martedì 20 dicembre 2016

LA DONNA DEL MOSSAD
Capitolo III
Cavatieddi cu sucu di cuniggliu sirbaggiu, ficatieddi e sanzizza agliannariata ed antri cosi bboni
Scinniennu scinniennu Meluzzo Cavalieri di Giorgenti – consentiteci qui di pigliar noi la penna in mano, ma per poco: promesso – passò in rassegna i suoi prossimi commensali: era il gotha dell’intelligenza paesana. Racalmuto, patria di Sciascia, era da tempo che mancava di cultura elitaria. I suoi prossimi commensali, colti di cero non lo erano. Arguti, birbanti, scoppiavano d’intelligenza, ma sterile, caustica, neghittosa, stracolma d’accidia.
Avrebbe troneggiato il sindaco Pitruottu, ma l’onorevole Lasagne, ripiccatissimo, avrebbe tentato di disarcionarlo. Non vi sarebbe riuscito: il Pitruotto, beccato alle ultime elezioni, era più abile: qualche libro almeno in gioventù l’aveva letto. L’onorevole Lasagne, no. Aveva inventato i caffè letterari, finanziati dall’industriale Illy che pur doveva pur essergli avversario politico, ma ignavo nel leggere si faceva sunteggiare il fatterello del letterario parto dal proprio figliolo. Introduceva quella variante nel suo dire ormai stereotipato; una qualche bella figura, invero, riusciva a farla. La voce sensuale ed il petto latteo in generosa mostra della subrettina avevano già ammansito il rado pubblico maschile, ancora assatanato di sguardi coitali.
Poi Popò, evanescente in tutto, e l’aragonese tutto preso di sé e decisamente diafano. Anche l’arciprete, materialone e loquace. Immancabile il “riddilio di la chiazza”, un ex minatore mai stato in miniera ma con pensione di invalidità cospicua e irridentemente ostensa. Ed anche “lu cammaratisi” sempre pronto a vantare l’inesauribilità del suo attributo, a suo dire debordante ogni umano confine. Era il cuciniere e qui davvero ci sapeva fare. Poi i suoi amici cacciatori: tutti, da Giacumino Bedduocchiu a Gnaziu Aviluortu a Chardonnay , a Miserere ed altri. Un bel po’ di gente insomma. Lu Parrinieddu, no: era ‘arrusu ed a Meluzzo, bando a tutta la sua intelletualitudine, gli invertiti maschi (per le lesbiche faceva eccezione) risultavano indigesti … specie a tavola.
A tavola, invero, “li ‘arrusii” si potevano dire, era preferibile “la futtuta cu li fimmini”. Meluzzo – che le parrocchie di Regalpetra le sapeva a memoria – rimuginava:
«Le mani si muovono a plasmare nell’aria grandi corpi di donne, donne si gonfiano nell’aria come mongolfiere. Non è più uno scherzo ora, tutti ci sono dentro, lo studente ascolta le confidenze del giudice di corte d’appello in pensione, il vecchio dottor Presti racconta a un amico di suo figlio di quando nudo scappò sui tetti, e un marito gli scaricava dietro due colpi. …»
I suoi commensali si professano grandi amatori …. Meluzzo sa che non è vero … solo qualche attricetta dopo il variété. (Ora, però, si sussurra di un prete tenutario e di un napoletano prosseneta e sedicente regista che spingerebbero giovanissime al sesso compiacente per un miraggio artistico …. malelingue! … male lingue!). Fa eccezione, di sicuro, l’onorevole Lasagne. Bell’uomo, suedente, non ha difficoltà a portarsi a letto giovane donne, moglie ribelli e pare qualche amica delle figlie. A Montecitorio, a palazzo Marini per la verità, ha trangugiato le grazie di tante procasissime commesse. Chi le pagava è rimasto però subito deluso per l’inconsistenza delle rivelazioni che l’onorevole era subdolamente spinto a confidare e le conquiste romane subito scemarono per il Lasagne.
Con la sua vecchia 131 Fiat giunse sulla radura della Vecchia Maniera. L’asinello, di taglia piccola ma non sardignola, riprese a ragliare. Meluzzo vi voltò a guardarlo. Sotto sciabolava sull’addome. Era spettacolo sconcio eppure non seppe girare lo sguardo. Un lungo fiotto bianchiccio fu al culmine della foia solitaria. «Che anche lui soffre di complesso di castrazione?» si disse con celia Meluzzo, in fondo per reprimere il senso di vergogna di cui si vergognava.
Erano tempi in cui leggeva di psicanalisi specie per approfondire la sessualità femminile, della cui conoscenza si sentiva a digiuno e che voleva approfondire per non essere superficiale nel parlare di donne nei suoi romanzi.
Si era sciroppati i testi di Janine Chasseguet-Smirgel, di Janine Lamp-de-Groot, di Helene Deutsch, di Ruth McBrunswich, di Marie Bonaparte, di Melanie Klein, di Ernest Jones etc. Nomi prestigiosi, letture noiose. “Complesso di edipo” nelle donne, “monismo sessuale”, “invidia del pene”, “pene castrato”, “preedipico”, “fase fallica”, “femminilità assimilata alla passività, mascolinità all’attività”, “bambino anale”, “anfimixi delle componenti anali e uretrali”, “mater dolorosa”, e via di questo passo. Per Meluzzo aveva senso solo l’aforisma: «l’orgasmo è maschile. La donna femminile non ha un acme orgiastico. La vagina è l’organo della risproduzione, il clitoride l’organo del piacere. »
Fin lì, la sua esperienza – ed era stata tanta – non confliggeva. Per il resto? O non aveva capito niente delle donne o era mistificazione. Forse la donna sino a metà del secolo scorso aveva tutte quelle turbe sessuali. Ma ora, era il contrario. Erano i maschietti a ritrarsi nel loro sesso, castrati di vagina. Bah! Meglio le prossime sortite oscene con i suoi simpatici commensali …- senza problemi erotici … almeno a tavola, alla “vecchia maniera”.
Il genio mittel-europeo aveva lanciato una sfida al mondo della cultura: Marx e Freud, in contesa, pensarono a strutture di base con sovraccarico di complicazioni esistenziali. Il momento economico per Marx, primigenio rispetto a tutte le sovrastrutture pensabili, l’eros per Freud e da lì il travagliato vivere moderno (dell’uomo e della donna, afflitti in diverso modo a seconda della diversa età): chi dei due ha ragione? Meglio, più ragione. Meluzzo, un tempo, avrebbe detto Marx: ora è in bilico. Ma Freud – certo non terapeuta, ma filosofo sì - la spunta sempre più su Marx se si investiga in tante latebre del cuore umano o se si ha voglia di capire il moderno riconformarsi degli assetti sociali. La spenta voglia procreativa – ed in contrasto, le irrefrenabili pulsioni (sadico anali, vaginali, castranti tanto per esemplificare) – devia e deforma irriconoscibilmente l’umano genere del 2000, tanto più alto, tanto più erculeo, tanto più mirabile: si rende così flebile il “dacci oggi il nostro pane quotidiano”, motivo di preghiera per Cristo e demoniaca forza conflittuale fra le classi per Marx.
Marx morto e sepolto, dunque? Manco per niente. Va riletto, riconsiderato, aggiornato. Occorre “Marx oltre Marx”. E fino a quando la sinistra – cessata l’onda idiota, riassunti i valori della critica – non s’induce in Italia a sdoganare Tony Negri, a rispolverare i suoi appunti, a vivificarli e ad aggredire gli idiomatismi telematici di una rincitrullita cultura avversa, blaterata da nicodemi, notturni amici di un rinnegato cristo socialista, il destino di partiti non più di massa e neppure di idee è miseramente segnato.
Si diceva di Meluzzo che quando passava agli argomenti politici diveniva dannunziano, vago, passionale, enunciatore astratto di incomprensibili principi, vacuo di fatti, contumelioso. Si rifaceva con i suoi “gialli”, fattuali e leggeri, spesso gassose ghiacciate, gradevolissime nelle arsure delle estati siciliane.
Sesso e consorzio umano, economia e società quali interconnessioni? C’era circolazione sanguigna, magari extra-corporea? Marx e Freud andavano rifusi, interconnessi, sussunti in amalgama. Dov’era però il genio? Dove il partito? La novella chiesa del 2000? Non c’era, non c’erano, diamine!
* * *
Al simposio andava come convitato d’eccellenza e, soprattutto, quale sommo sacerdote di un rito pagano; andava a dare sacralità laica ad una crapula di cibi fatti risorgere dagli smarriti usi del vivere contadino di Racalmuto.
Idea maiuscola, partorita dal genio liso ma non consunto dei racalmutesi, quelli che si stavano ora adunando per l’intellettualissima abbuffata alla “Vecchia maniera”. Il primo germe l’aveva avuto Aurelio, purtroppo assente per misteriosa ammazzatina. Ricercatore di antiche cose locali, s’imbattè in un rollo della Matrice. L’arciprete dell’epoca era con lui benevolo e compiacente: quello attuale faceva il mistico in chiesa, il materialone con qualche beghina ancora elastica in basso, ed il ciarlatano sui pulpiti e nei banchetti, specie se prodighi di libagioni. Quanto a cultura e quanto a sensibilità per la storia religiosa degli antichi padri, il nulla. “Rolli”, registri, pergamene, sediole, “altaretti”, baldacchini, “sedie gestatorie”, ed anche piviali e cingoli, amitti e patene, calici ed ostensori, mozzette e balaustre lignee, come gli smantellati stalli del coro settecentesco per i mansionari voluti dall’arciprete Lo Brutto, resero molto in euro e figurano mal registrate nelle denunce di furto presso la caserma dei carabinieri a S. Grigoli.
Aurelio era riuscito a decifrare il primo volume della «FABRICA DELLA MATRICE CHIESA DI RACALMUTO», ovverosia: «LIBRO D'INTROITO ED ESITO di denari per conto della fabrica della Matrice Chiesa di Racalmuto incominciando dalli 29 di novembre 8a Ind. 1654 et infra» per mano di D. Lucio Sferrazza» e nel dettaglio Introito di denari per conto della fabrica della Matrice Chiesa di Racalmuto pervenuti in potere del dr. D. Salvatore Petrozzella Depositario di detta fabrica conforme alle constituzioni di Mons. Ill.mo R.mo frà Ferdinando Sancèz de Cuellar vescovo di Giorgenti - Date in Racalmuto in discorso di visita a 28 novembre 8a Ind. 1654».
Il bel volume, rogato con grafia davvero bella, finì nel sottoscala della Galleria Colonna, fra i libri vecchi poco richiesti. Un’inchiesta vi fu; per pronta giustificazione si concluse che il manoscritto si era smarrito quando l’intera raccolta della matrice era stata traslata ad Agrigento per il restauro dei BB.CC.AA.
L’Aurelio aveva però trascritto con il vecchio excel l’intero volume (altri). Il passo che qui ci incuriosisce recita: «per havere fatto venire dui burduna da Garamoli tt. 20. e più per pani salzizza e vino a vinti homini che uscirno detti burduna dentro la fiumana» Era il mese di dicembre 1658.
Com’era la salsiccia racalmutese del 1658? Ancora migliore di quella che si gustava dopo la guerra del 1940. Poi erano venuti i porci del nord, e poi quelli esteri dalla Jugoslavia e poi quelli con il venefico mangime e poi quelli clonati … il gusto disperso, smarrito. Ne parlò Aurelio con Giovanni Salvo: dentista per vivere, animalista e botanico sommo (come dilettante, s’intende). Bisognava riprodurre gli antichi maiali nel sottobosco degli Agliannari al Castelluccio. Ignari gli Avareddi vendettero a giusto prezzo. Anni per il ripopolamento dei lecci e dei verri. Il tentativo riuscì. Aurelio non gustò quella salsiccia: il veleno fu più sollecito. La degustazione sarebbe avvenuta adesso, al simposio.
Vini antichi – si sperava simili a quelli che nelle olle venivano da Racalmuto inviate a Roma per le decumane delle verrine memorie – si produssero con vitigni che l’accorto padre di Cicciu Marchisi seppe ricordare: biancugiovanni, ‘nzolia, lacrima di madonna, ed anche zibbibbo e malvasia. Nucciu Principi - occhialuto latinista e giudice in pensione – citava Marziale:
- mescesi … il Massico vino al miele ibleo.
Il miele decantato era invero attico. Ma Nucciu Principi seguiva la versione di Alberto Gabrieli. Altrove del resto non si parlava di favi siciliani? «Quando regalerai miel di Sicilia/ stillato sugli Iblèi, di’ pur che viene/ dalla cecropia Atene». Ne era nata vasta ed inestinguibile disputa. Tre mirabili parti: un vino che Chandonnay seppe vacare (ed un po’ manipolare) dalle prime acerbe uve dei vitigni messi su da Cicciu Marchisi sul pendio dei Romano a Piedi di Zichi dopo l’esproprio per il pericolo di valanghe da nubifragi.
Non si volle mischiare il vino col miele: era come profanarlo, violentarlo. Stavolta il mondo romano era da considerare balzano, non raffinato nel trattare il liquore di Bacco. Miele speciale però si ottenne con arnie a “li balati” stracolmi di “satareddi” (“thimus capitatus”, non senza sussiego precisava il dentista-botanico). E con mandorle “muddisi” – qualità locale – si era fatta una “cubaita” (come quella insegnata a Federico II dagli arabi) che bene si coniugava con un vinello che Chandonnay aveva ricavato dal biancogiovanni, ‘nzolia, zibibbo e taluni altri vitigni che si teneva per sé, «pi nun farisi arrubbari la rizetta».
Tardi si accodò Benny Alaimo Alosa: appena laureato alla facoltà di agraria di Palermo, ove era pupillo dell’entomologo di fama mondiale, il racalmutese Giuggiu Liotta. Venne con una sua idea: coniugare “saperi e sapori” del paese. Peccato che s’intignò nel dare fattualità al titolo di un epigramma di Marziale sugli “oli odorosi”. Fingendo di confondere i profumi oleosi dell’epoca con oli odorosi di rosmarino, menta e citrosella, cercò di sperimentarli ed anche produrli: fu disastro economico: l’olio sapeva di afrore erbaceo, il selvatico delle piante si caramellava e dava appiccicaticcio sapore. Ancora un’insistenza e l’avrebbero espulso dalla combriccola. Si preferiva ed si usava l’olio tratto con macine antiche dalle olive portate da Di Marco, eccellente produttore e convinto assertore che i suoi uliveti sulle pendici settentrionali di Villa Petrone andavano salvaguardati solo con la carta moschicida, appesa agli alberi a tempo debito. Solo lui conosceva modalità e sistemi: un altro fanatico con la mania dell’omertà bucolica.
Pitruottu, ricco di esperienze ereditarie, seppe risuscitare tipi di verdure introdotte dagli arabi. Pregevolissima, la “bastunaca” di cui si era perso persino il ricordo. Giacuminu Beddocchiu e compani venatori rintracciarono – almeno così dicevano – il coniglio autoctono a li “Pantaneddi”: nella voragine prodotto dall’insipiente sfruttamente del salgemma poté annidarsi una coppia di leporidi nostrani, farla franca dagli accoppiamenti dei blenorrogici animaletti che incati cacciatori avevano senza difese sanitarie introdotto dalla Jugoslavia ed avevano figliato a oisa, sani e gustosissimi. Questo dicevano Giacuminu e compagni e stavolta non erano contraddetti dal solito Miserere. Il cronista riferisce e non commenta.
E qui mi fermo, altrimenti continuerei per tomi interi.
Giunsi con qualche ritardo, per quel dannato caso della morte del dottore Aurelio La Matina Calello: non ne feci cenno, altrimenti il pranzo andava a male, ché il morbo della curiosità, intrisa di malignità e sospetto e dispetto, chissà dove ci avrebbe portato. Trovai l’arciprete sorridente, ma nell’intimo contrariato. No pensava più alla gola come uno dei peccati capitali: i ghiotti spettacoli erano tentazione irresistibile. Non tanto però da non costringere la frotta dei commensali, farli tutti segnare, recitare il pater, invocare la benedizione celeste sul cibo che poco parco certo non era, e quindi «gloria patri et filio et spiritu sancto» (il latino approssimativo era il massimo che l’arciprete potesse concedersi dopo l’imbarbarimento della riforma ecclesiastistica di Paolo VI». «Et in secula seculorum» non potei fare a meno di celiare.
Esordimmo con antipasti ‘poveri’. Tutte le verdurelle commestibili delle contrade racalmutesi trovarono sapiente miscuglio, saltate in padella con aglio di Castrofilippo ed olio di Alaimo Alosa (abbiamo dovuto fare qui uno strappo ed accettare gli intrugli di Benny … e per quell’uso condimentale il rosmarino frammisto a succo di olive smunte dalle presse in basalto di Cefalù non era poi spregevole). Le focaccette (memoria di li cudduruna di gnura Annidda) erano fatte con la “tumminia”. Cipolle e lattughe degli orti di Pitruotto e spizzichi di tumazzu che Sintini ci aveva dispensato, una volta tanto senz’astio. Sintini, a vederlo, metteva paura: barba incolta da sempre, incedere caprigno, capelli irsuti, tarchiato ma non corto, bacino ardimentoso … ed occhi spaventosamente belli e neri… lupigni. Giacuminu Beddocchio lo chiamava «l’uomo selvatico», ed era l’unica volta che si concedeva letterari toscanismi. Aurelio aveva scritto che quelli (i Sintini e gli altri crapara del paese) erano i racalmutesi prischi, d’intatto DNA. Erano i residui dei sicani, spintisi fra le montagne con gli armenti, per non subire sudditanze e sfruttamento che il nuovo barbaro popolo dei geloi stava imponendo nelle lande sotto il Castelluccio già verso la fine del VI secolo a. C.
Il primo piatto impregnò la tavola dell’odore del sugo del coniglio selvatico. Spettò a Nucciu Principi preparare “li cavatieddi” come usava una volta, per devozione all’antico mestiere di pastaro della sua famiglia. E dopo, lo stesso coniglio a sugo e – prelibatezza delle prelibatezze – i fegatelli di porco indigeno e le salsicce del maiale allevato tra gli agliannari del Castelluccio ed altre specialità del luogo (non essendo però questo l’Artusi, le ometto tutte quante. Il mio apporto è consistito nel dosare sapori, odori, tempi di cottura, scelta della legna per ogni tipo di pietanza; insomma il tocco dell’intellettuale con vocazioni culinarie).
Sublime la granita di Parisi a mezzo del pranzo, per spezzare l’aggravio intestinale. L’abbuffata finale di dolci, amaretti, alle mandorle, alla ricotta, con liquori, con miele di sataredda, eccellenti i taralli che non erano di Piuzzu ma ormai la Taibbi si sapeva fare meglio, e deliziosi gli amaretti di Capitano. Compiacenti robuste libagioni, ora rideva a squarciagola Bisteccone: pur sempre meno rosso, a tavola era eccellente commensale. Provammo l’antico rosolio: ma non riuscì. Si imitarono i “marsala” e si superò il porto ed anche le celsitudini dei Whitaker . Finì ubriaco persino l’arciprete e così ci risparmiò il Deo gratias.
* * *
Appisolato ma con inframmittenze lunghe, sostenuto, diciamo che ero immerso in una bolsina per affaticamento delle frattaglie che si annidavano nel mio ventre: sbracato in una poltrona-letto, quelle da spiaggia per intendersi, venivo piano piano acciuffato da mal di testa (non dico emicrania per odio alle donne). L’esofago, il fegato e quegli altri arnesi della digestione chiedevano vendetta per il sovraccarico di lavoro, ed in cuor mio maledicevo Chandonnay cui davo debito di insolenze chimiche nel maneggiare i valenti ma scabri vini racalmutesi: non era enologo, era dilettante ed esagerava.
Mi apostrofò nel peggiore momento di quel giorno Cicciu Vitacchia, figlio del nostro cuoco «lu cammaratisi». Lo conosceva, ma in confidenza ero solo con il padre. Il figlio ebbe certezze di eredità necessitata.
- Sapissi, chiddu chi sacciu io sull’ammazzatina del dottore Agrelio Matina e la commissaria, nun lu sapi nuddu.
- Beato te, mi venne di rintuzzare, indispettito e scocciato.
- Fu la giudea, fu la giudea.
- Ma quale giudea?
- Chidda ca vinni di Sraeli.
- Perché è venuta una da Israele?
- Sissì e ddu voti.
- Andiamo con ordine, fui pedante ad arte.
- Chidda vinni orallannu. Cu nn’amicu. Ma li masculi nun ci piacivano. Fici fotografie na jurnata di ‘nviernu. Duoppu si nni partì. E mi mannà chisti fotografie.
Mi porse un plico con foto veramente abili. Scattate da un professionista di grande valore. Vitacchia era confusionario, io era avvinazzato. Optai per un rinvio.
- Senti, vieni domani su nella “roba” del dottor La Matina a Bovo. Sai dov’è.
- E dda ssusu, dda ‘mpacci.
- Bravo. A domani dunque.
Non vìera ombra di dubbio, la sicula e racalmutese fantasia, la voglia di darsi importanza, la lusinga di venire considerato da me (chi si contenta, gode) spingevano il Vitacchia a quegli sproloqui là. Quella che indicava come esecutrice di un duplice omicidio (ma la commissaria era morta per un incidente stradale) era una brava e caruccia giornalista d’Irsraele. Sì, la conoscete già: Melissa Cohen (sopra descritta, direbbero i burocrati). Sospettare di lei era peccato sommo. Giudizio temerario da buscarsi sette inferni in una sola volta. Vitacchia, paura dell’inferno non ne aveva, però. Sua nonna era stata la celebre Carmena l’acqualora. Donna bellissima, maliarda nella vita, soave nel canto. Tutta la mascolinità racalmutese – se capace di andare a puttane – l’aveva posseduta. A pagamento. Il marito sussiegoso chiedeva «Picciuò, v’addivirtistivu?». Il prezzo del meretricio doveva essere “scuttatu”. Carmena appagava, valeva, le cinque lire erano “scuttati”. Poi, mai in disuso ma rarefatte le richieste, ebbe mistici trasporti, religiosità quasi bigotta. Come cantava lei “Maria passa” il venerdì santo, nessuno, neppure Mulè. Ora erano le picciutteddi che sfacciatissime amoreggiavano nelle macchine, quasi alla vista degli occhi. Carmena guatava, scuoteva la testa, aspettava il passante e segnando a dito catoneggiava: «E po’ dicunu ca la buttana sugnu iu!»
* * *
Mi alzai davvero infastidito: Viatazza mi dava ai nervi. La sua saccenteria mi irritava; con presunzione somma (vizio racalmutese, si sa) mi veniva a spiattellare una soluzione semplice, semplice di un mistero tenebroso, intricato ed intrigante. Una valente poliziotta vi aveva speso tante energie e non è che non fosse arrivata ad una soluzione; vi era arrivata ma portava lontanissimo dalla bislacca supponenza di Vitacchia. Era un filone mafioso che vi si snodava. E prove, ed indizi, e riscontri la in effetti conducevano, indefettibilmente. La morte della poliziotta dava esca a qualche sospetto, ma il buon senso portava a concludere che si era trattato di un momento di panico di un frettoloso camionista, che catapultando nel vuoto una fragile peugeot 305 con la sua motrice si era precipitosamente eclissato. Cose d’ordinaria amministrazione. Non si era trovata la motrice; qualcuno diceva che non era targata; Giuggiu Marino sproloquiava. Note di colore paesano. Il mio notorio buon senso mi dice di smetterla con questo tornare e ritornare sul recaltritrante dialetto siciliano del Vitacchia: cacciamolo via, cacciamolo via.
Frattanto guardo le fotografie di Melissa Cohen (o del suo fotografo di Tel Aviv). La tetraggine a Racalmuto in un mattino d’inverno stagna in desolazioni immote. Legni secchi, in filari scheletrici e giù il bianchiccio di nebbia rada solcata da una stradetta serpentina che si diparte da fiancheggianti eucalipti: il simbolismo della prima foto isrealitica mi coglie cupo nel mio dispetto. Il casello ferroviario lo riconosco: la “T” resistente tra lo sbriciolarsi dell’intonaco, il casotto memore dell’antico mettersi al riparo delle intemperie per scorgere meglio il treno in arrivo, inceneriti dal gelo gli arbusti ai fianchi della strada ferrata, file di finestre senza imposte sopra e sotto e due una sull’altra nella fiancata breve. Il casello ha storia, storia fascista, non credo che i superflui dell’Olocausto la sapessero nel fotografare quel triste casello. Vi abitava negli anni trenta una famiglia di casellanti non indigeni, solitari, prolifici, in eccesso di promiscuità. Una giovane figlia, appena ventenne, passò al servizio del podestà. Il padre gridò allo scandalo. Il podestà ne avrebbe senza indugio approfittato. Processo. Manovrava il capo della milizia volontaria, avvocato e fratello del primo fascista locale e fondatore unitamente con don Calogero Vizzini del partito di Mussolini. Il podestà aveva fama di incorruttibile: l’avvocato e la sua famiglia vantavano un padre medico e benefattore ma non eccelsero in spirito filantropico. Tra il podestà e l’avvocato la ruggine era palese; l’avvocato colse il destro per di disarcionare l’avversario con un infamante processo. Ebbe a protestare l’imputato la sua idoneità a sverginare la figlia del casellante, peraltro di quasi ventun’anni; portò certificati medici di impotenza congenita, ma il montante moralismo fascista impedì l’assoluzione. Quando vecchio ed ormai sotto il regime democristiano l’ex podestà degnò delle sue confidenze un giovane procuratore legale, continuava a ripetergli che la giovane non era vergine, era stato il padre casellante a consumare la violenza. A sua volta il confidente ebbe vecchiaia isterica: forniva la piccante versione ma la negava rissosamente se dopo giorni gli chiedevi conferma. Il fascismo non era stato solo violenza all’esterno, anche nel suo intimo fu violento. Un podestà onesto soccombette ad un avvocaticchio immorale, usuraio e maldicente. Il casello come simbolo mi affascina: «poiché il paese è pieno di adulteri, / a causa della maledizione tutto il paese è in lutto, / si sono inariditi i pascoli della steppa. Il loro fine è il male / e la loro forza è l’ingiusizia.» La geremiade mi va di ripetermela in latino, altro suono, altra atmosfera: «quia adulteris repleta est terra. Arefacta sunt arva deserti: factus est cursus eorum malus , et fotutudo eorum dissimilis.» (Ieremias 23, 10).
Altra foto: tetti diruti; miserie velate. Altra foto: imprigionato il vecchio carcere con il geometrico campanile del convento francescano che il de Carretto colle nel 1540 e che padre Cipolla non potè finire nel 1930, imperante il fascismo. La scalinata del Monte sa ora acquisire satanica minaccia per l’addossarsi del trasandato palazzetto: tetri a commento i lampioncici di vecchia memoria. Ora è la volta di Vitacchia (assieme al comico Serpia, inanellato basco cappotto e occhio ceruleo e vivo); in fondo, la matrice tra nebbiolina come nell’esordio del Giorno della Civetta di Sciascia. Ed ora il comico a solo, mentre si appoggia all’ombrello, come se fosse un nobilotto inglese, lui il cui DNA si sperde tra accoppiamenti spurii ed illegali. Infine, la matrice transennata, le violentate case di Piazza Castello appena visibili nel grigiore della nebbia e Vitacchia che vuole l’immagine a solo: manca però di fotogenia.
Ed eccolo che arriva, chiassoso ed indisponente. Dimenticavo: mi sono trasferito nella villetta del dottore La Matina messami gentilmente a disposizione dalla famiglia del defunto. Tutto si può dire dei racalmutesi, ma ospitali lo sono e se ospitano, statene certi, sono disinteressati. Non esagerate nel ringraziarli; però non fategli capire che pensiate ad una qualche loro capziosa gentilezza: diventerebbero subito bruschi ed ostili.
* * *
- Allura, aieri cci diciva ca orallannu …
- Sì.sì, me lo ricordo: l’anno scorso è giunta qui una israeliana … che ha fatto fare le fotografie da un suo connazionale, ecco, queste fotografie … ed era una brutta giornata invernale …
- Ma sapi comu si chiamava?…
- Lo so - in effetti avevo consultato le carte della poliziotta.
- Melissa, chi bieddu nnomi…
Ma qui debbo dare un taglio allo stretto racalmutese del parlare di Vitacchia. Mi prendo la libertà di tradurlo, possibilmente alla lettera, con qualche concessione al “volgare eloquio”.
- Melissa era … bedda bedda no … ma a mia mi piaciva assà. Nivuredda, i capelli ricci e neri … senza minni, insomma picciliddi … ma aviva un culu … un culu pisellante?
- Pise… che?
- Inzumma, duttu, faciva arrizzari. Addunca, chidda arriva col suo giovanotto. Piccolo, occhialuto, a me sembrò tanticchedda ‘rricchiuni – (oh l’influenza del cinema romanesco, mi venne di pensare).
- Perché, ti adocchiò?
- Veramente no, si vede che capì subito ca a mia mi piaci sulu la cucchia!
- Tu sei sboccato, Vitacchia. Con me parla .. latino – e pensavo al termine come Sciascia lo cerebralizza.
- Arriva la sera, li porto nel «trilocale con tre camere da letto e bagno a L. 20.000 a persona per notte» come dice Inforacalmuto, il sito del paese albergo insomma. Mi aveva istruito Rosalia Sinibalda con cui questi di Tel Aviv erano in contatto. Non conosce il sito dottò? Insomma li portai nella vecchia casetta di Mariano Zuccalà a S. Francesco. Che si presenta bene e per essere casa d’affitto, è comoda. Non c’era riscaldamento, ma le stufe c’erano, elettriche, una per ogni stanza. Si stava bene. Io Rosalia Sinibalda non l’amavo tanto prima, s’immaginassi duoppu chiddu che vitti. Ma ogni cosa a suo tempo.
- Già, ogni cosa a suo tempo: non divagare Vità.
- Sissi, duttù. Li lasciai a dormire. L’indomani andai a prenderli e fecero quelle fotografie che le ho fatto vedere. Al casello ci andammo con la mia macchina: Scaccia è luntanu, sapi. E poi era una brutta giornata, friddusa, cu la neglia ca nun si nni vuliva jiri. Serpia subito si ungì cu nantri. Sapi, chiddu unni vidi ‘scuru e fudda’ … e non faceva parlare a nessuno .. nun ci faciva arrivari a nuddu, ‘nsumma. Ripeteva sempre la solita storia: che aveva recitato, che era un grande comico, che i battimani erano tutti per lui. Melissa rideva, il compagno non comprendeva. Io mi annoiavo.
In preda a noia galoppante veramente ero io. Non lo seguivo più. Solo a questo punto ebbi un sussulto.
- A mmia mi piaciva. Accussì cercai di forzare i tempi. Ritornai la sera, era a dire la verità notte. Si era dimenticata di mettere il lucchetto del portoncino. Era aperto, entrai, salii, e restai di stucco. Era nuda, abbracciata con Rosalia pure essa nuda .. e si amavano … come un maschiaccio con una femmina di strada … che schifo!. Non si erano accorte di me … continuarono. All’improvviso un urlo di Rosalia: mi aveva visto. Scappò nuda e si nascose nel bagno. Melissa rimase impassibile, anzi mi sorrise, ma più che un sorriso era un ghigno beffardo. «Non te lo avevo detto che non c’è trippa per gatti» «Nenti rugnuna pi li gatti masculazzi». Non disse propriu accussì, ma chiddu era il senso.»
Mi indignai e lo bloccai. Gli offrivo, liberatorio, uno scifu di caffè e latte, più caffè che latte, però. Gli detti savoiardi, un sacchetto cellofanato di quelli che vende Campanella. Io il mio soavissimo caffè, fatto con la napoletana, come mi aveva insegnato Gennariello al Caffè della Galleria di Napoli, me l’ero già dispensato con il solito rito mattutino. L’istinto pettegolo regredì, quello famelico imperversò. Vitacchia si precitò sulla tazza, ingoiava savoiardi interi, a metà intingendoli nella brodaglia bianconera, a metà divorandoli in un solo boccone. Spruzzava saliva e briciole intrise di caffellatte, in bestiale ingordigia. E questi si permetteva di censurare amori sublimi di mirabili donne. Puah!
Mi ritirai nell’altra stanza, quella che fungeva da studio. Anche per Aurelio. Vitacchia mi aveva ridestato un ricordo soavissimo. Nella mia vita di sceneggiatore ne avevo viste di cotte e di crude in materia di sesso. Amanti indomabili, bagasce oscene, pederasti, invertiti, trans, e naturalmente lesbiche, quelle attive e quelle passive, omoerotiche e bisex. Una deliziosa fanciulla, candida, cerbiatto immacolato, armonica nel corpo, dall’occhio terso, incantevole mi aveva amato ed io l’avevo amata, ma nel più puro dei modi, senza sensi, con trepido moto dell’animo, dell’anima sua, del cuore mio: ed intelletto e sentimento e gioia nel rivedersi ed incanto nel sentirsi ed arcano mirarsi negli occhi e silente trasporto si fusero o tessero l’ordito di una relazione ineffabile, durata pochi mesi purtroppo. Ella era lesbica, aveva una carissima amica (né bella né tenera come lei). Mi amò castamente, l’amai teneramente. Ed ora veniva quel laido di Vitacchia ad imbrattarmi tutto. L’avrei scaraventato da una finestra, ma da una finestra altissima, sita all’ultimo piano di un grattacielo newyorchese.
In bell’evidenza stava nella libreria di Aurelio un testo commentato delle poesie di Saffo (sì, Aurelio era colto, sapeva anche di greco antico e se lo centellinava anche a tarda età. Non per nulla era stato in seminario. Ditegli tutto quello che volete ai preti, ma gli studi classici te li sanno imporre).
- … passi leggiadri ti guidavano veloci al di sopra della nera terra con fitto battito d’ali giù dal cielo per gli spazi dell’etere …
- mi piace questa traduzione di Franco Ferrari. E la donna amata dalla donna? «Infatti anche se fugge, presto verrà dietro, / e se non accetta doni, anzi ne offrirà, / e se non ama, ella presto amerà / anche contro il suo volere». Ma io sono greco, sono agrigentino da immemorabili generazioni. Come li avrei letto quei versi? Sentiamo – e ad alta voce declamai:
- kai gar feughei takheos dioksei, / ai de dora de me deket’alla dosei / ai de me filei, takheos filesi / koiik etheloisa.
- Decisamente improbabile. Oh grande lingua antica dei nostri primi padri, come ti abbiamo smarrita! Come? Quando?. Ancora ai tempi di Verre le donnette pie e fanatiche in greco malmenarono gli scherani del vorace esattore, quando di notte si tentò il furto dell’Ercole bronzeo (ex aere simulacrum .. Herculis». In greco – è certo – gli agragantini cercarono di scherzarci su «in hac re aiebant in lobores Herculis non minus hunc immanissimum Verrem quam illum aprum Erymanthium referri opertere» (dicevano - e la loro lingua veicolare era il greco - che nel novero delle fatiche d’Ercole occorreva includere questo spietato porco d’un Verre non meno del famoso cinghiale d’Erimanno.» Greco ancora si parlò per tutto l’impero romano e greco, dopo, sotto i bizantini. Greco il vescovo Gregorio del III secolo (non certo l’innografo che quella è baggianata di eruditi ma non colti canonici agrigentini). In lettere greche la dedica ad Hermes e ad Eracle nel chiostro di S. Nicola. Gli arabi furono di passaggio. I berberi erano bravi ma incolti contadini per sopprimere una grande lingua. Poi Gerlando un bretone pio ma predace. Iniziò il seppellimento del greco. Ma i testi dell’archivio capitolare di Agrigento dimostrano che non fu facile. Sopravvive il greco per due o tre secoli ancora. Il buon Aurelio così scriveva: «Per esser normanno, venne descritto dalla pur tardiva storiografia secondo il consunto steriotipo di uomo di nobile prosapia, bello, alto, biondo e di gentile aspetto. Tale versione risale al secentesco Pirro. Il personaggio non è inventato e questo è già molto. E il vescovo ebbe subito fama di santità, come può arguirsi dal Libellus custodito nell’Archivio Capitolare ove si parla dell'anima benedetta del beato Gerlando che, discioltasi dalla umana carne, ebbe a riposarsi nel Signore «beati Gerlandi anima, carne soluta, quievit in Domino». Quello che, invece, lascia increduli noi laici è quella sua facondia trascinatrice di ebrei e musulmani. Nell'agrigentino si parlava un dialetto locale, veicolare che aveva poco di arabo. Forse residuava un uso del greco nei ceppi più tenaci. Questo vescovo borgognone, che chissà quale lingua parlasse, dovette disperarsi nel cercare di capire i suoi sudditi e questi, come ancor oggi si dice, parlavan turco, di certo, per lui, incomprensibilmente. E le sue prediche inventate dal Pirro, se davvero vi furono, dovettero lasciare di stucco i 'fedeli' musulmani.
- Occorre tornare al greco, recitare in recinti sacri a Dioniso (a Racalmuto, lassù al Castelluccio), fornire una scolarità greca, tornare grecofoni, bilingui, sentire tragedie greche in originale e capirle (i diplay moderni saprebbero supplire alle lacune). Se religiosi dobbiamo essere che lo siamo almeno nell'irriducibile conflittualità tra l’umano ed il divino dei nostri antenati greci. Odio questa Roma papalina, cattolica che prima uccise il greco in Sicilia ed ora anche il latino. Che c’importa a noi dell’incolto Bossi? Parli lombardo lui? Se ciò gli dà senso?
Imbattutomi nelle Storie di Erodoto tornai a declamare il VI, 21 quasi furente (storpiando il testo greco):
- …. kai poiesanti Frinikho drama Miletu alosin kai didaksanti es dakruà te epese to theetron kai ….
- Ma dottò, che fa?
Mi interruppe sbalordito Vitacchia.
- Che faccio? Che faccio? Leggo Erodoto. Lo conosci?
- Nonzi!
- E figurati non lo conoscono neppure quelli che dovrebbero conoscerlo. Stai certo, nessuno a Racalmuto. Un tempo Macaluso, quello che fu gesuita. Ora Michelangelo. E si dice qualche professoressa di greco ... due o tre ... non di più
- Ma cu è ssu chissu?
- E’ uno storico greco ed io vorrei scrivere come scriveva lui.
- Ma vossia è chhiu bravu.
- Che Dio ti benedica, ma non è così.
- Veramente mi pariva che vossia legesse pi babbaria.
- Era greco Vita’ era la lingua che parlavano i nostri antichi padri, qui a Racalmuto, là a casa mia a Giurgenti.
- Però nun si capiva nenti.
- Putroppo. Vorrei però anch’io scrivere una dramma – meglio una tragedia più bella di quella scritta da Frinico (ignota, persa). Una tragedia sulla Sicilia del 2000 presa da orde azzurre, incolte. Arraffata da un medico sottratto alla guida di corriere. Con una Eckklesia composta da bambine dell’azione cattolica, da chierici d’incerto sesso trasmigrati dalle parrocchie alla politica, da giovincelli blesi senza cultura, da divoratori di lasagne, da protofascisti, da nazionalisti della Favara: che coro beota, che peana, che musica suonata da sfiatati! Lasciamo andare, va!
- A vossia cu lu capisci?
- Neppure io, neppure io mi capisco, se ti fa piacere Vita’
- … cci l’a’ cuntari chiddu chi sacciu?
- E che cosa vuoi sapere, tu uomo venuto da lontano.
- Iu a Racarmuto nascivu.
- E’ vero, è vero – ma il nonno di tuo nonno da dove veniva?
- Boh!
- Perché non scrivi che anche per te «tutto finisce, nel risalire del tempo, a un Leonardo Sciascia, nonno di mio nonno, che nei primi dell’Ottocento venne a Racalmuto dal vicino paese di Bompensiere per esercitarvi il mestiere di conciatore di pelli.» Anche tu mentiresti, ma pensa a quale transustanziazione affideresti la tua ancestrale salvezza? Meglio che ad un figlio di Dio.
- Iu, però, nun sugnu nadurisi, né cci vuogliu essiri; né nadurisi era ma nannu né ma catanannu.
- E neppure Sciascia, né suo padre né il padre di suo padre e neppure il suo bisnonno. La verità però è prosaica, è banale, annoia, meglio la menzogna, il falso ben condito, quello letterario poi non è giammai eguagliabile dal vero cupo e meschino.
- Nun la capisciu … mi facissi diri chiddu ca cc’a diri.
- Nulla hai da dirmi Vita’ … perché quello che mi vuoi dire già lo so. Vedi quei cosi lì … si chiamano “faldoni”, sono dieci e me li sono dovuti sorbire tutti. Lì c’è la verità. La verità secondo la dottoressa Evelina Adelaide Mangoni Mistretta, … vergine e martire.
- No, vergine non era. Questo lo so per esperienza personale.
- Non sottilizzare, Vita’; vergine di cuore e di mente … castissima poliziotta dello stato.
- Ma anche la commissaria le è antipatica, dotto’? ….
- Manco per niente; non era però quello il suo mestiere, non lo doveva fare, l’ha voluto fare e ci ha rimesso le penne.
- La ‘Sraeliana l’ammazzà, duttu’.
- Ti sbagli Vita’. La ‘Sraeliana tu l’accusi ingiustamente perché ti ha fatto cornuto con una donna, il massimo per uno stallone siciliano come te.
- Nun voli, allura ca cci cuntu chiddu che sacciu?
- Tu mi vuoi dire: venne da lontano, da Israele una graziosa fanciulla nigrigna (nigra sum sed formosa) e venne in una sera d’inverno, tra lampi tuoni e diluvi. L’accompagnava un macilento sionista, d’origine russa. Si spacciava per fotografo: diciamo che l’era. Stettero insieme fino a quando la ‘Sreaeliana non incontrò Rosalia, scialba accompagnatrice turistica racalmutese. Fu grande amore. Tu non capivi, hai semi lascivi, hai pulsioni ereditate da coiti violenti nei tuoi precordi, per capire, per rispettare almeno. Ti sfruttarono le due donne: li hai introdotte da Aurelio. Castissimo, lui; ancor di più ora risucchiato dalla casta agonia dei sensi senili. Hai pensato a chissà cosa, Melissa voleva scrivere un libro sugli ebrei di Sicilia prima della cacciata voluta da Isabella di Castiglia. Aurelio era dotto: sapeva e fu utile al libro. Il libro in ebraico sta lì, nei faldoni, con la bella traduzione inglese. Diversamente chi lo leggerebbe? Anche la sera prima Melissa fu da Aurelio; infernale pure quella notte. Ci andò con te … ma se ne tornò con Rosalia, in macchina con Rosalia, come da testimonianze raccolte dalla poliziotta.
- Veru è, anch’io fui interrogato da Adelaide, buon’anima.
- Ecco, vedi. Alibi di ferro. L’indomani Aurelio fu trovato morto, avvelenato. Evidentemente dopo che Melissa se ne era andata. Chi fu allora? Adelaide, come la chiami tu, sospettò, ma sospettò della mafia … e fondatamente. Qualcuno spiava … Dalla Cava di Fulvio ciò è un gioco da bambini … poi s’introdusse … Certo che Aurelio lo conosceva .. Ma potevi anche essere tu …
- Chi ddici duttu’ – lassammu perdiri, va’
Vitazza cambiò di pelle. Irascibile, ora e diffidente. Soprattutto impaurito, terrorizzato. Finire in sospetto della Legge, in Sicilia, con la mafia e l’antimafia. Meglio a Santa Maria, al cimitero … Meluzzo l’aveva proprio folgorato. E con malizia. Si alzò, quasi senza salutare, prese le sue cose. Meluzzo sentì lo sgommare della macchina. In gran fretta si tolse di mezzo com’era nei desideri dell’ospitante.

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