mercoledì 23 novembre 2016

Gli stravolgimenti geologici


Sette milioni di anni fa qualche secolo in più, qualche secolo in meno terminava il lungo processo di prosciugamento marino del territorio racalmutese: abbattuto lultimo ostacolo nei pressi di Cozzo Tondo, le acque defluirono anche da quel versante verso Passo Fonduto, e di là, lungo il Platani, verso il mare. Dal Castelluccio erano scivolati scisti di pietra dura, che scivolando verso il fiumiciattolo della Ciarla, appariranno agli autoctoni dell’epoca sicana provvidenziali macigni per le loro tombe, a mezzo tra la tecnica del "forno" e quella del "Tholos". Alla luce dell’attuale scienza geologica destinata a venire travolta dalle tecnologie dellincombente futuro siamo in tempi pliocenici.

Nel succedersi degli sconvolgimenti geologici, il territorio di Racalmuto raggiunse, dunque, l’attuale sua conformazione nelle fasi finali dell’era terziaria, cioè in tempi piuttosto recenti. Concetto in ogni caso relativo, visto che bisogna andare a ritroso nel tempo per almeno sette milioni di anni. Del resto, ciò riflette la ricorrente teoria scientifica secondo la quale l’intera Sicilia sarebbe terra "geologicamente recente". Ed anche qui trattasi di risalire, nella notte dei tempi, per un centinaio di milioni di anni prima di datare la fase iniziale del complesso fenomeno formativo dell’isola. In un primo momento, "formazioni calcaree mesozoiche ebbero ad abbozzare un cosiddetto "scheletro" tra Trapani, Palermo e Messina con un isolato nucleo avente l’epicentro a Ragusa. In una seconda fase, si formò una sorta di tessuto connettivo per il progressivo emergere di terre durante la regressione pliocenica. Infine, in epoca quaternaria, affiorarono le terre marine.

Secondo una cartina della distribuzione dei terreni pliocenici e quaternari in Sicilia dovuta al Trevisan, Racalmuto si modella con le forme che oggi ci sono familiari sul finire del periodo intermedio e cioè durante la transizione dal terziario al quaternario, in pieno Pliocene.

Studi sulla geologia di Racalmuto sono stati fatti da A. Diana (1968). Geologi locali (vedasi fra gli altri Luigi Romano) hanno dato i loro apporti. Nella sua tesi laurea il Romano, avvalendosi dei dati sperimentali desunti dalla trivellazione di una quarantina di pozzi, distingue quattro strati nel sottosuolo racalmutese:
1) complesso argilloso caotico di base, di età pre-tortoniana;
2) formazione Terravecchia del Tortoniano, costituita da sabbie, conglomerati e argille;
3) serie Gessoso-Solfifera, complesso rigido costituito da vari elementi del Saheliano e Messinese.
4) una formazione di copertura di età Pliocenica inferiore, costituita da marne e calcari marnosi (Trubi).


Completano la geologia della zona una copertura detritica alluvionale.»



 
Ma abbandoniamo subito le questioni geologiche per le quali non abbiamo alcuna competenza e soffermiamoci un istante sui tradizionali minerali racalmutesi. Sale, zolfo e gesso Racalmuto li avrebbe ereditati dagli sconvolgimenti del Miocene, quando alle «grandi lacune terziarie progressivamente evaporate [sarebbe seguito] un processo di sedimentazione che avrebbe avuto per protagonisti non solo i principi della fisica e della chimica, ma addirittura uno straordinario microscopico batterio, il desulfovibrio desulsuricans capace di nutrirsi di petrolio greggio e di rubare ossigeno al solfato di calcio dando luogo ad idrogeno solforato che, attraverso una normale ossidazione, avrebbe partorito lo zolfo nativo». Secondo tale affascinante teoria, le ricchezze della rampante borghesia ottocentesca di Racalmuto si devono, dunque, a quel geologico vibrione; il che per qualche verso sa di beffarda premonizione e di malefica iella.

 





Preistoria racalmutese



 

Sull’altipiano di Racalmuto - che, a ben vedere, altipiano non è - l’uomo ha lasciato, da oltre quattro millenni, tracce del suo dimorarvi ora rado, ora intenso, qualche volta prospero, ma di solito stentato. Un popolo preistorico, quello cosiddetto sicano, fu presente per oltre sei secoli nel secondo millennio a. C. Ma a partire dal XIV sec. a.C., mentre nella vicina Milena ebbe a prosperare una popolazione che, come attestano le ancor visibili tombe a tholos, seppe avvalersi degli influssi micenei, il territorio di Racalmuto pare divenuto del tutto inospitale e la civiltà sicana scompare del tutto (o non fu in grado di lasciare testimonianze che superassero l’onta del tempo).



Ma a che epoca risale il primo insediamento umano nel territorio di Racalmuto? Fu esso teatro di qualche fase evolutiva della specie umana? Come vissero i primi nuclei umani? Ove abitarono e con quali riti e culture?

Sono tutte domande senza risposta, alla luce delle attuali conoscenze scientifiche. Solo si può ipotizzare una qualche presenza umana nella grotta di Fra Diego, che per ubicazione ed ampiezza sembra proprio idonea ad ospitare il primitivo homo sapiens sapiens dei dintorni racalmutesi.

Dobbiamo saltare al secondo millennio a.C. per essere certi di consistenti nuclei abitativi che sogliono chiamarsi, sulla scia di una pagina di Tucidide, sicani. Due testimonianze ce l’attestano in modo indubbio: le tombe a forno scavate nella parete della medesima grotta di Fra Diego e presenti anche lungo il crinale che da lì arriva, passando per il Castelluccio, sino alle porte del paese; ed un ritrovamento casuale a dieci chilometri da Canicattì, lungo la strada ferrata.

Azzardiamo una nostra ipotesi: trattasi di due flussi migratori diversi: uno a sfondo agricolo che da Licata tocca le falde del versante sud del Serrone e l'altro, in cerca del sale, contiguo agli insediamenti che da S. Angelo Muxaro - la terra di Cocalo? - si espande verso Milena, Montedoro, Bompensiere.

L’insediamento di Fra Diego è quello che persino nelle cartoline illustrate locali viene definito 'sicano'. In mancanza di campagne di scavi ufficiali dobbiamo accontentarci delle intuizioni dilettantesche e delle tante segnalazioni che dal '700 in poi si rincorrono. Il cospicuo numero di tombe a forno dimostra l'esistenza di gruppi estesi, dediti ai culti mortuari dell'inumazione in forma fetale, con i cadaveri forse spolpati a bagnomaria e forse legati per la paura di una vendicatrice resurrezione che i nostri antenati pare nutrissero. Quei cosiddetti antichi Sicani, installandosi attorno alla grotta di Fra Diego, avranno trovato il salgemma delle vicinanze e fors'anche lo zolfo, all'epoca probabilmente reperibile anche in superficie. Risale alla tarda età romana lo strambo passo di Solino che secondo il Tinebra Martorana - a nostro avviso fondatamente - è da riferire al territorio di Racalmuto. Solino scrive che il sale agrigentino, se lo metti sul fuoco, si dissolve bruciando; con esso si effigiano uomini e dei. Ancora nel '700 il viaggiatore inglese Brydone andava alla ricerca di quei fenomeni. Sommessamente pensiamo che v'è solo confusione tra sale e zolfo, entrambi già conosciuti dai nostri preistorici antenati. Con lo zolfo si foggiavano statuette del tipo dei 'pupi', dei 'cani', delle 'sarde' di 'surfaro' che ai tempi della mia infanzia circolavano ancora.

Quello che si diparte da Licata sino ai pressi della galleria ferroviaria prossima al bivio Canicattì-Castrofilippo, viene fatto risalire al XVIII secolo a.C. Le pertinenti solite tombe a forno vennero scoperte durante i lavori della ferrovia nel 1879. I reperti fittili salvati dall’ing. Luigi Mauceri finirono dispersi nei sotterranei di un qualche museo siciliano. Le relative tombe a forno sono andate del tutto disperse per lo sfruttamento delle cave di pietra.

Sulla primissima presenza umana nei dintorni di Racalmuto, non sappiamo null’altro se non quanto, con qualche ingenuità ed approssimazione da dilettante, ebbe a riferire, in una sua corrispondenza a W. Helbig, quel solerte ingegnere delle ferrovie. Apprendiamo, così, che «le scoperte di tombe antichissime hanno un importantissimo riscontro nell’altipiano di Pietralonga tra Canicattì e Racalmuto, ove ebbi la fortuna di esaminare le tracce di un gruppo di tombe scoperte casualmente. La strada ferrata in costruzione, che va da Canicattì a Caldare, ... a circa dieci chilometri dalla prima città passa in una terrazza che si protende a sud-ovest di un altipiano tortuoso, costituito da un gran banco di roccia calcare non ancora denudato. In questa altura e su vari speroni rocciosi che in vari sensi si diramano, nella scorsa estate [1879] furono aperte parecchie cave di pietra per le costruzioni ferroviarie. Quivi i cavatori avanzando le loro cave in vari punti, ... incontrarono molte tombe che hanno una perfetta somiglianza con le altre precedentemente descritte.» Si ha, quindi, la descrizione delle tombe, oggi non più rinvenibili. Esse «erano scavate - aggiunge il Mauceri - quasi tutte nei versanti di levante e mezzogiorno dell’altipiano e dei contrafforti. La loro forma è assai varia; abbonda per lo più il tipo della tomba a pozzo, come quella di Passarello; ma sembra che talvolta le celle invece di due siano state tre e anche quattro. In un punto pare fosse stata aperta una specie di trincea, su cui poi furono scavate parecchie celle a pozzo, ma irregolari. [...] La chiusura della bocca dei pozzi o dell’ingresso delle celle è sempre fatta con grossi massi irregolari, e in cui non scorgesi traccia di alcuna particolare lavoratura. Tutte le tombe, oltre a contenere più d’uno scheletro e parecchi vasi, contenevano anche molti ossami di animali, e terra grassa mista a cenere e carbonigia. Nessun utensile, né di pietra né di metallo.» Segue la descrizione di n.° 11 reperti fittili, di cui viene fatta anche una riproduzione grafica. Trattasi di vasetti di terracotta, di frammenti di una "coppa di un vaso grande", di "una specie di olla", della "coppa di un calice", di un "vaso di bucchero", nonché di un "utensile di terracotta a forma di un conno". Non è questa le sede per riportare diffusamente la descrizione che fornisce il Mauceri: per gli appassionati, si fa rinvio alla pubblicazione ed alle tavole ivi allegate. La conclusione di quella corrispondenza contiene affermazioni che l’ulteriore sviluppo dell’archeologia ha solo in minima parte confermato. «Gli altopiani rocciosi e naturalmente muniti di Passarello, Pietrarossa, Fundarò e Pietralonga, - conclude l’A. - nei cui contorni sonosi scoverte le tombe da me descritte, mi sembrano indicare il sito di altrettante dimore stabili dei Sicani, tanto più che ho osservato alle falde di ciascuno abbondanti sorgenti d’acqua. In ispecie a Pietralonga, chiunque esamini la contrada, troverà indicatissimo il sito di una città; ond’io ritengo che di queste notizie potrà in qualche guisa avvantaggiarsene la topografia antica di Sicilia, potendosi ivi collocare qualcuna delle città sicane (Ippona, Macella, Jeti, ecc.) di cui è tuttora incerta la giacitura.»

Dopo la descrizione di quel rinvenimento casuale, nessuna campagna di scavi è stata sinora portata avanti nel territorio racalmutese. Quell’antichissima - ma certa - presenza umana resta dunque per ogni altro verso oggi del tutto oscura. Si trattò di un popolo sicano, ma come quel popolo visse, con quale evoluzione, con quali strutture socio-economiche, si ignora del tutto. Possono solo avanzarsi congetture: ma esse risultano alla fine inappaganti.

Quel che le affioranti testimonianze archeologiche dimostrano con certezza è un policentrico insediamento sicano che può farsi risalire all’Età del Bronzo (1800-1400 a.C.) Oltre alla necropoli lungo la strada ferrata, nei pressi di Castrofilippo, di cui è cenno presso il Mauceri, il maggior nucleo è quello sulla fiancata della grotta di Fra Diego. Tombe rade, ma pur presenti, emergono vicino al Castelluccio, su un avvallamento del Serrone ed in altre contrade racalmutesi. Molto manomesse, ma non irriconoscibili, sono le tumulazioni sicane scavate in costoni calcarei sovrastanti la contrada di Casalvecchio o al confine tra il Saraceno e Sant’Anna.

Si sa che nel XIII-XII secolo a.C. si sviluppa nella media Valle del Platani un’articolata iconografia tombale micenea. E’ questo il tempo dei primi contatti con il mondo miceneo. Nella confinante Milena si rinvengono tombe a tholos e materiali del Mic. III B-C. Secondo il De Miro è da pensare «ad una miceneizzazione di questa parte dell’Isola tra il Salso ed il Platani, risalente a veri e propri stanziamenti di nuclei transmarini avvenuti nel XIII-XII secolo a.C., forse alla ricerca della via del salgemma.» Il Monte Campanella di Milena, ove sono state rinvenute tombe a tholos con frammenti di vasi micenei e corredo di spade e pugnali di bronzo e un bacile cipriota del XIII secolo a.C., non è poi tanto lontano dalla necropoli di Fra Diego; eppure a Racalmuto nulla si è trovato, a memoria d’uomo, che comprovi un analogo influsso miceneo. Né vi è notizia di tombe a tholos in qualche punto dell’intero territorio di Racalmuto. Forse è da pensare che la civiltà sicana sia sparita a Racalmuto sin dal XIII secolo a.C.? Lo stato delle conoscenze archeologiche porta a tale conclusione. Spariscono, dunque, i Sicani o sopravvivono senza contaminazione? Ed in tal caso per quanti secoli ancora? Possiamo solo affermare con qualche fondamento che al tempo della colonizzazione interna dell’Agrigento greca, Racalmuto dovette essere pressoché disabitato, come la rarefazione delle testimonianze archeologiche sembrano comprovare.



 
VERSO L’AVVENTO DEI GRECI


Non riusciamo a resistere alla forte tentazione di formulare nostre personali congetture sull’evoluzione sociale ed abitativa dei primordi racalmutesi. Se qualche abitante vi fu a Racalmuto durante il Paleolitico Superiore, fu la grotta di Fra Diego ad ospitarlo: quell'antro per esposizione, per capienza e per vicinanza a luoghi fertili ed a valli boschive adatte alla cacciagione, si attaglia all'ospitalità troglodita. Le testimonianze archeologiche più antiche sono però di gran lunga posteriori e ci portano in piena cultura della 'Conca d'Oro' con le caratteristiche «tombe del tipo a forno».

Da quell'era i nostri progenitori - siano sicani o altro - riuscirono a sormontare gli sconvolgimenti epocali dell'Età del Bronzo in condizioni di relativo benessere, piuttosto pacifici ed alquanto prolifici, come il diffondersi delle tombe per tutto il crinale collinare sta a testimoniare. Caccia e risorse minerarie, ma soprattutto cerealicultura e pastorizia consentirono sopravvivenza ed anche sviluppo. A quanto pare, l’ingresso nell’Età del Ferro fu loro fatale.

A questo punto si ebbe una crisi per ragioni che ci sfuggono: forse per le razzie dei Siculi, forse per difendersi dalle incursioni di popoli stranieri giunti dal mare, i Sicani di Racalmuto sembra abbiano preferito ritirarsi entro le più sicure zone montagnose di Milena.

Successivamente, quando, per l'aridità della loro terra, i greci sciamarono per il Mediterraneo e le genti di Rodi e di Creta, via Gela, si insediarono nella valle agrigentina, per i radi indigeni di Racalmuto fu il definitivo tracollo.

I moderni storici si accapigliano per stabilire tempi, modalità e drammi di quell'esodo geco cui non si attaglierebbe neppure il termine di colonizzazione, trattandosi di un'espulsione senza ritorno. Sono però propensi a ritenere che quei greci subirono la violenza della scacciata dalle loro famiglie contadine e, mancando di mogli, quella violenza la scaricarono sulle donne indigene di Sicilia, violandole con nozze coatte.

Un doppio dramma - si dice - che, ci pare, Racalmuto non subì né nella prima ondata di immigrazione greca, né in quella della seconda generazione. La zona era lungi dal mare e lungi dalle rive sabbiose, preferite dai greci per trarre in secco le loro imbarcazioni, magari come semplice auspicio per un (improbabile) ritorno in patria. I rodiesi ed i cretesi di Gela fondarono, accrebbero e consolidarono la città akragantina. Allora il nostro Altipiano cessò di essere libero territorio anellenico: erano giunti i tempi della famigerata tirannide di Falaride. Nel sesto secolo a.C., per le locali popolazioni iniziò una devastante denominazione greca. I cadetti greci di Agrigento, privi di terra e di beni per il costume del maggiorascato del loro popolo, cercarono, forse, fortuna e dominio nei dintorni e così anche Racalmuto cadde nelle loro mani. Si attestarono certo nelle feraci contrade tra Grotticelle e Casalvecchio, e, secondo recentissimi ritrovamenti archeologici, anche alle falde del costone di Fra Diego. I radi reperti numismatici con la riconoscibile effigie del granchio akragantino non attestano solo l'inclusione di quel territorio nella circolazione monetaria delle varie tirannidi dell'antica Agrigento, ma soprattutto l'insediamento dei nuovi padroni. Da quell'epoca la civiltà sicana indigena non è più testimoniata in alcun modo. I nuovi padroni venuti da Agrigento presero certo la più gagliarda gioventù per trasferirla, schiava, nella titanica costruzione dei templi. La gran parte, se non resa schiava, fu senz'altro assoggettata ad una sorta di servitù della gleba. Taluni, scacciati o fuggitivi, si ritirano con i loro sparuti armenti negli inospitali valloni siti a tramontana. E divennero pastori randagi e rudi, feroci ma liberi, anarchici e misantropi, irriducibili ed incoercibili, simili a quei pastori che ancor oggi sembrano mantenere le prische connotazioni di uomini fieri e ribelli. In tutto ciò sono da rinvenire le radici della storia sociale racalmutese. La classe agro-pastorale nasce e si evolve lungo millenni con sufficiente continuità e peculiarmente autoctona. Sono i vertici ed i dominatori che vengono da fuori, arroganti ed estranei. Si pensi che un ricambio in senso classista Racalmuto l'ha potuto registrare solo molto di recente. Soltanto gli anni ottanta del XX secolo sono propizi ad un rivoluzionario avvento di amministratori con genuine ascendenze locali e d'autentica estrazione popolare.








IL PERIODO GRECO

Tra il 570 ed il 555 a. C. Racalmuto non poté che essere pertinenza rurale della polis di Akragas, sotto la tirannide di Falaride: costui assurge al potere cavalcando la tigre dei ribellismi sociali e plebei dell'Agrigento di allora. Fu questo fenomeno tipico dei silicioti greci di quel periodo.

Il piccolo centro abitato vi fu travolto di riflesso, per via dei greci nobili che poterono appropriarsi delle terre dell’Altopiano sito ad Oriente. Frattanto nelle nostre plaghe ebbero a moltiplicarsi i kyllyrioi, i semi schiavi di cui parla Erodoto: gente che doveva lavorare per la vicina polis di Akragas, senza libertà di movimento, senza diritti civili se non quelli di non potere essere venduti o allontanati dalla terra che lavoravano, potendo conservare la propria famiglia e la propria vita comunitaria. I reperti numismatici che talora si sono rinvenuti nel nostro territorio sono i soli indici della loro presenza.

E' certo che sino a quando non si faranno scavi come quelli che gli Adamesteanu e gli Orlandini ebbero a condurre nel circondario di Gela attorno agli anni cinquanta, o più recentemente il La Rosa a Milena, a noi non resta che avventurarci in malcerte congetture.

In una campagna di scavi del 1960, furono fatte importanti scoperte presso Vassallaggi, in S. Cataldo, e si attribuì a quella località la nota cittadina di Motyon della Biblioteca di Diodoro Siculo (Kokalos, VIII 1962). Tramontava definitivamente il sogno accarezzato da Serafino Messana nel secolo diciannovesimo di assegnare quel nome greco al nostro paese. La sua teoria della 'metatesi' di Motyon che diventa «Casalmotyo e perciò Casalvecchio» - e dire che Serafino Messana ignorava le teorie linguistiche del Ciaceri che vuole Mothion una grecizzazione del preesistente 'Mutuum' - svanisce inequivocabilmente. Tinebra Martorana già rifiutava quella teoria con l'elegante 'non liquet' (non risulta) di Filippo Cluverio. Oggi, liquet (risulta) l'inattribuibilità di Motyon a Racalmuto e dintorni: la località è dagli studiosi concordemente ubicata attorno a S. Cataldo o comunque nei pressi di Caltanissetta.

Quando vi fu dunque l'attacco di Ducezio all'avamposto di Akragas, Motyon, nel 451 o nel 450 a.C., l'onta dell'invasione non riguardò queste nostre contrade: per quei tempi, S. Cataldo era a distanza considerevole: quei nostri antenati dovettero però fornire grano e vettovaglie e vite umane in quella guerra tra Akragas, sostenuta dai siracusani, e l'esercito di Ducezio, il siculo-ellenizzato di Mineo. Per Racalmuto passavano di sicuro gli opliti agrigentini. La rete viaria di allora non doveva essere granché diversa da quella della fine dell’Ottocento-.

Frattanto Racalmuto, territorio rurale di Akragas, perdeva usi e costumi sicani, dimenticava la madre lingua per storpiare un’aliena lingua dorica, e si dedicava alla coltivazione dell'ulivo, alle vigne, alla vinificazione per i padroni di Agrigento. Insieme naturalmente al grano, merce di scambio per i traffici agrigentini con la madre patria greca o con i vicini cartaginesi. La continuità degli autoctoni - pastori e contadini - persisteva certo, ma in via sotterranea e ovviamente subalterna, priva di ogni esteriorità e senza lasciare alcuna testimonianza per i posteri.

Racalmuto continuava a riflettere sbiaditamente la vicenda storica di Agrigento. Restava pertinenza rurale, piuttosto disabitata, senza monumenti ragguardevoli, con una popolazione sfruttata e vessata. Periferia agricola della Polis, dunque, al tempo degli splendori di Terone, il tiranno agrigentino legato anche con vincoli di parentela con quello di Siracusa, Gelone. Pindaro esaltava, a pagamento, Agrigento come la più bella città dei mortali. Racalmuto doveva fornire grano e tributi per consentire ai tiranni agrigentini di equipaggiare le costosissime corse dei carri a quattro cavalli nei giochi olimpici della lontana Grecia. Dopo, chi vinceva commissionava le famose odi a Pindaro, statue a scultori greci e profondeva doni ai santuari di Olimpia.

A Racalmuto, sulla cui economia agricola quegli eventi ebbero a pesare, giunse, sì e no, una flebile eco, se qualche signorotto di Agrigento ebbe a recarsi nelle proprie terre per refrigerarsi in qualche sua villa sulle pendici del Serrone durante la canicola estiva. Alcuni versi delle Olimpiche di Pindaro su quella vittoria col carro di Terone nel 476 a. C. ebbero ad incantare qualche nostro antenato, incolto ma sensibile all'alta poesia.: «certo per i mortali non sta/ fissa una soglia di morte,/ né quando un giorno figlio del sole/ s'acquieterà alla fine in pura felicità:/ flutti diversi, momenti alterni/ di gioia e d'affanno vengono agli uomini» eran poi versi da avvincere anche l'animo del contadino greco, intento a riverire il suo padrone, specie se questi li recita mirando le stelle cadenti del cielo senza fine dell'estate racalmutese. E qui da noi circolavano anche le monete col granchio agrigentino, testimonianza di commerci, esportazioni di grano e presenze greche.

Sfiora la locale società contadina la nebulosa vicenda di Trasideo, figlio di Terone, «violento ed assassino», per Diodoro Siculo. La sua cacciata da Akragas, per il passaggio ad un regime democratico, non fu forse neppure avvertita. Non sapremo però mai se Racalmuto fu coinvolto nella successiva confusione che venne a determinarsi per lo sconvolgimento nella distribuzione su nuove basi delle terre.

Dopo il 427 a. C., Akragas si acquieta, entra nella riservatezza. Se Siracusa coinvolge Imera, Gela e forse Selinunte nella sua guerra contro Lentini, a sua volta sostenuta da Camerina, Catania e la piccola Nasso, Akragas si mantiene neutrale e fa affari con tutti vendendo il suo grano ad entrambe le parti contendenti e lucrandovi sopra per un benessere economico, di cui ebbe a goderne anche Racalmuto, sia pure in minima parte. Sono queste, certo, ipotesi, ma ci suonano attendibili.

Atene - con Alcibiade che credeva di potere fagocitare la Sicilia in un guerra lampo ritenendola una terra di imbelli popolazioni bastarde - si avventura, nel 415 a. C., nella guerra contro Siracusa. Subisce, l'esercito ateniese, una disastrosa sconfitta. Atene, con 40.000 uomini agli ordini del suo più esperto generale, Demostene, ritenta l'impresa. Siracusa trova alleati a Sparta, a Gela, Camerina, Selinunte, Imera e persino tra i siculi di Kale Akte. Quelle tragiche vicende che portano alla tremenda disfatta degli ateniesi trovano risalto nelle memorabili pagine di Tucidide. Akragas, come al solito, sta a guardare; ancora una volta è neutrale, alla stregua di Cartagine e del settore fenicio della Sicilia. In quel trambusto, Akragas ha modo di prosperare con i profitti di guerra. Racalmuto, come sempre propaggine rurale di quella polis, ne segue sicuramente le sorti, intensificando l'agricoltura e la pastorizia. Ma, attorno al 406 a. C., con l'ascesa di Dionisio I alla tirannide di Siracusa, per Akragas fu l'inizio del declino. Per converso, Racalmuto poteva affrancarsi dal giogo della vicina polis akragantina.

Nel 406 a.C., fallito il tentativo di Ermocrate di impossessarsi di Siracusa, Akragas iniziò il suo ciclo storico di colonia punica. Un esercito africano numeroso e potente - anche se ben lontano dall'astronomica cifra di 120.000 uomini, come vorrebbe Diodoro - ebbe come primo bersaglio l'opulenta Agrigento. Gli aspri combattimenti tra siracusani e cartaginesi durarono sette mesi, nell'imbelle indifferenza dei greci agrigentini. Nel dicembre del 406, per Akragas fu, però, la fine: fuggirono i cittadini a Leontini e la città fu abbandonata. I cartaginesi si diedero ai saccheggi ed alla spoliazione delle tante opere d'arte, ivi compreso - pare - il toro di bronzo di Falaride. Racalmuto fu per quei tempi terra lontana: niente saccheggi dunque, anzi un afflusso di cittadini agrigentini dovette verificarsi. Le disgrazie agrigentine finirono col dare enfasi ad un risveglio demografico nel vecchio centro sicano sito nel nostro fertile altipiano. Quegli agrigentini che vi avevano fattorie e ville, ebbero di certo a preferire le note località racalmutesi all'angustia dell'esilio in quel di Lentini.

Dionisio il giovane, un ventiquattrenne rampante, si impossessava frattanto di Siracusa. Trattava con i cartaginesi ed Akragas cadeva nella mediocrità dell'epikrateia africana. La popolazione poteva ritornare a casa, ma per una umiliante sudditanza punica. Dal 405 al 264 a.C. la storia di Agrigento emerge solo per qualche barlume che le vicende siracusane vi riflettono. E' comunque un ruolo subalterno alla politica ed alle fortune di Cartagine: da una parte, commercio, relativo benessere, vivacità economica; dall’altra, sudditanza politica e remissività verso la civiltà africana d'oltremare. Una tassazione gravava sulla popolazione cittadina - ora blanda, ora esosa, a seconda delle esigenze cartaginesi.

Crediamo che in tale contesto Racalmuto ebbe tempi non duri: i nuovi dominatori africani erano gente di mare per penetrare nelle impervie e infide vallate racalmutesi. Per altri versi, si apriva qui un mercato proficuo per quei tempi ed i suoi prodotti agricoli potevano trasformarsi in moneta contante, idonea ad un'economia vivace, se non addirittura prospera. Il male di Akragas si tramutava in buoni affari per Racalmuto.

L'archeologia e la numismatica attestano qualcosa di più delle fonti letterarie: sappiamo che artigiani greci e non greci furono chiamati a coniare le cosiddette monete siculo-puniche. Tinebra Martorana scrive di monete con effigie di improbabili scheletri e potrebbe trattarsi degli oboli di Motya o delle monete con la spiga. Per noi, quei reperti numismatici attestano proprio la presenza dello scambio cartaginese nelle terre racalmutesi di quei secoli.

Sempre il Tinebra Martorana ci testimonia del rinvenimento di monete «di argento [aventi] da una parte un cavallo alato ed al rovescio il capo armato di un guerriero». Trattasi senza dubbio di pegasi siracusani che ci richiamano le dittature di Dione o di Timoleonte (357-317 a.C.). In quel periodo, il territorio racalmutese non fu durevolmente assoggettato a Siracusa. I segni monetari palesano dunque un libero scambio: grano, orzo, ma anche vino, olio e prodotti caseari del paese prendevano la via dell'oriente siciliano oltre a quella del mare africano. Ne derivò un tenore di vita evoluto da consentire tumulazioni di lusso ed alla greca. Non possiamo non credere al Tinebra Martorana quando scrive: «In contrada Cometi, .... si rinvennero sepolcreti d'argilla rossa, resti di ossa, lumiere antiche, cocci di vasi» e le monete di cui abbiamo detto sopra.

 
LA PARENTESI CARTAGINESE


Attorno al 282 a.C. si affaccia sul proscenio della storia un tiranno agrigentino di un qualche rilievo: Finzia. Fu lui a radere al suolo Gela e a trasportarne la popolazione nell'attuale Licata: in questa località il tiranno costruì una città di stile greco, cinta di mura e dotata di agorà e di templi. Racalmuto dovette essere terra subalterna a Finzia e dovette contribuire quindi al sostegno finanziario delle mire egemoniche del tiranno agrigentino. Fu però vicenda storica di breve respiro. Sparisce ben presto Finzia e Akragas, ritornata debole e faccendiera, non sa ostacolare l'egemonia di Siracusa.

Nel 280 a. C. Siracusa sconfigge Akragas. Cartagine, vigile ed interessata, arma un imponente corpo di spedizione che presto raggiunge le porte di Siracusa. Akragas ed il suo territorio - ivi compreso Racalmuto - si estraniano, come sempre, dalla lotta armata ed assistono piuttosto indifferenti all'intrusione di Pirro, quel re dei Molossi, passato alla storia per le sue risibili vittorie.

Akragas e Racalmuto, quale sua pertinenza, rientrano nella zona di influenza di Cartagine e vi restano per quasi un ventennio fino a quando la Sicilia fenicia incappa nelle mire espansionistiche della repubblica romana.

Nel 264 a.C. scoppia la prima guerra punica e la vicenda siciliana si avvia melanconicamente a divenire la scansione di un'oscura appendice della lontana e suprema Roma. La Sicilia assurge all’inglorioso ruolo di provincia che secondo Cicerone: «prima docuit maiores nostros quam praeclarum esset exteris gentibus imperare». Già, la Sicilia fa gustare per prima ai Romani quanto fosse bello soggiogare popoli stranieri. E, ancora - dopo un secolo e mezzo - Sicilia, Akragas (e ancor più Racalmuto) saranno per i romani nient'altro che «extera gens» [gentucola straniera] da dominare e da proteggere solo perché «ornamentum imperi».

Roma conquistò Akragas nel 261: dopo un assedio di sei mesi, le scomposte furie dei romani si sfogarono ignominiosamente sui poveri cittadini agrigentini. Né beni, né donne e neppure gli stessi uomini furono risparmiati: 25.000 dei suoi abitanti furono venduti come schiavi.

Sette anni dopo, sono i cartaginesi a rimpadronirsi della città, dopo avere distrutto la flotta romana che ritornava dall'Africa. A farne le spese è ancora una volta Akragas: i cartaginesi bruciano ogni cosa, abitazioni e mura.

Riteniamo che la terra di Racalmuto dovette risultare alquanto decentrata per subire direttamente le atrocità di quella guerra punica. Ma i riflessi dovettero esserci, dolorosi e devastanti. Lutti per i parenti che si erano stanziati nella vicina polis; distruzione di beni; spoliazioni, rapine, banditismo, vandalismi ed altro.

Le antiche fonti nulla ci dicono sui successivi due decenni: verso lo spirare del secolo, Akragas e la vicina Eraclea Minoa appaiono saldamente in mano dei cartaginesi. Tra il 214 e il 211 a.C. un massiccio movimento di uomini armati - si parla di 40.000 militari tra i quali 6.000 cavalieri - su 200 navi parte da Cartagine per raggiungere la Sicilia. Punto di approdo è Akragas: sulle colture raculmutesi si abbatte il gravame di apporti alimentari a quegli eserciti tutto sommato stranieri. Nel 212 a. C. tocca a Siracusa cadere nelle mani dei romani ed il grande Archimede finisce ucciso per mano militare. Per i cartaginesi, nel grande scontro con i romani, le sorti belliche volgono al peggio: i fenici ripiegano su Agrigento, ultimo baluardo delle loro difese. Mercenari numidi consumano l'ennesimo tradimento. Akragas cade ancora una volta in mano dei romani; ancora una volta popolazione e beni diventano bottino di guerra per una vendita sui mercati del mondo. Levino a Roma fa il suo trionfale rapporto. Per Racalmuto inizia l'epoca di agro ferace per le distribuzioni di grano nella lontanissima Roma.





IL PERIODO ROMANO

Finite le guerre puniche, il console Levino avvia la Sicilia al suo secolare sfruttamento agricolo da parte di Roma. Dall'originaria Siracusa i gravami fiscali della legge Ieronica si estendono all'intera Isola, a tutto vantaggio delle plebi dell'Urbe: quell'estensione avviene con la lex Rupilia del 132. E così sotto il cielo di Roma una società di pubblicani appaltava la riscossione delle tasse sul pascolo (scriptura) e sui trasporti marittimi (portorium). Ma erano il grano, l'orzo, il vino, l'olio e i legumi di Sicilia che, assoggettati a decima, prendevano la via del mare per Roma.

Ma per uno dei soliti paradossi della storia, Racalmuto in quel regime coloniale romano ebbe occasione e modo di sviluppo economico e demografico: il suo suolo ferace ed anche la sua vocazione alla viticoltura furono di sprone all'insediamento contadino. Niente grandi opere e neppure edifici; non si ebbe manco un toponimo che resistesse all'oblio dei tempi. Eppure, i segni di quel consorzio umano e sociale nel territorio di Racalmuto sono giunti sino a noi: resti fittili, anfore, monete romane ed altre testimonianze archeologiche.

Nella contrada di S. Anna agli inizi del secolo furono rinvenute anfore in gran numero - forse proprio quelle che servivano agli esattori romani per trasportare il grano o l'orzo a Roma - e mi si dice che i proprietari dei poderi dell'epoca si affrettarono a farle sparire nelle voragini del monte Castelluccio per il timore di espropri o molestie da parte delle Autorità.

E' tuttavia noto un reperto di grande interesse che fu trovato da tal Gaspare Vaccaro nel 1782: esso ci attesta della organizzazione esattoriale delle decime agrarie a Racalmuto da parte di Roma. Trattasi di una iscrizione latina pubblicata nel 1784 da Gabriele Lancellotto Castello, principe di Torremuzza, nel suo "Siciliae et adiacentium insularum veterum inscriptionum - nova collectio..". A pag. 237 il principe archeologo c'informa che l'anfora fittile rinvenuta a Racalmuto era una "diota" (anfora per vino) nel cui manico [«in manubrio diotae fictilis erutae»] poteva leggersi la seguente epigrafe:




C* PP. ILI* F* FUSCI
RMUS. FEC.



 

 

 

Il Mommsen diede credito al Torremuzza e pubblicò tale e quale quell'epigrafe nei suoi ponderosi volumi (C.I.L. X, 8051, 40, pag. 870) ma amputandola del riferimento alla diota ed eludendo ogni commento prosopografico.

Chiaro appare, comunque, il richiamo ad un personaggio di nome FUSCO, del tutto ignoto alla storia di Sicilia ma ben presente alla prosopografia romana. Marziale augura al potente Fusco che «le smisurate sue cantine diano ottimi mosti» (VII, 28); Giovenale ironizza sui ricchi Fusco della Roma del suo tempo; un Fusco fu console romano con Domizio Destro ed abbiamo anche un Cn. Pedanius Fuscus Salinator e via di seguito. Ma una famiglia Fusco siciliana non sembra essere esistita.

Quello del vaso fittile di Racalmuto era dunque un romano o in ogni caso un cittadino di Roma: un probabile esattore dunque e forse un esattore delle decime sul vino di Racalmuto se ci fidiamo del Torremuzza quando accenna a diote fittili e cioè ad anfore per il trasporto a Roma del vino, prelevato in natura dal fisco romano sino a tarda età, come si evince dalle Verrine di Cicerone.

Per quasi quattro secoli la vita agricola e contadina nei dintorni di Racalmuto, sotto il dominio romano, trascorre senza lasciare traccia alcuna. Gli studiosi ci avvertono che tutto il sottosuolo siciliano divenne proprietà privata di Augusto, ma di miniere racalmutesi non si ha non si ha notizia per quel periodo. Solo, sul finire del secondo secolo d.C., sotto Commodo, secondo una fallace lettura del Salinas, si registra una svolta economica di grande risalto in Racalmuto: le miniere di zolfo, impiantate come alcuni vecchi ancor oggi ricordano, vi presero piede.

Per oltre un millennio non se ne seppe nulla, finché nell'Ottocento si rinvennero i cocci di talune forme romane, simili alle 'gàvite', recanti sul fondo i caratteri a risalto, e con scrittura alla rovescia, indicativi dello stabilimento minerario.

Il primo ad averne contezza fu l’avv. Giuseppe Picone, figlio di racalmutesi trasferitisi ad Agrigento. All’Archivio di Stato di Roma si conserva una preziosa corrispondenza tra il Picone, all’epoca ispettore degli scavi e dei Monumenti di Girgenti ed il Ministero, che risale al 3 novembre del 1877. Emerge un’appropriazione indebita da parte del grande tedesco ai danni del modesto avvocato con antenati racalmutesi. Burocraticamente l’oggetto della corrispondenza si denoma: Mattoni antichi con bolli relativi alle miniere sulfuree. Un ottocentesco alto burocrate del Ministero della Pubblica Istruzione di quel tempo, il dott. Donati, interpella saccentemente il Picone, segnala e pretende di sapere:


Il dr. Mommsen reduce dal suo viaggio in Sicilia mi parla della scoperta importante da lui fatta di bolli fittili con ricordi di preposti alle miniere sulfuree nei primi secoli dell'e.c. - Sarò grato alla S.V. se si compiaccia dare su tale oggetto i maggiori ragguagli.


L’interpellato risponde in data 28 dicembre 1877 (Repertorio al protocollo 1878 n.° 16) in termini dimessi ma di grosso risalto per la storia delle miniere di zolfo racalmutesi al tempo dei Romani:
Furono or sono pochi anni scoverti nel bacino di Racalmuto, e a considerevole profondità taluni mattoni antichi, con bolli, che io raccolsi, e formano parte di questo museo comunale. In essi si vedono delle iscrizioni latine, che, per difetto d'arte, venivano rilevate al rovescio di che siano leggibili da sopra a sinistra, come le scritture orientali.
In uno di essi mutilato si legge (totalmente a rovescio, n.d.r.) :
 
MANCIPYM/
SULFURIS
SICIL
 
Messa questa in rapporto alle altre iscrizioni pare che vi manchi nella prima linea
 
EX. OF. (ex officina)

come si rileva in talune, ove si legge Ex officina Gellii ec. ec.
 
Dallo stile uniforme e dalla paleografia risulta sippure, che l'epoca sia quella di Antonino Domiziano e di altri, come dai frammenti di altri bolli, ove si legge il nome di quegli imperatori, sì che possa concludersi, senza tema di errare, che in quella stagione, la industria zolfifera era fiorentissima nella provincia Girgentina.
L'esimio Dr Mommsen, che onorò di sua presenza questo Museo, potrebbe dare alla E.V. maggiori schiarimenti e più dotte illustrazioni che io non saprei.


 

Il Mommsen fu poco grato al Picone: pubblica - unitamente al Desseau - i dati epigrafici nei volumi del C.I.L. ma si guarda bene dal ricompensare, neppure con una semplice menzione, il nostro avv. Picone. Sulle ‘gavite’ romane è ormai consistente la pubblicistica, ma in essa non si riviene il minimo accenno a chi per primo ebbe consapevolezza dell’importanza dei reperti solfiferi di epoca romana, rinvenuti a Racalmuto. Successivamente vi è un’eco nel nostro Tinebra Martorana che racconta di reperti della specie regalati dalla famiglia La Mantia all'avv. Giuseppe Picone di Agrigento e finiti, quindi, al Museo Archeologico di Agrigento.

All'inizio del secolo scorso, il SALINAS aveva modo di rinvenire proprio a Racalmuto alcuni reperti di quelle che Mommsen impropriamente, ma con fortuna, ebbe a chiamare «tegulae sulfuris». Al Salinas, invero, furono vendute per il Museo di Palermo quattro lastre con iscrizioni da un contadino nostro compaesano che le aveva rinvenute presumibilmente nei dintorni di Santa Maria, nella costruzione di un sepolcro.

Quell'insigne archeologo procedeva ad una lettura piuttosto arruffata che pubblicava sul bollettino dell'Accademia dei Lincei. Altre «tegulae» sono state rinvenute nel 1947 in località Bonomorone di Agrigento. Ma qui non attestavano la presenza di miniere di zolfo perché, come ebbe a scrivere il Prof. Pietro Griffo, si trattava di un deposito di cocci di una figlina (officina di vasaio): dunque il commercio avveniva ad Agrigento, ma la produzione era altrove ed in particolare, per quel che ci riguarda, a Racalmuto.

Biagio Pace, con taglio più letterario che scientifico, così sintetizza quell'attività mineraria dei tempi romani: «Si tratta di tegole quadrate di terracotta, di circa 40 cm. di lato, che recano in rilievo, rovesciate, delle epigrafi... Tegole evidentemente poste, come illustrò il Salinas, nei cassoni destinati a contenere lo zolfo liquido e che dobbiamo immaginare del tutto identici a quelli che si adoperano tuttavia sotto il nome di gàvite, nel fondo dei quali sono parimenti incise le lettere della miniera, che in tal modo vengono riprodotte in quelle caratteristiche forme falcate di zolfo, le balate, che ognuno che abbia transitato per le stazioni zolfifere di Sicilia ha notato.»

Pare, comunque, che l'attività mineraria solfifera a Racalmuto si sia presto estinta nell'antichità. Dopo quelle testimonianze (che pare riguardino un’attività che partendo dall'anno 180 d.C. si protrae sino al IV secolo d.C.) si fa un salto di oltre quindici secoli per avere notizie certe su una presenza mineraria racalmutese: risale all'inizio del Settecento una nota negli archivi parrocchiali della Matrice che ha attinenza con le miniere. Sotto la data del 22 ottobre 1706 il cappellano dell'epoca registra un infortunio sul lavoro: Giacomo Giangreco Cifirri, di 34 anni, sposato con la sig.a Nicola, periva sotto una valanga di salgemma, mentre scavava dentro una miniera di sale. Il giovane minatore veniva sepolto nella Matrice. «In fovea salinae, ob ruinam salis repentinam, defunctus est», è la malinconica annotazione in latino. Il Giangreco Cifirri moriva dunque nella caverna di una salina, per il repentino crollo di massi di sale.






I TEMPI DELLA DECADENZA DELL’IMPERO ROMANO (Secc. II-IV d.c.)


 

Se la tegula rinvenuta e studiata dal Salinas si colloca nel II secolo d.C., quella di cui riferisce il Picone sembra doversi datare nel IV secolo d.C. In epoca di totale declino dell’impero romano, andrebbe pure collocato il noto sarcofago del Ratto di Proserpina. Rispetto a quanto si è detto e scritto su tale testimonianza, per noi non resta del tutto valido l’appunto della Guida del T.C.I. del 1968: «Il Castello, - è detto relativamente a Racalmuto - fondato tra il ‘200 e il ‘300 da Federico Chiaramonte, nell’interno conserva un sarcofago romano del sec. IV, con la raffigurazione del Ratto di Proserpina.» La coincidenza tra la data del sarcofago e quella della tegula studiata dal Picone consente suggestive ipotesi storiche. Le miniere di zolfo erano dunque attive dal II al IV secolo d.C. in Racalmuto e l‘insediamento umano è molto probabile che gravitasse attorno alla zona in cui ora sorge il Castello. Noi abbiamo potuto appurare che sotto la costruzione vi è materiale di risulta che pare trattarsi di materiale ceramico databile ad epoca post-normanna. In ogni caso, nei secoli del tardo Impero, ferveva l’attività mineraria là dove nell’Ottocento greve è stato lo sfruttamento dello zolfo. Si attaglia molto bene anche a Racalmuto ciò che il De Miro annota in Kokalos: «Accanto a famiglie di personaggi politici di rango, la prosperità e l’ambizione di classi medie possono essere state legate alla produzione e al commercio di zolfo per cui, proprio dopo la metà del II secolo d.C., si rilevano segni di una attività proficua sulla base delle non poche tegulae sulfuris. Questo periodo di ricchezza continua anche nel III sec. d. C. con i sarcofagi marmorei[...] La produzione era ancora attiva nei primi decenni del IV secolo d. C.; [quindi, subentra] il silenzio dei documenti». Sempre secondo il De Miro, la tegula rinvenuta dal Salinas attesta la proprietà imperiale della miniera di zolfo, data la formula Ex praedis M. AURELI. Di recente Giovanni Salmeri ha iniziato l’opera di revisione nei confronti del Salinas, anche se non ha avuto il coraggio di andare sino in fondo e lasciar perdere con la datazione commodiana delle miniere solfifere racalmutesi: «le lastre della Sicilia […] sono state rinvenute a Racalmuto scrive lo studioso catanese di storia romana in forma intera adoperate come materiali da costruzione per sepolcro; su di esse si legge la formula ex praedis/ M.Aureli/Commodiani». E’ piuttosto circospetto il Salmeri quando annota: «Salinas in luogo di Commodiani preferiva leggere Commodi Ant(onini) pensando all’imperatore.» In effetti si trattava o di un abbaglio o peggio. Ma scoperto l’inganno, la tentazione a datare comunque le lastre è invincibile e, divenuto l’imperatore Commodo, "il liberto imperiale M. Aurelio Commodiano", non si rinuncia pur tuttavia a "collocare nei decenni finali del II secolo d. C. "il praedium in questione".

I dati archeologici disponibili permettono comunque di abbozzare dati descrittivi sull’industria solfifera racalmutese ai tempi dei Romani, nonché alcune linee evolutive di quell’antica economia mineraria. «Per quanto riguarda la produzione - annota il De Miro - pur essendo nulla rimasto delle antiche miniere, evidentemente obliterate da quelle di età moderna, il processo di estrazione e di preparazione dei pani di zolfo da commerciare già Biagio Pace aveva indicato come non dovesse differenziarsi dai sistemi in uso ad Agrigento nel XIX secolo.»

Pare che in un primo momento ci fosse una organizzazione specialistica che, «distinguendo tra proprietà del fundus e attività mineraria, affida[sse] la gestione della miniera e la produzione a "officine".. Questa tendenza nel III sec. d.C. e oltre porta al monopolio imperiale delle miniere di zolfo in Sicilia, con una organizzazione razionalizzata e articolata in cui, unitamente alla proprietà imperiale emerge, in posizione evidenziata, la figura del concessionario titolare dell’officina, dell’attività industriale, e in posizione subordinata [..], quella del conductor della miniera.» Successivamente appare «il manceps, figura che assume sempre maggior rilievo, sicché in età costantiniana, sparita l’indicazione dell’officina e del conductor, essa è la sola registrata dopo l’indicazione dell’imperatore. [..] Il manceps tende ad assumere per appalto l’intera amministrazione delle miniere di zolfo imperiali, con un significato molto vicino a quello che, nello stesso periodo, indicava coloro che attendevano all’amministrazione del cursus publicus e delle stationes. [...] Quale sia stato l’evolversi ulteriore della organizzazione industriale delle miniere di zolfo in Sicilia non è dato sapere. Certo è che dopo il IV sec. d.C. l’attività si affievolì e si spense. E ciò può essere avvenuto contemporaneamente al passaggio della proprietà terriera assenteista imperiale e più tardi ecclesiastica in gestione privata, nel quadro di un’economia che ormai ignorava lo sfruttamento delle miniere. La destinazione della produzione dovette superare l’ambito isolano, e in particolare dall’Emporium di Agrigento doveva partire il commercio diretto con l’Africa. [..] Si ha quindi l’impressione che, caduta in disuso l’industria dello zolfo, gli interessi economici e gli investimenti si concentrino esclusivamente sulla campagna [..] Nel IV sec. il tessuto sociale agrigentino si attiva, nell’ambito religioso, dell’apporto del Cristianesimo, conservando il suo baricentro verso l’Africa: ceramica sigillata tarda africana e lucerne sono comune corredo delle sepolture ipogeiche.»

In tale contesto, pensiamo ad un’operosa presenza di officinae, conductores e, quindi, di mancipes in quel di Racalmuto, con centro abitato gravitante più verso l’area del Castello che verso Casalvecchio. Ove ora si ergono le torri potrebbe esservi stata una necropoli, se il noto sarcofago fosse stato utilizzato fin dal IV sec. d. C. là dove, poi, per secoli è rimasto. I resti di tegulae, rinvenuti presso S. Maria, rafforzano ipotesi della specie.

Dopo il IV secolo, uno spostamento del centro abitativo in contrada Grotticelli, è per tanti versi attestato. La fine dell’industria estrattiva e la desolazione che ebbe a determinare il terremoto che devastò l’Isola nel 365 d. C. spinsero, probabilmente, a questo cambiamento abitativo. Ma i resti archeologici che ormai vanno affiorando con ritmo crescente e con maggiore attenzione da parte delle autorità, attestano necropoli bizantine sotto il Ferraro e soprattutto un centro abitato che per padre Salvo è il Gardutah dell’Edrisi sotto la grotta di fra Diego, come già si è avuto modo di accennare.

 



I TEMPI DELL’OCCUPAZIONE BARARICA


 

Tinebra Martorana fa un fugace accenno a Genserico ed ai suoi Vandali ed a Totila re dei Goti solo per un richiamo storico dei più generali eventi siciliani dell’epoca, non sapendo che altro dire per quel che ha più stretta attinenza alle vicende locali. Come abbiamo visto, una qualche eco di quelle dominazioni dovette esservi per i coloni abbarbicatisi ai fascinosi costoni snodantisi tra il Caliato, Anime Sante, Grotticelle, Giudeo e Casalvecchio. Eppure di questo sinora non abbiamo alcuna testimonianza né scritta né archeologica. Il tempo a venire non sarà avaro di reperti esplicativi, specie quando ci si deciderà a porre in atto scientifiche campagne di scavi nella zona, invece di ricoprire frettolosamente quello che casualmente affiora.

Nei pressi di Racalmuto sorgono le rovine di Vito Soldano: ne hanno scritto M.R. La Lomia (1961) ed E. De Miro (1966 e 1972-73), ma non può dirsi che per il momento disponiamo di notizie esaurienti, specie sotto il profilo storico. Tombe riccamente corredate sono state rinvenute in contrada Cometi: non è da escludere che lì vi fosse una qualche necropoli riguardante il finitimo centro di Vito Soldano. Purtroppo l’avida ingordigia dei tombaroli ha sinora impedito seri e chiarificatori studi. Per tutto il periodo romano, e per quello successivo delle scorrerie barbariche, sino all’avvento dei Bizantini, i vari coloni sparsi nel territorio di Racalmuto potevano pur bene far capo all’importante insediamento di Vito Soldano, di cui si ignora il nome antico e per il quale le varie ipotesi degli archeologi non reggono al vaglio critico.

Passando alle vicende del rado colonato racalmutese del V e VI secolo d.C., già scarse sono le conoscenze che si hanno per la più generale storia della Sicilia; circa le nostre parti sono disponibili scarsissimi lumi: qualche indizio e talune indicazioni di troppo generica portata.

Se nel 439 la Sicilia fu occupata dai Vandali, a Racalmuto un qualche sentore ebbe ad aversi. Non certo in fatto di religione, giacché l’ostilità di Genserico verso il cattolicesimo e la sua propensione alle conversioni di massa all’arianesimo difficilmente potevano colpire la nostra plaga, per nulla organizzata sotto il profilo civile e, per quello che mostra l’archeologia, men che meno sotto il profilo religioso. Ma se il vescovo cattolico agrigentino - se vi fosse, chi questi fosse e che rilievo avesse, non si sa - ebbe a subirne una qualche conseguenza, un qualche riverbero dovette esservi sull’eventuale comunità cristiana racalmutese. Di certo, quando Genserico fu sconfitto ad Agrigento da Ricimero, conseguenze di quella guerra ebbero a ricadere sull’economia agricola di Racalmuto. Se crediamo a Sidonio Apollinare , Ricimero con quella vittoria poté ripristinare la coltivazione dei campi, e qui, a Racalmuto, lo sbandamento che le scorrerie di Genserico e dei suoi Vandali ciclicamente determinavano, si diradò per qualche tempo e quindi si ebbe prosperità con regolari raccolti granari e soddisfacenti vendemmie.

I Vandali dopo il 463 riescono, in qualche modo, a prendere possesso della Sicilia e la soggiogano sino all’anno in cui, caduto l’impero romano d’Occidente (476), Genserico la restituisce ad Odoacre: vicende queste riflessesi sulla plaga racalmutese con incidenze e modalità sinora del tutto ignote.

La Sicilia passa quindi, nel 491, ai Goti. Si è certi di un buon governo da parte di Teodorico. Vi sono, però, persecuzioni ariane contro i cattolici. Per i coloni di Racalmuto che cosa potesse significare tutto ciò va affidato a congetture più o meno fantasiose, in mancanza di fonti, non solo documentali, ma neppure archeologiche.

Il risvolto storico dei Goti a Racalmuto persiste sino al 535, allorché Belisario riesce a congiungere l’isola all’Impero d’Oriente: inizia la civiltà bizantina racalmutese che ebbe incidenze ben più rilevanti di quelle arabe, non foss’altro perché durò di più (quasi tre secoli contro i due e mezzo dell’insediamento berbero).

 

IL TEMPO DEI BIZANTINI



 

Attorno al VI secolo d.C. a Racalmuto si ebbe un discreto diffondersi della civiltà bizantina: ne è probante testimonianza il tesoretto di monete studiato dal Guillou. Aspetto singolare è il luogo del ritrovamento delle monete, dietro la Stazione Ferroviaria, in contrada Montagna. Ciò fa pensare che la zona fosse tutt’altro che disabitata. E dire che il centro abitativo più intenso era piuttosto lontano, ad un paio di chilometri circa, attorno alle Grotticelle.

Per Biagio Pace le Grotticelle erano un ipogeo cristiano. I Bizantini racalmutesi, ormai decisamente convertitisi al cristanesimo e sicuramente grecofoni (il fondo di lucerne del tempo colà rinvenute portano marchi in greco), curavano la loro cristiana sepoltura ed è un peccato che vandali locali abbiano frugato all’interno di quelle tombe, distruggendo un patrimonio archeologico che avrebbe avuto un’incommensurabile portata storica. Ma la zona resta pur sempre ricca di reperti e saranno gli scavi futuri a fornire materiale esplicativo di quel periodo storico, oggi affidato solo alle fantasie degli eruditi locali. (Invero neppure il Guillou è esaustivo ed il competente Griffo retrocede la datazione delle monete al V secolo: cosa inverosimile se le effigie degli imperatori bizantini sono di Tiberio II ed Eracleone, di oltre un secolo posteriori)

A seguito di una scoperta archeologica del 1990 in contrada Grotticelli le pubbliche autorità si sono per il momento limitate ad imporre un vincolo sul territorio interessato. Nel decreto della Regione Siciliana del 10 luglio 1991 viene sottolineata «la notevole importanza archeologica della zona denominata Grotticelle nel territorio di Racalmuto interessata da stanziamenti umani di epoca ellenistica-romano-imperiale, costituita da ingrottamenti artificiali ad arcosolio e da strutture murarie abitative affioranti». Non viene precisato altro. Tanto comunque è sufficiente a comprovare un più o meno vasto insediamento in quella zona a partire da un’epoca che per quello che abbiamo detto prima può farsi risalire ai tempi della caduta dell’impero romano.

L "ipogeo cristiano" di Biagio Pace si troverebbe in «quell'abitato prearabo che fa postulare il nome di Racalmuto». Nostre personali ricerche ci fanno pensare che l’abbaglio del grande archeologo poggerebbe su questo passo del Tinebra Martorana: «..alla contrada Grutticeddi esiste un poggetto di masso scavato in una grotta; da molti mi fu assicurato che in quella grotta furono rinvenuti dei sepolcri scavati nel masso con resti di ossa». Da qui - ad esser franchi - all'ipogeo cristiano ce ne corre. Una ipotesi dunque, ma tutt'altro che inattendibile come i recenti ritrovamenti nei dintorni sembrano comprovare. Di certo sappiamo che le Grotticelle erano una plaga abitata anche al tempo dei bizantini. Grotticelle e dintorni poterono dunque essere fattorie o pertinenze di 'massae' soggette al papa Gregorio nel VI secolo o alla chiesa di Ravenna oppure costituire beni propri della corte di Bisanzio. Sulla scia di autorevoli storici è pur congetturabile una sorta di continuità tra l'assetto agrario dell'epoca bizantina e quella della Sicilia post-araba. La frattura saracena a Racalmuto, come altrove, fu profonda ma non invalicabile.

L'ultimo reperto relativo a Racalmuto pre-arabo resta, tuttavia, il cennato ripostiglio di aurei imperiali (oltre duecento) rinvenuto casualmente in contrada Montagna. Sul ritrovamento delle monete a Racalmuto, ho sentito varie versioni pittoresche sin dalla prima infanzia: lavori di scasso per l'impianto di una vigna; scoperta del tesoro da parte di operai, tra i quali un contadino di non eccelse capacità intellettuali; rapacità del padrone del fondo; imprevista denuncia del minorato; intervento dei carabinieri e sequestro delle monete finite al Museo di Agrigento. A quel ripostiglio si riferisce André Guillou, secondo il quale è da collocare nei secoli VII-VIII il «numero notevole di tesori di monete ... dispersi nell'isola», tra i quali le monete di Racalmuto costituite da «205 pezzi, riferentisi a Tiberio II - Héracleonas». Quelle monete sono oggi custodite in una sala sempre chiusa del Museo Agrigento, quasi a simbolo del pubblico oscuramento della nostra antica storia locale. Se non fosse stato per il francese Guillou, le ultime vicende bizantine di Racalmuto sarebbero finite nell'oblio o inficiate da errori di datazione.

 



RACALMUTO, VILLAGGIO ARABO


Caduta Agrigento sotto gli Arabi (829), il più o meno fiorente villaggio bizantino di Casalvecchio fu inglobato dai berberi. Di congetture se ne possono formulare tante, di verità storiche solo flebili barlumi.

Che cosa ne fu di quelle abitazioni? Le attuali conoscenze archeologiche sono insufficienti per teorizzare alcunché. Sembra però probabile che i coloni un tempo colà dimoranti abbiano finito con l’abbandonare le loro case e spostarsi altrove.

E che può dirsi della religione? E’ opinione diffusa che gli Arabi fossero tolleranti, ma noi non sappiamo né di moschee né di chiese cristiane aperte al culto in quel tempo nella zona dell’intero altipiano. Ed in mancanza di documentazione siamo lasciati liberi di credere a quel che vogliamo e propendere per tesi di eclissamento della religione cattolica o di una sua sopravvivenza, come di un fiorire del culto islamico tra l’Est del Castelluccio ed i luoghi del tramonto sul crinale della Montagna, se non addirittura a riparo delle balate di Gargilata.

Siamo, in ogni caso, affascinati dai versi di Ibn HAMDIS e tifiamo per un grande rigoglio della civiltà araba qui da noi.

Pianse, invero, Ibn con accenti che toccano ancora il cuore dei racalmutesi di sangue arabo:.



«Ho riacquietato il mio animo quando ho visto la mia patria assuefarsi alla malattia mortale, fastidiosa.


«Che? Non l'hanno macchiata d'ignominia? Non hanno, mani cristiane, mutate le sue moschee in chiese,

«dove i frati picchiano a loro voglia, e fanno chiacchierare le campane mattina e sera?

«O Sicilia, o nobili città, vi ha tradite la sorte, voi che foste propugnacolo contro popoli possenti.

«Quanti occhi tra voi vegliano paventando, i quali un dì, sicuri dai Cristiani, traevano dolci sonni?

«Vedo la mia patria vilipesa dai Rùm [cristiani]; essa che in mano dei miei fu sì gloriosa e fiera.

«Aprirono con le loro spade i serrami di quel paese: splendeva esso di luce, e vi lasciarono le tenebre.

«Passeggiano nei paesi i cui cittadini giacciono sotterra: oh no, non hanno più paura di incontrarvi quei pugnaci leoni.»
Consolidatasi la conquista araba, a Racalmuto si stabiliscono i berberi, che per la maggior parte erano contadini venuti in cerca di terra, mentre gli invasori arabi erano soprattutto soldati che preferivano lasciar lavorare i cristiani per loro. Si era, dunque, superato il periodo eroico del gihàd ed il rappresentante dell’emiro in Sicilia assunse anche le funzioni amministrative. La sua autorità si estese su tutti gli abitanti dell’isola e cioè su un vero e proprio mosaico di razze e di religioni. Anche i musulmani erano di origine etnica la più disparata: arabi, berberi, spagnoli, locali convertiti. La restante popolazione, costituita da dhimmi, ossia locali non convertitisi all’Islam i quali, in cambio del pagamento di un tributo annuo fisso, avevano salva la vita e le proprietà, conservando libertà di religione e di culto.

Quanti erano i berberi e quanti i dhimmi a Racalmuto? E’ quesito per lo stato delle conoscenze senza risposta. Gli infedeli (i dhimmi) che per avventura avessero deciso di restarsene nei territori conquistati dovevano corrispondere la gizya ed il kharàj - imposta personale (o di capitazione) questa, fondiaria quella - inizialmente non distinte; ne erano esclusi gli indigenti, gli schiavi le donne, i vecchi ed i bambini.

Dopo neppure un quarantennio dalla conquista, scoppiò una contestazione che sicuramente coinvolse l’altipiano di Racalmuto. Lasciamo la parola ad un arabista del calibro di Rizzitano per tratteggiare questa congiuntura storica di grande risalto per le vicende arabe racalmutesi.

«In entrambe .. le classi sociali - in cui era divisa orizzontalmente la comunità dei sudditi dell’emiro - erano ben presto insorti malcontenti, rivalità e ribellioni anche violente. Le forti personalità e le doti eccezionali di Ibrahìm ibn Allàh e di Al-Abbàs ibn al-Fadl - ma soprattutto i ricchi bottini che questi due energici condottieri erano riusciti a conquistare - avevano temporaneamente appagato e tenute quiete le truppe. Tuttavia, non si era ancora concluso il quarto decennio della conquista, consolidatasi soprattutto nel settore centro-orientale, che già i musulmani davano qualche segno di cedimento e mostravano di sentirsi meno impegnati nell’ulteriore rafforzamento delle posizioni conquistate e nella partecipazione all’opera di sistemazione amministrativa del paese, più sensibili alle sollevazioni e ai disordini che elementi sobillatori cercavano di fomentare soprattutto nell’agrigentino. Qui prevaleva l’elemento berbero; ed è da ritenere che esso agisse in collusione con i bizantini ai danni degli arabi, per cui si riproponeva anche in Sicilia, e forse si esasperava quell’incompatibilità fra le due razze diverse che, in Ifìqiya, aveva già provocato - e continuava a provocare - non pochi e cruenti scontri. A tale proposito è da osservare che - fra i diversi gruppi etnici venuti in Sicilia con l’esercito di occupazione - i due gruppi più consistenti erano proprio quello arabo e quello berbero. Accomunati dalla fede, ma solo apparentemente fruenti di uguali condizioni sociali, gli arabi si erano sempre sentiti, in ogni circostanza, i padroni dei berberi, e sempre cedettero all’orgoglio di averli dominati fin dall’ormai remoto secolo VII, quando l’Islàm iniziò la conquista del Maghrib. Al tempo stesso i berberi, genti di antichissime tradizioni e ben noti per la loro fierezza, non tolleravano condizioni di subordinazione agli arabi, a cui fra l’altro si sentivano superiori per numero, industriosità e capacità soprattutto nel settore agricolo.

«Per quanto concerneva invece i dhimmi, questi erano soprattutto notabili locali, funzionari, proprietari terrieri, contadini commercianti. Anche fra loro il malcontento era assai vivo. Il carico fiscale che dovevano sostenere in cambio del loro statuto era sempre più pesante; oggetto di continue discriminazioni e vessazioni da parte dei musulmani, essi erano esposti più che mai agli umori del momento, all’opportunismo del principe, alle rappresaglie - spesso sanguinarie - da parte degli elementi musulmani più violenti e turbolenti - venuti in Sicilia immaginando di conquistarvi facili ricchezze. Ora che le campagne militari - rivelatesi più dure di quanto forse inizialmente supposto - fruttavano bottini minori, è chiaro che erano i dhimmi a dovere «pagare» l’irrequietezza di questi elementi musulmani. Tale era il contesto sociale siciliano alla morte di a-Abbàs.

«Pertanto a nuovo governatore - Khafagia ibn Sufyàn (862-869) - che era stato preceduto da altri due reggenti, rimasti in carica complessivamente un anno, s’impose il compito di eliminare, per quanto possibile, ogni motivo di dissidio, onde evitare che si trovasse pregiudicata la ripresa delle operazioni militari, avviate presumibilmente ad un anno di distanza dall’arrivo a Palermo di quel nuovo rappresentante dell’autorità aghlabita d’Ifrìqiya».

Non è questa la sede per dilungarsi sulle imprese militari a Siracusa, Ragusa, Noto e Scicli di Khafagia: ci interessa invece l’episodio narrato dall’Amari che per tanti versi investe la storia locale racalmutese. Siamo nell’anno 867 e «par che seguendo la costiera di mezzogiono - scrive l’Amari nella sua SMS - giugnessero i Musulmani presso Girgenti, avendo costretto a calarsi agli accordi il popolo di Ghirân, che io credo la terra di Grotte: e moltissime altre castella occuparono; finché il capitano infermo di malattia sì grave, che fu mestieri portarlo a Palermo in lettiga. Ma non andò guari che il rividero i Cristiani nel duegento cinquantatrè (10 gennaio a 30 dicembre 867) cavalcare i contadi di Siracusa e di Catania, distruggere le méssi, guastar le ville; mentre le gualdane ch’ei spiccava dal grosso dell’esercito depredavano ogni parte dell’isola. »

Elementi arabi, con intenti vessatori, si spandono nell’867 nelle campagne attorno a Grotte (investendo, quindi, anche il villaggio del nostro Casalvecchio) distruggendo, depredando, violentando. Avranno lasciato dietro di loro morte e desolazione. Se una qualche attendibilità - e noi la neghiamo del tutto - ha l’antica tradizione che vuole attribuire a Racalmuto il significato di «Paese morto», questa andrebbe collegata alla vicenda dell’867 che abbiamo richiamata. Solo se così inquadrata, può avere una qualche validità storica la dissertazione del Tinebra Martorana (v. pag. 33) sul villaggio chiamato dai «Saraceni .... Rahal-Maut, villaggio morto, distrutto [...]»

Amari ritiene che Grotte corrisponda alla fortezza di Ghîran sol perché Ghîran in arabo significa grotta o caverna. Ed allora perché non congetturare che si riferisca alla contrada di Racalmuto chiamata ancor oggi Grotticelle attorno a cui si spandeva un apprezzabile villaggio arabo-bizantino? o alle tante grotte che erano abitate sotto il Carmelo, nell’antico quartiere denominato in epoca post-sveva S. Margaritella? Ma tanto solo per rendere avvertiti della non perspicuità dell’argomento toponomastico dell’Amari.

Girgenti - dominio dei turbolenti berberi - si sollevò, ancora una volta, nel 937 contro il delegato, accusato di soprusi, che era stato distaccato da Sàlim in quel territorio. La comunità racalmutese dovette essere coinvolta in quei torbidi. I ribelli marciarono su Palermo ma furono sconfitti. Comunque i palermitani preferirono seguire le vie diplomatiche e fecero ricorso al califfo fatimita perché destituisse il governatore. Il nuovo governatore nel marzo del 938 riprese, però, le ostilità e mosse contro i ribelli girgentani, ma venne sconfitto. La rivolta finì con il propagarsi in tutto il Val di Mazara. Khalìl ibn Ishàq (937-941) - che era il nuovo reggente - reagì nella primavera del 939 e nel novembre del 940 riconquistò Girgenti, focolaio della sommossa, facendola capitolare per fame. Coinvolgimenti della comunità musulmana di Racalmuto vi furono senza dubbio, ma anche qui la nostra ignoranza dei fatti è totale.

Nell’estate del 948 viene a Palermo l’emiro al-Hasan ibn Ali (948-953), dell’antica dinastia del Kalbiti. Con lui ebbe inizio in Sicilia un emirato ereditario - salve sempre le forme dell’investitura califfale - protrattosi per oltre un secolo (dal 948 sino al 1053) che sembra contraddistinto da un più elevato livello di vita. Possiamo congetturare che anche l’insediamento musulmano racalmutese abbia beneficiato di tale favorevole congiuntura.

Ma attorno al 1065 si determina un momento di debolezza per gli arabi di Sicilia: sono diverse le famiglie che cercano di stabilire emirati indipendenti a Mazara, Girgenti e Siracusa. Finì che Ibn at-Tumnah ed altri musulmani di Siracusa e Catania s’indussero ad appoggiare i contrattacchi cristiani nel 1060-61, Per accordo col Guiscardo, la conquista della Sicilia toccò soprattutto a Ruggero d’Altavilla.

Chamuth fu l'ultimo emiro della dominazione araba del territorio tra Agrigento ed Enna. Egli venne vinto, ma non umiliato, dal conte Ruggero il normanno nel 1087. Si può anche ipotizzare che a Racalmuto vi fosse una fortezza, se non due, vuoi al Castelluccio, vuoi 'a lu Cannuni'. E 'Rahal' - che non vuol dire in arabo fortezza, castello, stazione, sibbene "comminare", "percorere" poteva pur essere una fortezza sotto il dominio di Chamuth, donde lattuale nome.

Conosciamo le gesta di Chamuth perché un benedettino normanno, che fu al seguito del conterraneo Ruggero, ce ne ha tramandato la memoria. Trattasi della cronaca del secolo XI del monaco Gaufredo Malaterra. Michele Amari non lo ebbe in grande stima, ma nel raccontare quegli eventi nella sua Storia dei Musulmani di Sicilia non fa altro che fargli eco. A nostra volta, trascriviamo quel passo di sapido stile ottocentesco. E' una pagina di storia che, in ogni caso, investe Racalmuto nel frangente della sconfitta araba ad opera dei predoni normanni.

«Il cauto normanno [il conte Ruggero] avea occupata Girgenti, - narra appunto Michele Amari - mentre i marinai italiani si apparecchiavano tuttavolta all'impresa di al-Mahdûyah. Sbrigatosi di Benavert nel 1086, radunava a dí primo aprile del 1087 le milizie feudali, volenterose e liete per la speranza di acquisto; e sí conduceale all'assedio di Girgenti. Ubbidiva allora Girgenti con Castrogiovanni e con tutto il paese di mezzo, a un rampollo della sacra schiatta di Alì, del ramo degli Idrisiti che avevano regnato un tempo nell'Affrica occidentale, e della casa de' Bamì Hammud, la quale tenne per poco il califato di Cordova (1015- 1027) indi i principati di Malaga e di Algeziras (1035-1057), ma cacciata dalla Spagna, andò cercando fortuna qua e là. Par che un uomo di codesta famiglia, passato in Sicilia, non sappiamo appunto in qual anno, abbia preso lo stato in quelle province, tra le guerre civili che si travagliarono coi figli di Tamîm; portato in alto non da propria virtù, ma dal nome illustre e dalle pazze vicende dell'anarchia. Chamut il suo nome, qual si legge nel Malaterra e ben risponde alla voce che a nostro modo si trascrive Hammûd.

«Il quale si rannicchiò tra sue rupi inaccesse di Castrogiovanni, mentre la moglie e i figlioli soggiornavano in Girgenti, e i Normanni circondavano la città, batteano le mura con lor macchine; tanto che occuparonla a dì venticinque luglio del medesimo anno. Ruggiero v'acconció fortissimo un castello, munito di torri, bastioni e fosso; lasciovvi buon presidio, e battendo la provincia, in breve ne ridusse undici castella: Platani, Muxaro, Guastarella, Sutera, Rahl, Bifara, Micolufa, Naro, Caltanissetta, Licata, Ravenusa; di talché occupava tutto il paese dalla foce del fiume Platani a quella del Salso ed a Caltanissetta, di che ei compose non guari dopo, con qualche aggiunta la Diocesi di Girgenti, ed or vi risponde tutt'intera la provincia di questo nome e parte della finitima di Caltanissetta. La moglie e i figlioli dell'Hammûdita caduti in suo potere, tenne Ruggiero in sicura e onorata custodia: pensando, così nota il Malaterra, che più agevolmente avrebbe tirato quel principe agli accordi, con servare la sua famiglia illesa da tutt'oltraggio.»

E’agevole intravedere nel racconto dell’Amari la fonte malaterrana. Spesso la pagina del grande storico è al riguardo una mera traduzione dal latino. Credo che Chamuth abbia avuto un qualche peso nelle vicende di Racalmuto ed è quindi non dispersivo soffermarsi su questo personaggio. Costui, caduto in un tranello dell'astuto Ruggero, per salvare moglie e figli, si arrende e si fa cristiano. «Chamut - precisa Malaterra - enim cum uxore et liberis christianus efficitur, hoc solo conventioni interposito, quod uxor sua, quae sibi quadam consanguinitatis linea conjungebatur, in posterum sibi non interdicetur». In altri termini, egli si fa cristiano con moglie e figli alla sola condizione che non gli fosse tolta la moglie, alla quale peraltro era legato da vincoli di parentela. Poi non gli resta che far fagotto per Mileto in Calabria. Un indice di come quei rudi normanni, guerrieri e bigotti, imponessero già la conversione agli arabi vinti. E qui siano in presenza di quelli nobili. Quelli ignobili e contadini - come dovettero essere i paesani dei castelli agrigentini conquistati - poterono forse risparmiarsi l'onta di una abiura religiosa. Ma restando musulmani furono ridotti ad una sorta di schiavitù, tartassata ed angariata. E tale sorte piansero per secoli gli antenati nostri di Racalmuto. «dimma, gesia [o gizia], agostale, aliama, algozirio, jocularia, angaria, cabella, secreto, bajulo, catapano, censo, terraggio, terraggiolo etc.», sono termini che sanno di tasse, soprusi, discriminazioni, angherie, iattanze, arroganza del potere. Sono la lingua degli uomini del potere che parlano forestiero ma si servono di disponibili figuri locali, ammessi alla loro congrega. E vicendevolmente si fanno da padrini nei battesimi, da compari nei matrimoni, amichevolmente ed in termini di accondiscendente familiarità, ma a danno e scorno degli altri, degli esclusi, del popolino basso e villano. Sono i nomi dell'impotenza, della rabbia e dello sfruttamento perduranti sino ai giorni nostri. E l'impareggiabile Sciascia ne coglie gli umori e i malumori quali si aggrumavano al Circolo della Concordia [rectius, Unione] negli anni cinquanta. Sono, infatti, godibili talune magistrali pagine di 'Le Parrocchie di Regalpetra'? (v. p. 60 e 61 e per quel che riguarda l'argomento, la pag. 17).

Il tremendo passaggio dalla libertà araba allo stato servile alle dipendenze di vescovi esattori, santi per i fatti loro eppure vessatori per il bene delle varie 'mense' della chiesa e del canonicato agrigentino, lo si intuisce, lo si può ricostruire ma non è documentabile se non con le poche righe del Malaterra.

A corto di notizie, Tinebra-Martorana ricorre alle imposture dell'Abate Vella - e Sciascia vi indulge con un benevolo sorriso - e alle invenzioni fantastiche di un ‘galantuomo’ della fine del secolo scorso, Serafino Messana. Nessuna verosimiglianza hanno le dicerie di un governatore di Rahal-Almut a nome Aabd-Aluhar, servo dell'emiro Elihir, diligente nel censimento del nostro fantomatico Racalmuto nell'anno 998; di una popolazione di 2095 anime [si pensi che nella seconda metà del XIV il solerte arcivescovo Du Mazel contava per la curia papale di Avignone non più di seicento anime nel nostro paese, abitanti in gran parte in case di paglia 'palearum']; e di tutte quelle altre patetiche elucubrazioni storiche del giovane aspirante medico Tinebra. Non sapremo mai dove don Serafino Messana abbia tratto gli spunti per il suo racconto fantasioso sui due giovani saraceni messisi a strenua difesa di Racalmuto nell'aggressione del gran conte Ruggero. Nulla di storico, dunque, in quelle pagine del Tinebra-Martorana, salvo le spigolature sulle tasse e sui 'dsimmi, mutuate acriticamente dal libro dell'avvocato agrigentino Picone.

I gravami, le violenze, le soggezioni, la morte, il pianto, la paura, l'ignominia dell'invasione di Racalmuto nell'XI secolo vi furono, ma solo l'immaginazione può ricostruire quelle scene di panico e distruzione. I cronisti del tempo o ebbero il compito di osannare il potente, come il Malaterra nei riguardi di Ruggero il Normanno, o erano poeti arabi di altri luoghi che non ebbero occasione di tramandare echi, rimpianti o cenni sulla devastata Racalmuto. Non abbiamo neppure il ricordo di quel nome antico. Solo il Racel del Malaterra, incerto e controverso.

Eppure, furono giorni funesti: i normanni - cavalieri nordici, possenti e biondi - erano famelici di vergini e di prede. La Racalmuto contadina poco bottino poté farsi levare; ma le vergini o le giovani mogli furono di certo ghermite da quei predatori dagli occhi cerulei e dai capelli chiari. Ed il misto di razze, di figli nerissimi e saraceni e di figli longilinei e di vezzoso colore, ebbe da allora inizio per durare fino ai nostri giorni, senza più alcun retaggio d’ignominia.

Michele Amari non ebbe in simpatia l’emiro Chamuth - quello a cui il padre gesuita Parisi collega il toponimo di Racalmuto - e lo descrive come fellone, vile e rinnegato. Prende spunto dal Malaterra, ma ne stravolge senso e giudizi:

«E veramente - scrive l'A. a pag. 178 della sua Storia dei Mussulmani - Ibn Hammud si vedea chiuso d'ogni banda in Castrogiovanni; occupata da' Cristiani tutta l'Isola, fuorché Noto e Butera; potersi differire, non evitar la caduta; né egli ambiva il martirio, né i pericoli della guerra, né pure i disagi della gloriosa povertà. Ruggiero fattosi un giorno con cento lance presso la rôcca, lo invitava ad abboccamento; egli scendea volentieri ed ascoltava senza raccapriccio i giri di parole che conducevano a due proposte: rendere Castrogiovanni e farsi cristiano. Dubbiò solo intorno il modo di compiere il tradimento e l'apostasia, senza rischio di lasciarci la pelle: alfine, trovato rimedio a questo, accomiatossi dal Conte, il quale se ne tornava tutto lieto a Girgenti. Né andò guari che il Normanno con fortissimo stuolo chetamente si avviava alla volta di Castrogiovanni; nascondeasi in luogo appostato già con musulmano; e questi fatti montar in sella i suoi cavalieri, traendosi dietro su per i muli quanta altra gente potè, quasi a tentar impresa di gran momento, uscì di Castrogiovanni, li menò diritto all'agguato. E que' fur tutti presi; egli accolto a braccia aperte. Allor muovono i Cristiani alla volta della città; la quale priva dei difensori più forti, si arrende a parte, e Ruggiero vi pone a suo modo castello e presidio. Ibn HAMMUD poi si battezzò, impetrato da' teologi del Conte di ritenere la moglie ch'era sua parente, né gradi permessi dal Corano, vietati dalla disciplina cattolica. Ma non tenendosi sicuro de' Mussulmani in Sicilia, né volendo che Ruggiero pur sospettasse di lui in caso di cospirazioni e tumulti, il cauto e vile 'Alida chiese di soggiornare in terra ferma; ebbe da Ruggiero certi poderi presso Mileto e quivi lungamente visse vita irreprensibile, dice lo storiografo normanno.»

Di quei cento lancieri al seguito di Ruggero per la consunzione di una resa proditoria e vile, quanti erano stati prima a Racalmuto (la Racel del Malaterra) a seminare terrore, violenza e morte? A Racel vi era forse un castello (o due: il Castelluccio e quello di piazza Castello); vi era, probabilmente, una guarnigione di berberi sognatori e disattenti; non erano eroici guerrieri e comunque erano pochi. Piombarono i cento lancieri di Ruggero da Girgenti, li soppressero e si sparsero per il casale e per le campagne a razziare e violentare. I lancieri erano soprattutto predoni.

L'Amari è aspro, come si è detto, nei giudizi contro il capo degli arabi, CHAMUTH, che invero bisogna pur capire avendo "famiglia": moglie e figli erano, infatti, in mano ai torbidi normanni. Il Malaterra, monaco benedettino, impantana ancor più la sua non chiara prosa per mettere un velo pudico alle insane voglie dei predatori suoi compaesani. Costa fatica al Conte Ruggero non far violare la sua eccellente prigioniera. E noi qualche dubbio l'abbiamo sull'effettivo successo dell'iniziativa del Normanno. I suoi sudditi erano irrefrenabili. Anche lui del resto si era già macchiato di molte ignominie, specie in gioventù. Il suo biografo ufficiale che pure è chiamato all'osanna del suo committente, ne sente tante a corte da inorridire, fors'anche per la sua mentalità claustrale. Ed allora nella sua cronaca si lascia andare a pesanti giudizi morali contro i suoi.

Quando, però, si tratta di cose militari, il candido monaco crede alle esagerazioni dei vecchi soldati del Conte. Le forze del nemico - naturalmente sconfitte - si accrescono a dismisura; quelle amiche e vittoriose si assottigliano contro ogni logica ed attendibilità. L'Amari, tutto preso dalla simpatia per i musulmani, sbotta e sentenzia che nelle cronache del monaco Malaterra, le cifre sulle forze musulmane vanno divise per otto ed, invece, vanno moltiplicate per otto le cifre che riguardano le forze normanne, quando vincono.

Eppure il Malaterra resta sempre cronista piuttosto attendibile, come dimostra il Pontieri. I tanti episodi cruciali della conquista della Sicilia da parte delle orde normanne, tra i quali quelli relativi all'assalto della fortezza di Racalmuto (o Racel), hanno una sola fonte storica che è la cronaca del Malaterra. Questo monaco non sempre è stato testimone oculare. Ormai avanti negli anni, è onorato ospite della corte di Ruggero il quale ormai si ammanta dei fregi regali, anche se non dismette il suo nomadismo ereditato dagli avi vichinghi. Ascolta, il monaco, le fanfaronate dei decrepiti veterani del Conte. Vantano ora i galloni di generali, si fanno chiamare baroni, si sono arricchiti, hanno possedimenti in Sicilia, ma restano i rudi vandali, incolti ed immorali, dell’avventuriera giovinezza.

Il Malaterra ode nefandezze che gli ispirano disagio morale. E' fervente cristiano, di buona cultura ecclesiastica. Scrive, esalta il Conte; indulge, però, al suo moralismo ed ama moraleggiare chiosando gli eventi con citazioni bibliche e religiose.

Abbiamo visto l'Amari irridere a Chamuth. Lo ha fatto alla luce degli incisi moraleggianti del Malaterra. Il giudizio va, però, corretto con una lettura più spassionata della cronaca del benedettino.

Per fare terra bruciata attorno al nostro Chamuth, tocca ad 11 castelli l'ignominia delle scorribande dei lancieri di Ruggero. Alla nostra Racalmuto è dato assaggiare le moleste attenzioni dei normanni, come ai citati e sicuri Platani, Naro, Guastanella, Sutera, Bifara, Caltanissetta e Licata o agli incerti Missar, Muclofe e Remise.

Se poi il Chamuth si arrese, non ci sembra proprio che tutto sia da imputare al suo essere un flaccido uomo d'armi. E se anche fosse stato, questo non ci pare un grande demerito.

Per gli storici arabi, le città di Chamuth sono costrette ad arrendersi per fame. E l'accenno arabo al crollo di Girgenti e Castrogiovanni ci convince molto di più delle ingenuità narrative del Malaterra o delle note prevenute dell'Amari. Del resto, se i cristiani avevano prima portato desolazioni nelle terre, tra cui Racalmuto, intercorrenti tra Agrigento ed Enna, avevano poi tagliato i viveri a Chamuth e la sua resa fu inevitabile.


* * *

 
Da tempo gli eruditi locali hanno tentato di colmare i vuoti storici del fascinoso periodo arabo racalmutese con ipotesi, presunte tradizioni, fantasticherie. La silloge più completa si rinviene nel lavoro di Eugenio Napoleone Messana. Spigolando a pag. 35 e segg. di quel suo libro - che dileggiarlo si può, ma ignorarlo, no - apprendiamo che vi fu una tradizione riportata da un non precisato cultore di storie sacre che avvalorava l’esistenza di una moschea a Casalvecchio che sarebbe stata riconsacrata all’Arcangelo. Secondo presunte memorie popolari racalmutesi, l’ultimo arabo che lasciò il Castelluccio (Al ’Minsar), non portò con sé il tesoro ma ve lo lasciò seppellito. Al Raffo - toponimo ritenuto arabo - vagherebbero di notte «li signureddi cu l’aranci d’oro»: «nelle notti di luna, se dopo un temporale succede la schiarita, escono gli incantesimi ed offrono arance d’oro a chi va ad attingere acqua alla sorgente omonima, ma chi tocca le arance però impazzisce.» E naturalmente trattasi di fantasmi "arabi".

 



I Normanni a Racalmuto



Conquistata Agrigento nel 1087, i lancieri di Ruggero d’Altavilla si impadroniscono di tutto il terrirorio limitrofo sino ad Enna. Racalmuto viene dunque liberata - si suol dire - dalla schiavitù islamica per divenire pia terra agli ordini dei vescovi di Agrigento. Dopo l’obbrobrio dell’islamica sudditanza, durata quasi due secoli e mezzo, si ha la normanna restituzione alla veridica religione del Cristo. I normanni giungono a Racalmuto per un ritorno al cristanesimo.

Ma chi erano questi normanni?

Il giudizio storico moderno resta ancora contraddittorio e, spesso, prevenuto. A seconda delle ascendenze razziali e delle convinzioni religiose, questi uomini del Nord - provenienti dalla Scandinavia e dalla Danimarca ed attestatisi per quasi un secolo nelle terre di Normandia in Francia - vengono ora dileggiati per il loro essere degli avventurieri e dei saccheggiatori, ora esaltati per il loro maschio rinvigorimento delle popolazioni latine cadute in mani bizantine o peggio saracene. Va da sé che i normanni avventuratisi in Sicilia per liberarla dal giogo infedele hanno avuto il possente encomio della letteratura confessionale. A dire il vero, in tempi molto postumi. In vita, il conte Ruggero ebbe con i papi atteggiamenti di distacco con punte di indifferenza, patteggiando e pretendendo benefici e concessioni come, ad esempio, i poteri di 'legato apostolico'. Sorge la famosa "legazia" che qualche spregiudicato religioso sembra, a dire il vero, avere inventato in tempi smaccatamente postumi. In proposito Benedetto Croce non mancò di avere espressioni pungenti. «La Legazia apostolica - scrisse - dava alla persona del re di Sicilia diritti ecclesiastici paragonabili solo a quelli dello Czar in Russia sulla Chiesa ortodossa.»

L'Amari, si è visto, parteggia per gli arabi ed avversa i normanni, almeno quelli della prima ora. Poi, sarà per la poderosa personalità di Ruggero II. Il Pontieri, nella elegante premessa alla revisione del testo del Malaterra di cui in precedenza, esprime giudizi equanimi. Denis Mack Smith nella sua Storia della Sicilia Medievale e Moderna non è molto tenero con i Normanni: li chiama «avventurieri provenienti dalla Normandia francese che si guadagnavano da vivere con profitto come soldati di mestiere nell'Italia del sud. Alcuni di questi erano semplici mercenari; altri preferivano la vita di capo brigante e depredavano i mercanti, rubavano il bestiame e infliggevano terribili devastazioni come combattenti salariati, cambiando parte a volontà, o persino combattendo per entrambe le parti contemporaneamente. Bisanzio ne assunse alcuni per la spedizione di Maniace in Sicilia; talvolta, con l'incoraggiamento del papa, attaccavano i cristiani greci dell'Italia meridionale; e talvolta, trovavano più vantaggioso fare incursioni negli Stati Pontifici». Di Ruggero, lo Smith dice cose elogiative ma con qualche tono di scherno inglese. Geniale «sia nei combattimenti, sia nell'amministrazione», viene giudicato il conte normanno. Ma la velenosa aggiunta tende a descrivercelo come colui che «con spietati saccheggi [accumulò] quelle ricchezze su cui sarebbe stata edificata una famosa dinastia».

* * *

Che cosa ne è stato della Sicilia musulmana? di Racalmuto saracena? Gli storici indulgono troppo sulla grandezza della Sicilia normanna e non si curano abbastanza delle sofferenze e della prostrazione dei popoli indigeni, dei nostri antenati in definitiva. La tragedia di quella conquista normanna ai danni dei saraceni (quali erano gli abitanti della Racalmuto di allora) non ha avuto rogatori e fonti storiche. Supplisce il poeta. Ibn Hamdis ha pianto anche per noi racalmutesi, almeno quelli che vantiamo sangue arabo nelle vene. Sciascia in testa. «Sciascia è un cognome propriamente arabo .. Dunque il mio è un cognome diffusissimo nel mondo arabo, in Sicilia e persino in Puglia dove Federico II deportò tanti arabo-siculi.»

* * *

Dopo i primi cedimenti il Granconte Ruggero si avviò verso un potere unitario ed una sovranità personale. La tendenza a dilatare il demanio pubblico prevalse. Ma Racalmuto, come altre terre profondamente intrise di islamismo, sembrò sottrarsi sia al fenomeno normanno del feudalesimo sia a quello accentratore e demaniale dell'Altavilla. Se feudo divenne, ciò maturò qualche tempo dopo. Crediamo che nei primi decenni del XII secolo, ai tempi del geografo arabo EDRISI, l’abitato di Racalmuto fosse ancora in mano degli indigeni saraceni, addetti all'agricoltura ed abili nelle colture arboree e negli ortaggi. Per quello che diremo dopo, il nostro paese è forse da collegare alla località GARDUTAH di Edrisi che era appunto «un grosso casale e luogo popolato; con orti e molti alberi e terreni da seminare ben coltivati.»

Gli storici stanno ritornando sul controverso tema dei rapporti tra Ruggero e il papato. Il risultato è quello di rinverdire più che dissolvere i dubbi sui tanti diplomi a vantaggio di chiese e conventi che puzzano di falso e di manipolazione. Anche l'attribuzione della stessa LEGAZIA APOSTOLICA desta nuove perplessità.



Del resto in Sicilia, mancava da tempo ogni forma di organizzazione della Chiesa. Il suo quadro religioso era diverso da quello in cui gli Altavilla erano abituati ad operare. La religione cristiana di rito latino era pressoché inesistente. A Racalmuto praticavano - solo o in maggioranza, ci è ignoto - la religione islamica. Qualche residuo cristiano poteva esserci ad Agrigento e comunque era di rito greco. Qualcosa vi era a Palermo, la cui chiesa episcopale era relegata ad una stamberga.



Ruggero in un primo tempo si mise a favorire i monasteri greci, talora rifondandoli, qualche volta dotandoli di beni. Si rese, però, subito conto che ciò non bastava. Era di fronte ad una chiesa di frontiera, lui in fondo laico. Bisognava avviare un «processo portatore di scelte di fondo capaci di dar vita, in termini che superassero i limiti gravi e le insufficienze accumulati in secoli di preminenza musulmana, a funzionali e organiche strutture ecclesiastiche. Le sole in grado di coordinare le manifestazioni di pratiche religiose e quindi di vita quotidiana della gente e di riconfermare e rendere operativa l'alleanza fra Chiesa e politica che affidava un ruolo di protagonista agli Altavilla e rappresentava un dato strutturale della società normanna.»

Ruggero non ebbe certo tra le sue preoccupazioni l'evangelizzazione del popolo conquistato. Subordinarlo a vescovi di sua fiducia, fu idea politica e perspicace. Una religione di Stato, cristiana ma non unica, serviva al suo progetto politico e forniva in definitiva un apparente rispetto degli accordi di Melfi col papa latino. Le preoccupazioni politiche erano ad ogni modo preminenti. Istituire diocesi ma mettervi a capo uomini di fiducia, allogeni, chiamati dalla natia Normandia, fu - ripetiamo - il taglio adottato da Ruggero nella instaurazione della Chiesa di Roma nelle terre della Sicilia musulmana. Così il Normanno fondò i vescovati di Troina, Agrigento, Catania, Mazara e di altre città isolane.

Un casale quale Racalmuto, periferico ed ancora tutto saraceno, nulla ebbe ad avvertire della rivoluzione religiosa messa in atto da Ruggero. Dubitiamo persino che ebbe notizia di essere incluso nelle pertinenze della neo diocesi di Agrigento, affidata al vescovo francese Gerlando. Nell'anno 1092, dopo cinque anni dalla conquista del territorio di Racalmuto da parte normanna, giunge, dunque, ad Agrigento il novello vescovo Gerlando. I confini della diocesi sono stati definiti da Ruggero in persona. Il documento, in latino, può così tradursi:

«Io, Ruggiero, ho istituito nella conquistata Sicilia le sedi vescovili, di cui una è quella di Agrigento al cui soglio episcopale viene chiamato GERLANDO. Assegno alla sua giurisdizione quanto rientra nei seguenti confini: da dove sorge il fiume di Corleone fin su Pietra di Zineth [Pietralonga]; indi sino ai confini di Iatina [Iato] e Cefala [Cefaladiana] e quindi ai limiti di Vicari; indi fino al fiume Salso, che costituisce il discrimine tra Palermo e Termine, e dalla foce di questo fiume là dove cade in mare si estende questa diocesi lungo il mare sino al fiume Torto; e da qui, da dove sorge, si estende verso Pira, sotto Petralia; quindi sino al monte alto [Pizzo di Corvo] che trovasi sopra Pira; poi verso il fiume Salso, nel punto in cui si congiunge con il fiume di Petralia e da questo punto i confini della diocesi seguono il corso del fiume Salso sino a Limpiade (Licata). Questa località divide Agrigento da Butera. Lungo la costa i confini della diocesi corrono dal Licata sino al fiume Belice, che costituisce i confini con Mazara, e da qui raggiungono Corleone, da dove inizia la delimitazione, che ad ogni modo esclude Vicari, Corleone e Termini.»

Se il lettore è stato paziente nel seguire lo zig zag dei confini avrà subito colto che Racalmuto, quale centro al di qua del Salso, venne in quella bolla assegnato a GERLANDO, un vescovo santo ma sempre un padrone, un feudatario.

Per esser, comunque, normanno, venne descritto dalla pur tardiva storiografia secondo il consunto stereotipo di uomo di nobile prosapia, bello, alto, biondo e di gentile aspetto. Tale versione risale al secentesco Pirro ed il Picone la riecheggia con questi tratti descrittivi: «Gerlando, quel sant'uomo, nato in Besansone, città della Borgogna, di copiosa dottrina fornito, eruditissimo nelle chiesastiche discipline ed eloquentissimo, trasse alla fede gran numero di Ebrei e di Musulmani.[p. 454]»

I padri bollandisti ci appaiono più circospetti. In base alle loro attente letture dei vari 'privilegi' escludono che Gerlando fosse il gran cappellano del conte Ruggero, carica che fu di GEROLDO, e quanto al resto si rifanno alle postume storie del FAZELLO e del PIRRO.

I privilegi, che, in parte, abbiamo anche citato e che riguardano il vescovo Gerlando, sono postumi e secondo l'ultima critica paleografica del COLLURA risalgono per lo meno alla seconda metà del sec. XII. Quattro tra i primi sei più antichi documenti della Cattedrale di Agrigento accennano a tale vescovo di nome Gregorio e sulla sua esistenza storica non sembra lecito nutrire dubbi.

Il personaggio non è dunque inventato e questo è già molto. E il vescovo ebbe subito fama di santità, come può arguirsi dal Libellus custodito nello stesso Archivio Capitolare ove si parla dell'anima benedetta del beato Gerlando che, discioltasi dalla umana carne, ebbe a riposarsi nel Signore «beati Gerlandi anima, carne soluta, quievit in Domino».

Quello che, invece, lascia increduli noi laici è quella sua facondia trascinatrice di Ebrei e Musulmani. Nell'agrigentino - ed a Racalmuto per quel che ci riguarda - si parlava da secoli arabo e solo arabo. Forse residuava un uso del greco nei ceppi più tenaci. Questo vescovo borgognone che chissà quale lingua parlava (pensiamo a quella natìa di Normandia e magari masticava di latino) dovette disperarsi nel cercare di capire i suoi sudditi che, come ancor oggi si dice, parlavan turco, di certo, per lui, incomprensibilmente. E le sue prediche inventate dal Pirro, se davvero vi furono, dovettero lasciare di stucco i 'fedeli' musulmani.

Eppure nella favola della facondia salvifica del vescovo normanno in mezzo ai saraceni dell'agrigentino un nucleo di verità deve pur esservi: forse GERLANDO ebbe qualche successo nello stabilire un certo colloquio con i potentati locali di lingua araba. In particolare fu forse capace di chiamare scribi e letterati poliglotti che poterono stabilire alcuni contatti, specie di natura diplomatica e notarile. Di certo Agrigento era divenuta cosmopolita. Il primo documento dell'Archivio Capitolare di Agrigento (1° settembre - 24 dicembre 1092) - una falsificazione in forma originale, secondo il Collura - accenna a nobilati francesi già presenti in Agrigento, a concanonici che officiano in una chiesa dedicata a S. Maria, a parenti francesi da beneficiare con diciassette villani, due paia di buoi ed un cavallo. Su tutto vigila il vescovo Gerlando, mandato da un ROGERIUS che ci avrebbe redento da 'demonicis ... ritibus' da riti demoniaci (che pure era la grande religione di Allah). Emerge il nome di un francese: Pietro de Mortain (nell'originale, invero, Petrus Maurituniacus). Vi è un teste: Pagano de Giorgis ma scritto con una gamma greca nel bel mezzo della grafia latina. Principalmente, a colpirci, è il richiamo allo strumento giuridico del PRIVILEGIUM che viene firmato in presenza di testi e davanti ad un vero e proprio notaio 'Rosperto notarius'. Al vescovo Gerlando viene riconosciuta 'probitas', probità, ed il suo consiglio viene giudicato 'justus'. Francesi, notai, prebende ecclesiastiche, canonici, vescovi probi ed assennati, ma anche interessati alle cose terrene, tutto il mondo della burocrazia ecclesiastica romana vi traspare, ed era passato appena un quinquennio dalla conquista normanna sui saraceni, che ora sono, come si è visto, villani, schiavi ed oggetto di pii legati.

 
AL TEMPO DEI NORMANNI E DEGLI SVEVI
 

Ruggero il Normanno tiene saldamente in mano l’intera diocesi di Agrigento sino alla sua morte, avvenuta nel 1091. Racalmuto non esiste ancora: solo, nei pressi, due centri appaiono di una qualche consistenza, Gardutah e Minsar. Ci pare di poter sospettare che il primo si trovasse nel circondario di Naro; il secondo andrebbe identificato in un feudo nel territorio di Bompensiere, a meno che non si tratti di Gargilata come recentissimi ritrovamenti cominciano a far pensare. Nelle precedenti pagine abbiamo illustrato quanto la coeva letteratura ci ha tramandato: resta l’amaro in bocca di non potere fantasticare su un casale corrispondente a Racalmuto, prospero o derelitto sotto i Normanni. Anche la incrollabile tradizione di una chiesetta dedita a Santa Maria fatta costruire da un locale barone, il Malconvenant, crolla al primo impatto con una critica storica appena avvertita.

Quando le campagne di scavi e le ricerche archeologiche nel nostro territorio metteranno alla luce i resti di quegli insediamenti medievali, potranno aversi elementi per una chiarificazione e per il dilaceramento del fitto buio che oggi ci angustia.

Non andiamo molto lontani dalla realtà se affermiamo che con la conquista normanna s’inverte la sopraffazione dei locali "villani": prima erano i berberi a dominare i bizantini; ora sono i normanni a sfruttare gli arabi, che vengono denominati saraceni. Esistesse o meno una terra fortificata di nome Racel (ad utilizzare le cronache del Malaterra), per Racalmuto fu il tempo del villanaggio saraceno che durò sino al greve riordino sociale di Federico II. Che cosa è stato il "villanaggio"? Non è questa la sede per spiegare l’istituzione contadina che vedeva il subalterno colono come una "res" del "dominus", quasi alla stregua di uno schiavo. (Vedansi, da parte di chi ne voglia sapere di più, gli studi di I. Peri). Contadini islamici, miseri e schiavi da una parte; padroni cristiani, lontani e socialmente insensibili, dall’altra. L’istituzione di un beneficio a favore di canonici agrigentini, mai racalmutesi, con le decime del feudo facente capo ad un falso diploma del 1108 (non foss’altro perché non si riferiva a Racalmuto), svela i misteri della colonizzazione di nuove terre sotto i Normanni. Tanto avvenne per il beneficio di Santa Margherita, che per l’avallo del Pirri, costituì poi la saga della nostra chiesa di Santa Maria di Gesù.

I saraceni si ribellarono in modo devastante negli anni venti del 1200. Federico II li represse, deportandoli in Puglia. Racalmuto diventa deserta. Tocca a tal Federico Musca farvi fiorire un nuovo casale. Nel 1271 le testimonianze sulla vita e le vicende del risorto centro urbano cominciano ad avere dignità di fonti documentali. Sotto il Vespro, la terra è Universitas così bene organizzata che il nuovo padrone aragonese Pietro può esigere tasse ed armamenti, demandando ai locali sindaci l’ingrato compito esattoriale, persino con la vessatoria condizione di doverne rispondere con il proprio patrimonio in caso di insolvenza. Una sorta di ‘solve et repete’ ante litteram.

La cattolicissima Spagna esordiva con spirito depredatorio nel regno che gli era stato regalato da taluni maggiorenti siciliani. E così anche la ‘meschinella’ Racalmuto iniziava a pagarne lo scotto. Roma, il papato, dissentiva. Sarà questa una scusa buona per esigere dai fedeli di Racalmuto, che nel 1375 abitano in case coperte di paglia, una tassa pesante onde liberarsi dell’antico interdetto, che secondo il nuovo padrone feudale Manfredi Chiaramonte era la causa della ‘mala epitimia’ distruttrice di uomini e cose.

 



FEDERICO II CHIARAMONTE ALLA CONQUISTA DI RACALMUTO - L’EREDITA’ DEI DEL CARRETTO



I Chiaramonte si sono impossessati di Racalmuto all’inizio del secolo XIII. Federico Chiaramonte - un cadetto della famiglia - aveva fatto costruire, secondo il Fazello, nel primo decennio del Duecento, l’attuale fortezza, forse una, forse tutte e due le torri oggi esistenti. Il territorio era divenuto ‘terra et castrum Racalmuti’. Vi giunsero preti e monaci forestieri. Nel 1308 e nel 1310 costoro vennero tassati dal lontano papa: un piccolo prelievo - si dirà - dalle pingue rendite che un prete ed un monaco riuscivano a cavare dai poveri coloni infeudati dai Chiaramonte. Sono ad ogni modo pagine non gloriose della storia ecclesiastica racalmutese.

Nel 1392 giunge in Sicilia il duca di Montblanc. E’ un cinico, infido, ma astuto e determinato personaggio, protagonista in Sicilia ed in Spagna di grandi svolte storiche. Martino, secondogenito di Pietro IV e duca di Montblanc, viene dagli storici siciliani indicato come Martino il vecchio; ebbe la ventura non comune - scrive Santi Corrente - di succedere al proprio figlio sul trono di Sicilia. Resta l’artefice della sconcertante condanna a morte del vicario ribelle Andrea Chiaramonte, e non cessò di combattere la nobiltà siciliana, salvo a remunerarla oltremisura appena ciò gli fosse tornato utile.

Ne approfitta Matteo del Carretto per farsi riconoscere il titolo di barone di Racalmuto, naturalmente a pagamento. L’intrigo della genesi della baronia di Racalmuto dei Del Carretto è tuttora scarsamente inverato dagli storici.

All’inizio del secolo XIII un marchese di Finale e di Savona - a quanto pare titolare di quel marchesato solo per un terzo - scende in Sicilia e sposa la figlia di Federico Chiaramonte, Costanza. Ha appena il tempo di averne un figlio cui si dà il suo stesso nome, Antonio, e muore. La vedeva convola, quindi, a nozze con un altro ligure, il genovese Brancaleone Doria - un personaggio che Dante colloca nell’Inferno - e ne ha diversi figli, tra cui Matteo Doria che morrà senza prole: costui pare che abbia lasciato i suoi beni (in tutto o in parte, non si sa) agli eredi del suo fratellastro Antonio del Carretto.

Antonio frattanto si era trasferito a Genova. Aveva procreato vari figli, tra cui Gerardo e Matteo. Matteo, in età alquanto matura, scende in Sicilia: rivendica i beni dotali di Agrigento, Palermo, Siculiana e soprattutto Racalmuto. Parteggia ora per i Chiaramonte ora per Martino, duca di Montblanc ed alla fine gli torna comodo passare integralmente dalla parte dell’Aragonese. In cambio ne ottiene il riconoscimento della baronia. Certo dovrà vedersela con le remore del diritto feudale. Inventa un negozio giuridico transattivo con il fratello primogenito Gerardo, che se ne sta a Genova, ove ha cointeressenze in compagnie di navigazione, e finge di acquistare l’intera proprietà della "terra et castrum Racalmuti".

Martino il vecchio si rende subito conto del senso e della portata dell’istituto tutto siculo della cosiddetta Legazia Apostolica. Deteneva il beneficio racalmutese di Santa Margherita l’estraneo canonico "Tommaso de Manglono, nostro ribelle al tempo della secessione contro le nostre benignità" - come scrive Martino da Siracusa, l’anno del Signore VII^ Ind. 1398. Quel beneficio gli viene tolto per essere assegnato ad un altro estraneo "al reverendo padre Gerardo de Fino arciprete della terra di Paternò, cappellano della nostra regia cappella, predicatore e familiare nostro devoto". Altra ignominia della storia ecclesiastica racalmutese.

 

 

 

 

 

GIBILLINI



Feudo, Racalmuto, lo fu parzialmente. A fine del ‘600 la sua dimensione era di 705 salme, 15 tumoli, tre mondelli e due quarte, tra area urbana e quella villica. Ce lo dice l’ultimo conte del Carretto, Girolamo, quello sopravvissuto al figlio Giuseppe, in un atto giudiziario che tra l’altro recita:

«Item ponit et probare intendit non se tamen obstringens etc. qualmente il fegho nominato di Racalmuto sito e posto in questo Regno di Sicilia nel Val di Mazzara consistente in salme setticentocinque tummina quindeci, mondelli tre e quarti dui cioè in salme seicento cinquantadue, tummina undeci e mondelli uno di terre lavorative e salme cinquanta trè, tummina dui e mondelli dui di terre rampanti, valloni, trazzeri ed altri inclusi in dette salme cinquanta tre, tummina dui e mondelli dui, salme undeci di terra nel circuito, delle quali e sita e posta la terra [134] che tiene il nome da detto fegho è posto in menzo delli feghi nominati:


delli Gibillini e feghi

delli Cometi;

e fegho delli Bigini;

del fegho di Zalora;

del fegho di Scintilìa;

del stato e ducato delli Grotti;

del fegho e principato di Campofranco;

e fegho della Ciumicìa

e altri confini quale olim tennero e possiderono la quondam Constanza Claramonte ed Antonio del Carretto e Chiaramonte e doppo Mattheo del Carretto come veri signori e padroni ed al presente e de presenti parte di detto fegho come sopra situato e confinato lo tiene e tossiede l’illustre don geronimo del Carretto e Branciforte come vero signore e padrone per la forma dell’antichi privileggij et altre scritture stante che il remanente si ritrova licet nulliter et indebité dismembrato e diviso da detto fegho di Racalmuto come il tutto fù ed è la verità notorio e fama publica et nihilominus dicant testes quicquid sciunt, sentiunt, viderunt vel audiverunt etiam extra capitulum ad intensionem producentis et - - -
Item ponit et probare intendit non se tamen obstringens etc. qualmente le contrate nominate di Bovo seu Montagna, Pinnavaira, della Rina seu Scavo Morto, della Difisa, Jacuzzo, Zimmulù, Caliato, Serrone, Pietravella, Saracino seu Molino dell’Arco, menziarati e Culmitelli sono delli membri e pertinenze del fegho e stato di Racalmuto ed intra li limini e confini di detto fegho di Racalmuto come sopra stimato e confinato conforme fù ed è la verità, notorio e fama publica et nihilominus dicant testes quicquid sciunt, sentiunt, viderunt vel audiverunt etiam extra capitulum ad intensionem producentis et - - - ».

Emerge come il feudo di Gibillini sia cosa ben diversa dalla contea racalmutese. Per Gibillini, s’intende il territorio degradante tutt’intorno al castello - oggi denominato Castelluccio - e non soltanto la contrada della omonima miniera, che forse un tempo non faceva neppure parte di quella terra feudale.

Il primo accenno storico a Gibillini risale al 21 aprile 1358 ; il diplomatista così sintetizza il documento che non ritiene di pubblicare:

«Il Re concede al milite Bernardo de Podiovirid e ai suoi eredi il castello de GIBILINIS, vicino il casale di Racalmuto e prossimo al feudo Buttiyusu [feudo posto vicino SUTERA n.d.r.], già appartenuto al defunto conte SIMONE di CHIAROMONTE traditore, insieme a vassalli, territori, erbaggi ed altri dritti; e ciò specialmente perchè il detto Bernardo si propone a sue spese di recuperare dalle mani dei nemici il detto castello e conservarlo sotto la regia fedeltà: riservandosi il Re di emettere il debito privilegio, dopoché il castello sarà ricuperato come sopra.»

Pare che Bernardo de Podiovirid non sia riuscito a prendere possesso di Gibillini: il feudo ritorna prontamente in mano dei Chiaramonte. Simone Chiaramonte è personaggio ben noto e fu protagonista di tanti eventi a cavallo della metà del XIV secolo. Michele da Piazza lo cita varie volte. Il fiero conte ebbe a dire recisamente a re Ludovico «prius mori eligimus, quam in potestatem et iurisdictionem incidere catalanorum»: preferiamo morire anziché finire sotto il potere e la legge dei catalani. Mera protesta, però; il Chiaramonte è costretto a fuggire in esilio presso gli angioini. Scoppia la guerra siculo-angioina che si regge sull’apporto dei traditori. Secondo Michele da Piazza, i chiaramontani, non contenti né soddisfatti di tanta immensa strage, da loro inferta ai siciliani, si rivolsero agli antichi nemici della Sicilia per spogliare dello scettro re Ludovico.

Nel marzo del 1354 i primi rinforzi angioini pervennero a Palermo e Siracusa. In tale frangente fame e carestia si ebbero improvvise in Sicilia, favorendo gli invasori. Ne approfittò Simone Chiaramonte "capo della setta degl’italiani - secondo quel che narra Matteo Villani - [promettendo] ai suoi soccorso di vittuaglia e forte braccia alla loro difesa: i popoli per l’inopia gli assentirono". Prosegue Giunta «queste premesse spiegano il rapido inizio dell’impresa dell’Acciaioli, il quale accanto a 100 cavalieri, 400 fanti, sei galere, due panfani e tre navi da carico, si presentò "con trenta barche grosse cariche di grano e d’altra vittuaglia", sì da ottenere festose accoglienze da parte dei Palermitani "che per fame più non aveano vita", nonché il rapido dilagare della insurrezione a Siracusa, Agrigento, Licata, Marsala, Enna "e molte altre terre e castella"». Tra le quali possiamo includere tranquillamente Racalmuto e Gibillini.

Simone Chiaramonte muore a Messina avvelenato nel 1356, un paio d’anni prima del citato documento. Ma da lì a pochi anni, Federico IV, detto il Semplice riuscì a riconciliarsi con i Chiaramonte e nel febbraio del 1360 accordava un privilegio tutto in favore di Federico della casa chiaramontana.

Il feudo di Gibillini appare sufficientemente descritto nell’opera del San Martino de Spucches . Secondo l’araldista il feudo di Gibillini, quello di Val Mazara, territorio di Naro, da non confondersi con l’altro ancor oggi chiamato di Gibellina, appartenne, "per antico possesso" alla famiglia Chiaramonte. Fu Manfredi Chiaramonte a costruirvi la fortezza, quella che ora è denominata Castelluccio. L’ultimo della famiglia a possedere il feudo fu Andrea Chiaramonte, quello che, dichiarato fellone, ebbe la testa tagliata a Palermo nel giugno del 1392, nel palazzo di sua proprietà, lo Steri.

Re Martino e la regina Maria insediarono quindi Guglielmo Raimondo Moncada, conte di Caltanissetta. Il feudo divenne ereditario, iure francorum, con obbligo di servizio militare e cioè con due privilegi, il primo dato in Catania a 28 gennaio 1392 (registrato in Cancelleria nel libro 1392 a foglio 221) ; col secondo diploma, dato ad Alcamo, li 4 aprile 1392 e registrato in Cancelleria nel libro 1392 a foglio 183, fu dichiarato consanguineo dei sovrani, ebbe concessi tutti i beni stabili e feudali, senza vassalli, posseduti da Manfredi ed Andrea Chiaramonte, dai loro parenti e dal C.te Artale Alagona, beni siti in Val di Mazara, eccetto il palazzo dello Steri ed il fondo di S. Erasmo e pochi altri beni. Nel 1397 ad opera del cardinale Pietro Serra, vescovo di Catania e di Francesco Lagorrica, il Moncada fu deferito come reo di alto tradimento, avanti la gran Corte, congregata in Catania; ivi con sentenza 16 novembre 1397 fu dichiarato fellone e reo di lesa maestà ed ebbe confiscati tutti i beni. Morì di dolore nel 1398.

Subentrò Filippo de Marino, fedelissimo vassallo del Re (1398); non abbiamo la data precisa della concessione; per quel che vale il de Marino figura possessore del feudo di Gibillini nel ruolo del 1408 dello pseudo Muscia.

Il feudo pervenne successivamente a Gaspare de Marinis, forse figlio, forse parente. Da questi, passa al figlio Giosué de Marinis che ne acquisì l’investitura il 1° aprile 1493 more francorum, per passare quindi a Pietro Ponzio de Marinis, investitosene il 16 gennaio 1511 per la morte del padre e come suo primogenito. Costui sposò Rosaria Moncada che portò in dote i feudi di Calastuppa, Milici, Galassi e Cicutanova, membri della Contea di Caltanissetta, come risulta dall'investitura presa dalle figlie Giovanna e Maria il 22 settembre 1554 (R. Cancelleria, III Indizione f.96).

Succede Giovanna De Marinis e Telles, moglie di Ferdinando De Silva, M.se di Favara con investitura del 15 gennaio 1561, come primogenita e per la morte di Pietro Ponzio suddetto (Ufficio del Protonotaro, processo investiture libro 1560 f. 271).

 

Maria De Marinis Moncada s'investì di Gibillini il 26 dicembre 1568, per donazione e refuta fattale da Giovanna suddetta, sua sorella (Ufficio del Protonotaro, XII Indiz. f.479) .

Beatrice De Marino e Sances de Luna s'investì di due terzi del feudo il 17 ottobre 1600, per la morte di Alonso de Sanchez suo marito, che se l'aggiudicò dalla suddetta Giovanna suddetta, M.sa di Favara (Cancelleria libro dell'anno 1599-1600, f. 15); peraltro v’è pure un’investitura di questo feudo, datata 7 agosto 1600, a favore di Carlo di Aragona de Marinis, P.pe di Castelvetrano, figlio di detta Maria de Marinis (R. Cancelleria, XIII Indiz., f.160); un’altra investitura la troviamo in data 28 agosto 1605 a favore di Maria de Marinis per la morte di Carlo suo figlio (R. Cancelleria, III Indiz. , f. 491); dopo non ci sono investiture a favore dei Moncada.

Diego Giardina s'investì di due terzi il 24 gennaio 1615, per donazione fattagli da Luigi Arias Giardina, suo padre, a cui le due quote furono vendute da Beatrice suddetta, agli atti di Not. Baldassare Gaeta da Palermo il 5 dicembre 1608 (Cancelleria, libro 1614-15, f. 265 retro). Vi fu quindi una reinvestitura in data 18 settembre 1622, per la morte del Re Filippo III e successione al trono di Filippo IV (Conservatoria, libro Invest. 1621-22, f. 283 retro).

 

Subentra - sempre nei due terzi - Luigi Giardina Guerara con investitura del 28 febbraio 1625, come primogenito e per la morte di Diego, suo padre (Cancelleria , libro del 1624-25, f. 214); viene quindi reinvestito il 29 agosto 1666 per il passaggio della Corona da Filippo IV a Carlo II (Conservatoria, libro Invest. 1665-66, f. 119). Il Giardina morì a Naro il 24 novembre 1667 come risulta da fede rilasciata dalla Parrocchia di S. Nicolò.

Diego Giardina da Naro, come primogenito e per la morte di Luigi suddetto, s'investì dei due terzi il 7 ottobre 1668 (Conservatoria, libro Invest. 1666-71, f. 89).

Luigi Gerardo Giardina e Lucchesi prese l’investitura il 9 settembre 1686 dei due terzi, per la morte e quale figlio primogenito di Diego suddetto (Conservatoria, libro Invest. 1686-89, f. 17).

 

Diego Giardina Massa s'investì il 26 agosto 1739, come primogenito e, per la morte di Luigi Gerardo suddetto, nonché come rinunziatario dell'usufrutto da parte di Giulia Massa, sua madre, agli atti di Not. Gaetano Coppola e Messina di Palermo, del 1° ottobre 1738 (Conservatoria, libro Invest. 1738-41, f. 58).

 

Giulio Antonio Giardina prese l’investitura dei due terzi il 3 dicembre 1787, come primogenito e per la morte di Diego suddetto (Conservatoria, libro Invest. 1787-89, f. 25).

 

Diego Giardina Naselli s'investì dei due terzi del feudo di Gibellini il 15 luglio 1812, quale primogenito ed erede particolare di Giulio suddetto (Conservatoria vol. 1188 Invest., f. 124 retro); non ci sono ulteriori investiture o riconoscimenti.

Ma a questo punto scoppia il caso Tulumello. Il San Martino de Spucches non segue bene le vicende feudali di Gibillini. Comunque nel successivo volume IX - quadro 1454, pag. 221 - intesta: "onze 157.14.3.5 annuali di censi feudali - GIBELLINI - Cedolario, vol. 2463, foglio 204" ed indi rettifica:

«Giulio GIARDINA GRIMALDI, Principe di Ficarazzi s'investì di due terzi del feudo di GIBELLINI a 3 dicembre 1787 come figlio primogenito ed indubitato successore di Diego GIARDINA e MASSA (Conservatoria, libro Investiture 1787-89, foglio 25).


1. - Quindi vendette agli atti di Not. Salvatore SCIBONA di Palermo li 22 luglio 1796 a D. Giovanni SCIMONELLI, pro persona nominanda annue onze 157, tarì 14, grana 3 e piccioli 5 di censi sopra salme 57, tumoli 11 e mondelli 2 di terre, dovute sul feudo di Gibellini; e ciò per il prezzo in capitale di onze 3500 pari a lire 44.625. Il detto Scimoncelli dichiarò agli atti di Notar Giuseppe ABBATE di Palermo che il vero compratore fu il Sac. D. Nicolò TOLUMELLO. Per speciale grazia accordata dal Re a 29 aprile 1809 fu confermato lo smembramento di dette onze 157 e rotte dal feudo di GIBELLINI già effettuate senza permesso Reale (Conservatoria, libro Mercedes 1806-1808, n. 3 foglio 77).

 

2. - D. Giuseppe Saverio TOLUMELLO s'investì a 7 giugno 1809 per refuta e donazione a suo favore fatte dal Sac. D. Nicolò sudetto agli atti di Notar Gabriele Cavallaro di Ragalmuto li 22 aprile 1809 (Conservatoria, libro Investiture 1809 in poi, foglio 40). Questo titolo non esce nell'«Elenco ufficiale diffinitivo delle famiglie nobili e titolate di Sicilia» del 1902. L'interessato non ha curato farsi iscrivere e riconoscere.»
 

* *

Le vaghe fonti storiche sembrano dunque assegnare l’erezione del Castelluccio a Manfredi Chiaramonte: la data sarebbe quella del primo decennio del XIV secolo, la stessa del Castello eretto entro il paese. Manfredi era il fratello di Federico II Chiaramonte, ritenuto l’artefice "di lu Cannuni". Perché due fratelli abbiano deciso di erigere due castelli diversi in territori così contigui, resta un mistero. Forse la tradizione - tramandataci dal Fazello e dall’Inveges - è fallace. Quello che è certo che sia il feudo di Gibillini (da Sant’Anna al Castelluccio sino alla contrada dell’attuale miniera di Gibillini), sia il feudo di Racalmuto (da Quattrofinaiti al confine con Grotte; dalla Montagna al Giudeo sino alla Difisa) erano possedimenti della potente famiglia chiaramontana, e tali sostanzialmente rimasero sino al loro tracollo, alla fine del XIV secolo, allorché il duca di Montblanc ebbe modo di tagliar la testa ad Andrea di Chiaramonte. Il feudo di Gibillini passa alla famiglia Moncada, ma per breve tempo, e quindi alle scialbe case baronali dei Marino, prima, e Giardina, poi. Il feudo di Racalmuto viene redento da Matteo del Carretto con astuzie diplomatiche, quanto attendibili Dio solo sa.

 



Il feudo di Racalmuto


Le contrade che, grosso modo costituivano, il feudo di Racalmuto vero e proprio, sono così riepilogabili:

N.° CONTRADA NOTA TOPONIMO ATTUALE N.° pr.
N.° Mappa
1
Cava Racalmuto ==

2
Fico (o Fontana della Fico) Racalmuto Fico
43
31
3
Malati Racalmuto Malati
70
47
4
Padre Eterno Racalmuto Padre Eterno
85
18
5
Pernici Racalmuto Pernice
90
3
6
Petra dell'Oglio Racalmuto Pietra dell'Olio
94
22
7
Rina Racalmuto Arena
6
17
8
Rocca Racalmuto


9
San Gregorio Racalmuto San Gregorio
121
31
10
Scacci Racalmuto Scaccia
125
47, 66
11
Zaccanello Racalmuto Zaccanello
143
63
12
Fico Amara Racalmuto (confinante con le terre dello Stato di Racalmuto e con il fego dello Chiuppo) Fico Amara
44
75
13
Cuti Racalmuto (confinanti con li terri dello stato di Racalmuto) Cute
35
67
14
Bovo Racalmuto (fego) Bove
12
41,42,43
15
Canalotto Racalmuto (fego) Canalotto
15
45
16
Cannatuni Racalmuto (fego) Cannatone
16
1
17
Carcarazzo Racalmuto (fego) ==

18
Carmine Racalmuto (fego) Carmelo
19
42,44,45
19
Casa Murata Racalmuto (fego) ==

20
Casali Vecchio Racalmuto (fego) Casalvecchio
21
47,48
21
Colmitella Racalmuto (fego) Culmitella
34
64
22
Cortigliazzo Racalmuto (fego)


23
Difisa Racalmuto (fego) Vallone della Difesa
24
Donnaphali (o Donnagali o Donnaxhala) Racalmuto (fego) Donna Fara
37
2,3
25
Garamoli Racalmuto (fego) Garamoli
52
60,61,69
26
Gazzella Racalmuto (fego) Gazzella
54
57,59
27
Jacuzzo Racalmuto (fego) Jacuzzo
64
4
28
Judio Racalmuto (fego) Giudeo
58
46
29
Laco Racalmuto (fego) ==

30
Manchi Racalmuto (fego) ==

31
Marcatelo Racalmuto (fego) ==

32
Marcianti Racalmuto (fego) ==

33
Marzafanara (o Marzo Fanara) Racalmuto (fego) Fanara
40
57, 58, 60
34
Menz'Arata (o Mazzarati) Racalmuto (fego) Mezzarati
78
65,66,67
35
Montagna Racalmuto (fego) Montagna
80
41,42
36
Nina Racalmuto (fego) Vecchia Nina
138
71, 72
37
Nuci Racalmuto (fego) Noce
82
68,70,71,75
38
Petranella Racalmuto (fego) ==

39
Pidocchio Racalmuto (fego) ==

40
Pini di Zicari Racalmuto (fego) Piedi di Zichi
92
44
41
Pinnavaria Racalmuto (fego) ==

42
Rocca Russa Racalmuto (fego) Rocca Rossa
108
59
43
Rovetto Racalmuto (fego) Roveto
11
46
44
San Giuliano Racalmuto (fego) San Giuliano
120
21
45
Santa Domenica Racalmuto (fego)


46
Saracino Racalmuto (fego) Saracino
124
21
47
Savuco Racalmuto (fego) ==

48
Scala Racalmuto (fego) Scala
126
62
49
Scavo Morto Racalmuto (fego) Arena
6
17
50
Scifitello Racalmuto (fego) Scifi di S. Bernardo (?)
127
25
51
Serrone Rcalmuto (fego) Serone
28
4,46,62
52
Stazzone Racalmuto (fego) ==

53
Surfara Racalmuto (fego) ==

54
Troiana Racalmuto (fego) Troiana
133
18
55
Turri di Barba Racalmuto (fego) ==

56
Zubio Racalmuto (fego) Zubbio
144
33
57
Granci Racalmuto (fego) confinante con 'finaita della Scintilia) Granci
59
68,69
58
Carcia Racalmuto (fego) confinante con le terre dello stato ==

59
Granci Racalmuto (fego) nel fego della Scintilia

60
Baruna Racalmuto (fego) ottobre 1714 Barona
8
21
61
Carpitella (anche P.ta Carpitella) Racalmuto (stato) Carpitello
20
0
62
Casalivecchio Racalmuto (stato)


63
Nuci e Menta Racalmuto (stato) Menta
77
61,63,71,72
64
Vallone della Difisa Racalmuto (stato) Vallone della Difesa
135
20
65
Santa Maria di Gesù Racalmuto fego) Santa Maria
122
19, 20


 

Contrade del feudo di Gibillini.

 

Le contrade del feudo di Gibillini possono, invece, venire così segnalate:

 

N.° CONTRADA NOTA TOPONIMO ATTUALE N.° pr.
N.° Mappa
1
Filippuzzo Gibbillini (fego) ==

2
Funtanelli Gibbillini (fego) Fico Fontanella
45
18, 30
3
Macalubbi Gibbillini (fego) ==

4
Mandra del Piano Gibbillini (fego) Mandra di Piano
73
39
5
Muluna Gibbillini (fego) Mulona
81
35,36,51,52
6
Puzzo Gibbillini (fego) Puzzo
103
35,48,49
7
Sant'Anna Gibbillini (fego) Sant'Anna
115
33
8
Serrone Gibbillini (fego)


9
Castello Gibbillini (fego) [1687] Castelluccio
22
27
10
Ferraro Gibillini Ferraro
41
6,9,23,25





 
Le altre contrade
Dagli antichi atti emergono anche le seguenti altre contrade:

N.° CONTRADA NOTA TOPONIMO ATTUALE N.° pr.
N.° Mappa
1
Carmine Grotti (fego) ==

2
Nuci Menta (fego)


3
Pumi (contrata delli Pumi) Menta (fego) Portella di Puma
100
63, 64
4
Funtana Dulci Nadore (fego)


5
Mindulazza Nuci (fego) Mendolazza
76
68,69







Le terre della Noce e della Menta vengono ambiguamente designate: talora come feudo a parte, talaltra come pertinenze della contigua contea dei del conte del Carretto. Invero, a ben riguardare la questione sotto il profilo giuridico, sembrerebbe indubitabile che si tratti di terre allodiali dei Del Carretto, finite prima ad un ramo cadetto e poi, nel Seicento, rientrate nella sfera feudale di quella famiglia.


La genesi del feudo di Racalmuto


Ripuliti gli esordi feudali dai vari Malconvenant, Abrignano, Barresi e Brancaleone Doria, resta la vicenda di quel Federico Musca che risulta primo proprietario del casale di Racalmuto attorno al 1250. Era costui un immigrato che per abilità propria o per successione poteva disporre di tre centri nell’Agrigentino: Rachalgididi, Rachalchamut e Sabuchetti. Ci riferiamo all’indiscutibile diploma che custodivasi negli archivi angioini di Napoli e precisamte a quello che reca il n.° 209 il cui sunto recita in latino:
Executoria concessionis facte Petro Nigrello de BELLOMONTE mil., quorundam casalium in pertinentiis Agrigenti, vid. Rachalgididi, RACHALCHAMUT et Sabuchetti, que casalia olim fuerunt Frederici MUSCA proditoris, et casalis Brissane, R. Curie dovoluti per obitum sine liberis qd. Iordani de Cava, nec non domus ubi dictus Fridericus incolebat.
 

Era dunque un’esecutoria della concessione che veniva fatta da Carlo d’Angiò a Pietro Negrello di Belmonte, milite, di tre casali siti nelle pertinenze di Agrigento, e cioè Rachalgididi, Sabuchetti ed il nostro Racalmuto, chiamato - non si sa per errore di trascrizione o per più precisa denominazione - RACHALCHAMUT. Quei tre casali erano appartenuti (olim) a Federico Musca che Carlo d’Angiò considera un traditore. Quanto al passo successivo che investe la storia di Brissana, a noi qui nulla importa.

Federico Musca viene privato del feudo nel 1271: ribadiamo, è questa la data di nascita della storia racalmutese, almeno fino a quando non si trovano altre fonti scritte o archeologiche. Per quel che abbiamo detto prima, gli esordi racalmutesi medievali possono retrocedersi di una ventina d’anni, ma non di più.

Un Federico Mosca, conte di Modica, è noto: a lui accenna Saba Malaspina colui che l’Amari considera "diligentissimo cronista" per non parlare del Montaner, del D’Esclot, di Nicola Speciale, di Bartolomeo di Neocastro, del Sanudo.

La vicenda viene dal Peri così sintetizzata ed interpretata:
«Federico Mosca conte di Modica acquistava benemerenze in guerra. Nel novembre del 1282 passò in Calabria e conseguì buoni successi con una comitiva di 500 almogaveri (le truppe a piedi che nel corso della guerra del Vespro prospettarono la validità dei reimpiego della fanteria, che sarebbe salita a clamore europeo a non lunga distanza di tempo sui fronti di Fiandra).»

E successivamente (pag. 46):
«Se la reazione immediata di Carlo d’Angiò fu più minacciosa che vigorosa, se la cavalcata di re Pietro, nel settembre del 1282, da Trapani a Palermo, a Messina, a Catania, fu più prudente che difficile, il conflitto poi si spostò prontamente fuori Sicilia. Nel novembre, il conte di Modica Federico Mosca portava la guerra in Calabria.»

Annota, peraltro, l’Amari: «Il Neocastro, cap. 56, accenna anch’egli ad una fazione degli almugaveri, diversa da quella di Catona. Dice mandatine 500 presso Reggio e 5.000 alla Catona. Aggiunge poi che Pietro il dì 11 novembre mandò il conte Federigo Mosca a regger la terra di Scalea, che si era data a lui. ...»

Se Federico Mosca, conte di Modica, è, dunque, lo stesso di quello del diploma angioino riguardante Racalmuto, sappiamo ora che costui dopo l’esonero del 1271 non tornò più in questo casale. Anche per Illuminato Peri, neppure tornò - almeno stabilmente - a reggere la contea di Modica che (pag. 31). A lui «sembra essere succeduto nel titolo di conte di Modica il genero Manfredi Chiaromonte marito della figlia Isabella», quello che avrebbe edificato il nostro Castelluccio.

Ma a quale ribellione di Federico Mosca si riferisce il citato diploma angioino? Non abbiamo notizie aliunde. Dobbiamo quindi supporre che trattasi degli eventi del 1269. Li abbozziamo qui sulla falsariga del racconto dell’Amari. Le truppe angioine riconquistano il castello di Licata, che era stato assediato dai Ghibellini, nel dicembre del 1268. Nel 1269 si sparse la falsa notizia che il re di Tunisi stesse per sbarcare. Frattanto Fulcone di Puy-Richard, sconfitto a Sciacca nei primi del 1267, comandava a poche città che gli prestavano volontaria ubbidienza. Un frate, Filippo D’Egly dell’ordine degli Spedalieri, venuto in Sicilia da tempo a cambattere per Carlo con la scusa che stessero per sbarcare i Saraceni d’Africa, agiva da capitano di ventura e crudelmente (vedasi Bartolomeo de Neocastro, cap. VIII). Ma ai primi d’aprile del sessantanove re Carlo, ormai sicuro in Continente ove gli mancava solo di conquistare Lucera per fame, combattè di persona i Saraceni e si accinse a riportare all’ubbidienza la Sicilia. Nel volgere di pochi mesi cambiò due volte il vicario dell’isola: prima sostituì Puy-Richard con Guglielmo de Beaumont, poi costui con Guglielmo d’Estendart. Un grosso esercito agli ordini del solo D’Egly, in un primo momento, e poi di questi affiancato dal Estendart, ed indi di quest’ultimo soltanto, fu mandato per sterminare le forze di Corrado Capece. L’Estendart risultò un feroce capitano che comunque riscuoteva la fiducia del re, che non mancava di colmarlo di ricchezze e di onori. Saba Malaspina lo chiama uomo più crudele della stessa crudeltà, assetato di sangue e giammai sazio (Lib. IV, cap. XVIII).

L’Estendart condusse nell’isola millesettecento cavalieri con grande numero di arcieri e vi furono associati oltre 800 cavalieri che stanziavano nell’isola, tra siciliani e stranieri. Ricominciò davvero la guerra.

Quel condottiero andò da Messina per Catania all’assedio di Sciacca, ma qui gli piombarono addosso oltre 3000 cavalieri provenienti da Lentini; sopraggiunse Don Federico con cinquecento soldati scelti spagnoli, chiamati Cavalieri della Morte, e gli angioini furono tricidati. L’Estendart e Giovanni de Beaumont, con altri baroni, vi trovarono la morte. Ne seguì un tal terrore che Palermo e Messina trattarono la resa, ma la trattativa non andò in porto. Il racconto - desunto dagli Annali ghibellini di Piacenza - non convince del tutto l’Amari che puntualizza: «Manca la data di questa battaglia; falsa la morte dell’Estendart e fors’anche quella del Beaumont; Sciacca fu assediata di certo dagli Angioini sotto il comando dell’ammiraglio Guglielmo, non Giovanni, de Beaumont, poiché ricaviamo che gli riscosse le taglie pagate da vari comuni invece di mandare uomini a quell’impresa.» Sappiamo altresì dagli annali genovesi che Sciacca fu conquistata dagli Angioini.

Anche Agrigento fu assediata dai francesi, dopo la conquista di Sciacca, che vi avrebbero però subito una sconfitta. I Ghibellini, astretti da varie parti, riuscivano ancora a mantenere il controllo di Agrigento, Lentini, Centorbi, Agusta, Caltanissetta.

Gli eventi evolvono con l’assedio di Agusta. Carlo d’Angiò ordina all’Estendart di portarsi a ridosso della città siciliana per il colpo di grazia. Vi si erano insediati 1000 armati e 200 cavalieri toscani che la difendevano valorosamente. Il re fece costruire apposite galee per quell’impresa e le affidò all’Estendart il 29 settembre 1269. L’ordine era di passare a fil di ferro quanti si trovassero nella città. Essa fu presa per il tradimento di sei prezzolati che di notte aprirono una porta. Guglielmo d’Estendart fu feroce: non rispettò «né valore, né innocenza, né ragione d’uomini alcuna.»

Cessata la guerra di Sicilia, Carlo d’Angiò rimise nell’ufficio di Vicario, il 18 agosto 1270, Fulcone di Puy-Richard «con carico di perseguitare i traditori e confiscare loro i beni», annota l’Amari.

In tale frangente, ebbe dunque a verificarsi lo spossessamento del feudo di Racalmuto che dal "traditore" Federico Musca passò al fedele - estraneo e francese - Pietro Negrello de Beaumont, chissà se parente dei tanti Beaumont che abbiamo avuto modo di citare.

Sempre l’Amari ci fa sapere che in quel tempo «agli altri fragelli s’aggiunse la fame. In alcuni luoghi di Sicilia il prezzo del grano salì a cento tarì d’oro la salma e anche oltre; nei più fortunati arrivò a quaranta tarì, che vuol dire nei primi almeno al quintuplo, ne’ secondi al doppio o al triplo del valore ordinario.» Non pensiamo che Racalmuto sia stato coinvolto in quella sciagura: le sue ubertose terre avranno fornito pane sufficiente. Ma il nuovo signore de Beaumont avrà potuto razziare a man bassa per le solite speculazioni granarie. Si pensi che anche la vicina Milena - all’epoca chiamata Milocca - finisce in mani di un omonimo: quel Guglielmo di Bellomonte di cui abbiamo parlato sopra.

Sfogliando i registri angioini, apprendiamo che il padrone di Racalmuto dal 1271 al 1282, Pietro Negrello di Belmonte, era il conte di Montescaglioso e il Camerario del Regno del 1271. Non pensiamo che il conte di Montescaglioso sia mai venuto a visitare queste sue lontane terre, site in una terra dal nome strano, Racalmuto. Avrà mandato qualche suo amministratore. Solerte, comunque, nello sfruttare quei contadini di origine araba, usciti da non molto tempo dalla condizione di "villani", una sorta di schiavitù a mezzo tra la servitù della gleba e la remissiva subordinazione della fede cattolica, vigile nell’inculcare il sacro rispetto del padrone per il noto aforisma "omnis auctoritas a Deo". Ogni autorità vien da Dio. Ed il lontano Negrello era pur sempre un padrone caro al Signore Iddio. Bisognava ubbidirgli e basta, come al ribelle conte di Modica.





Racalmuto durante i Vespri Siciliani



Dalle brume delle vaghe testimonianze scritte affiora solo qualche brandello delle locali vicende in quel gran trambusto che furono i Vespri Siciliani. Se non bastasse, vi pensò Michele Amari, tutto preso dalle sue passioni irredentiste, a fare del "ribellamento" del 1282, una fantasmagorica epopea della stirpe sicula eroicamente in armi contro ogni dominazione straniera. Niente di più falso: i siciliani (ed ancor più i racalmutesi) sono per loro natura remissivi, acquiescenti, indolenti, propensi a sopportare ogni autorità, la quale - straniera, o indigena, o paesana che sia - sempre sopraffattrice sarà; e va solo subita con il minore aggravio possibile, con il solo, incoercibile, diritto al mugugno (al circolo, o in chiesa, o presso il farmacista o nel greve chiuso della bettola).

Ancor oggi non si ha voglia di dar peso alle acute notazioni del francese Léon Cadier sull’amministrazione della Sicilia angioina. Il Cadier prende le distanze dall’Amari e secondo Francesco Giunta esagera, specie là dove rintuzza quelli che considera attacchi e calunnie del grande storico siciliano dell’Ottocento: «la ragione di questi attacchi - scrive infatti il francese - e di queste calunnie è facile da capire. Il più bel fatto d’arme della storia di Sicilia è un orribile massacro; per farlo accettare dai posteri, per potere celebrare ancora il ‘Vespro Siciliano’ come un avvenimento glorioso dagli annali siciliani, si è fatto ricadere tutto ciò che questo atto aveva di orribile su coloro che ne erano stati le vittime. Per scusare i carnefici, i Francesi sono stati accusati di ogni sorta di crimini; l’amministrazione francese in Sicilia è stata descritta con le tinte più fosche; Carlo d’Angiò è diventato il più abominevole dei tiranni.»

Ed a noi Racalmutesi del Novecento, il culto dei Vespri ci è stato inculcato sin da bambini, specie con quel reliquario che è il brutto quadro raffigurato nel sipario del teatro comunale. Leonardo Sciascia - che grande storico non lo fu mai - si produsse nel 1973 in una sua cerebrale superfetazione sul mito del Vespro. Di rilievo l’inciso: «questo mito [quello del Vespro], che per lui non era un mito ma la storia stessa nella sua specifica oggettività, Amari difese sempre: ma certo rendendosi conto che più si confaceva al carattere della riscossa nazionale che si andava preparando ed al sentimento e al gusto del tempo, quell’altro della congiura dei pochi che accende il furore di molti.» Da parte sua, per Sciascia, era ovvio: «i miti della storia servono più della storia stessa - ammesso possa darsi una storia pura, oggettiva, scientifica.» Ad ogni buon conto, «dirò - è sempre Sciascia che parla - che tra tutte le ragioni che adduce [l’Amari] per negare la congiura - di documenti, di circostanze concordanti e discordanti - la più persuasiva resta per me quella che dà come siciliano che conosce i siciliani: e cioè che nessuna cosa che è preparata, può avere successo in Sicilia. In quanto non preparato, ma improvviso e rapido e violento come una fiammata, il Vespro è riuscito.»

Se il Vespro fu quella "vampa" sciasciana, a Racalmuto non si avvertirono neppure le più lontane scintille. Non c’era motivo alcuno di ribellarsi. Al padrone Federico Mosca - siciliano, incombente, collerico, predatore - era subentrato Pietro Negrello di Belmonte - colto, lontano, fiducioso nei suoi messi partenopei. C’era da guadagnare, e di certo lucro vi fu: in termini di libertà, di astuzie, di evasione e di elusione. Scoppiato, dopo il Vespro, il grande disordine della generale ribellione, ai racalmutesi tornarono comodi il caos amministrativo e la rapida fuga dei loro sovrastanti: dal marzo al 10 settembre del 1282, poterono lavorare i campi seminati, mietere, ‘pisari’, non spartire alcunché con il padrone, immagazzinare, alienare, incassare e per intero. Il 10 settembre 1282, arriva da Palermo una missiva indirizzata "Universitati Racalbuti" [alias Racalmuti] ed è un perentorio ordine dell’aragonese re Pietro a svenarsi in tasse per armare e mandare 15 arcieri: una richiesta da sbalordire, visto che i locali non avranno capito neppure che cosa s’intendesse con quel termine latino di "archeorum". Ma era una richiesta che un senso esplicito ce l’aveva: l’orgia della libertà era finita; i padroni ritornavano in sella; per i contadini di Racalmuto, gravami, imposte, angarie e sudditanze, non solo come prima, ma più di prima.

Racalmuto - si ripete - sorge dopo l’epurazione saracena di Federico II di Svevia. Federico Musca, o un suo antenato, importa nel nostro Altipiano un certo numero di famiglie, non si sa da dove; con tutta probabilità trattasi di marrani sfuggiti, con repentine conversioni, alle rappreseglie della persecuzione religiosa fridericiana. Sono famiglie di coloni, o divenuti tali per necessità mimetiche. Il Musca non ne dispone come "villani", visto che quella specie di schiavitù è tramontanta, ma la loro condizione sociale ed economica è molto simile. Hanno giacigli poveri in casupole che spesso coincidono con la disponibilità offerta dagli ampi antri reperibili nel territorio a strapiombo sotto il vecchio Calvario. Ne vien fuori una suggestiva fisionomia di abitato trogloditico, per dirla alla Peri. Ma spesso era il pagliaio a sopperire alle necessità abitative; sorsero le case "copertae palearum" che qualche decina di anni dopo impressionarono l’arcidiacono du Mazel, mandato da Avignone a rastrellare tasse aggiuntive per assolvere da un incolpevole interdetto, comminato per le estranee vicende del Vespro. «Il pagliao - scrive il Peri non ad hoc ma pertinentemente - non richiedeva scavo in profondità per le fondamenta; e quando erano in pietra le basi erano in grossi pezzi sovrapposti "a secco", senza ricorso a materiale coesivo. La costruzione si alzava, quindi, con paglia e fogliame impastato con fanghiglia. Costituito abitualmente da un vano non ampio, che accoglieva la famiglia e le bestie collaboratrici e compagne, il pagliaio bastava a offrire riparo dalle intemperie e dava una pur limitata protezione dal freddo e dai raggi del sole. Gli hospitia magna e le mansiones fabbricate "a pietre e calce" (ad lapides et calces), anche nelle città erano e sarebbero rimasti per tempo oggetto di ammirazione nella loro rarità. Non si pretendeva dalle abitazioni durata secolare. E, del corso del tempo e dei tempi dell’esistenza, avevano nozione diversa dalla nostra quegli uomini che l’esposizione ai rigori, la fatica prolungata e l’assoluta mancanza di prevenzioni e di rimedi alle malattie, più precocemente offriva alla falce inclemente della morte. Corpi che la povertà escludeva anche dal rito pietoso della conservazione nella tomba insieme a qualcosa di caro e al viatico verso l’esistenza che non dovrebbe avere fine. Ritornavano, con rapidità, in polvere la debole carne e le fragili abitazioni di quelle generazioni

Il prisco insediamento - se ben comprendiamo i suggerimenti che i successivi riveli sembrano fornirci - avvenne in quella contrada che dopo ebbe a chiamarsi di Santa Margheritella, da sotto il Carmine all’antro di Pannella incluso, dalla Madonna della Rocca sino alle Bottighelle dell’attuale corso Garibaldi, tra S. Pasquale e la Piazzetta. Poi, le abitazioni si estesero negli altri tre quartieri: San Giuliano, Fontana e Monte.

I racalmutesi tengono molto alla tradizione che vuole la chiesa di Santa Maria come la più antica, risalente addirittura al 1108: una chiesa - si dice - voluta dai Malconvenant, che si indicano come i primi baroni del casale. Non è facile farli ricredere. La ‘notizia’ ha per di più una fonte scritta: quella dell’abate Pirri. Gli storici locali la danno per certa, ed anche i restauratori della chiesa, negli anni ottanta di questo secolo, parlano di facciata "normanna".

Il Pirri, palesemente, collega la notizia ad un paio di diplomi che si custodiscono tuttora negli archivi capitolari della Cattedrale di Agrigento. L’archivio fu oggetto di studio a cavallo tra il secolo scorso e quello corrente per la nota questione delle decime della mensa vesvovile agrigentina. Fu un feroce alterco fra giuristi incaricati di difendere le ragioni dei grossi agrari della provincia, riluttanti a riconoscere le antiche tassazioni ecclesiastiche, e giuristi, canonici e storici di parte cattolica, tutti alle prese con la dimostrazione che trattavasi di tasse dominicali e quindi di gravami ancora validi.

Nel 1960, il vescovo Peruzzo - ormai, nella quiete voluta dal concordato del 1929 e nella sudditanza alle autorità ecclesiastiche propinata dal consolidato regime democristiano - incaricava il grande paleologo Mons. Paolo Collura di uno studio obiettivo e serio dei tanti vecchi diplomi. La pubblicazione che ne è seguita è pietra miliare per ricerche del genere. Noi siamo andati a cercare quelli che riguarderebbero la chiesa di Santa Maria di Racalmuto ed abbiamo scoperto che non possono attribuirsi al nostro paese. Vi sono, sì, due diplomi del 1108 e vi si parla dei Malconvenant e della fondazione di una chiesa dedicata a S. Margherita, ma è evidente che la località nulla ha a che fare con la nostra Racalmuto .

Si riferisce evidentemente ad alcuni ben specifici di codesti diplomi, il Pirri per fornire notizie su Santa Margherita di Racalmuto, come d'altronde nota lo stesso Collura (). Ma come si può ben vedere, sia per le precisazioni del Collura sia per l'ubicazione dei fondi sia per i toponimi, qui ci troviamo a Santa Margherita Belice (o presso i suoi dintorni) e Racalmuto va senz'altro escluso. () E’, poi, certo che Racalmuto non appare mai in modo incontrovertibile nel carte capitolari di Agrigento che vanno dalla conquista normanna al 1282. Non è chiaro se ciò sia dovuto ad un tardo affermarsi del toponimo arabo del nostro paese o ad una sua indipendenza fiscale nei confronti della curia agrigentina. Noi, come detto dianzi, propendiamo per la tesi della tarda fondazione del paese di Racalmuto, qualche decennio prima del diploma del 1271 su cui ci siamo soffermati sopra.

Caducata l'attendibilità della fonte documentale del Pirri, si sbriciola la narrazione del nostro Tinebra-Martorana sull'argomento. Il Capitolo II ed il III che contengono notizie sulla "signoria dei Malconvenant" e su "Santa Margherita Vergine" che corrisponderebbe "alla nostra Santa Maria di Gesù" sono destituiti di fondamento storico. Il Tinebra-Martorana mostra solo un'indiretta conoscenza dell'abate netino. Egli si avvale dell'opera di «Padre Bonaventura Caruselli da Lucca, La Vergine del Monte a Racalmuto» e del «Lessico Topografico siculo di Amico - Tomo 2°, pag.393-4». L'Amico è esplicito nel dichiarare la fonte delle sue notizie sui Malconvenant e su Santa Margherita Vergine: è il Pirri della Not. Agrig. Il Pirri fu sicuramente indotto in errore dai suoi corrispondenti del Capitolo agrigentino e nasce così la favola di Santa Maria chiesa del XII secolo.

L'avallo di Leonardo Sciascia al lavoro del Tinebra Martorana ha ormai canonizzato tutte quelle 'pretese' notizie della storia di Racalmuto e non sarà facile a chicchessia rettificarle o raddrizzarle. Malconvenant e chiesetta vetusta di Santa Margherita-Santa Maria saranno usurpazioni storiche cui i racalmutesi non vorrano rinunciare, tant’è che, ancora nel 1986, il padre gesuita Girolamo M. Morreale ribadiva quel falso scrivendo che, indubitabilmente, «frutto della rinascita normanna fu per Racalmuto il riordinamento del culto. Il conte Ruggero conferì l'investitura di signore delle terre di Racalmuto a Roberto Malcovenant che dopo venti anni dalla liberazione vi fece sorgere la prima chiesa sotto il titolo di S. Margherita vergine e martire, vicino l'attuale cimitero, dotandola di fondi agricoli che convertì in prebenda canonicale. Rocco Pirro colloca l'erezione della chiesa nell'anno 1108 e precisa che avvenne con licenza del Vescovo di Agrigento, Guarino (+1108)» () Il mendacio storico è proprio duro a morire, se anche un colto ed avveduto gesuita vi incappa or non sono più di dieci anni fa.

Quanto a falsità storiche, ancor più salienti sono quelle che confezionate dal Tinebra Martorana, furono ribollite da Eugenio Napoleone Messana: sono le incredibili avventure della Racalmuto nel crogiuolo della rivolta del Vespro. Vuole il Tinebra Martorana che nella lotta tra Manfredi di Svevia e Carlo d’Angiò si accodò ai baroni filofrancesi «Giovanni Barresi, signore di Racalmuto. Il quale raccolta quanta gente potè dai suoi vasti vassallaggi di Racalmuto, Petraperzia, Naso, Capo d’Orlando e Montemauro, volse le armi contro il seno della sua stessa patria.» Scoppiata la rivolta del 1282, «Giovanni Barresi, che palesemente aveva seguito la fortuna dei francesi, e durante il loro dominio era stato in auge, ebbe la peggio allorché vennero fra noi gli Aragonesi. Premio meritato, fu spogliato dei suoi domini, che passarono al reale patrimonio. Così la baronia di Racalmuto appartenne per qualche tempo al regio Fisco e poi fu concessa alla famiglia Chiaramonte

 

* * *



Il Fazello non mostra interesse alcuno verso quelli che dovettero apparirgli incolti e violenti nobilotti di campagna: i Del Carretto, appunto. Il colto storico è basilare nella storia di Racalmuto per avere ispirato due tradizioni che reggono imperterrite tuttora: la prima accredita Federico II Chiaramonte (+ 1313) padrone e barone del feudo, ove avrebbe fatto costruire l'attuale castello ("Lu Cannuni"), e ciò è congettura forse accettabile; la seconda tradizione è quella della signoria dei Barresi. Qui il Fazello è del tutto incolpevole. Si pensi che l'intera faccenda poggia - responsabili Vito Amico ed il Villabianca, quello della Sicilia Nobile - su un'evidente distorsione di un passo dell'opera storica del Fazello. Questi, parlando dei Barresi, aveva scritto : Matteo Barresi succede ad Abbo, che aveva ricevuto da Re Ruggero l'investitura di Pietraperzia, Naso, Capo d'Orlando, Castania e molti altri "oppidula" (piccoli centri). Chissà perché tra quegli oppidula doveva includersi proprio Racalmuto. Così congetturarono i cennati eruditi del Settecento, non sappiamo su che basi, e così si racconta tuttora dagli storici locali che hanno in tal modo il destro per appioppare a Racalmuto le vicende avventurose di quella famiglia.

Non è questa la sede per digressioni erudite: tuttavia ci pare di avere fornito elementi sufficienti per comprovare la validità dei nostri convincimenti in ordine alla nessuna attinenza dei domini feudali dei Malconvenant e dei Barresi con Racalmuto, a ridosso del Vespro. Resta da vedere se possa parlarsi della signoria degli Abrignano.

Il solito Tinebra Martorana (pag. 56 op. cit.) ci propina questa successione:

«Alla morte del conte Ruggiero Normanno, sia perché questa famiglia [cioè i Malconvenant] si fosse estinta, sia perché fosse caduta la fortuna dei Malconvenant, noi vediamo essi perdere domini ed uffici. Ciò che è indubitato è che il figlio del conte conquistatore, il gran re Ruggiero, concesse la baronia di Racalmuto alla nobilissima famiglia degli Abrignano[Minutolo: Cronaca dei Re]. E da questa passò ai Barresi. Degli Abrignano però non è sicura notizia e di certo, se essi governarono Racalmuto, fu per breve tempo, perché molti cronisti non ne fanno alcun cenno.» E tanto è davvero un modo curioso di far storia: ciò che viene asserito come "indubitato", diviene subitaneamente - con contraddizione che non dovrebbe essere consentita - "non sicura notizia". E dire che Sciascia continuò a definire quella del Martorana "una buona storia del paese". Eugenio Napoleone Messana (op. cit. p. 49) non ha dubbi che «nella cronaca dei re di Minutolo leggiamo che il re Ruggero II concesse la baronia di Racalmuto ai nobili Albrignano o Alvignano prima e ad Abbo Barresi dopo. Della concessione agli Abrignano ne fa menzione solo il Minutolo, altri la omettono e riportano solo la concessione ad Abbo Barresi.» Evidentemente, né Tinebra Martorana, né Eugenio Napoleone Messana avevano letto il Minutolo, diversamente non sarebbero caduti nell’abbaglio. Forse avevano letto soltanto Vito Amico che nella versione del Di Marzo specifica: «Minutolo Memor. Prior. Messan. Lib. 8 attesta essersi [Racalmuto] appartenuto alla famiglia di Abrignano, dato poscia a’ Barresi.» Una certa eco vi è anche nel Villabianca: « e la tenne [Racalmuto] pur anche la Famiglia ABGRIGNANO, se diam fede a MINUTOLO - Mem. Prior. lib. 8, f. 273.» Francamente ci dispiace che nell’equivoco cadde anche il compianto padre Salvo - nostro stimato amico. Egli sintetizza: «La famiglia Albrignano - Decaduta la famiglia Malconvenant, Ruggero II concesse la Baronia di Racalmuto agli Albrignano o Alvignano nel 1130. Tale concessione è un po’ dubbia nelle storia o, se vi fu, ebbe a durare pochissimo. Certo è che nel 1134 la Baronia di Racalmuto era già nelle mani dei Barresi.» Un’evidente sunto, con quella aggiunta della data che vorrebbe essere una precisazione e diviene invece una colpevole topica.

Il Minutolo fu un frate gerosolimitano di Messina che nel 1699 scrisse le memoria del suo "gran priorato" : raccolse le dichiarazioni dei vari suoi confratelli sulle loro ascendenze nobili. Essere nobili era indispensabile se si voleva essere ammessi fra quei frati cavalieri. Fra D. Alberto Fardella di Trapani nell’anno 1633 asserisce - in buona fede o fraudolentemente, non sappiamo - che un suo antenato era: «Hernrico Abrignano dei Signori di Recalmuto, nobile di Trapani, e Regio Giustiziero, e Capitano» nell’anno 1395. La falsità era talmente evidente da non doversi dare alcun credito al mendace frate, ma il Minutolo non se ne accorgeed incappa in una smentita a se stesso, quando trascrive l’albero genealogico dell’altro confrate, il nobile "Fra D. Alfonzo del Carretto, di Giorgenti, 1617", il quale, in coincidenza della pretesa signoria di Racalmuto da parte di Enrico Abrignano nell’anno 1395, colloca , correttamente, al posto dell’Abrignano, il proprio antenato, il celebre barone Matteo del Carretto. Ma già un altro due monaci della famiglia Fardella (fra D. Martino Fardella di Trapani 1629) si era limitato a dichiarare quell’identico antenato come semplice nobile di Trapani («Enrico Abrignano Nobile di Trapani»). In Appendice sub 3) forniamo la trascizione di quegli intriganti alberi genealogici, per i curiosi o per i diffidenti. Gli Abrignano con Racalmuto, dunque, non c’entrano affatto: forse una qualche parente di Matteo Del Carretto andò sposa al "mercante" Enrico Abrignano, attorno al 1391.

Quanto ai Barresi, è arduo ritenere che costoro davvero abbiano avuto il dominio di Racalmuto, in tempi antecedenti al Vespro, anche se il padre Aprile, scrivendo in epoca moderna, era propenso alla tesi affermativa. Si disse che Abbo Barresi I o Senior ebbe concesse dopo il 1130 dal re Ruggero il Normanno vari feudi, Naso, Ucria ed altri Castelli. Da Abbo a Matteo; da Matteo a Giovanni, la successione in quei domini feudali. Il San Martino Spucches resta sconcertato dalla contraddittorietà delle notizie fornite dal Villabianca. Si limita allora a questa secca elencazione: «Il Villabianca, nella Sic. Nobile, dice che Ruggero re concesse Racalmuto ad Abbo Barresi (Sic. Nob., vol. 4°, f. 200). Lo stesso autore dice altrove che l’Imperatore Federico II concesse, dopo il 1222, Racalmuto ad Abbo Barresi che sarebbe stato figlio di Giovanni (di Matteo di Abbo seniore). A quest’ultimo successe il figlio Matteo: al quale successe Abbo ed a quest’ultimo il figlio Giovanni. Questi visse sotto Re Giacomo di Aragona e seguì il suo partito. Re Federico, fratello di Giacomo divenuto Re di Sicilia, dichiarò esso Giovanni fellone e gli confiscò i beni. Da questo momento comincia una storia certa e noi cominciamo da questo momento ad elencare i Baroni di Racalmuto con numero progessivo.» Ma, così facendo, l’esimio araldista, allunga la teoria delle successioni, ricominciando il ciclo, per cui da Giovanni si passerebbe ad Abbo II iunior che avrebbe avuto dall’imperatore Federico II Racalmuto nel 1222 (per noi, a quell’epoca, ancora da fondare); da Abbo II a Matteo II e da questi ad Abbo III, cui sarebbe subentrato Giovanni Barresi che è personaggio storico distintosi nelle vicende del 1299, di sicuro signore di Pietraperzia, Naso e Capo d’Orlando.

Scettici sulle signorie pre-Vespro dei Barresi, non possiamo escludere che, con la restaurazione feudale di re Pietro, Giovanni Barresi possa essersi impossessato di Racalmuto, stante la latitanza di Federico Musca, cui invero sarebbe spettata la titolarità della baronia racalmutese. Con il passaggio tra le fila di re Giacomo d’Aragona - quando questi dichiarò guerra al proprio fratello, Federico III, che era stato proclamato re di Sicilia nella ben nota crisi di fine secolo XIII - potè essersi pur verificata la perdita da parte di Giovanni Barresi del recente feudo di Racalmuto alla stregua di quegli altri suoi possedimenti siciliani, finiti sotto confisca.

L’Amari, nella sua guerra del Vespro siciliano, accenna ad un diploma del 28 dicembre 1300 (1299) tredicesima indizione, anno 15° di Carlo II d’Angiò, ove Racalmuto e Caccamo vengono concessi a Pietro di Monte Aguto. Ovviamente si trattò di promesse dell’angioino che non ebbero seguito alcuno. Ma quella promessa sa di sonora smentita della tesi che vorrebbe feudatario di Racalmuto Giovanni Barresi: questi, ora, milita accanto all’angioino, sia pure sotto la bandiera di Giacomo d’Aragona; non è credibile che Carlo II d’Angiò arrivasse al punto di confiscare a sua volta il feudo già confiscato dal nemico Federico III. Credibile, invece, che nella cancelleria di Napoli figurasse ancora la concessione a Pietro Negrello di Belmonte e che si pensasse di girare ora il feudo al milite alleato Pietro di Monte Aguto.



* * *

Nell’Agosto del 1282 Pietro d’Aragona sbarca in Sicilia con quel misto di albagia spagnola e di «avara povertà di Catalogna»: a Racalmuto - come detto - giunge la prima martellatta fiscale datata "Palermo 10 settembre"; il nuovo re esige subito che si paghi per l’armamento di 15 arcieri.

Sotto la stessa data, codesto re Pietro crede di addolcire la pillola inviando al nostro periferico casele un resoconto delle sue recenti imprese. Siamo sicuri che ai racalmutesi di allora (come d’oggi) non gliene importava nulla di sapere:

«Doc. X - Palermo 10 Settembre 1282 - Ind. XI. Re Pietro dopo aver eenumerate al Baiulo, ai Giudici ed agli uoimini tutti di Adrano le ragioni, per le quali ha creduto intraprendere la spedizione di Sicilia; e raccontato del suo sbarco a Trapani, nonché del suo arrivo, per terra in Palermo, il venerdì 4 Settembre; ordina che, adunati in assemblea, eleggano due fra i più cospicui della loro terra; i quali, come loro sindaci, vengano a prestargli il debito giuramento di omaggio e fedeltà; più, che tutti i cavalieri, pedoni, balestrieri, arcieri, lanceri, scudati si rechino, con armi e cavalli, in Randazzo, pel 22 Settembre al più tardi.

«Simili lettere a tutti gli uomini di tutte le terre al di là del fiume Salso.»

«[......] Item et infra fuit scriptum eodem modo videlicet.

« [...] Burgio, Sacca, Calatabellota, Agrigento, Licata, Naro, Delia, Darfudo, Calatanixerio, Rahalmut [corsivo ns.], Mulotea, Sutera, Camerata, Castronuovo, Sancto stephano, Bibona, Sancto Angilo, Raya, Busaxemo [Buscemi], Curiolono, Juliana, [...]»

 

Nel successivo mese di gennaio del 1283, Racalmuto viene chiamato - unitamente ad altri centri - ad una sorta di tassazione aggiuntiva: dovrebbe approntare altri quattro arcieri oppure dei fanti armati. La missiva parte da Messina il giorno 26 gennaio 1283, XI indizione. Ed è diretta al baiulo, ai giudici ed a tutti gli uomini Rakalmuti. Perché mai questa resipiscenza? Evidentemente, la base impobibile che era stata calcolata a caldo, il 10 settembre 1282, si appalesava errata per difetto: i racalmutesi tassabili erano di gran lunga più numerosi; se prima si era pensata ad una tassazione di 75 fuochi o famiglie abbienti, ora si sapeva che almeno altri 20 fuochi erano in condizioni economiche da fornire mezzi aggiuntive alla guerra che Pietro d’Aragona andava conducendo - più o meno indolentemente - contro l’Angioino. Se questa nostra tesi è accettabile, l’area degli abitanti racalmutesi riconducibile alla platea dei contribuenti saliva da 300 a 380 (calcolando, come si è soliti, il numero dei fuochi per la probabile consistenza media del nucleo familiare, pari al coefficiente 4). Ma non basta, bisogna aggiungere quelli che riuscivano a sfuggire a quel censimento fiscale e quelli che di solito erano esentati come preti, non abbienti, ebrei ed altri: una rettifica, dunque, che non si è lontani dal vero assumendo una maggiorazione dell’ordine del 20%; di talché perveniamo ad una popolazione stimata di circa 456. (Nell’allegato n.° 5, forniamo ampi ragguagli su tali nostre ipotesi d’indole statistica.)

Re Pietro aveva voglia di scherzare quando il 10 settembre 1282 si rivolge ai racalmutesi - ed in latino - per dir loro che finalmente il tanto aspettatato suo arrivo si era verificato; che il suo aiuto era già in corso; che quindi potevano e dovevano abbandonarsi ad una "tripudiosa giocondità". Fidelitati vestre feliciter nunciamus. «Felicemente l’annunciamo alla vostra fedeltà». Ma occorrono gli adempimenti burocratici, i formalismi. Pertanto, come è di diritto, l’ Universitas è chiamata a prestare fisici giuramenti "corporalia iuramenta" della debita fedeltà e dell’omaggio al re. Nomini i suoi "sindici" si inviino davanti al cospetto della "celsitudine" regale. Il re vuole fermamente che il nemico lasci il paese pressoché annichilito e sterminato. Quindi si mandino cavalieri, balestrieri, arcieri, uomini armati di tutto punto, di scudi o di altri tipi d’armatura e s vengano presso di noi Re Pietro in quel di Randazzo o là dove stabiliremo. E tutti dovranno avviarsi entro il 22 di questo mese di settembre proprio a Randazzo. Se qualcuno disobbidisce, incapperà nella nostra reale indignazione.

Non v’è storico che descriva quale stato d’animo abbia accorato quei siciliani del 1282 dinnanzi a quelle pretese del nuovo padrone. Neppure i letterati, ci risulta, hanno saputo evocare quelle angosce e quello sgomento. Neppure Tommasi di Lampedusa, neppure Leonardo Sciascia, neppure quando sembra farne accenno sminuendo ogni cosa con l’approssimativa chiosa sulla locale storia, appena "descrivibile", «dell’avvicendarsi dei feudatari che, come in ogni altra parte della Sicilia, venivano dal nord predace o dalla non meno predace "avara povertà di catalogna"; col carico delle speranze deluse e delle rinnovate e a volte accresciute angherie che ogni nuova signoria apportava.» E questo sarà un bel dire, ma di scarso senso per quello che davvero avvenne, per quella vita racalmutese che è più che "descrivibile", che ci pare tanto "narrabile", tanto angosciante, tanto rimarchevole "storia".

Chi spiegò quel "latinorum" ai racalmutesi? Dove? Come? Quali decisioni furono prese? chi fu eletto per ‘sindico’ - che onore non era ma perico per la vita e per i beni dovendosi recare tanto lontano in tempi calamitosi e per strade impervie e cosparse di agguati da parte di ladri e "prosecuti"?

C’è da pensare che già sin d’allora, i notabili furono adunati in chiesa al suo della campana, come sarà costume alla fine del ‘500. Un prete avrà tradotto la missiva. A dirigere i lavori assembleari colui che si era autoproclamato Baiulo e quei due o tre maggiorenti - il notaio, il farmacista-medico - che lo affiancavano. Un paio di "burgisi" - che disponevano di giumente - avranno dovuto accettare l’incarico di recarsi dal re nella lontano Randazzo. Con la ritualità che riscontreremo nell’adunata popolare del 7 agosto del 1577.




 
La libera universitas di Racalmuto: 1282-1300 ca.

 

 

Ne siamo quasi certi: Racalmuto non ebbe soggiogazioni feudali per quasi un ventennio, dopo il Vespro. Crediamo di aver provato come non è da parlarsi di una baronia sotto i Barresi. Circa la promessa data a Piero di Monte Aguto, la cosa si risolse in una vacua promessa, non potuta in alcun modo realizzarsi. Si è pure detto come la notizia secentesca di una assegnazione feudale di Racalmuto a Brancaleone Doria, sia frutto di un plateale falso, ostando irrefutabili ragioni cronologiche.

Una signoria del Doria a fine secolo è impensabile, dato che costui ebbe, sì, una qualche influenza su Racalmuto, ma dopo aver sposato la vedova, Costanza Chiaramonte, del conterraneo Antonio Del Carretto, attorno agli anni trenta del XIV secolo.

Nessuna fonte, invece, ci riferisce di un ritorno di Federico Musca, che - dome detto - preferisce andare a guerreggiare in quel di Calabria, sempreché si tratti dell’identico Musca, e l’antico proprietario di Racalmuto ed il milite, denominato conte di Modica, siano un solo personaggio. Di certo, un Federico Musca , comes Mohac, si rinviene tra i diplomi di Pietro I. (cfr. raccolta dei Documenti per servire alla storia di Sicilia, Vol. V. - Fasc. IX-XI - Appendice - Messina 30 dicembre 1282 - pag. 687). Su tale Federico Musca, araldisti e storici qualcosa ci dicono: Il Villabianca scrive:

«....[PAG. 4] entrati che furono gli Aragonesi nel governo di questo Regno, appa re in tal tempo essere stato signore di questo Stato [Modica] Federigo MOSCA, quello stesso che fu Governatore della Valle di Noto sotto il Rè Pietro Primo d'Aragona, e con 600 soldati pose a ferro, e fuoco gran numero di Franzesi nelle vicinanze di Reggio (d] d .

«Essendo stato anch'egli uno de' quaranta Cavalieri, che associarono Rè Pietro al famigerato duello di Bordeaux; così per fede del Dott. Placido CARAFFA nella sua Modica Illustr. f. 70. «Inter quos - egli dice - Modicae Federicus Musca interfuit, qui Regem Petrum ad monimachium provocatus est: Manfredus Musca fuit vir strenuus, et in arte bellica magnus a consiliis, et semel a Petro missus, ut Scalaeam oppidum reciperet.» Ma se sia stato costui discendente per linea retta da GUALTIERI testè mentovata, o forse da altro modo comissionario di differente Famiglia io non ardisco affermarlo. E' certo però, ch'egli fu l'ultimo Barone della Prosapia Mosca, e da potere di lui, o al certo dalle mani del suo figlio Manfredo, come scrivono alcuni, passò esso Stato in potere di Manfredo Chiaramonte, e de' suoi successori, come si dirà appresso, vegnendogli conceduto dal Ser.mo Rè Federigo, con titolo di Contea in considerazione de' suoi segnalati servizi non meno, che per esser marito d'Isabella Mosca figlia di Federigo, e sorella di Manfredi sopravvisato, che secondo vogliono i detti Autori, fu dichiarato ribelle, e spogliato di essa Contea dal succennato Sovrano, per avere egli seguitato le parti del Rè Giacomo di Aragona di lui fratello (a) a.»

Esplosa la rivolta del Vespro, Racalmuto si ritrova, dunque, libero, ma subito soggetto, agli appetiti tassaioli del sopraggiunto re iberico. Ricevuta la missiva del 10 settembre 1282, tutti i notabili racalmutesi del’epoca dovettero adunarsi per stabilire il da farsi. A presiedere quell’assemblea il baiulo con a fianco i giudici. Chi furono i due sindici eletti per andare il giuramento e l’omaggio al nuovo re in quel di Randazzo, non sappiamo. Baiulo, giudici e sindici dovevano avere dei patronimici non molto differenti da quelli che incontriamo nelle prime fonti storiche racalmutesi: Liuni, mastro Rayneri, Sabia di Palermo, de Salvo, de Graci, de Bona, de Mulé, Fanara, Casucia, La Licata, de Messana, de Santa Lucia.

Ebbero a radunarsi in qualche chiesa: forse nella chiesetta dedicata alla Madonna, quella stessa ove nel 1308 officierà Martuzio Sifolone. Sappiamo di certo che, comunque, la chiesa di Santa Margherita o di Santa Maria - quella che ancor oggi si dice normanna - non era stata eretta, né dal Malconvenant né da qualche suo parente passato dalle armi alla milizia del Cristo: in quel tempo, come si disse, Racalmuto non era ancora sorto.

Intercolutoria ebbe, invece, ad essere la decisione sul riparto dei balzelli imposti dall’Aragonese: quindici arcieri non si sapeva dove reperirli fra quegli imbelli contadini, appena capaci di disseminare il suolo di tagliole per intrappolare i conigli selvatici. Frattanto, Berardo di Ferro di Marsala, viene nominato dal re giustiziere della Valle di Girgenti: nominiamo «te justiciarum nostrum in singulis terris et locis vallis Agrigenti» recita un documento in quel torno di tempo. Il 17 settembre, il Giustiziere viene invitato a costringere le terre e i luogi di sua giurisdizione ad un celere invio del "fodro" (vettovaglie, vino, vacche, porci, castrati) a Randazzo: segno che le terre ed i luoghi non se ne davano ancora per intesi. Berardo de Ferro, milite giustiziario, è, invece, sollecito a far nominare Maestri Giurati di sua fiducia: il re, da Messina con lettera dell’8 ottobre 1282, gli ordina «di non volersi intromettere in quella elezione nelle terre demaniali, delle chiese, dei Conti e Baroni, elezione che si era riservata» (cfr. DSSS, vol. V, cit. p. 66 doc. n.° LXVIII). Per di più, il 20 ottobre 1282, il re deve intervenire contro lo stesso Berardo di Ferro, che aveva spogliato Errico de Masi e tutti i marsalesi dei loro beni: manda a Marsala il giudice Nicoloso di Chitari da Messina per reintegrare quegli abitanti nel possesso dei loro beni. (ibidem, pag. 131 - doc. n.° CXLI).

Occorre pagare, intanto, le quote della tassazione straordinaria di ottomila once: con decreto del 26 novembre 1282, emesso a Catania, «Re Pietro ... stabilisce che le [suddette] ottomila once promesse dai sindici delle terre al di là del Salso siano corrisposte ai regi tesorieri.» (ibidem, doc. n.° CCXXIX). Povero Racalmuto, ormai preda di voraci esattori! Con provvedimento del 17 novembre 1282 viene rimosso Ruggero Barresi, milite. Non risulta, però, cointeressato in qualche modo a Racalmuto (v. ibidem pag. 203).

Questi contadini dell’Agrigentino sono proprio riluttanti a pagare le tasse: da Messina, il 15 novembre 1282, ingiunge «a Berardo de Ferro, Giustiziere del Val di Girgenti, sotto pena di once 100, di far subito eleggere dalle Terre di sua giurisdizione sindici che si rechino a lui, Peitro, nel termine di 8 giorni per discutere, con gli altri sindici di Sicilia al di qua e al di là del Saldo, la controversia sorta in Catania fra i sindici delle due grandi circoscrizioni, circa alla promessa del sussidio.» (Ibidem pag. 231 - doc. n.° CCLXXVII). Ed il successivo 20 gennaio 1283, siamo ancora alle solite: inadempienze fiscali. Re Pietro «incarica Santorio Banala di sollecitare, recandosi sui luoghi, il versamento dalle Università al di là del Salso.» (Ibidem, pag. 293 - doc. n.° CCCXCIV). Racalmuto risulta tassato per 15 once (ibidem pag. 295), preceduto da:

Licata: unc. 238;

Delia unc. 3;

Naro unc. 166;

Calatarapetta (sic) Mons maior unc. 6;

Tusa unc. 2;

Misiliusiphus unc. 4;

Sciacca unc. 250;

Calatabellottum unc. 122;

Agrigentum unc. 380.

Il successivo 26 gennaio, come detto, si rincara la dose: Racalmuto è chiamato ad armare ed inviare altri quattro arcieri o fanti.

Dopo il Vespro, gli eventi della Sicilia fibrillano per una cinquantina d’anni. Non è questa la sede per rievocarli. Michele Amari, nella sua storia del Vespro, ne fa quasi una diuturna rievocazione. Ancor oggi è viva la polemica su quella temperie storica e studiosi di grande levatura dei tempi nostri continuano a cimentarvisi. Si pensi che Benedetto Croce, capovolgendo un indirizzo consolidato, ritenne la cacciata degli angioini dalla Sicilia una nefasta frattura. Abbiamo visto che persino Leonardo Sciascia ha voglia di essere originale su quello snodo della storia siciliana: una improvvisa e scomposta fiammata ribellistica del popolo palermitano, su cui si innesta una vorace conquista di un rappresenatnte dell’ «avara povertà di Catalogna». Certo, al papa quella faccenda non piacque: comminò scomuniche, che si ripeterono più volte per quasi un secolo. Solo nel 1276, 31 marzo, Racalmuto ne fu totalmente assolto. Che cosa abbia fatto di così irreligioso il nostro paese da meritarsi un quasi secolare interdetto, è tuttora un mistero. Ma noi ne siamo oltremodo sicuri: nulla. Così come per l’altra scomunica - quella del 1713 - le anime credenti racalmutesi patirono il terrore dell’inferno per ribellioni (al francese Carlo d’Angiò, fratello di San Luigi, re di Francia, nel 1282) e per diatribe tra vescovi ed autorità civili (insorte nel 1713 per una faccenda di tasse su un alcuni rotoli di ceci del vescovo di Lipari), di cui francamente non ebbero né coscienza e neppure significativa conoscenza.

Racalmuto, decentrato, non fu artefice in alcun modo della ribellione del Vespro; non capì cosa fosse venuto a fare re Pietro d’Aragona; non si rese conto - o non immediatamente - che entrava nell’orbita spagnola; subì passivamente la politica del nuovo re che si mise a foraggiare con feudi quei nobili che corsero in suo soccorso; seppe di certo che Pietro d’Aragona cessò di vivere il 10 novembre del 1285; capì ben poco delle faccende dinastiche del successore Giacomo e della sua rinuncia alla Sicilia nel gennaio del 1296; ebbe forse qualche simpatia per il ribelle fratello Federico (II o III) ma non riuscì a comprendere le ragioni che spingevano i du potenti fratelli (Federico E Giacomo) a combattersi fra loro. Quando giunsero gli echi delle scomuniche papali, in loco non sene intuirono le ragioni; i racalmutesi non si ritennero colpevoli di nulla (non lo erano); si smarrivano nell’ascoltare i contorti ragionamenti che preti e francescani si sforzavano di propinare nelle loro infuocate prediche. Per fortuna, le tante guerre e guerricciole si combattevano lontano, vicino ai posti di mare, in Calabria, a Napoli: sì e no giungeva l’eco. Qualche vantaggio, sì: il frumento aveva un mercato; qualche guadagno si riusciva a conseguirlo; la pesante fatica dei campi non era ingrata. L'universitas si accresceva con nuovi immigrati e con con fertili nozze.

Nel 1308 e nel 1310 Racalmuto è tanto grande da consentire a due religiosi di riscuotervi pingui rendite. Da Avignone, il papa - colà rifugiatosi nel 1309 - arrivano ordini per la tassazione di quei due redditieri per quelle due precorse annate. L’Archivio Segreto Vaticano ci conserva le registrazioni di quei prelievi fiscali. A leggerli, vien fuori qualche dato sulla Universitas di Racalmuto del primo decennio del XIV secolo. Nel registro «Rationes Collectoriae Regni Neapolitani - 1308 - 1310», Collect. n.° 161 f. 96 abbiamo:

«Martutius de Sifolono pro ecclesia S. Mariae de Rachalmuto solvit pro utraque decima uncia J.»

In altri termini, Matuzio de Sifolono corrispose per la chiesa di S. Maria di Racalmuto un’oncia per entrambe le decime del 1308 e del 1310. E nel retro del foglio n.° 97 ( 97v):

«presbiter Angelus de Monte Caveoso pro officio suo sacerdotali, quod impendit in Casale Rachalamuti, solvit pro utraque tt. ix

Il che equivale a dire: il sacerdote Angelo di Monte Caveoso corrispose per il suo ufficio sacerdotale, che ha svolto nel Casale di Racalmuto, nove tarì. Racalmuto non viene segnato come castrum anche se il Castello doveva essere già costruito, stando al Fazello. Del resto, la grafia non del tutto corretta del toponimo (Rachalamuti) sta a segnalare l’approssimatività dello scriba pontificio.

Coteste ricerche d’archivio ci permettono di individuare due sacerdoti officianti a Racalmuto all’inizio del XIV secolo. Sono religiosi e non appaiono neppure autoctoni; l’uno, Martuzio de Sifolono, è titolare della chiesa di S. Maria, ed è chiamato a corrispondere un’oncia per le decime di due anni (1308 e 1310); l’altro, è il "prete" Angelo di Montecaveoso, ed è tassato per nove tarì in relazione all’ufficio sacerdotale che esplicava nel Casale di Racalmuto. Del primo non sappiamo neppure se fosse un sacerdote. Ignoriamo anche dove era ubicata la chiesa di S. Maria - ed ogni attribuzione ad uno dei vari templi oggi dedicati alla Madonna è mero arbitrio. Il "presbiter" Angelo de Montecaveoso ha tutta l’aria di essere un frate: parroco di Racalmuto nel 1308 e nel 1310, non sembra indigeno; ricava proventi che dovevano essere di poco più di un terzo rispettp alle ricche prebende di chi è titolare della chiesa di Santa Maria (dopo, l’arcipretura di Racalmuto diverrà molto appetibile e la vorranno prelati di Messina, Napoli, Prizzi, S. Giovanni Gemini, etc.).

La chiesa di Santa Maria rendeva dunque per tre volte rispetto alle primizie spettanti all’arciprete Angelo di Montescaglioso: troppo per essere soltano un luogo di culto; dovette essere quindi una chiesa dotata di feudi o di terreni allodiali. Il suo titolare fu forse un canonico agrigentino, e da qui potè nascere il beneficio di Santa Margherita che risulta documentato solo a partire dalla fine del secolo XIV. Ma potè trattarsi anche di un convento, forse di benedettini, insediatosi anche per lo sviluppo agricolo e per l’estensione della coltivazione granaria, divenuta molto richiesta dal mercato a causa dell’endemico stato di guerra. Da qui, quel convento benedettino cui accenna Giovan Luca Berberi nei suoi Capibrevi dei BENEFICIA ECCLESIASTICA, «liber Capibr. Eccl. in Reg. Canc. fol. 211». II Pirri descrive il Cenobio con annessa chiesa di san Benedetto che trovavasi nella via che congiungeva Racalmuto ad Agrigento. Credo che bisogna concordare con chi ritiene che quel convento sorgesse nel vecchio Campo Sportivo. Una volta tanto, ci soccorre fondatamente Eugenio Messana alle pag. 50 e 51 del suo volume su Racalmuto. «Il Pirri e Giovanni Luca Barberi parlano di un convento di s. Benedetto a Racalmuto, sulla via che conduce a Girgenti. Di questo monastero non rimane traccia, dei sospetti lo fanno ubicare dove ora c’è il campo sportivo. I sospetti si basano sulle fondamenta di un grande edificio con cortile e pozzo nel mezzo, che furono quivi trovati, quando la terra donata dal dott. Enrico Macaluso al comune, secondo la volontà del donatario (sic), fu spianata per adibirla a stadio.» Il Messana cita anche un testo di Illuminato Peri, (Manfredi Editore Palermo, 1963 - Vol. II, pag. 18 ) ove è pubblicato appunto il foglio 211 che recita «MONASTERIUM SANCTI BENEDICTI - 211 -Monasterium cum ecclesia sancti Benedicti prope iter inter Agrigentum et Rayhalmutum [Messana, erroneamente, trascrive in: Rayelmutum] existens de suffraganeis maioris agrigentine ecclesie». Il padre Calogero Salvo nel suo libro Ecco tua Madre riconsidera tutta la questione del monastero di S. Benedetto in termini del tutto critici nei confronti degli storici locali che hanno trattato l’argomento. Non sappiamo quanto di vero ci sia nel pregevole lavoro di padre Salvo.

I nove tarì corrisposti per due anni dall’arciprete Angelo di Montescaglioso dovettero essere un lieve aggravio sulle primizie corrisposti dai parrocchiani: un qualche riflesso demografico devono dunque averlo. Quattro tarì e mezzo per un anno sembrano riflettere appunto quel mezzo migliaio di abitanti che allora Racalmuto accoglieva sul suo suolo. Era un centro che non poteva non dispiegarsi nei pressi del nuovo fortilizio cilindrico, costruito da Federico II Chiaramonte pochissimi anni prima, secondo la versione tramandataci dal Fazello. Vicino sorgeva senza dubbio la nuova chiesa madre, pensiamo là dove verrà costruita poi la Matrice intitolata a S. Antonio e cioè, secondo noi, in piazza Castello, in quarterio Castri, come leggesi in taluni diplomi del ’500. I documenti vaticani spingono dunque ad una totale revisione della tradizione (per noi falsa) che gli storici locali, e non, hanno avallato in ordine a Racalmuto, per il periodo in discorso. E’ difficile sostenere che in quel tempo il paese sorgesse a Casalvecchio: una tesi questa che resiste imperterrita, sposata anche da studiosi valenti come il padre gesuita Girolamo M. Morreale . A Casalvecchio, già alla fine del XIII secolo, c’erano solo ruderi dell’antico insediamento bizantino. Da rigettare in pieno quello che dopo l’avvento di Garibaldi si scrisse su Racalmuto e cioè:

«Antica è l'origine di Racalmuto: il suo nome è di origine arabica. Fu distrutto dalla peste del '300, indi nel ripopolarsi non occupò il luogo primitivo, che si trova ora alla distanza di un chilometro, e si chiama Casalvecchio. Nell'occasione dei lavori eseguiti ultimamente per stabilire una carreggiabile, si rinvennero ivi dei sepolcreti e ruderi di edifici. »

I dati che possiamo ricavare dalle ravole delle collette pontificie dle 1308-1310 non consentono fondate ipotesi sullo sviluppo demografico di Racalmuto in quel torno di tempo: nella comparazione con le altre località che riusciamo a desimere ( Agrigento, Butera, Caltabellotta, Caltanissetta, Cammarata, Castronovo, Delia, Giuliana, Licata, Naro, Palazzo Adriano, S. Angelo Muxaro, Sciacca e Sutera), il nostro paese aveva una certa rilevanza nell’approntare tasse e risorse finanziarie alla lontanissima corte papale di Avignone. Un’onza e 9 tarì nonerano poi pesi intollerabili, ma pur sempre era un prelievo dalla magra economia curtense racalmutese che veniva dirottato, senza contropartita di sorta, verso terre francesi di cui si sconoscevano persino le denominazioni.

Gli emissari pontifici si erano già recati nell’agrigentino per riscuotere laute decime per gli anni 1275-1280. Eravamo sotto il dominio di Carlo d’Angiò, fiduciario del papato. Eppure la resa non fu elevata rispetto a quello che il papa ebbe a pretendere immediatamente dopo il 1310 - in quella sorta di compromesso storico tra corte avignonese e potenza aragonese.

 

Ci sia di un qualche lume questo confronto:

Denominazione
Unciae
Tarini
Granae
Summa
Somme percette nell’intera provincia agrigentina per le decime degli anni 1308 - 1310 (due annualità)

261

4

8

261,4,8
Somme percette nell’intera provincia agrigentina per le decime degli anni 1275-1280 (cinque annualità)

87

22

10

87,22,10
Differenze
173
11
18
173,11,18
Differenza in percentuale



197,58%

Per due sole annualità si è dunque dovuto pagare quasi il doppio di quanto corrisposto subito dopo il 1280, in pieno regime angioino, per un quinquennio. Racalmuto figura tassato esplicitamente nel 1310; indirettamente nel 1280. Allora, collettori per Agrigento furono ilcanonico agrigentino Pasquale ed il notaio messinese Pellegrino. Il vescovo cassanese, il francescano Marco d’Assisi, ebbe dal collettore Pasquale solo 20 onze d’oro. Che fine abbia fatto il resto non sappiamo. Nella pagina del 1280 abbiamo note che attengono allo stato dell’intera diocesi di agrigento: nulla che possa in qualche modo illuminarci direttamente sulla chiesa racalmutese. Questa doveva però avere un certo ruolo. In ogni caso era saldamente incardinata nella diocesi agrigentina, sotto l’egida del vescovo Ursone, almeno per il biennio 1275-76; dopo, pare sia subentrata la sede vacante, affidata al sostituto Gualterio. La vicenda dei vescovi agrigentini ha riverberi sulla storia di Racalmuto. Nel 1271 (28 gennaio) muore il vescovo Goffredo Roncioni. Subentra Guglielmo de Morina: fu una meteora. Sotto di lui abbiamo lo stravolgimento feudale racalmutese: il Musca viene privato del nostro casale che passa, per ordine dell’Angioino, al partenopeo Pietro Negrello di Belmonte. Nel 1273, (2 giugno), sale sulla cattedra di Gerlando, il cennato Guidone che vi rimane sino al 24 giugno 1276. Dal 1278 al 1280 abbiamo il citato sostitu Gualtiero. Dal 12 maggio 1280 al 23 agosto 1286 subentra tal Goberto, tarsferito alla sede di Capaccio il 23 agosto 1286. E’ quindi il tempo del lungo episcopato di Bertoldo di Labro (10 dicembre 1304-11 luglio 1326). In questo tratto, Racalmuto ha sconvolgimenti rimarchevoli: cessa l’autonomia comunale; i Chiaramonte spaccano il territorio in due parti: quella collinare attorno al Castelluccio viene trattenuto da Manfredi Chiaramonte; quella di nord-est - già sede dell’insediamento attivato dal Musca - viene requisita dal fratello cadetto Federico II (ma di ciò, più a lungo, dopo). L’organizzazione ecclesiastica - i cui riflessi sul vivere civile e sociale sono di tutta evidenza - si irrobustisce: cessa l’evanescenza dei primordi; ora abbiamo una potenza agraria attorno alla chiesa di S. Maria, oltremodo tassata dal papa (come si è visto); figuriamoci dal persule agrigentino; ed una pieve consistente, piuttosto facoltosa: il suo parroco (presbiter Angelus de Monte Caveoso) subisce l’angheria pontificia di un balzello di nove tarì; sborsa al suo vescovo l’aliquota (la quarta?) sulle sue decime o primizie. I racalmutesi vengono a subire l’incidenza di tanti oboli obbligatori d’indole ecclesiastica. Quelli d’indole feudale non li conosciamo. L’imposizione diretta pretesa dai nuovi regnanti è greve e di essa abbiamo solo gli echi di quella che fu la politica fiscale del re Pietro, il primo assaggio dell’avara povertà di Catalogna.



 

Verso il dominio dei Chiaramonte
Nel 1296, uno strano usurpatore - Federico III d’Aragona - veniva incoronato re di Sicilia: era l’ex viceré che - officiato di tale incarico dal fratello Giacomo, succeduto nella corona d’Aragona mentre era re di Sicilia - ardiva ribellarglisi ed assentire alle trame autonomiste dei potetanti dell’Isola fino alla ribellione completa, all’acquisizione del titolo regale.

Federico III potè detenere il regno di Sicilio per un quarantennio, grazie a compromessi, ad abilità diplomatiche, a tregue, a concordati ed altro. C’è chi afferma che tale quarantennio si stato comunque un lungp periodo di lotta contro la Napoli angioina e c’è chi vuole il locale baronato tutto preso dell’ideale dell’indipendenza dell’Isola. Per converso Denis Mack Smith ha voglia di demitizzare: «in realtà, - scrive lo storico inglese - interessi egoistici prevalsero in questa guerra, e nulla se ne ottenne salvo distruzioni.» Valutazione estremistica, inaccettabile se ci si avventura in inveramenti fattutali e puntuali. Non crediamo, ad esempio, ne ebbe solo distruzioni: anzi, sviluppo demografico, lavori pubblici per fortificazioni, profitti da commercializzazioni del grano, necessario al vettovagliamento delle parti in guerra, sembrano i connotati affioranti da questo travaglio della storia locale.

Federico III conclude nel 1302 una "pace di compromesso": gli bastò promettere di chiamarsi re di Trinacria, anziché di Sicilia: un cedimento di poco conto, che peraltro neppure formalmente osservò. La guerra ricominciò nel 1312 e durò, ad intervalli, fino al 1372.

Se vogliamo credere al Fazello, proprio in questo intervallo di pace, un membro cadetto dei Chiaramonte avrebbe avuto voglia di innalzare nell’attuale piazza Castello di Racalmuto una costosissima coppia di torri difensive, apparentemente inutile e dispersiva. Francamente, la cosa non convince molto: le fonti scritte tacciono, quelle archeologiche sono tutte di là a venire.

Il povero Fazello, invero, non è che si sbilanci troppo; si limita ad annotare: «A due miglia da qui [Grotte] si incontra Racalmuto, centro fortificato saraceno, dove c’è una rocca costruita da Federico Chiaramonte, a cui succede, a quattro miglia, la rocca di Gibellina e poi, a otto miglia il villaggio di Canicattini.»

Dal passo si evince che il Fazello comunque non aveva dubbi sul fatto che la rocca racalmutese fosse stata "erecta a Frederico Claramontano". Ma chi fosse codesto Federico non è poi del tutto chiaro, potendo anche essere Federico Chiaramonte I, il capostipite della famiglia, nel qual caso la datazione della fondazione del Castello retrocederebbe e di molto.

Da dove abbia tratto la notizia il Saccense, non è dato sapere: era comunque storico serio per abbondonarsi a dicerie inconsistenti. Ci ragguaglia, però, in termini circospetti e tanto deve spingere a cautele chi, a distanza di secoli, cerca di investigare quelle vicende così basilari per lo sviluppo del centro abitato di Racalmuto. Tinebra Martorana, ad esempio, non sa tenere strette le briglie e si sbizzarrisce nella raffigurazione di improbabili indeudamenti da parte dei Chiaramonte (pag. 63) o insostenibili sviluppi edilizi del Castello stesso (capitolo X e in particolare pag. 71). Chi ha voglia di credergli, continui a farlo. A noi sembrano solo giovanili fantasticherie, frutti acerbi di irrefrenabile visionarietà.

Se poi diamo credito al San Martino de Spucches, proprio in coincidenza dell’erezione del Castello, Manfredi Chiaramonte avrebbe fatto erigere il vicino Castelluccio - ma qui crediamo che si tratti di un abbaglio: c’è confusione con la rocca di Gibellina in provincia di Trapani. Per il San Martino, dunque, «IL FEUDO DI GIBELLINI è in Val di Mazzara, territorio di Naro, da non confondersi con l'altro sito in territorio di Girgenti, sul quale sorse poi la terra di Gibellina, eretta a Marchesato. Appartenne per antico possesso alla famiglia Chiaramonte, dove Manfredo vi costruì la fortezza; in ultimo lo possedette Andrea Chiaramonte; questi fu dichiarato fellone, ed in Palermo a giugno 1392 sotto il suo palazzo, detto lo STERI, ebbe tagliata la testa.» Una qualche astuzia stilistica cela la confusione in cui si dibatte il peraltro avveduto arabista. Con franchezza, dobbiamo ammettere che nulla di certo sappiamo sulle origini del Castelluccio: solo a partire dalla fine del secolo XIV possiamo essere sicuri della sua esistenza.

Il Tinebra Martorana ed Eugenio Napoleone Messana sono facondi nell’enfiare le rare e malcerte notizie degli storici secentisti che hanno scritto delle cose racalmutesi di questo periodo. Faremmo vacua erudizione se si mettessimo qui a contestare tutte quelle inverosimiglianze: in encomiabile sintesi le aveva già additate il padre Bonaventura Caruselli, quello che che per primo ci dà una versione della saga della Madonna del Monte.

«Decaduta la famiglia Barrese - scrive il frate di Lucca - e devoluto Racalmuto al Regio Fisco fu concesso a Giovanni Chiaramonte Barone del Comiso. Federico secondo di questo nome terzogenito di Federico primo Chiaramonte fabricò il magnifico Castello tutt'ora in gran parte esistente. Onde si riuta l'opinione d'alcuni che pretendono il Castello costruzione saracena. Il Fazzello, Inveges, il Pirri confermano la nostra opinione. Dominò Racalmuto la famiglia Chiaramonte fino all’anno 1307 passando, pel matrimonio di Costanza unica figlia del Barone Federigo con Antonio del Carretto, a questa nobile ed illustre famiglia

Quel che resta da una rigorosa investigazione storica è ben poco: non si può escludere l’impossessamento di Racalmuto da parte della emergente famiglia Chiaramonte: avvenne, però, con usurpazioni che l’oblio dei secoli impedisce di puntualizzare. Racalmuto passa, comunque, nello stretto arco di tempo a cavallo tra i secoli XIII e XIV, dalle libertà comunali alla crescente sudditanza feudale: una sudditanza che si radicalizza solo a metà del ‘500 con la compera da parte di Giovanni del Carretto del mero e misto impero. Il Caruselli va epurato dei falsi quali quello attinente all’inesistente dominio dei Barresi, e quali quello che vuole Racalmuto preso da un ignoto Giovanni Chiaramonte, barone di Comiso. Altri aspetti della ricognizione del lucchese sono accettabili, purché meglio chiariti.

Quando, come, in che misura i Chiaramonte si impossessano di Racalmuto?

Al tempo dell’intesa tra l’Angiò e Giacomo d’Aragona, si è detto che Racalmuto venne a Napoli assegnato a Piero Di Monte Aguto e siamo nel 1299: era promessa avventurosa ed il beneficiario spagnolo aveva poche probabilità di vedere avverata la regale assegnazione. Qualche eco ebbe a giungere in loco. La famiglia agrigentina dei Chiaramonte rivolsero allora i loro occhi a queste terre alquanto periferiche: Manfredi si assegnò il territorio del Castelluccio e potè benissimo muninerlo di una fortezza; il fratello cadetto Federico II si dichiarò padrone del casale e dell’agro circostante, non mancando di ergervi l’attuale Castello, sia pure nella sua embrionalità costituita dalle due torri cilindriche. Costruire torri cilindriche in quel tempo era divenuta ardua impresa per il diradamento delle maestranze fredericiane. Ed allora? Un interrogativo che può dissolvere la fondatezza della congettura che siamo stati per raffigurare. Solo i futuri scavi archeologici potranno chiarire il mistero: un mistero che si aggrava se i nostri privati ritrovamenti di ossame e di ceramiche sotto gli interstizi tra le due torri dovessero segnificare presenze abitative o necropoli medievolati antecedenti il XIV secolo. Le ossa non sembrano invero umane; i cocci sono angusti per configurazioni significative.

La congiuntura feudale è icasticamente ricostruita da Illuminato Peri e noi ci accodiamo in tutta umiltà: «Fu alle soglie del secolo XIV, quando, sotto gli Aragonesi, mancò un controllo inibente da parte della monarchia, e le concessioni si moltiplicarono, che i loro feudi e la loro influenza si allargarono; e fu proprio allora che entrò nella vita cittadina un ramo dei Chiaramonte. Prima, per tutto il secolo XIII, il feudo non ebbe il sopravvento, e particolarmente nelle vicinanze della città, non ebbe larga parte neppure la grossa proprietà.»

Sulla famiglia Chiaramonte, si hanno varie trattazioni di valore però più araldico che storico, specie per quanto attiene agli esordi. Chi ha voglia di dilettarsi sulle mitiche origini di codesta nobile schiatta può consultare l’Inveges o il Mugnos oppure accontentarsi della diligenza del nostro Tinebra Martorana che non manca di ragguagliarci sulla discendenza da Pipino o da Carlo Magno; sui tanti porporarti, alti dignitari e principi reali che la avrebbero contraddistinta; sul suo valoreatto a 174infrenare l’orgoglio dei re e costringerli ad umiliazioni.»

Ciò che a noi preme sottolineare è solo il fatto che nei primi del XIV secolo Racalmuto fu in effetti sotto l’influenza di Costanza Chiaramonte. Chi fu costei? Non abbiamo elementi per contraddire l’Inveges che testualmente così la raffigura:

« Da questo nobile matrimonio [ e cioè da Federico II Chiaramonte e tale Giovanna] nacque Costanza unica figliuola, che nel 1307 nobilmente si casò con Antonino del Carretto; Marchese di Savona, e del Finari, con ricchissima dote e facendosi il contratto matrimoniale in Girgenti nell'atti di Not. Bonsignor di Thomasio di Terrana à 11. di Settembre 1307 doppo ratificato in Finari l'istesso anno. come riferisce Barone, [De Maiestat. Panorm. litt. C.] raggionando di questa casa Carretto nel suo libro: l'istesso che ci confirma il testamento nel 1311. à 27 di decembre 10 Ind. e poscia publicato à 22 di Gennaro del 1313. nell'atti di Not. Pietro di Patti con tali parole: Item instituo, facio, et ordino haeredem meam universalem in omnibus bonis meis Dominam Costantiam Filiam meam, Consortem Nobilis Domini Antonini, Marchionis Saonae, et Domini Finari. Cui Dominae Constantiae haeredi meae, eius filios, et filias in ipsa haereditate substituo, ita tamen, quod si forte, quod absit, dicta Domina Costantia absque liberis statim anno impleverit; quod ipsa haereditas ad Dominum Manfridum Comitem Mohac, et Ioannem de Claramonte Milites, Fratres meos, legitime et integre revertatur.


2. Venne Costanza per la morte di Federico Padre ad esser Signora, e padrona dell'opolenta eredità paterna; e dal suo matrimonio nascendo Antonio del Carretto primo genito, li fece doppò libera e gratiosa donatione della Terra di Rachalmuto: come appare nell' [pag. 229] atti di Notar Rogieri d'Anselmo in Finari à 30 d'Agosto 12. Ind. 1344. quale insin ad hoggi detta famiglia Del Carretto possede. Frà breve spatio d'anni Costanza restò per l'immatura morte d'Antonino suo Marito vedova nel Finari, e per ritrovarsi bella; nel fiore della sua gioventù, e ricca, passò alle seconde nozze con Branca, altrimente detto, Brancaleone d'Auria, alias Doria; famiglia nobilissima di Genova; e che nell'anno 1335 fù Governatore nella Sardegna: Riuscì cotal matrimonio fecondo di prole. Poiche generò 1. Manfredo; da cui descese Mazziotta, 2. Matteo, 3. Isabella; moglie di Bonifacio figlio di Federico Alagona; da cui nacquero Giancione, e Vinciguerra Alagona. La quarta fù Marchisia; che fù moglie di Raimondo Villaragut, delli quali nacquero Antonio, e Marchisia Villaragut; Nel quinto luogo nacque Leonora, moglie di Giorgio Marchese. Doppo Beatrice; e la 7. & ultima si fù Genebra.

Costanza, restando la seconda volta Vedova, finalmente si morì in Giorgenti, havendo prima fatto il suo testamento, e publicatoil 28 marzo 1350 nominando suoi esecutori testamentari il suo primogenito Manfredi, il vescovo Ottaviano Delabro ed il priore del convento di S. Domenico.»


Noi siamo certi che la suddetta Costanza Chiaramonte ebbe la disponibilità di Racalmuto (sotto quale titolo, però, non sappiamo) per la testimonianza che ricaviamo da un diploma originale del 1399 ove tra l’altro si specifica che i fratelli Gerardo e Matteo del Carretto patteggiano fra loro il riparto dei beni che per taluni versi derivano dalla loro ava Costanza Chiaramonte. Si tratta dell’atto transattivo in cui Gerardo cede al fretllo Matteo del Carretto, atitolo oneroso:

«omnia iura omnesque actiones reales et personales, universales, directas, mixtas perentorias, tacita, civiles et expressas, que et quas praedictus dominus Gerardus, tamquam primogenitus, habet et habere potest et debet iure successionis et hereditatis quondam magnifice domine Constantie de Claramonte eius avie, quam eciam hereditatis magnificorum quondam domini Antonij de Carretto et quondam domine Salvagie, parentuum suorum, nec non quondam magnifici domini Jacobinj de Carretto, eius fratris, quam iure successionis et hereditatis quondam magnifici Mathei de Auria et eciam quocumque alio iIure competente domino domino Gerardo aliqua ratione, occasione vel causa et specialiter in baronia Racalmuti ut primogenito magnificorum quondam parentum suorum et Iacobinj eius fratris/ eius territorio castro et casali, nec non in bonis burgensaticis videlicet territorio Garamuli et Ruviceto Siguliana terminis, cum onere iuris canonicorum civitatis Agrigenti ... .. ..et eciam in quoddam hospitio magno existente in civitate Agrigenti iuxta hospitium magnifici Aloysii de Monteaperto ex parte meridi, ecclesiam S.cti Mathei ex parte orientis, casalina heredum quondam domini Frederici de Aloysio ex partem orientis/, viam publicam ex parte occidentis et alios confines ac eciam in quoddam viridario quod dicitur ‘lu Jardinu di la rangi’ posito in contrata Santi Antonij Veteris, cum terris vacuis vineis, et toto districtu in p..io iacet flumen dicte civitatis ex parte orientis, viam publicam ex parte occidentis, et alios confines cum onere iuris quod habet ecclesia Santi Dominici de Agrigento, nec non in omnibus et singulis bonis feudalibus et censualibus sistentibus in civitate Agrigenti et eius territorio ac ... in omnibus et singulis bonis feudalibus burgensaticis et censualibus sistentibus in urbe Panormi et eius teritorio cum segnalibus (?) in omnibus et singulis bonis stabilibus, castris, villis baronijs feudalibus et burgensaticis ubique sistentibus

Ci pare di poter tradurre: «il predetto Gerado vende e avendone il potere di vendita concede e per tratto della nostra penna di notaio trasferì ed assegnò al magnifico ed egregio don Matteo, milite, marchese di Savona, suo fratello, presente e compratore, che riceve ed accetta per sé e suoi eredi e successori, in perpetuo, tutti i diritti e tutte le azioni reali e personali, universali, dirette, miste, perentorie, tacite, civili ed espresse, che e quali il predetto don Gerardo, come primogenito, ha e può o deve avere, per diritto di successione o ereditario riveniente dalla quondam magnifica donna Costanza di Chiaramonte sua nonna, nonché per diritto ereditario riveniente dal quondam magnifico signore don Giacomino [Jacobinus] del Carretto, suo fratello, così pure per diritto di successione ed eredità riveniente da quondam magnifico Matteo Doria ed anche per qualunque altro diritto spettante al detto don Gerardo per qualsiasi ragione, occasione o causa e segnatamente in ordine alla baronia di Racalmuto - come primogenito dei defunti suoi magnifici genitori ed erede di suo fratello Giacomino - ed al pertinente territorio, castello e casale, nonché in ordine ai beni burgensatici siti nel territorio di Garamoli, Ruviceto [Rovetto ?] e Siguliana, con i gravami verso i canonici della città di Agrigento, ed anche in ordine ad un tale palazzo esistente nella città di Agrigento vicino al palazzo del magnifico Luigi di Montaperto, dalla parte di mezzogiorno, nonché alla chiesa di S. Matteo ed ai casalini degli eredi del fu don Federico di Aloisio nella parte orientale, e prospiciente la via pubblica ad occidente, e con altri confini. Del pari, viene venduto un giardino che chiamano "lu jardinu di l’arangi" posto nella contrada di S. Antonio il Vecchio, con terre vacue, vigne, e l’intero distretto ove scorre il fiume della detta città nella parte orientale e confinante con la via pubblica ad occidente ed altri confini; e sopra di esso gravano gli oneri che ha la chiesa di S. Domenico di Agrigento. Inoltre, il predetto atto si estende a tutti e singoli i beni feudali, burgensatici e censi esistenti nella città di Palermo e nel suo territorio con i suoi diritti su tutti e singoli beni stabili, castelli, villaggi baronali, feudali e burgensatici ovunque esistenti nell’intero Regno di Sicilia.»

E’ un passo che sancisce la storicità di Costanza di Chiaramonte, prima signora di Racalmuto; il casale passa al figliolo Antonio del Carretto - che Costanza ebbe dal primo marito l’omonimo Antonio del Carretto - e quindi al nipote Gerardo del Carretto per finire al fratello di costui Matteo del Carretto. Vero è altresì che a Matteo del Carretto giugno anche i beni dello zio paterno Matteo Doria, figlio del secondo marito di Costanza, Brancaleone Doria.

Resta quindi incagliata in questa griglia la vicenda feudale di Racalmuto dal 1313 al 1392 e sembrerebbe che i Chiaramonte siano estranei alle locali vicende di questo periodo, fatta eccezione del breve perido in cui la baronia sembra im mano di Costanza Chiaramonte. Ma è così? Purtroppo, un documento pontificio del 1376 - che avremo occasione dopo di meglio esplicare - revoca in dubbio una siffatta impostazione. Forse le terre racalmutesi furono di proprietà dei Del Carretto solo come beni burgensatici, mentre l’egemonia feudale rimase una prerogativa dei turbolenti Chiaramonte del XIV secolo. Racalmuto subì dunque i travagli che la famiglia agrigentina procurò con la sua strategia politica e con i suoi ribellismi. In che misura? anche qui un mistero.

E’ complessa la pagina della storia dei Chiaramonte di Agrigento per l’intero secolo XIV. In sintesi, possiamo solo rammentare che all’inizio della loro potenza fu rimarchevole soprattuto la figura femminile di Marchisia Prefolio, sposata con Federico I Chiaramonte. I tre figli - Manfredi, Giovanni il Vecchio, Federico II - ebbero storie simili ma distinte. Manfredi avrebbe sposato nel 1296 Isabella Musca figlia del conte di Modica, quello di cui abbiamo detto essere forse il barone di Racalmuto al tempo di Carlo d’Angiò. La contea di Modica passa, quindi, a Manfredi Chiaramonte. Siniscalco del re Federico III diventa signore di Ragusa. Nel 1300 succedeva alla madre nella contea di Caccamo. Nel 1301 difendeva Sciacca. Stipulata la tregua tra i re di Napoli e Sicilia (1302-1312), Manfredi avrebbe fatto edificare il palazzetto della Guadagna a Palermo. Otteneva anche nel 1310 dalla chiesa agrigentina la concessione enfiteutica di un tenimento di case per la costruzione di un’altra sua dimora che si chiamò Steri (l’attuale seminario vescovile). Ambasciatore presso l’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo nel 1312. E’ nominato nel 1314 capitano giustiziere di Palermo. Muore attorno al 1321, lasciando come suo erede il figlio Giovanni I.

Giovanni Chiaramonte, detto il Vecchio, sposa Lucca Palizzi. Nel 1314 comanda la flotta siciliana contro Roberto d’Angiò che assediava Trapani. Nel 1325 coadiuva efficacemente Blasco d’Aragona nella difesa di Palermo contro l’assedio delle truppe angioine comandate da Carlo di Calabria. Diviene vice ammiraglio del Regno e poi capitano giustiziere di Palermo. Il Picone ci assicura che «Giovanni possedette in Girgenti e nel suo territorio case palagi castella, e terreni che egli economizzava, e nel 1305 permutava il suo casale Margidirami, o di Raham come leggesi in alcuni diplomi, colla chiesa nostra, e ne riceveva in corrispettivo il casale Mussaro, col suo fortilizio coi casamenti, e i terreni che locingevano, perché la chiesa non bastava a mantenerlo e custodirlo. - Così egli aumentava le sue guarnigioni nelle vicinanze della città.» Sarà stato per questo e mal leggendo il Musca (Ruolo n.° 23) che i nostri storici locali hanno dato la stura a tutta una serie di falsi, propinati ingordamente, sulla baronia di codesto Giovanni Chiaramonte su Racalmuto. Quest’ultimo muore nel 1339.

Il terzo dei figli - Federico II - ci tocca direttamente: signore di Favara, Siculiana e Racalmuto, muore nel 1311, lasciando erede la figlia Costanza.

Il figlio di Manfredi - Giovanni Chiaramonte - eredita la contea di Modica, la signoria di Caccamo ed altri beni feudali nel 1321; sposa Leonora d’Aragona, figlia illegittima del re Federico III e diviene ambasciatore straordinario presso l’imperatore Ludovico IV il Bavaro, di cui ottiene signorie e privilegi in Ancona e Napoli. Nel 1329 una svolta: aggredisce Francesco I Ventimiglia, conte di Geraci, reo di avere ripudiato la moglie Costanza che era sorella appunto di Giovanni Chiaramonte. Deve scappare in esilio per sfuggire al castigo del re. Si rifugia alla corte di Ludovico il Bavaro ed offre quindi i suoi servigi a Roberto d’Angiò. Passato così al nemico, partecipa nel 1335 alle scorrerie degli Angioini nelle coste siciliane. Muore frattanto Federico III ed il successore Pietro II lo richiama nel 1337 dall’esilio e lo reintegra nei beni ad eccezione di Caccamo e di Pittinara. Giovanni Chiaramonte assurge nel 1338 alla carica di giustiziere di Palermo. Ora combatte contro gli Angioini e riconquista i territori siciliani ancora in loro possesso. In una battaglia navale, combattuta nel 1339, cade prigioniero degli Angioini ed è costretto a vendere al ricchissimo cugino Arrigo, maestro razionale del regno, i suoi beni per pagare il riscatto. Muore nel 1343 senza eredi maschi.

L’intreccio avventuroso di Giovanni II Chiaramonte travolge l’intera Sicilia e quindi anche Racalmuto, ma è tale per cui il fulcro politico di quella famiglia egemone passa di mano e perviene ai tre cugini Manfredi II, Arrigo e Federico III, figli di Giovanni il Vecchio. Gli altri due cugini - Giacomo e Ugone - hanno o vaga apparizione (Giacomo è governatore di Nicosia e vi batte moneta) o al di fuori del nome (Ugone) non se ne sa nulla.

Manfredi II si ammoglia due volte; eredita dal cugino Giovanni II tutti i suoi beni in virtù di una clausola contenuta nel testamento di Manfredi I. Assurge alla carica di giustiziere di Palermo (1341) e quindi receve l’investetura degli stati dopo averli riscattati dal fratello Arrigo (1343). Anche Racalmuto vi rientra? Non abbiamo elementi dosrta per articolare una qualsiasi risposta. Nle 1351 Manfredi II diviene vicario generale del Regno, Gran Siniscalco e Gran Connestabile. Muore nel 1353, lasciando eredet il figlio Simone avuto dalla seconda moglie (Mattia di Aragona).

Arrigo Chiaramonte compra (1339) da Giovanni II la contea di Modica e diviene maestro razionale del Regno. Sempre nel 1339 partecipa con il fratello Federico III alla riconquista di Milazzo per il re Pietro II.

Federico III Chiaramonte sposa Costanza Moncada e diviene governatore di Agrigento. Nel 1339, come si è detto, partecipa alla conquista di Milazzo per il re Pietro II. Il re Ludovico nel 1349 lo nomina Cameriere Maggiore, Vicario generale e Maestro Giustiziere del Regno. Nel 1353 partecipa con il nipote Simone alla sollevazione di messina contro Matteo Polizzi. Concorre alla chiamata in Sicilia del re di Napoli e partecipa alle distruzioni a danno dell’Isola. Nel 1356 succede al nipote Simone nel titoli dei Chiaramonte, conti di Modica e Caccamo, per privilegio del re Federico IV. Possiamo solo congetturare che Racalmuto - stante anche la lontananza dei Del Carretto, forse sulla carta titolari della baronia - sia in questo torno di tempo ricaduto nelle mani dei Chiaramonte. Federico III sale ancora nella scala degli onori pubblici divenendo nel 1361 Pretore di Palermo e poi (nel 1362) Governatore e Capitano Giustiziere di Palermo. Muore nel 1363 lasciando erede il figlio Matteo.

Simone Chiaramone, figlio di Manfredi II e Mattia Aragona, costitusce cuna parentesi che si apre e si chiude con lui nel gioco di potere di quella schiatta trecentesca siciliana. Sposa Venezia Palizzi ma la ripudia dopo la sollevazione di messina del 1353 e l’uccisione del suocere Matteo Palizzi e della sua famiglia, voluta da Simone, dallo zio Federico III e da altri congiurati. Nel 1353 eredita i titoli ed i beni dei Chiaramonte. Diviene signore di Ragusa. Trovatosi a capo della fazione dei Latini, allo scopo di avere il sopravvento sulla fazione dei Catalani, congiura contro il sovrano e chiama in Sicilia il re di Napoli, in nome del quale egli presidia Lentini e Federico governa Palermo. Chiede a Luigi d’Angiò di sposare Bianca d’Aragona, sorella del re Federico IV che lo stesso Luigi teneva prigioneriero a Reggio. Non venendo accolta la sua richiesta, pare che si sia avvelenato, oppure che gli sia stato propinato il veleno. Muore senza lasciare successori legittimi nel 1357. La meteora di Simone Chiaramonte pare non avere neppure lambito Racalmuto: altrove era il teatro delle gesta di questo turbolento personaggio.

Negli anni ’60 altri sono i protagonisti chiaramontani. Cominciamo da Giovanni III. Figlio di Arrigo, figura Governatore del castello di Bivona nel 1360 e quindi nel 1366 signore di Sutera e conte di Caccamo. Ricadono sotto la sua signoria Pittirano, Monblesi, Muscaro, S: Giovanni e Misilmeri. Diviene Siniscalco del regno. Muore nel 1374.

E’ quindi la volta del cugino Matteo, figlio di Federico III: sposa questi Iacopella Ventimiglia. Nel 1357 eredita la contea di Modica, la signoria di Ragusa ed altre terre. Gran Siniscalco e Maestro Giustiziere del regno nel 1363, nel successivo 1366 gli viene concessa la città ed il castello di Naro e di Delia. Muore nel 1377 senza eredi maschi e gli succede nel contado di Modica Manfredi III.

E’ costui un personaggio centrale, di grande spicco a mezzo del Trecento. Abbiamo documenti vaticani che compravano che il vero padrone di Racalmuto è ora lui: Manfredi III Chiaramonte appunto, avendo in subordine i Del Carretto o avendoli estromessi, non sappiamo. Figlio naturale di Giovanni II /secondo La Lumia, Villabianca e Pipitone Federico), sposa in prime nozze Margherita Passaneto e poi Eufeminia Ventimiglia. Nel 1351 domina in Lentini e Siracura. Partecipa alla congiura contro il re con Simone Chiaramonte. Nel 1358 chiede aiuti al re di Napoli contro il re di Sicilia ed i Catalani. Finalmente, nel 1364 si riconcilia con il Sovrano, riporta Messina, ancora in mano degli Angioini , all’obbidienza di Federico IV (detto il Semplice) dal quale viene onorora della carica di Grande Ammiraglio. Nel 1365 ottiene dal re la contea di Mistretta, la signoria di Malta, della città di terranova, di Cefalà. Fu padrone delle terre di Vicari, Palma, Gibellina, Favara, Muxaro, Guastanella, Carini e Comiso, Naro e Delia, oltre altri feudi intorno a messima. Manfredi III si trasferisce nel 1365 da Messina a Palermo. Nel 1374 eredita dal cugino Giovanni III il contado di Caccamo e i feudi di Pittirana, S. Giovanni e Misilmeri. Ma in quell’anno è divenuto tanto potente da impedire al re Federico IV di sbarcare in Palermo per l’incoranazione ufficiale. Nel 1375 può conciliarsi con il Re e gli viene concessa la signoria di Castronovo con Mussomeli, che da lui prende il nome di Manfreda. Nel 1377, alla morte di Matteo, viene investito dal Sovrano della contea di Modica, comprendente vari feudi. Nel 1378 fu uno dei quattro Vicari che governarono la Sicilia durante la minore età della regina Maria. Conquista nel 1388 l’isola delle Gerbe e viene investito dal papa Urbano VI del titolo di Duca delle Gerbe. Nel 1389 dà la figlia Costanza in sposa al re Ladislao di Napoli, il quale ripudia la moglie dopo la rovina dei Chiaramonte. Muore nel 1391 lasciando eredi delle sue sostanze le figlie. Per un bastardo, il destino ebbe in serbo una sequela di ascese da capogiro. Con chi non fu concepito in legittimo talamo il potere di una sola famiglia tocca l’acme: ma subito dopo fu il tracollo, per imprevidenza, per intrusione nelle cose di Sicile di case regnanti aragonesi, per il gioco della politica a dimensioni divenute sovranazionali. E Racalmuto tornerà nell’alveo di una dimessa baronia delcarrettiana.

Alla morte di Manfredi III spunta un Andrea Chiaramonte di dubbia paternità. Nel 1391 eredita tutti i beni e ititoli dei Chiaramonte comprese le cariche di Grande Almirante e dell’ufficio di Vicario Generale Tetrarca del Regno; riufiuta obbedienza a Martino Duca di Montblanc e organizza la resistenza di Palermo all’assedio delle truppe catalane.

Promuove la riunione dei baroni siciliani a Castronovo nel 1391. Cerca di impegnarli alla difesa dell’Isola contro i Martini. L’anno dopo (1392) arresosi ad onorevoli condizioni, viene preso con inganno e decapitato dinanzo allo Steri il 1° giugno dello stesso anno. Matteo del Carretto, con sangue chiaramontano nelle vene, prima parteggia per Andrea ma poi l’abbandona al suo destino, trovando più conveniente fiancheggiare i nuovi regnanti catalani. Racalmuto può finire - o ritornare - nel pieno dominio di questo cadetto della famiglia originaria di Savona, destinata nel Quattrocento a nuovi protagonismi feudali.

Un figlio naturale di Matteo Chiaramonte, Enrico, appare sulla scena politica siciliana per lo spazio di un mattino: nel 1392 si sottomette a Martino e dopo la morte di Andrea e si rifugia con aderenti e amici nel castello di caccamo, che successivamente dovette abbandonare per andare esule in Gaeta, dove sembra abbia finito i suoi giorni.

La nobile prosapia scompare dall’Isola e non vi torna mai più a dominare. La sua storia è quasi tutta la storia di Sicilia nel Trecento ed ingloba la dominazione baronale su Racalmuto. In quel secolo non sono i Del Carretto ad avere peso sull’umano vivere racalmutese; forse una intermittente incidenza la ebbero i Doria (in Particolare, Matteo Doria); per il resto il potere porta il nome dei Chiaramonte, il potere sul mondo contadino; quello sulle grassazioni tassaiole; quello delle cariche pubbliche; quello stesso che investe i pastori delle anime: preti, religiosi, chiese, confraternite, decime e primizie. Oggi, i racalmutesi, fieri delle loro due belle torri in piazza Castello, non serbano ricordo - e tampoco rancore - per quei loro antichi dominatori e gli dedicano strade, con dimesso rimpianto, quasi si fosse trattato di benefattori.

Giammai notato v’è un inciso nei processi d’investitura dei Del Carretto, che si custodiscono negli archivi di Stato di Palermo, di grandissima importanza per la storia di Racalmuto: nell’agglomerato di atti notarili che Matteo del Carretto esibisce a fine secolo XIV nell’improba fatica di far credere del tutto legittima la sua baronia racalmutese, affiora una dichiarazione di Gerardo del Carretto ove, come si disse dianzi, si afferma una provenienza ereditaria di beni da Matteo Doria. E’ questi un personaggio che ha l’attenzione del Chronicon Siculum (CVIII) e del Villani (XI, 108). Nel novembre del 1339 la flotta siciliana tenta di contrastare quella napoletana che sosteneva un corpo di spedizione sbarcato a Lipari. E fu una débcle. Il cronista coevo ci racconta che i Siciliani «furono debellati, e presi così che non uno di essi sfuggi, se non quelli soltanto che gli stessi nemici dopo tale disfatta vollere rilasciare e rimandare». Fra i nobili catturati furono Giovanni Chiaramonte (di cui abbiamo detto prima), il comandante della flotta, Orlando d’Aragona fratello naturale del re, Miliado d’Aragona figlio naturale del dento re Pietro d’Aragona e di Sicilia, Nino e Andrea Tallavia da Palermo, Vincenzo Manueòe da Trapani. E, per quello che anoi più preme, Matteo Doria. Questi per adempiere all’impegno contratto per il riacquisto della libertà dovette vendere la tenuta di Fontana Murata del valore di 1500 onze per 500 onze. Matteo Doria era figlio di Brancaleno Doria e di Costanza Chiaramone, proprio quella che aveva avuto per marito di primo letto Antonio del Carretto con cui aveva generato il nostro Antonio II del Carretto. Questi e Matteo Doria erano dunque fratelli sia pure soltanto uterini. Matteo Doria aveva per fratello germano Manfredo (ribelle a Federico III, ma reintegrato nei beni; esule e poi stabilitosi ad Agrigento) e le tante sorelle: Isabella, Marchisia, Leonora, Beatrice e Ginevra. Costanza Chiaramonte fu dunque donna molto feconda: tre figli maschi da due diversi mariti e ben cinque figlie femmine (per quello che se ne sa). Nelle tante doti che dovette fare rientrò mai Racalmuto? Davvero venne assegnato in esclusiva ad Antonio II del Carretto? Ed il riafflusso dei beni di famiglia da Matteo Doria ai nipoti di cogmone Del Carretto annetteva anche la nostra baronia? Misteri del Trecento che lo storico obiettivo non è in grado di dipanare. L’Inveges va invece a briglia sciolta. Chi ha voglia di seguirlo, faccia pure.

Se seguissimo l’attendibile Fazello, dovremmo pensare che Manfredi Doria abbia spostato l’asse del suo potere feudale a Cammarata. Il De Gregorio ci pare in definitiva piuttosto perplesso. Ai fini della nostra storia, i Doria non ci paiono, comunque, di particolare rilievo, ragion per cui non abbiamo dedicato molte ricerche su tale ceppo di mercanti e navigatori genovesi, approdati ad Agrigento che fu provvida pedana per una fortuna feudale che li fa assurgere a cospicui rappresentanti della nobiltà sicula trecentesca.

Dalle brume degli esordi racalmutesi della sciatta dei Del Carretto affiora qualche piccola scisti: chi fosse davvero quell’Antonio I Del Carretto che da Savona giunge ad Agrigento per sposare Costanza, quest’unica figlia del cadetto Federico Chiaramonte, non sappiamo. Possiamo escludere, sulla base che gli agiografici alla Inveges o alla Giordano, ogni effettiva egemonia sul feudo di Racalmuto. Non sappiamo neppure se il figlio Antonio II del Carretto sia stato davvero investito della baronia o se, alla morte di Matteo Doria, il titolo pervenne ai carretteschi. E ad investigare sugli intrecci nobiliari di quel tempo, ci perderemmo in congetture di nessuna fondatezza storica. Il padre Caruselli, Tinebra Martorana, Eugenio Napoleone Messana, questo l’hanno già fatto e chi prova diletto nelle fantasiose enfiature araldiche può farvi ricorso.

Di certo sappiamo che esistette un Antonio I Del Carretto - andato sposo a Costanza Chiaramonte - e che la coppia ebbe un figlio Antonio II Del Carretto. Vi è però una sola fonte e sono le carte dell’investitura di Matteo Del Carretto, che, tutte vere o totalmente o parzialmente falsificate che siano, risalgono allo spirare del quattordicesimo secolo, circa 100 anni dopo il succedersi degli eventi.

Quelle carte le abbiamo già citate e vi torneremo in seguito per le nostre esigenze narrative: qui ci basta richiamare l’attenzione sulla circostanza di un Antonio II Del Carretto trasmigrato a Genova (e non a Savona) e lì far fortuna in compagnie di navigazioni. Strano che costui non ritenga di rivendicare la sua quota del marchesato di Finale e Savona e non dare fastidio - neppure con la sua presenza fisica - agli altri coeredi della sua stessa famiglia che continua nell’egemonia di quei luogi liguri senza neppure un convolgimento formale di codesto figlio di un legittimo titolare.

Non v’è ombra di dubbio che i Del Carretto provengano dal marchesato di Finale e Savona: i tre fratelli Corrado, Enrico ed Antonio sembra che si siano divisi quel marchesato in tre parti; A Corrado andò Millesimo, ad Enrico Novello e ad Antonio Finale. Ciò secondo un atto che sarebbe stato stipulato dal notaio Aicardi nel 1268. I tre "terzieri" succedvano, pro quota, al padre Giacomo del Carretto, marchese di Savona e signore di Finale, che è presente dal 1239 al 1263. Sposato con tale C... contessa di Savona, morì nel 1263.

Su Antonio del Carretto, il Silla fornisce questi ragguagli: «marchese di Savona e signore di Finale, conferma il decreto del padre emesso nel 1258 circa l’abitato in Ripa-Maris; fiorì nel 1263; nel 1292 stipula ancora le famose convenzioni con Genova. Da Agnese ebbe Enrico, che sposa Catterina dei M.si di Clavesana; antonio che sposa Costanza di Chiaramonte.» Se bene intendiamo quell’autore, Antonio Senior del Carretto avrebbe generato anche Giorgio che diviene marchese di Savona e signore di Finale. E’ presente nel 1337, anno in cui gli uomini di Calizzato gli prestarono giuramento di defeltà. Ottenne l’investitura dei feudi nel 1355. Da venezia del Carretto ebbe quattro figli dei quali appare tutrice nel 1361. Gli succede il figlio Lazzarino I. E’ quindi la volta del nipote Lazzarino II operante alla fine del secolo, come da atto del 1397.

A seguire questa ricostruzione araldica, ben tre Antonio del carretto si succedono dal 1258 al 1390 c.a. Quello che abbiamo indicato come Antonio del Carretto I - quello andato sposo a Costanza Chiaramonte - sarebbe in effetti il secondo di tal nome; poi Antonio II, il primo cui si accredita la baronia di Racalmuto.

Ma tornando al nostro Antonio II Del Carretto, questi nasce qualche anno dopo il 1307, se crediamo all’Inveges. Diviene orfano di padre molto giovane (poco tempo prima del 1320?). Erediterebbe dall madre Racalmuto nel 1344 per atto del Notar Rogieri d'Anselmo in Finari à 30 d'Agosto 12. Ind. 1344, stando alle notizie dell’’Inveges prima riportate.

L’atto di permuta tra i fratelli Gerardo e Matteo del Carretto ad un certo punto vuole codesto Antonio del Carretto emigrato a Genova, come detto. Là si sarebbe arriccchito con partecipazioni in compagnie navali ed altro e là sarebbe morto (forse attorno al 1370). Questo il passo del citato atto ove possiamo cogliere siffatti dati biografici di Antonio II del Carretto. «Infine il predetto don Gerardo promise, sotto il vincolo del giuramento, di inviare da Genova in Sicilia tutti i privilegi, le scritture e i rogiti relativi ai beni venduti come sopra e specialmente alla baronia di Racalmuto, che rimasero presso lo stesso don Gerardo dopo la morte del magnifico quondam don Antonio del Carretto, suo padre, che ebbe a morire in potere e presso il detto don Gerardo, per consegnarli al detto don Matteo ed ai suoi eredi sotto ipoteca ed obbligazione di tutti i suoi beni, nonché della moglie e dei figli, mobili e stabili, posseduti e possedendi ovunque esistenti e specialmente quelle tenute date ed assegnate al predetto Gerardo in parziale soddisfazione della detta vendita.»

 

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