martedì 4 aprile 2017

Noi restiamo impigliati – lo confessiamo – nella aporia o pseudo contraddizione di Sciascia che nel presentare la storia del Tinebra, prima dice del libro di Eugenio Napoleone Messana che trattasi di opera “voluminosa, fitta di notizie” e poi – a conclusione della sapidissima prefazione – vuole il nostro paese povero di memorie storiche di origine libresca o documentaria, dacché “limitato è il numero delle notizie che su Racalmuto si possono estrarre da libri e manoscritti”. L’insigne scrittore si salva in corner asserendo e dimostrando che “moltissime e di sottili e lunghi tentacoli sono quelle che si possono estrarre dalla memoria. Dalla galassia della memoria”. Ma se anche noi, trovata venia per gli sporadici spunti sopra estesi, seguissimo (pur con la modestia dei nostri mezzi espressivi) il sommo racalmutese ci parrebbe di andare a navigare in una memoria demente, per dirla con qualche ermetico del ‘900.
Sciascia esige invero notizie “narrabili”, (oppure, in mancanza, notizie fervorose distillate dalla memoria collettiva del paese). Ci rammenta, in Occhio di Capra: «la mia infanzia è stata tutta un rondò di zie e zii. Di parenti e di amicizia. Personaggi indimenticabili: e pochi credo di averne dimenticati, scrivendo. Col loro nome o dandogliene un altro. Ma la memoria, che con gli anni si fa lunga ed aguzza a cogliere le cose lontane, oggi me ne fa riapparire due di cui mi pare di non avere mai scritto …». A sceverare Occhio di Capra o Nero su Nero o Cruciverba e soprattutto Fuoco all’anima, abbiamo di che rimembrare con il ricordare di Sciascia su fatti usi e bizzarrie (ed anche demenze) racalmutesi. Ma la storia, quella non astringibile in aneddotica di famiglia o di paese? Beh, Sciascia è pessimista. A Racalmuto è rada, larvatissima la “vita  che Américo Castro direbbe «narrabile», da «descrivibile» che appena e soltanto era.” E molto ci affligge e ci intimorisce questa lezione contenuta nella presentazione sciasciana della storica mostra su Pietro d’Asaro, svoltasi dal novembre 1984 al 13 gennaio 1985 nella Matrice (destinata - pare - per incuria, insipienza e peggio a crollare) e nel santuario del Monte, acropoli moderna votata all’ascesi e alle mistiche redenzioni locali.
Castro ci avvince, in qualche modo lo conosciamo e quindi crediamo di non tradire la sua teorica addentrandoci in ricostruzioni fattuali racalmutesi che se non proprio nobilmente (e presuntuosamente) narrabili restano pur sempre rivelatrici di vicende descrivibili, e per la microstoria locale tanto va perseguito, ascrivendosi a merito per interessi della cultura o. se non altro, della memoria collettiva del locale aggregato sociale. Non mancherebbe un ritorno turistico, non scevro di additive risorse economiche, disprezzabili dalle guglie degli elitari colti o supponenti tali, necessitanti per la sopravvivenza della collettività. Cose piccole, non disprezzabili, però.

In tale riquadro, va riguardata questa nostra fatica. Vogliamo riscrivere la storia di Racalmuto – narrabile o solo descrivibile, poco ci importa. E ci pare di non potere essere smentiti se diciamo che tante, tantissime sono le notizie ricavabili da scritti altrui e soprattutto da documenti, diplomi, “rolli”, archivi - nazionali, vaticani, esteri e persino parrocchiali. Certo non basta additarli, quegli archivi, per credersi benemeriti della rievocazione storica racalmutese. Occorre faticare, respirare polvere – nociva ai polmoni ed agli occhi – e soprattutto “intelligerli” (alla Sciascia per intendersi). Non presumiamo di riuscirvi in pieno. Ma qualche risultato ci sembra di averlo conseguito. Agli altri, però, l’ardua sentenza.

Il più antico documento, a ben vedere, è la grotta di Fra Diego: non è molto che si chiama così. Sciascia con la sua Morte dell’Inquisitore ha contribuito a sancire tale denominazione. Prima, in una visita di William Galt attorno al 1934, pronubi Pedalino De Rosa ed il notaio Sajeva (dice Giovanni Di Falco che fu notaio racalmutese per un solo atto) si era insinuato che il toponimo di Fra Diego che pur circolava si potesse riferire al noto – e per i clericali, famigerato – fra Diego La Matina, monaco agostiniano del ‘600 dell’ordine centuripino di S. Giuliano.  Vi avrebbe addirittura preso dimora nei periodi della sua fuga. Pensate che nei rilievi militari dell’esercito effettuati subito dopo l’Unità d’Italia il  toponimo non figura in alcun modo.

Quell’antro, ubicato a sud-est, poté davvero essere adatta dimora al primo uomo che ebbe il destro di sistemarsi nelle nostre plaghe. Egli poteva essere benissimo del tipo di Cro-Magnon, e la sua periodizzazione non osterebbe ad essere collocata verso una trentina di migliaia di anni fa. La grotta di fra Diego, per noi, è l’impluvio di acque piovane che discendevano dal monte Castelluccio. Sotto, ad un certo momento, ebbe a crollare una enorme volta gessosa; vi fu il formarsi di un esteso zubbio, quello gigantesco ai piedi della grotta, ai fianchi a ridosso. Che cosa sia uno zubbio è detto in testi scientifici. Qui basta accennarvi. Così sotto il costone abbiamo ora ben sette inghiottitoi, a dire del mio amico sig. Palumbo di Milena. E quegli inghiottitoi vanno investigati, esplorati da squadre di speleologi professionisti: più della grotta visto che ivi non è stato trovato granché, almeno sotto il profilo archeologico. Nei sette inghiottitoi a valle vi saranno di sicuro argille cotte ed altro materiale sicano e d’altre culture, a testimonianza del vivere che in Gargilata v’è stato con un continuum che sempre il mio amico Palumbo mi mostrava analizzando i minuscoli cocci che affioravano. Dalla civiltà pre-sicana (quale noi riteniamo vi sia stata in base ai reperti archeologici risalenti ad una decina di migliaia di anni fa, come si è dimostrato nella contermine Milena), a quella delle tombe sicane (coronanti la stessa grotta e che si sogliono datare agli esordi del secondo millennio avanti Cristo), alla successiva della Magna Grecia (dipendenza agragantina) e quindi alla civiltà greco-romana, a quella intermedia del passaggio dei barbari (vandali, goti, etc.), alla restaurazione bizantina, per giungere a certa ceramica araba che andrebbe studiata con molta attenzione per i risvolti nella chiarificazione della dominazione araba (a dire il vero berbera) e del succedersi delle vicende legate a normanni e svevi, sino al 1271. Questo caleidoscopio storico giace negletto in terre un tempo vivificate da una sorgiva cui da bambino andavo ad attingere l’acqua con una minuscola brocca zingata (lanciddruzza); si trovava nello sprofondo di Gargilata. Ora, per incuria delle autorità preposte alla vigilanza la sorgiva è stata sotterrata per un po’ di vigna. Quelli di Agrigento hanno erroneamente invertito le particelle catastali soggette a vincolo ultraprotettivo. Mera disattenzione o censurabile compiacenza? E perché, nonostante le mie segnalazioni, non se ne danno per intesi?

La vita a Racalmuto parte dunque da Gargilata, tanto propinqua a Milena. E citiamo Milena giacché decenni di scavi e ricerche, da parte di superprofessori dell’Università di Catania (indichiamo per tutti: De Rosa) rendono eminente la cultura pre-greca dei Sicani. Quelli che indugiano su Gardutah, o su Casalvecchio, o su lo Judì e via discorrendo peccano di erudizione. Faranno tutto ma non storia o veridica microstoria racalmutese. Se Sciascia incide il bisturi del suo scrivere alato nella locale microstoria per dirci che “Racalmuto … [uguale] Rahal-maut, villaggio morto, per gli arabi: e pare gli abbiano dato questo nome perché lo trovarono desolato da una pestilenza” (Occhio di Capra) ed indulge nella diceria del “paese che esisteva già, un po’ più a valle” (presentazione mostra Pietro d’Asaro), e se giunge persino all’aforisma di un paese (che «profondamente gli pare di conoscere, nelle cose e nelle persone, nel suo passato, nel suo modo di essere, nelle sue violenze e nelle sue rassegnazioni, nei suoi silenzi, da poter dire quello che Borges dice di Buenos Aires. “ho l’impressione che la mia nascita sia alquanto posteriore alla mia residenza qui. Risiedevo già qui, e poi vi sono nato”») la cui vita non si riesce “ad immaginare, a vedere, a sentire… prima che gli arabi vi arrivassero e lo nominassero”, a noi sia concesso il privilegio del dissenso, o almeno dello scetticismo. Si pensi, non era solo nelle anagrafi parrocchiali che si scriveva Xaxa, ma anche nei rolli, nelle carte notarili, negli archivi laici. Ed il nome nulla diceva; pure le etimologie artatamente arabe sono ridevoli. Si pensi, oggi qualcuno, con soldi regionali, ci vuole erudire che tutto ha valenza terminologica araba (anche Montedoro, anche Gallo d’oro, anche … etc. etc.). Vedremo che di mirabilia in mirabilia, per il più grande arabista vivente, Racalmuto deve intendersi come il paese del moggio. (E D’Annunzio non ha fiaccole da nascondervi; a meno che questo non sia pretesto per far scintillare la rutilante poesia dell’Abruzzese sul palcoscenico del locale teatro, costosissimo nella erezione, ancor di più nella ricostruzione e adesso nel mantenimento di nebulose fondazioni.)
Del resto non si potevano aspettare gli arabi per trasformare plaghe ubertose in dimora vitale, autoctona. Racalmutesi da trentamila anni ce ne sono stati anche se non si chiamavano così. E dicevamo che si erano acquartierati a Gargilata, da cui sciamarono lungo il costone del Castelluccio, lungo le alture quasi dentarie del Serrone, da est ad ovest, ed anche giù nel vallone a tramontana, là dove v’era pastura, possibilità di caccia, germogli frumentari, terra atta a vitigni o ferace d’erbe per pascolo. Le testimonianze sono quelle delle tombe (a forno prima, a tholos dopo); o gli incavi funerari bizantini. Le nostre modeste ma irriducibili investigazioni del suolo ci hanno confortato di conferme per significativi manufatti, per ruderi che certificano, che ancor oggi segnalano il vivere antico tramite gli onori della tumulazione nella pietra friabile, là dove era disponibile.

Prima del Pliocene centinaia di milioni di anni fa, ovvio che l’altipiano racalmutese fosse tutto un mare. Cominciato il prosciugamento nel versante dal Castelluccio a tramontana, appena si ebbero a formarsi acquitrini pare – sono sommi scienziati ad attestarlo – che sciami e sciami di vibrioni (li chiamano col termine di Desulfovibrio desulfuricans) pavimentarono il territorio; e si dice vi deposero gli strati solfiferi delle future miniere.  Altri sconvolgimenti geologici subentrarono e proprio nel Pliocene (circa 25 milioni di anni addietro) l’intero effigiarsi del Vallone dal Castelluccio fino al fiumiciattolo  ed oltre sino al sistema collinare della Pernice, da sud a nord, e dalla Montagna giù giù sino allo “Strittu”, divenne come oggi lo vediamo ed amiamo. Il vulnus minerario del paesaggio naturalmente fa eccezione.
L’altro versante, da est a sud e da sud ad ovest, quello che plana sino al mare dalle punte del Castelluccio e del Serrone suole assegnarsi agli esordi del Quaternario, al Pleistocene, ad era recente (ma si fa per dire visto che dobbiamo parlare di sette/otto milioni di anni fa). Qui, da una parte la terra è pigra; Cugni Luonghi, Mangiauomini ed altre lande acquitrinose non hanno destato molto attaccamento alla terra; la moderna costruzione di un autodromo lascia nell’indifferenza i racalmutesi (pur se vi è da congetturare che verranno assordati); altro discorso invece per il versante ovest: se vi si progetta un aeroporto tanti arcigni paesani si ribellano. Terre feraci, humus fertilissimo, terreno intoccabile insomma vogliono rappresentarcelo. Stanno ordendo una rivolta civica. Manco a farlo apposta, a mo’ di torre vi è la contrada Noce ove albergava d’estate Sciascia per scrivervi i suoi non facondi libri. Sapeva raccogliervisi ed ispirarsi e comporre con la sua prosa non scivolosa, ipotattica disse Pasolini. Il silenzio si addice ai dintorni della Noce, scrivono persino gli eccentrici organi di stampa meneghina.

Storia narrabile dunque anche quella preumana delle ere geologiche. (se non vi era l’uomo, vi sarà).

La civiltà sicana che stanziava a Milena, alle Raffe, sotto Mussomeli si irradiò anche nelle contermini terre di Racalmuto. O, come amiamo pensare, da qui, epicentro per fertilità del suolo e vicinanza al mare, passò all’interno sino alla Rocca di Cocalo.  Le note del Mauceri, [1] nelle relazioni al Bullettino romano del 1860, dimostrano un iter sicano che da Licata  si inerpica sino all’interno, sino a Racalmuto. L’ingegnere delle ferrovie, invero, attribuisce al nostro territorio Pietralonga (ove le “pruvulate” per avere pietrame da spalmare per le rotaie della costruenda strada ferrata rivelarono necropoli sicane subito depredate). Apparteneva invece a Castrofilippo. Nel 1980, nel chiosare un piano regolatore racalmutese, l’insigne archeologo De Miro segue pedissequamente l’errore del Mauceri e – qui pro quo – vincola come racalmutese l’estranea località di Castrofilippo. Quando si dice un ricorso storico secolare. Per colmo d’ironia, quel De Miro, proprio Noce, Menta e dintorni – vere miniere di reperti archeologici greco-romani – dimentica di vincolarli. Dimenticanza o atto di devozione verso un nume letterario? Ora, i racalmutesi interessati, invocano la negletta archeologia per impedire l’aeroporto. Speriamo che almeno vi si stendano i vincoli di dovere.

Dal Castelluccio, l’apice del primo deflusso di acque geologiche, scese in declivio terra argillosa che i venti subito coprirono di humus fertile e che la successiva incuria degli uomini affidò alle inclemenze delle piogge capaci di spogliarla (e dire che siamo in tempi successivi alle cure dei monaci centuripini di S. Giuliano, abili invece a terrazzarla). Da lassù iniziarono il loro lento scivolare grandi scisti ed ancora sono in cammino verso il fondo valle. Prima i sicani e poi i bizantini se ne servirono per le loro sepolture.  Un patrimonio archeologico che almeno andrebbe inventariato. Del pari, dalla punta del Loggiato scesero altri massi che scheggiandosi e venendo corrosi dai venti sono ora penduli sui cigli con sembianze quasi umane, paurose eppure ammalianti. Come lo è l’orrido. Come nostrana sembianza, un simbolo, il vero stemma racalmutese. L’abbiamo additato all’attenzione dei nostri concittadini, con i miseri mezzi di una locale televisione, al suono pertinente, suadente di una stagione di Vivaldi. La labilità delle immagini, per i rudimentali mezzi della registrazione, si accentua sempre più e prossima è la fine di quelle immagini. Il Comune non ha attenzione per simili atti di amore, ha da finanziare estranei (ma potenti) o queruli soggetti pluridecorati (ma sono gli  “amici”).


La data di nascita di Racalmuto non è araba; il toponimo lo è ma circolava già da un secolo; Rahal Kamout si chiamava nel 1161 una località di Petralia (che invero nulla aveva a che fare con Racalmuto). Il nostro altipiano ovviamente preesisteva. Non vi era però nessun grosso centro che potesse prefigurare l’attuale paese con il suo cacofonico nome arabo. Se Laterza chiamò il paese di Sciascia Regalpetra e ne invocò le sue parrocchie, fu uzzolo letterario. Regalpetra ci piace ancor meno, e tra il toponimo della letteratura e quello di nebbiosa origina araba preferiamo il secondo. Come per lo stemma racalmutese, il pessimo gusto locale esplode. Quant’era bello l’arcigno simbolo: strisce gialle – tante quante erano le migliaia di abitanti che si andavano man mano censendo – su campo rosso e tutto sotto una corona nobiliare (pare persino regale, sicuramente marchionale – vecchia ambizione dei Del Carretto). E’ lo stemma dipinto in un bruciacchiato quadro dell’Itria. A cominciare da certi sapientoni palermitani dell’Ottocento lo si dice di Pietro D’Asaro; ma è infondata arditezza.

Eppure vi era vita. Se mancava una estesa dimora vitale come oggi siamo abituati a vedere un paese, non si trattava solo di masserie disseminate qua e là, come si crede che sia avvenuto dopo il crollo dell’impero romano; come si va dicendo che sia avvenuto nell’Agrigentino sotto papa Gregorio. Le testimonianze archeologiche ci fanno pensare ad una sorta di cespugli uno qua uno là. Il più consistente sotto fra Diego. Non era Mothion, termine che in lingua pre greca poteva pur significare ‘aiuto’, e che non disdice ad un insediamento di nostri avi. Padre Salvo è acuto – ma troppo fantasioso: vorrebbe Racalmuto un misto di arabo e di antichissima lingua (sicana). «Ben si spiegherebbe la composizione del nome arabo di Racalmuto, che potrebbe risultare dal prefisso arabo Rahal e da Mothion, cioè da Rahal-Mothion corrotto in arabo in Rahal-Maut, ‘Villaggio di Mothion’. In questo caso gli Arabi avrebbero conservato l’antica denominazione del vecchio villaggio presso cui si stabilirono in contrada Casalvecchio-Saraceno.» Il prete è erudito e si vede.
Noi lo stimiamo. Francamente è andato un po’ troppo nel congetturare. Una storia così può soddisfare solo chi se la inventa.

Alla fantasia noi concediamo invece che il primo uomo sapiens sapiens dell’altipiano possa essersi deciso a stabilirvi stabile dimora una trentina di migliaia di anni prima degli arabi. Doveva necessariamente essere troglodita: la grotta di fra Diego, questo inghiottitoio di acque essiccatosi dopo il crollo del gigantesco zubbio, esposto a sud-ovest dovette essergli propizio, accogliente per le sue primordiali esigenze abitative. E dopo?

Dopo una ventina di migliaia di anni, una popolazione autoctona ebbe a diffondersi in tutto il circondario: da lì sino a Mussomeli, ma  anche da lì sino a Pietralonga; a cespugli più che ad estesi agglomerati, a grossi insediamenti. Le tombe di fra Diego sono tante: svelano aggregati umani non spregevoli. Quelle di Ponte Gianfilippo sono anch’esse non sparute. Ma le altre – dietro, sotto, a fianco del Castelluccio, ad esempio – se non solitarie, sono circoscritte: due o tre nuclei familiari conviventi vi trovavano sepoltura se non imperitura, almeno durevole. Anche la pubblicizzata necropoli di Pietralonga aveva dimensioni plurifamiliari, ma limitate.

Quella popolazione autoctona la si chiama sicana. Persino Tucidide vi ha messo del suo per consacrare quel ceppo, quella genia. Risaliva a circa sette cento anni prima della caduta di Troia, riferiva. Ora, per i vicinissimi reperti archeologici di Milena, i laboratori di fisica nucleare di Catania non escludono datazioni risalenti a dieci mila anni fa. La scienza contro la storia antica. Ma fino ad un certo punto, basta sapere coordinare; smussare le discrasie più illogiche. Nulla vieta di chiamare sicani gli antenati racalmutesi che dieci mila anni fa – a Gargilata – sapevano già cuocere materiale fittile per i loro usi domestici. Non siamo come Sciascia; non vogliamo essere arabi a tutti i costi (sol perché i preti scrivevano nei loro registri parrocchiali Xaxa). Ci piacerebbe tanto essere gli eredi di quei sicani di dieci mila anni fa, con il nostro sicilianissimo – come dire racalmutese -  DNA, con le stigmate del sopravvivere in un aprico altipiano, con quel sole che sorge sempre da dietro il Castelluccio e che tramonta dietro la Montagna, con il succedersi di stagioni bizzarre, eppure composte, che ci hanno forgiato nella mente, nel cuore, nel nostro peculiare essere blasfemi, violenti eppure generosi, amabili, sottomessi a leggi, a potenti, a signorie anche straniere con sornioneria, senza suicidi ribellismi.

Dove abitarono di solito i ceppi dell’altipiano che più si condensarono dopo nell’attuale Racalmuto? I reperti archeologici dicono prevalentemente in due posti: in contrada Fra Diego La Matina  ed in contrada San Bartolomeo-Garamoli.
Noi ci avvaliamo per dire questo di un singolare personaggio, neppure racalmutese, che se ne viene ogni autunno a Racalmuto a spiare (e raccogliere) quello che trattori rivoltano dalle terre bagnate. Ritenendosi archeologo, costui ha collezionato “trusce”  di “giarmaliddri” di pietruzze di minuscole ossidiane, di selci levigate etc. Si è spinto a farne persino una classificazione, una elencazione comunque. Il tutto – quello almeno che ci ha descritto in due fax del febbraio del 2001 – lo ha portato ai BB.CC.AA. di Agrigento, consegnandolo, unitamente ad un attuale assessore comunale, nelle mani di una funzionaria dell’epoca, la Maugeri (se non sbagliamo). Dove siano andati a finire quei reperti, non sappiamo. Dovevano essere fotografati. Di certo, quando, dopo ne abbiamo chiesto notizia, non se ne sapeva più nulla (o non si è voluto rivelarlo).

Ecco quello che dicono a me quelle annotazioni. A Gargilata (sotto la grotta di Fra Diego) il centro abitativo sepolto fa oggi affiorare macine di pietra che il nostro dilettante archeologo vorrebbe di cultura Pantalica Nord. Ma anche macine in basalto. Non manca una accetta litica votiva in basalto nero ed un’altra in bachelite. Diffuse sono le pietre di selce e quarzite lavorate dalla mano dell’uomo primitivo: secondo il Nostro, della cultura dell’età del bronzo. E poi pietre finemente lavorate  - a forma di mandorla o di accetta – che avrebbero valore votivo e riguarderebbero l’uomo sicano. Numerose le lame in silice grigia, rossa, gialla. Due lame in ossidiana con taluni reperti del medesimo materiale. Interessante una mazza litica con traccia identificabile dalle tacche dell’impugnatura per le dita. Sarebbero della facies Pantalica una decina di pestelli. Bolas caratteristici delle zone gessose-solfifere e tantissimi reperti litici (nuclei, utensili in pietra, raschiatoi, bulini). I culti e le arti avrebbero le loro vestigia nella contrada Gargilata, sotto Fra Diego: rinvenuti tre falli fittili e tre fuseruole fittili ‘in ottimo stato di conservazione’. Questo materiale – se ancora sopravvive – non potrebbe essere restituito a Racalmuto e custodito nei locali blindati (che tanto ci sono costati) della Fondazione Sciascia? Ad Agrigento, a che servono?.

Passiamo alla contrada di San Bartolomeo Garamoli. Abbiamo le solite macine in basalto e in pietra. Anche qui pestelli della cultura Pantalica Nord (a dire almeno del Nostro) non mancano. Rinvenuto un ciotolo fluviale con marcati segni di combustione, probabile pietra focolare. Votiva dovrebbe essere un’accetta litica in talcoscisto. Presente forse la cultura campignana con un’amigdaloide. Non rare le lame in selce grigia e gialla. Molto lavorati una cinquina di reperti in selce, frammisti ad altri utensili di identica materia. Spicca un coltello/pugnale in selce. Uno stadio evolutivo molto accentuato rivelano taluni reperti sempre in selce. Non meglio classificati ben 101 frammenti di vario tipo e dimensioni. Di fittile abbiamo: sei fuseruole ben conservate; due corni o falli; un peso da telaio – e questo starebbe a testimoniare in modo specifico un insediamento greco -; n. 54 frammenti fittili con decorazioni tipiche dell’età del bronzo. I sicani, dunque, si sarebbero insediati e stabilizzati anche in quella contrada, tanto distante da Fra Diego.

Questo nostro popolo d’antenati, questi sicani si sono dunque diffusi per l’intero territorio di quello che oggi si chiama Altopiano di Racalmuto. Abbiamo detto che ve ne furono di quelli che scesero a valle, di fronte alle zone della Pernice, quasi all’imboccatura dello “Stritto”. Abbiamo tombe a forno in vari punti della Forestale, sotto “Vriccicu”. Manie mariologiche del Novecento hanno eroso e corroso queste sopravvivenze funerarie. Abbiamo dileggiato gli antichi e vilipeso le ultime credenze cristiane. Vi è ora un clero che ama padre Pio, che vorrebbe santificare padre Elia Lauricella (senza manco conoscerlo). E’ con il suo misticheggiante vescovo, lontano dal popolo e dalla nuova cultura. Riesce solo nella profanazione delle tombe sicane.

Quanto va emergendo dagli studi scientifici dell’insediamento sicano di Raffe o della riserva di Monte Conca è già tanto (ed al contempo poco) nel far baluginare la civiltà sicana. Naturalmente, il loro (dei sicani) culto della sopravvivenza mortuaria, il loro dedicare energie oltre il tollerabile nello scavare tombe emblematiche, nella pietra, a davvero futura memoria, il sapere cuocere l’argilla per un vasellame rudimentale ma molto rivelatore di usi, benessere e tenore di vita ci testimoniano una dimora vitale che si può dire narrabile. Nella vicina Palma di Montechiaro, studiosi quali Castellana, vogliono dire di avervi trovato pani di zolfo risalenti a quell’epoca: il che equivale a  dover pensare che i sicani sapessero un paio di millenni prima di Cristo di calcheroni, balate, gavite. Se là vi fu industria dello zolfo, non poté non esserci eguale sagacia estrattiva a Racalmuto, dove il nostro vibrione fu più operoso a lasciare ‘gallerie’ solfifere appena sotto la crosta dell’humus ferace.

Tanti pozzetti o tanti fornetti – così chiamati per le vaghe rassomiglianze – quali ci incuriosiscono a Fra Diego o al Ponte di Gianfilippo, o negli anfratti sotto il Castelluccio o a S. Bartolomeo o nella Montagna prima del bel suolo aprico requisito da assenti padroni panormitani, ci svelano un pauroso culto dei morti. Nei modesti incavi vi venivano deposti in forma fetale i morti, non molti in una sola tomba per l’angustia dello scavo. Un richiamo al ventre materno, uno sceneggiare la morte come l’origine della vita. Un ritornare alla terra. Senza la teologia di adesso, ben s’intende. Ma quell’uomo, quella donna ivi sepolti non morivano del tutto. Il loro spirito rimaneva. Ma doveva restare racchiuso nel piccolo antro gessoso. Una pietra suggellava l’abituro funerario. E dentro il morto veniva legato nella suo rannicchiamento fetale. Non doveva uscire. Avrebbe potuto arrecare danno, ai vivi, ai superstiti. Qualche paleoantropologo alla Tiné non esclude riti di vago sapore cannibalesco. Pare che i morti venissero messi a bagnomaria, con coltelli di selci – e si è sopra detto che ne sono stati rinvenuti nei pressi – venivano scorticati. Andava perduta quella carne? In tempi di penuria, quando ardua era la caccia e pochi dovettero essere gli animali addomesticati, arduo è credere in schifiltoserie che la opulenta civiltà moderna ci incute irresistibilmente.  La voglia di ristorarsi mentre ci si addolora per la dipartita di un parente, di un amico è vivida al presente. E’ ardito cogliervi residui di una tradizione millenaria, sacra e truculenta?

 Un aforisma molto racalmutese recita: «lu cuccu cci dissi a li cuccuotti, a lu chiarchiaru nni vidiemmu tutti.» L’imprendibile senso del detto locale sfugge – a nostro avviso – anche al grande Sciascia. Ma con lui concordiamo quando scrive: «al chiarchiaru è come dire agli inferi, ad un luogo di morte in cui tutti ci incontreremo. E senza dubbio vi agisce la memoria delle antiche necropoli scavate nelle colline rocciose, come intorno al paese se ne trovano.» Il rovello degli spiriti sicani, i sicani nostri antenati che sono evaporati dalle loro tombe violate, aperte, si ridesta con il lamento del cucco al chiarchiaro («una collina rocciosa, un sistema di anfratti, di crepacci, di tane. Pauroso rifugio di selvaggina, di uccelli notturni, di serpi; e vi si caccia col furetto, che spesso nelle tane resta “ ‘mpintu”, impigliato, quasi il labirinto dei cunicoli fosse matassa che l’aggroviglia»,  icasticamente per Occhio di Capra).

La civiltà sicana racalmutese può periodizzarsi, può tripartirsi. Da una decina di migliaia di anni fa sino al XVII secolo avanti Cristo, quando tecniche, utensili, crescita civile, acuirsi del culto dei morti permisero di onorare i defunti in nicchie ovali, simili al ventre materno. Dopo, sino al XIII secolo, i passaggi epocali delle varie età metalliche non furono nefasti a quel popolo autoctono; anzi le fertili terre racalmutesi, la selvaggina che vi aveva sempre più propizia dimora, l’addomesticamento più folto di accresciute specie e la sagacia nel modellare ed istoriare materia fittile, il caolino dei calanchi, e l’abilità nel dare un tetto stabile ai capanni della dolce vallata che le acque torrentizie non dilavavano venendo con sapienza incanalate in ingegnosi “gattani” , tanto eccelse per una prospera ulteriore dimora vitale, sparsa in più o meno estesi addensamenti umani, per l’intero altipiano. E ciò sino all’avvento dei greci, di quei rodi-cretesi di Gela che dopo essersi attestati ad Agrigento ebbero a spingersi sino nelle nostre lande.

Caratteristica di questo periodo fu la tomba a tholos: un’ampia caverna, con sedili a forma di ferro di cavallo ove depositare i morti, sempre rannicchiati in forma fetale e sempre legati ma in numero ora cospicuo come imponeva la crescita demografica e come la più scaltrita tecnologia, anche per l’abilità nel forgiare utensili metallici, consentiva.

In alto si praticava un foro, oppure, se la sommità era imperforabile, si scheggiava una corona circolare, come una moderna insegna per additare alle anime dei defunti la via del cielo. Ci siamo intestarditi nella ricerca di simili tombe – così evidenti ed avvincenti a Milena – ma sinora non ne abbiamo trovate. Pensavamo un tempo che ciò era il segno di una eclissi demografica, di un ritirarsi nell’interno montagnoso di Milena e Sutera per esigenze difensive verso aggressori che venivano dal mare. Adesso, pensiamo a cosa diversa: quelle tombe, appena riadattate, accoglievano d’estate, vi si abitava durante il raccolto o la fruttificazione estiva ed autunnale; avveniva sino a non molto tempo fa; era uso ancora durante la mia infanzia e i miei ricordi sono tuttora trepidi. Certo, durante la trebbiatura si dormiva sulla pula, sotto stelle vivide, talora filanti, mirabili, annuenti. Non per romanticherie, s’intende, ma per tutela e guardia del grano prezioso ed amato.

Annusando cose dì archeologia paesana ci siamo imbattuti in un grande scisto gessoso in contrada Pian di Botte (sotto il cimitero). E’ zona suggestiva anche se aspra. Nel raggio di mezzo chilometro abbiamo un mulino ad acqua del Cinquecento (gli archivi palermitani sono prodighi di notizie), il rosticcio della miniera di Calogero Casuccio – al tempo oggetto di scontro con i principi di Sant’Elia, e, stando a  nostri rinvenimenti archivistici romani, località pressoché certa delle “tegulae sulfuris” mommseniane – ed un avello di forma strana, di cui qui si vuol dire qualcosa. Stavolta l’incavo, palesemente tombale, è alto e stretto, come se vi si dovesse deporre un solo uomo, all’in piedi e non in forma fetale, e come se si trattasse di uomo gigantesco. Ma l’incavo è troppo superficiale per scopi di seppellimento. Pensiamo dunque ad un inizio di tomba a tholos, abbandonata per fuga della famiglia interessata o per altri disastri quali terremoto, epidemia.  Oggi, attorno è desolazione, ‘cannedri’ irti, zona inaddentrabile. Terra abbandonata che potrebbe essere dalla comunità requisita e studiata, archeologicamente. Non molto tempo fa non era così se sopra la roccia è visibile la piattaforma di un palmento ove pestare uva che i dintorni dovevano pur fornire in abbondanza.
La nostra tomba – o quella che crediamo tale – segna, a nostro avviso, lo spartiacque tra i sicani della tomba a forno e quelli influenzati dal mondo miceneo, da intrusi che a dire del De Miro ed altri venivano da Creta alla ricerca del sale, lungo il fiume Platani, sino alla Rocca di Cocalo, sino a S. Angelo Muxaro – significando così il mito di Minosse in Sicilia – e divaricandosi sino alle alture di Milena, che ci hanno restituito splendide tombe a tholos con spade ed anelli del XIII secolo quali ognun dice essere micenei o di tale influenza. Anche a Racalmuto dobbiamo pensare a similare epigono sicano, durato sino al VI-VII secolo avanti Cristo.
Finisce qui la civiltà sicana, inizia quella della Magna Grecia. Non è che sia cessata la presenza sicana; solo si è sviluppata o inviluppata. Monete greche di varie età, con impressi granchi agrigentini (ne abbiamo intravisto taluna trovata sopra i Malati) o cavalli alati (monete siracusane?) o d’altre forme che qualcuno individua nella circolazione fenicia (ma trattasi di dati male riferiti dal Tinebra Martorana).

Ed a questo punto ci accorgiamo di esserci troppo dilungati per un capitolo che dovrebbe avere valore solo introduttivo. Ondivagando, abbiamo cercato di chiarirci – più che chiarire – che cosa intendiamo per microstoria e soprattutto per microstoria racalmutese. Abbiamo dovuto fare i conti con Sciascia. E quando lo contraddiciamo, in fondo in fondo temiamo che lui abbia ragione e noi no. Resta pregiudiziale la stroncatura di notizie “non memorabili”. Non sarebbero storia “narrabile”. Ma l’indulgere a secrezioni di appannate memorie individuali e peggio collettive non è indulgere ad una memoria demente? Letterariamente sublime ma storicamente insensa.

Ci ripetiamo, lo ammetto. Eppure, se la storia è un pensare il vivere antico quale svolgimento di un valore ideale (la libertà, la giustizia sociale, la democrazia, la storia ideale eterna, il disegno della divina provvidenza), che cosa può essere la microstoria se non la ricerca di un principio atavico di sopravvivenza in una chiusa comunità, piccola per pretese cosmiche, umana per essere obliata?.
Dice Sciascia: «Ma la vita vi era tenace e rigogliosa, si abbarbicava al dolore e alla fame come erba alle rocce.» L’acuto assioma noi l’abbiamo reiterato tante volte, e chissà quante altre volte lo ripeteremo. Anche per noi la microstoria di Racalmuto deve rivolgere l’attenzione a questo”antico paese che esisteva già” prima degli arabi. Ci pare arbitrario o impreciso o disorientativo aggiungere che esso stava «un po’ più a valle, quando gli arabi vi arrivarono e, trovandolo desolato da una pestilenza, lo chiamarono Rahal-mauth, paese morto. Ma non era per nulla morto, se fu riedificato arrampicandolo verso l’altipiano che dal paese prende nome (l’altipiano di Racalmuto, l’altipiano solfifero).» In ogni caso, fu sempre “dimora vitale”. Ed era vita grama, spesso violenta, più schiava che libera. Prima dell’ “avvicendarsi dei feudatari che venivano dal nord predace e dalla non meno predace «avara povertà di Catalogna», col carico delle speranze deluse e delle rinnovate e a volte accresciute angherie che ogni nuova signoria apportava”, altre angherie epocali erano avvenute, quelle di sicani forti che conquistano sicani deboli, quelle dei gheloi akragantini che schiacciano gli indigeni, quelle dei romani, quelle dei barbari, quelle dei bizantini, quelle degli arabi (cui subentrano miseri e remissivi berberi), quelle dei normanni, quelle dei vescovi bretoni, quelle fridericiane, quelle angioine, quelle catalane, quelle chiaramontane. Dopo i Del Carretto. Ma dopo i Del Carretto ecco le angherie degli Schettini, dei duchi di Valverde (i Caetani), e quindi un ritorno al ceppo femminile dei Del Carretto con i Requisenz, e frattanto le angherie dei Savoia, quelle degli Austriaci, quelle dei Borboni, e poi quelle garibaldine, di Nino Bixio, della Destra, di Crispi, di Giolitti, della vecchia mafia, della nuova mafia, del fascismo, della Democrazia Cristiana, degli agrari di Alliata e del bandito Giuliano (qualcuno ci vorrà mettere Li Causi e trasformare in aguzzini le vittime di Portella delle Ginestre), del centro sinistra, della mafia dei pentiti, dell’antimafia aggiungerebbe Sciascia, ed ora quelle dell’era berlusconiana non escludendo i trasformismi paesani, accondiscendenti all’autodromo e imprecanti contro il progetto dell’aeroporto. E frattanto Racalmuto muore – forse, bisogna dire, sembra morire. Certo saprà ancora una volta abbarbicarsi al dolore ed alla fame ‘come erba alle rocce’. Riuscirà di sicuro a sopravvivere. L’usare intelligenza, il pensare, il ripensare a tale grama eppure esaltante sopravvivenza è il filo conduttore della nostra microstoria. E passiamo quindi ad abbozzarla. Schiavi dei nostri giudizi e pregiudizi. Ma con viscerale attaccamento. Da passionari quali ci sentiamo. Da racalmutesi che qui a Racalmuto ci siamo nati da mille generazioni, senza soluzioni e nel frattempo vi risiedevamo, senza fronzoli borgeani.




[1] ) Presso l’Archivio Centrale dello Stato abbiamo rinvenuto la corrispondenza fra il Mauceri ed il Comm. G. Fiorelli di Roma “sulle antichissime tombe fra Licata e Racalmuto nella provincia di Girgenti”. Il Mauceri risulta essere ingegnere e direttore  dell’Ufficio Centrale di Direzione in Caltanissetta delle Strade Ferrate Calabro-Sicule. (cfr. A.C.S. di Roma - Fondo: ANTICHITA' e BELLE ARTI (AA. BB. AA.) 1° versamento – busta n. 21 - Fascicolo 40.5.2 ).

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