mantenuto anche a sue spese a Messina: sotto lo specioso pretesto che il diritto di commensalità non si perde finché non sia intervenuta una regolare sentenza di magistrato.

 

«E giacché la G. Corte suggeriva di definire tale questione per via di consulta, secondo il Concordato dell’80, gli Inquisitori si rifiutarono dicendo:  che “di pieno diritto spettasse loro di giudicare se il del Carretto fosse o pur no commensale del fratello”.

 

«Affermato codesto principio con la sicumera di un diritto indiscusso, procedettero alle inibitorie ed alle scomuniche, e quindi fu necessario che la G. Corte sospendesse il processo, e il Viceré indirizzasse nuove proteste e nuovi reclami a Filippo II

«La moralità di tutta questa vertenza fu l’assoluzione di del Carretto con un mezzo molto simile a quello già fatto per il fratello di lui, conte di Racalmuto, condannato per assassinio ad una multa di mille fiorini.»

Confessiamo che le vicende ci appaiono piuttosto confuse. Propendiamo, comunque, per l’ipotesi che i due fatti siano interconnessi. Che per primo si ebbe a verificare l’incidente di Giuseppe del Carretto (sicuramente databile prima del 19 dicembre del 1589). La «mal’opera» che  Gasparo la Cannita - un personaggio importante se sta tanto a cuore al viceré Albadalista -  faceva  al conte Giovanni del Carretto riportando alcune sue opere, fu forse una pubblica accusa sul comportamento dell’arrogante conte di Racalmuto in occasione dell’intrigo giurisdizionale  del S. Officio contro la G. Corte per salvare l’omicida Giuseppe del Carretto. Altro che “gravi danni” inferti ai domini del Conte, come vorrebbero Tinebra Martorana ed Eugenio Messana. Dopo, si consuma l’orrida esecuzione del La Cannita, mandante Giovanni del Carretto. Quindi la reiterazione del gioco della competenza del foro per una sentenza di comodo.

 

Al conte Giovanni del Carretto - si sa - il crimine portò iella: il 5 maggio del 1608 cade a sua volta , folgorato con due schioppettate in pieno petto, in via Maqueda a Palermo.

 

Il figlio Girolamo del Carretto, se crediamo alle carte del sarcofago del Carmine, venne fatto fuori da un servo.

 

Morì il 1° ( e non il 6 maggio) del 1622 all’età di appena 24 anni, 7 mesi e 3 giorni.

 

Il nipote Giovanni del Carretto finisce giustiziato nel regio Castello di Palermo il 26 febbraio 1650 (AURIA, Diario Palermitano), colpevole più di avventatezza e boria che di alto tradimento verso Filippo IV, re di Spagna.

 

Ma qual era la situazione di Giovanni del Carretto nel  1593, all’epoca del ‘Rivelo’?

A noi sembra, decisamente compromessa.

Un sintomo si coglie in un lavoro dell’epoca di un funzionario napoletano  che, parlando della nobiltà di Palermo e di Messina, ignora del tutto la famiglia del Carretto.

I documenti lo vorrebbero in carcere per tutto il decennio della fine del secolo XVI. Questo sembrerebbe di capire dalla sibillina frase del Di Giovanni:« e fatte le sue defensioni in sant’Officio, dopo dieci anni di travagli e gravissime spese fu liberato..». Ma forse ebbe solo il fastidio di un processo decennale. Libero, però; limitato tutt’al più nei suoi movimenti e costretto a dimorare in Palermo.

Nel processo n. 3542 del 1600  , appare che Giovanni del Carretto, nel 1594, aveva potuto compiere tutte le procedure per assicurarsi l’investitura della terra di Cerami.

Avrebbe dovuto essere trattenuto in carcere, ma, sia pure tramite procuratori, riesce ad acquisire il titolo di barone di Cerami.

 

 

La presa del possesso di Racalmuto.

 

Veniamo innanzitutto a sapere che il primo don Girolamo del Carretto - quello che era riuscito a farsi rilasciare la patente di conte da Filippo II, facendogli magari credere che erano parenti alla lontana, per via delle pretesi origini sassoni dei del Carretto della originaria Liguria - aveva abbandonato il castello di Racalmuto, che pure aveva abbellito, e si era trasferito a Palermo.

Sappiamo che Girolamo, padre di Giovanni del Carretto, fu sepolto il 9 agosto XI indizione del 1583 nella chiesa di Santa Maria di Gesù fuori le mura di Palermo.

 

Defunto l’ex pretore di Palermo, il figlio Giovanni non ha il tempo - o la voglia - di recarsi a Racalmuto per prendere possesso della contea. Ne dà delega al parente agrigentino don Cesare del Carretto.

 

Eccone, in traduzione, l’atto di possesso:

«Atto di possesso - 8 agosto, XI^ indizione, 1583 -

«Si premette che il condam d. Girolamo del Carretto, conte della terra di Racalmuto, morì - come piacque a Dio - nella felice città di Palermo ed a lui successe - così come dovette e deve - nella contea predetta, per patto e provvidenza del principe, l’ill.mo don Giovanni del Carretto, in quanto figlio primogenito, legittimo e naturale, e successore in virtù dei suoi privilegi e degli altri atti e scritture.

 

«In relazione a ciò, nel predetto giorno,  lo spettabile don Cesare del Carretto della città di Agrigento - noto a me notaio, presente, innanzi a noi - come procuratore del prefato ill.mo signor don Giovanni, in forza della procura celebrata agli atti miei il giorno sette del presente mese, in virtù dei detti suoi privilegi ed anche dei relativi diritti, contratti e scritture,  con ogni miglior modo e forma, con i quali meglio e più utilmente poté essere detto, fatto e pensato, in favore e per l’utilità dello stesso illustrissimo signor don Giovanni come figlio primogenito ed indubitato successore per morte del prefato ill.mo signor don Girolamo del Carretto, suo padre, per patto e provvidenza del principe ed in forza dei suoi dei suoi privilegi ed in ogni miglior modo e nome e continuando nel possesso in cui fu ed è e per quanto occorra, il predetto procuratore prese e acquisì il reale, attuale, naturale, materiale, vacuo, libero e corrente possesso della detta terra di Racalmuto, della contea e dello stato della giurisdizione civile e criminale, nonché del mero e misto imperio e degli altri diritti ed universe pertinenze sue.

 

«E per me infrascritto notaio, ad istanza e richiesta dello spettabile procuratore predetto, fatte seriamente, lo stesso procuratore, per suo tramite ma in nome del delegante, è stato introdotto, posto ed immesso nello stesso possesso della predetta terra, contea e stato con tutti i singoli suoi diritti e le pertinenze universe, nonché nell’integrità dello stato, della giurisdizione  civile e criminale e nel mero e misto imperio, il tutto spettante alla detta contea in forza dei detti suoi privilegi ed altre scritture.

 

«E ciò per acquisizione delle chiavi del castello, con apertura e chiusura delle sue porte, entrando, uscendo e deambulando in esso castello e nelle sue stanze.

 

«Così come si è proceduto alla rimozione, destituzione e revoca dell’ufficio di castellanìa nella persona del magnifico Giovanni Bartolo Ciccarano, e dell’ufficio di secrezìa nella persona del magnifico Giovanni Antonio Piamontesi, dell’ufficio di capitano, giudice e maestro notaio nelle persone di magnifici Artale Tudisco, Nicolò di Monteleone e Rainero Fanara.

 

«E tanto si è fatto anche per i loro sostituti negli uffici della giurazìa nelle persone di mastro Martino Rizzo, Antonucio Morreali, Filippo Vaccari e Nicolò Capoblanco; e negli uffici di mastro notaro e dell’erario fiscale nelle persone di mastro Giacomo Puma e mastro Paolo Cacciaturi.

 

«Per nuova elezione e creazione negli uffici predetti, sono stati rinominati gli stessi ufficiali e gli stessi loro sostituti per beneplacito e sino ad altra nomina degli ufficiali in altra occasione o circostanza.

 

«Per la solenne celebrazione di un tale possesso ed a testimonianza di tale vero, reale, attuale, naturale e materiale possesso, ed a cautela del predetto ill.mo signor don Giovanni, viene redatto il presente strumento, corredato del timbro di avvaloramento, da me notaio Antonino de Gagliano, regio pubblico notaio di Cerami di questo Regno. L’atto viene rogato, in presenza di testimoni, e quindi registrato a suo tempo e luogo.

 

«Testi presenti: chierico Francesco Nicastro; m.° Pietro Romano; m.° Marino de Mulé e m.° Pietro Cacciatore.

 

«Nello stesso giorno, ai fini dell’estensione del possesso predetto, fu fatto accesso per me predetto infrascritto notaro e per il detto spettabile don Cesare del Carretto procuratore, con i testi infrascritti, fuori di Racalmuto presso il feudo detto di Racalmuto, e presso i feudi di Donnacale (Donnafala?), Garamoli e Culmitella, nonché presso i giardini, le sorgenti d’acqua, i vigneti della detta contea. Ne è stato preso possesso a nome del detto ill.mo don Giovanni, facendo l’entrata e l’uscita, visionando la concessione degli erbaggi, toccandone gli alberi, facendo il lancio di pietra, ispezionando il defluvio delle acque e compiendo gli altri riti atti a dimostrare la solenne presa di possesso.

 

«Testi: Nicolò di Mastrosimone, m.° Pietro de Pomis e m.° Pietro Buscemi.

Dagli atti miei notaio Antonino de Gagliano, di Cerami,  regio pubblico notaio del Regno.»

 

Il truce personaggio che fu don Giovanni del Carretto (il quarto della sua famiglia), se ebbe fretta a prendere possesso dell’eredità, appare poi in difficoltà quando deve prenderne l’investitura (con gli aggravi fiscali che comportava).

Ottiene due dilazioni e, finalmente, riesce a chiuderla questa fase dell’investitura, come da questa nota del citato processo:

«Messane die VI^ mensis Settembris XIII^ Ind. 1584  - prestitit juramentum [..]»

Giovanni del Carretto ereditò una caterva di beni, ma anche un’asfissiante massa di oneri, pesi e debiti.

Nessun commento: