venerdì 29 maggio 2015

il sapido secondo racconto di C. Restivo da Racalmuto


Torna il poeta dall’onirica malinconia Calogero RESTIVO da Racalmuto per un secondo racconto, leggero, rievocativo, distaccato nella scrittura, immerso e sommerso nell’animo. Anni lontani, memorie agresti, la mucca Severina e il padre distolto dalla terra, dai campi dal piccolo re per una guerra che si apre e si chiude  senza un senso, fuori dalla ragione umana. La fine di una guerra e una mano sulla spalla, e un grido fallace di vittoria quando si era perso. Ma il piccolo re sembrò aver vinto per la sua corsa tra i suoi “cugini re”.


 


Qui tanto olezzo di una elegante semplicità, di uno scrivere levigato, dalla sagace paratassi. E svetta anche nel narrare il poeta delle  cose umili Calogero Restivo da Racalmuto


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La ballata del piccolo re. Raccontino (non tanto) fantastico


 



Mio padre non era un re ma viveva da re nel suo piccolo regno: una piccola casa, un piccolo campo, un piccolo orto. Le nubi, prima di urtare le grandi torri e sfrangersi contro i merli del vecchio castello, lasciavano cadere una pioggia sottile bastevole per assicurare buoni raccolti.


Un giorno, che era seduto sull’aia a riposare, venne un re vero. Era un re piccolo piccolo che sembrava un bambino. Arrivò su una carrozza d’oro, e pennacchi colorati avevano i cavalli.
Si avvicinò a mio padre, lo prese per un braccio come si fa con gli amici “Sono stanco del viaggio” disse sedendosi e continuò “un vicino cattivo non ci vuole restituire questa terra nostra” e la indicò con il dito sulla carta “ Una terra dove abitano nostri fratelli.
Ci dobbiamo armare e fare la guerra, che quello” e con la mano indicava vagamente in alto “ci restituisca il nostro”. Mio padre lasciò i campi che erano già pronti per la semina, salutò la mucca Severina, al cane raccomandò di occuparsi di questo e di quello e andò via.
Andò per terra e per mare, per giorni e giorni andò finché non giunse dove le montagne avevano cime che si facevano cielo. Restò a bocca aperta a guardare.
Il re piccolo venne “Vedi” ed indicò lontano oltre le montagne “sta là il nemico” disse e andò via. Mio padre si mise a guardia e il nemico venne, avanzò fin dentro le case e fu allora che incominciò a sparare perché il nemico era il lupo che aggredisce le pecore fin dentro gli ovili. Avanzavano, quei soldati, incuranti del pericolo e certi della vittoria, ma quando si accorsero che quella cosa nera in mezzo alla neve non la smetteva di sparare e di seminare morte, si fermarono, fecero dietro front e incominciarono a correre per salvare la pelle.

Quando del nemico non si vedeva più nemmeno la polvere che si lasciava dietro fuggendo, venne il piccolo re e a mio padre che stava a terra sanguinante disse:
“E’ tutto finito… puoi tornare a casa tua, ora”. Gli batté la mano sulla spalla, come si fa con gli amici, salì in carrozza e partì. La gente gridava: “Viva il re, evviva…” perché avevamo vinto e il re correva a sedersi al tavolo della pace con i suoi cugini re.

 

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