Io dopo Prodi fu un errore, ma quante menzogne
Ritornano periodicamente come un mantra le accuse a Massimo D’Alema di aver affossato il governo Prodi e l’Ulivo; ci sembra utile e doveroso dare spazio alla versione dei fatti dell’interessato:
Lettera al Corriere della Sera, 12 febbraio 2014
Caro Direttore,
ho deciso, dopo la chiusura del Congresso del PD, di non partecipare alle discussioni interne al mio partito. E’ giusto che di esse sia protagonista una nuova generazione e, d’altro canto, i miei impegni mi portano quasi esclusivamente a occuparmi di questioni europee e internazionali. Sono costretto, tuttavia, a chiederle ospitalità per tornare su una questione che viene rievocata con molti equivoci e superficialità, e qualche menzogna, a proposito delle dispute odierne. Si tratta del parallelismo tra l’ipotesi di una staffetta tra Letta e Renzi alla guida del governo e le vicende che nell’autunno del 1998 mi portarono a sostituire Romano Prodi nella funzione di presidente del Consiglio.
Ora, a me pare che si tratti di due vicende e di due situazioni profondamente diverse e non paragonabili. Per essere più chiaro, debbo tornare su ciò che accadde allora, anche per rispondere alle molte versioni deformate, false e, persino, calunniose, che sono ancora in circolazione.
Innanzitutto, il governo Prodi non cadde per iniziativa del nostro partito, né mai io ne sollecitai le dimissioni. Il governo Prodi cadde perché venne meno la fiducia di Rifondazione comunista o, per meglio dire, di una parte rilevante e decisiva dei parlamentari di quel partito. Era ormai evidente da tempo che Rifondazione comunista si trovava in una condizione di sofferenza e di crescente distacco dalla maggioranza. Così come era evidente che il governo godesse della simpatia e del crescente sostegno del gruppo dell’UDR, costituito da Francesco Cossiga. In almeno due importanti occasioni, questo gruppo aveva già votato a favore del governo Prodi, sostenendo l’approvazione del DPEF e la ratifica dell’allargamento della NATO. In queste circostanze, l’apporto di Cossiga era risultato determinante, altrimenti, per il mancato appoggio di Rifondazione comunista, il governo avrebbe dovuto dimettersi ben prima di quando, poi, avvenne la crisi.
Per questo, di fronte alla decisione di porre la questione di fiducia, temetti che il governo Prodi potesse trovarsi in difficoltà, e mi parve naturale cercare il sostegno di Cossiga per salvare l’esecutivo. Riuscii, alla fine, a ottenere la disponibilità a un voto favorevole, a un’unica condizione: che Prodi si rivolgesse esplicitamente alle forze che avevano votato a favore del DPEF per chiedere loro, coerentemente, un sostegno alla Legge finanziaria.
Informai Prodi, il quale rifiutò, anche su consiglio dei suoi collaboratori, ritenendo che il governo potesse comunque contare su una maggioranza attraverso l’apporto di singoli parlamentari. E, a tal fine, erano stati intrapresi vari contatti. Non era, questa, la mia convinzione e, purtroppo, il governo cadde, sia pure per un voto.
A questo punto, si aprì una difficile crisi. Prodi invocava le elezioni. Ne parlai con il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Egli escluse la possibilità di sciogliere le Camere. Vi erano da compiere adempimenti per il passaggio dalla lira all’euro, ma, soprattutto, la crisi dei Balcani era giunta a un punto assai delicato e drammatico: il governo Prodi aveva emanato l’Activation order, e cioè la decisione di porre in allarme e sotto il comando NATO le nostre Forze armate. Ricordo, come fosse ora, le parole di Scalfaro: “Solo un Paese di matti può convocare le elezioni in una condizione prebellica. Io mi rifiuto di avallare una simile follia”.
Insomma, bisognava cercare di costituire un governo. Pensai a Carlo Azeglio Ciampi. Il presidente Scalfaro era d’accordo. Mi recai, la domenica, a Santa Severa, a casa di Ciampi. Discutemmo a lungo. Si convinse. Il lunedì mattina avrebbe avuto l’incarico. L’idea era di anticipare possibili manovre e mettere un po’ tutti con le spalle al muro. Il lunedì, ricevetti una telefonata dal presidente. Egli aveva informato Prodi della sua intenzione, ma il presidente del Consiglio, di rimando, aveva richiesto l’incarico per sé, con un mandato esplorativo. Scalfaro mi disse che non ci si poteva sottrarre a tale richiesta e Prodi ebbe l’incarico. A questo punto, Cossiga compì due mosse determinanti: disse no a Prodi e rilasciò una pesantissima intervista contro Ciampi, per bruciare ogni possibilità di un suo ritorno in campo.
Fui convocato dal presidente della Repubblica, che era letteralmente furioso. Egli mi espresse la convinzione che Prodi avesse voluto l’incarico con l’unica intenzione di portare il Paese alle elezioni. Egli escluse di poterlo consentire. Pesava, oltretutto, il ricordo di ciò che era avvenuto con la crisi del governo Berlusconi nella precedente legislatura. Allora, le elezioni a Berlusconi furono negate e Scalfaro non voleva essere accusato di avere usato due pesi e due misure. Egli fu molto chiaro: “o il centrosinistra e l’Ulivo sono in grado di formare un nuovo governo politico con l’appoggio dell’UDR oppure darò al presidente del Senato l’incarico di formare un governo istituzionale per affrontare il difficile momento del Paese.”
Io chiesi che fossero il centrosinistra e l’Ulivo a decidere. Si tenne una riunione presieduta da Prodi. Alla fine, io fui raggiunto da Walter Veltroni e da Fabio Mussi, che mi informarono dell’esito: “abbiamo deciso di proporre a Scalfaro il tuo nome. Non vogliamo governi istituzionali o di unità nazionale. Tu sei in condizione di costituire un governo che preservi un assetto bipolare”.
Io accettai. Fu un errore. Ho già avuto modo di riconoscerlo. Non perché avessi tramato contro qualcuno, al contrario avevo cercato fino all’ultimo di sostenere il governo Prodi. Ma perché avevo sottovalutato l’incomprensione che questa vicenda avrebbe generato nel nostro stesso popolo e il peso di una campagna di delegittimazione che da subito Berlusconi mise in atto. E che ben presto trovò una eco, carica persino di rancore e di menzogne, anche nel nostro campo.
Ancora oggi questi sentimenti si trascinano e finiscono per annebbiare e distorcere la realtà dei fatti. Malgrado i fatti, così come io li ho raccontati, siano incontrovertibili e confermati da testimoni e osservatori non faziosi.
Per tornare ai giorni nostri, è evidente che la vicenda che ho rievocato non ha nulla a che vedere con le dispute correnti. C’è una nuova generazione al comando, si prenda le sue responsabilità, lasciando perdere i rancori e le menzogne del passato. Non chiedo altro. Spero che almeno questo lo si possa ottenere.
ho deciso, dopo la chiusura del Congresso del PD, di non partecipare alle discussioni interne al mio partito. E’ giusto che di esse sia protagonista una nuova generazione e, d’altro canto, i miei impegni mi portano quasi esclusivamente a occuparmi di questioni europee e internazionali. Sono costretto, tuttavia, a chiederle ospitalità per tornare su una questione che viene rievocata con molti equivoci e superficialità, e qualche menzogna, a proposito delle dispute odierne. Si tratta del parallelismo tra l’ipotesi di una staffetta tra Letta e Renzi alla guida del governo e le vicende che nell’autunno del 1998 mi portarono a sostituire Romano Prodi nella funzione di presidente del Consiglio.
Ora, a me pare che si tratti di due vicende e di due situazioni profondamente diverse e non paragonabili. Per essere più chiaro, debbo tornare su ciò che accadde allora, anche per rispondere alle molte versioni deformate, false e, persino, calunniose, che sono ancora in circolazione.
Innanzitutto, il governo Prodi non cadde per iniziativa del nostro partito, né mai io ne sollecitai le dimissioni. Il governo Prodi cadde perché venne meno la fiducia di Rifondazione comunista o, per meglio dire, di una parte rilevante e decisiva dei parlamentari di quel partito. Era ormai evidente da tempo che Rifondazione comunista si trovava in una condizione di sofferenza e di crescente distacco dalla maggioranza. Così come era evidente che il governo godesse della simpatia e del crescente sostegno del gruppo dell’UDR, costituito da Francesco Cossiga. In almeno due importanti occasioni, questo gruppo aveva già votato a favore del governo Prodi, sostenendo l’approvazione del DPEF e la ratifica dell’allargamento della NATO. In queste circostanze, l’apporto di Cossiga era risultato determinante, altrimenti, per il mancato appoggio di Rifondazione comunista, il governo avrebbe dovuto dimettersi ben prima di quando, poi, avvenne la crisi.
Per questo, di fronte alla decisione di porre la questione di fiducia, temetti che il governo Prodi potesse trovarsi in difficoltà, e mi parve naturale cercare il sostegno di Cossiga per salvare l’esecutivo. Riuscii, alla fine, a ottenere la disponibilità a un voto favorevole, a un’unica condizione: che Prodi si rivolgesse esplicitamente alle forze che avevano votato a favore del DPEF per chiedere loro, coerentemente, un sostegno alla Legge finanziaria.
Informai Prodi, il quale rifiutò, anche su consiglio dei suoi collaboratori, ritenendo che il governo potesse comunque contare su una maggioranza attraverso l’apporto di singoli parlamentari. E, a tal fine, erano stati intrapresi vari contatti. Non era, questa, la mia convinzione e, purtroppo, il governo cadde, sia pure per un voto.
A questo punto, si aprì una difficile crisi. Prodi invocava le elezioni. Ne parlai con il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Egli escluse la possibilità di sciogliere le Camere. Vi erano da compiere adempimenti per il passaggio dalla lira all’euro, ma, soprattutto, la crisi dei Balcani era giunta a un punto assai delicato e drammatico: il governo Prodi aveva emanato l’Activation order, e cioè la decisione di porre in allarme e sotto il comando NATO le nostre Forze armate. Ricordo, come fosse ora, le parole di Scalfaro: “Solo un Paese di matti può convocare le elezioni in una condizione prebellica. Io mi rifiuto di avallare una simile follia”.
Insomma, bisognava cercare di costituire un governo. Pensai a Carlo Azeglio Ciampi. Il presidente Scalfaro era d’accordo. Mi recai, la domenica, a Santa Severa, a casa di Ciampi. Discutemmo a lungo. Si convinse. Il lunedì mattina avrebbe avuto l’incarico. L’idea era di anticipare possibili manovre e mettere un po’ tutti con le spalle al muro. Il lunedì, ricevetti una telefonata dal presidente. Egli aveva informato Prodi della sua intenzione, ma il presidente del Consiglio, di rimando, aveva richiesto l’incarico per sé, con un mandato esplorativo. Scalfaro mi disse che non ci si poteva sottrarre a tale richiesta e Prodi ebbe l’incarico. A questo punto, Cossiga compì due mosse determinanti: disse no a Prodi e rilasciò una pesantissima intervista contro Ciampi, per bruciare ogni possibilità di un suo ritorno in campo.
Fui convocato dal presidente della Repubblica, che era letteralmente furioso. Egli mi espresse la convinzione che Prodi avesse voluto l’incarico con l’unica intenzione di portare il Paese alle elezioni. Egli escluse di poterlo consentire. Pesava, oltretutto, il ricordo di ciò che era avvenuto con la crisi del governo Berlusconi nella precedente legislatura. Allora, le elezioni a Berlusconi furono negate e Scalfaro non voleva essere accusato di avere usato due pesi e due misure. Egli fu molto chiaro: “o il centrosinistra e l’Ulivo sono in grado di formare un nuovo governo politico con l’appoggio dell’UDR oppure darò al presidente del Senato l’incarico di formare un governo istituzionale per affrontare il difficile momento del Paese.”
Io chiesi che fossero il centrosinistra e l’Ulivo a decidere. Si tenne una riunione presieduta da Prodi. Alla fine, io fui raggiunto da Walter Veltroni e da Fabio Mussi, che mi informarono dell’esito: “abbiamo deciso di proporre a Scalfaro il tuo nome. Non vogliamo governi istituzionali o di unità nazionale. Tu sei in condizione di costituire un governo che preservi un assetto bipolare”.
Io accettai. Fu un errore. Ho già avuto modo di riconoscerlo. Non perché avessi tramato contro qualcuno, al contrario avevo cercato fino all’ultimo di sostenere il governo Prodi. Ma perché avevo sottovalutato l’incomprensione che questa vicenda avrebbe generato nel nostro stesso popolo e il peso di una campagna di delegittimazione che da subito Berlusconi mise in atto. E che ben presto trovò una eco, carica persino di rancore e di menzogne, anche nel nostro campo.
Ancora oggi questi sentimenti si trascinano e finiscono per annebbiare e distorcere la realtà dei fatti. Malgrado i fatti, così come io li ho raccontati, siano incontrovertibili e confermati da testimoni e osservatori non faziosi.
Per tornare ai giorni nostri, è evidente che la vicenda che ho rievocato non ha nulla a che vedere con le dispute correnti. C’è una nuova generazione al comando, si prenda le sue responsabilità, lasciando perdere i rancori e le menzogne del passato. Non chiedo altro. Spero che almeno questo lo si possa ottenere.
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