giovedì 21 maggio 2015

Il suo Sciascia - Calogero Restivo, raffinata penna paratattica ci racconta, ricordando e commemorando

Il suo Sciascia - Calogero Restivo, raffinata penna paratattica, ci racconta, ricordando e commemorando:

Il fascino della memoria (ricordo di Leonardo Sciascia)

Calogero Restivo
 

Festeggiavo i miei nove anni e finivo di frequentare la terza elementare.
Sono tanti, nove anni, per un ragazzo che è troppo alto per la sua età, non è ripetente ma in ritardo con gli obblighi scolastici.
L’ultimo banco, per gli spilungoni come me, è vissuto come una punizione.
Lontana la cattedra, vista dall’ultimo banco, lontana la lavagna.
Il maestro, nella sua passeggiata tra i banchi, si ferma sempre tra il terzo e quarto posto della fila, dà un’occhiata circolare, un colpo di bacchetta (leggero) sul banco per tramettere autorità e poi torna in cattedra.
Negli ultimi banchi, si sonnecchia, si possono leggere le avventure di Tom Mix, il giornaletto nascosto in mezzo al libro, ma si può essere scoperti se questo accade durante la lettura in classe e ti si chiede di continuare a leggere dal punto in cui si è fermato il compagno.
In questo caso il maestro ti chiama presso di se per farti la ramanzina e poi ti mette in castigo, dietro la lavagna. Così andavano le cose ai miei tempi. Tutte queste cose mi si presentarono alla mente una sera di fine giugno che avevo finito l’ennesimo ripasso delle ultime avventure di Tex Willer e non avevo altro da leggere. Quella sera sono andato ad incontrare mio padre, che rientrava dal lavoro, al ponte Canale, appena fuori dal paese. Si preoccupò, vedendomi, temendo una brutta notizia. Gli dissi semplicemente e velocemente: “L’anno prossimo voglio andare in quinta”. A sera sentivo che ne parlava con mia madre. Passarono alcuni giorni, io facendo lo sciopero del silenzio e quasi della fame che, essendo mingherlino, per mia madre era una cosa grave.La mattina della domenica seguente mio padre mi chiamò “Andiamo dalla maestra Taibi” mi disse. Era, la maestra, una vecchia zitella senza età di cui tutti i ragazzi nutrivano un certo timore reverenziale.
Nelle giornate di vento forte, noi ragazzi, vedendola passare, aspettavamo con un certo cinismo che la parrucca le volasse via, ma lei, conscia del pericolo, con una mano teneva la borsa e l’ombrello e con l’altra la parrucca. Mio padre le espose il caso ed era visibilmente impacciato e nervoso.
Era un lavoratore, rigoroso nel rispetto dell’autorità che chiamava “legge”; aveva poche certezze ma certe: dopo la notte viene il giorno e dopo il quattro viene il cinque e così di seguito. Non capiva la mia richiesta ma l’assecondava.
La maestra ci pensò su qualche minuto ed alla fine sentenziò: “Si può fare”.
Stabilirono che avrei studiato durante l’estate e lei stessa mi avrebbe aiutato a preparare gli esami di settembre.Così iniziò un’ estate fatta di andata e ritorno dal Serrone, dove la maestra aveva una casa in campagna, e la sera a studiare e fare i compiti. Finalmente il giorno degli esami: tre maestri dietro il tavolo a fare domande ed io di fronte, come un accusato, a rispondere. Uno di quei maestri si chiamava Leonardo Sciascia.
Ero preoccupato e spaventato ma l’interrogazione è andata bene e sono stato promosso. Dopo qualche giorno iniziava il nuovo anno scolastico.
Il plesso scolastico detto “La Palma” consta di due edifici perfettamente uguali; in quello di sinistra vi sono (vi erano) le aule maschili ed in quello di destra quelle femminili, tranne due: una, quella d’angolo, era quella del maestro (allora si diceva professore) Sciascia , l’altra di un maestro di cui non ricordo il cognome. I miei compagni non capivano perchè andavo verso l’edificio di destra quando l’aula della quarta era a sinistra; mi chiamavano, mi prendevano un po’ in giro ma andai a destra, nell’aula del maestro Sciascia che faceva la quinta. Per tutto il periodo della scuola media non vi furono molte occasioni di lunghe conversazioni, un saluto se ci incontravamo.
Una sera, ero ospite presso un amico a Ribera, mi dissero che il professore Sciascia avrebbe tenuto una conferenza su Pirandello.
Mi presentai circa un’ora prima dell’inizio della conferenza.
Fummo reciprocamente contenti dell’incontro, mi fece tante domande e alla fine della conferenza l’ultimo autobus per Agrigento era partito.
Il prossimo, il giorno dopo. Cercammo una macchina a noleggio, io fui ben contento di accompagnarlo e durante il viaggio parlammo di tante cose, dei miei interessi,di come andavo a scuola ecc. Ci incontrammo di nuovo solo alla vigilia degli esami di abilitazione magistrale, i miei esami di Stato.
Gli manifestai i miei comuni, credo, timori sulla “riuscita” degli esami e ci lasciammo perchè , mi disse, aveva un giro di conferenze.
Una sera, ed era all’incirca la metà di luglio, stavo passeggiando con degli amici, (Lui stava conversando al circolo dei “nobili”) mi fece cenno di sedermi accanto a se e mi disse: “Accomodati, collega”. Ero felice, lo ringraziai caldamente perchè significava che avevo superato gli esami e me lo stava comunicando. Dopo di allora ci siamo visti spesso ma erano solo incontri occasionali. Parlavamo di poesia, mi dava consigli, mi suggeriva delle letture, mi prestava dei libri che riteneva adatti. Parlavamo anche di (gialli) e di Pasolini, mi consigliava di leggere le sue opere,ne esaltava lo stile e la sobrietà. Gli diedi da leggere delle mie poesie che allora mi sembravano dei capolavori ed erano delle semplici esercitazioni.
Alcune in seguito ebbero la sua approvazione, mi disse che potevano essere pubblicate nella rivista che allora dirigeva, ma non se ne fece niente perché sono partito per fare il militare e ci perdemmo di vista.
Nel frattempo era diventata di dominio pubblico la sua grandezza, era uscito “Il Giorno della Civetta” ed io dovevo occuparmi di risolvere i problemi della vita di tutti i giorni e le soluzioni mi portavano ben lontano dalla poesia. Da allora, più nessuno incontro, mi limitavo a leggere i libri che scriveva, le interviste che rilasciava, le notizie che riportavano i giornali. Era un modo di ritrovarsi.
Era un dialogo fra amici in cui le parole non servono.

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