mercoledì 17 gennaio 2018


Roma 1° febbraio 1995


Rev.mo Mons. De De Gregorio,

come monomaniaco della storia del mio paese (Racalmuto), mi rivolgo a Lei per avere lumi e consigli in un campo in cui dire che Ella è l’indiscusso Maestro è dire poco.


Da ultimo, ho studiato il periodo del Vescovo Giovanni Horozco de Covarruvias de Leyva. Il Suo lavoro in “Miscellanea in onor di Mons. Noto ..” non poteva che essere illuminante ed imprescindibile.

Racalmuto vi compare a pag. 70 per le vicende del (provvisorio ?) segretario([1]) di quel vescovo, Alessandro Capoccio che fu anche “arciprete di Racalmuto (1597).” Qualche spunto lo avevo trovato nei libri parrocchiali della Matrice di Racalmuto ([2]). Non risulta che il Capoccio abbia però frequentato quel paese; per converso, il suo successore Vincenzo del Carretto appare di dubbio titolo e restano ignote le date d’insediamento e di cessazione della sua arcipretura.

Nel Suo studio si accenna, pure, alle vicende del chierico Giacomo Vella e dei contrasti del vescovo con il conte Giovanni del Carretto a proposito delle spoglie dell’arciprete Michele Romano (pag. 73). Ne ho trovato riscontro nell’Archivio Segreto Vaticano, presso il fondo della Sacra Congregazione dei Vescovi e dei Regolari. Trattasi di una fonte che non mi pare adeguatamente sfruttata per la storia della diocesi agrigentina. Qualche acenno è rinvenibile in RaffaeleManduca: Il sinodo di Giovanni Horozco (Girgenti 1600-1603) ([3]): il valente studioso - cui va attribuito il merito di avere rintracciato la fonte vaticana - appare piuttosto distolto dall’oggetto della sua ricerca sui sinodi ed ha tralasciato i tanti documenti di rimarchevole portata per la storia della diocesi di Agrigento.

Ne scrivo, ora qui, a Lei perché nel fondo vaticano trovasi del tutto svelato l’incidente del vescovo spagnolo relativo al libro messogli all’indice, e bruciatogli pubblicamente. Con grande acume, Ella osserva (pag.91): «Non sembra che possa trattarsi dell’edizione agrigentina degli Emblemi...». Ed infatti è così: causa della traversia di cui parla il Pirri fu un libercolo intitolato «De Rebus suis» ([4]). Incautamente il vescovo si era lasciato andare, sia pure sotto forma allusiva, al disvelamento dell’inchiesta papale sui suoi contrasti con i nobili locali, e con i Lo Porto in particolare. Il libro destò l’irrefrenabile ira di papa Clemente VIII, che ne volle la messa all’indice. Ecco perché il volume - come dice Manduca - «non si trova nella stessa busta..» [ASV-SCRV, Positiones 1602 G-M]. Da lì ebbero inizio i veri guai del vescovo spagnolo che ad un certo punto non seppe far di meglio che ritornarsene in Spagna, sia pure con rilutannza del Papa, presso cui interpose i suoi buoni uffici l’ambasciatore spagnolo a Roma il Duca di Sessa.

Una sintesi del libro ce la fornisce il massimo accusatore del vescovo, il gerosolimitano fra don Francesco Lo Porto con una infuocata lettera del 27 agosto 1602 ([5]) ove si stigmatizza il fatto che il vescovo avesse potuto impunemente mettere «in sbaraglio, e perdita di vita, robba, e reputatione alcuni gentiluomini, et anco persone private di quella città e diocese, e che non satio anchora di simil impietà contro l’uso et buona regola de Prelati, che devono dar christiani, et honesti documenti altrui, habbia voluto per compiacer sè stesso far fede al mondo della malignità, odio, et intrinseco veleno che contra quelli haveva concepito nell’intelletto suo, si come ha fatto per un libretto stampato in forma di Apologia /quale si presenta alla S. V./ macchiando altrui come si legge in detto libretto in scholiis lib. 3 da fol. 119 insino à 230 in diverse figure, et propositioni, ma però bene intese da Diocesani...». Il vescovo, peraltro, aveva fatto carcerare un membro della potente famiglia Lo Porto per una denuncia di un bestemmiatore greco, certo Daniele Landano - questa almeno la confusa e poco credibile accusa del Lo Porto. Della vicenda il prelato si era poi vantato proprio in quel libretto, sotto forma di apologo. «La qual carcere - viene infatti nella lettera annotato - è rinfacciata da detto Vescovo in detta Apologia à f. 195..». In conclusione, «la casa del Porto hà voluto far sapere il tutto alla S V., acciò si degni ordinare precisamente che si facci riflessione nel detto processo ... et che si pigli quel temperamento, et resolutione dalla S V. come padre universale, che la qualità del fatto ricerca, et la coscienza della salute di tante anime, et conservatione di quelle comporta...».


Quella lettera fece effetto sul pontefice: v’è apposta una annotazione che senza dubbio è di pugno di Clemente VIII. Recita: «tradatur congregationi Indicis ut prohibeatur». Quindi i fatti accennati dal Pirri che Lei richiama alle pagine 90 e 91 (resoconto quello del Pirri che mi pare però abbia bisogno di qualche rettifica).


Gliene sto scrivendo perché credo che quel libro tornerebbe particolarmente utile alla storia di quel periodo di vita agrigentina. E’ possibile che presso le biblioteche agrigentine (la Lucchesiana, quella del Seminario, oppure presso gli archivi delle grandi famiglie agrigentine) non ne sia rimasta traccia? Forse la copia inviata dal Lo Porto al Papa è stata conservata dalla Congregazione dell’Indice. Per quanto ne sappia, gli archivi dell’Indice non sono, però, messi a disposizione degli studiosi non accreditati, quale è il sottoscritto. Forse Lei potrebbe avervi accesso, sempreché ovviamente la questione Le interessi.


Il fondo della Congregazione dei Vescovi e Regolari non si limita a questo evento della Chiesa agrigentina, ma abbonda di documenti relativi ad uno scabrosissimo processo per sodomia che coinvolgeva il canonico Navarra (che Lei cita nel Suo libro su “Cammarata” pag. 218). La crudezza del linguaggio usato per stendere i processi verbali mi impedisce di darne qui qualche stralcio, anche se - almeno per la storia della lingua siciliana - ne varrebbe la pena. Per altro verso, un fuoco incrociato di memoriali tra i nobili di Agrigento ed il Vescovo illustra una congiuntura veramente torbida e, secondo me, tutt’altro che esemplare per la Chiesa agrigentina e per la figura del vescovo spagnolo, che ne esce veramente malconcio. Certo è che se Lei mi consentisse uno scambio di vedute in proposito, ne sarei veramente lusingato.



[1]) Lo indico con questo titolo, dato che così lo chiama il Vescovo nella sua lettera del 13 settembre 1595, inviata a Roma per accreditarlo nella ‘Visita ad Limina’. «Quando no venira negocios en essa Corte aque embiar a Don Alexandro Capocho mi secretario, me diera contento embiarle ...” (Archivio Segreto Vaticano -Relationes ad limina - Agrig. 18/A f. 1)
[2]) Vedasi ARCHIVIO PARROCCHIALE DELLA MATRICE DI RACALMUTO - atti di matrimonio - 1582-1600. Le annotazioni, a margine degli atti, sono: 'DIE 16 Julii XI ind.nis 1598: Pigliau la possessioni don Vito Belloguardo e don Antonio d'Amato procuratori di don Lexandro CAPOZZA per l'arcipretato di Racalmuto come appare per atto plubico'.
'DIE 14 agusti XIIe ind.nis 1599 - Pigliao la possessioni don Vito BELGUARDO canonico di Gergenti et don Maziotta di la magiore ecclesia di Racalmuto per don Lexandro Capocia';
[3]) in Archivio Storico per la Sicilia Orientale 1991 - anno LXXXVII - fasc. I-III - pagg. 242-296.
[4]) Ne fa cenno il Manduca, ma, o per svista tipografica o per erronea trascrizione, lo indica col titolo «deribus suis» (op. cit. pag. 260 n. 42).
[5]) Riportata pressoché integralmente dal Manduca op. cit. pagg. 259-260.

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