sabato 2 febbraio 2013

La donna del Mossad capitolo primo


Calogero Taverna

 

La donna del Mossad

 


 

CONCOMITANZE

 

 

Alla Farnesina d’improvviso fu sgomento: il vecchio guru, che querulo saccente malefico lo era da tempo, si impossessò del massimo scranno. Erano teorie di sale a cassettone, lucide d’oro, allicchittate[1] e poi gli anodini arazzi, gli squallori di quadri vetusti ma stinti, il sapore insomma di una politica estera in minuetto e servile, incisiva forse solo al tempo del Duce. Quel fascistone, lì, il fatto suo lo seppe fare con i convitati dei grandi del mondo … almeno sino ad una certa epoca della sua enfiata era.

I molteplici salti di quantità del votare a fiume in piena per quel tale Berlusconi, di colpo segnarono il cambio di tutta intera l’Italia. Era, ora, bifronte: spezzata provinciale e svagata all’interno; insensa, minuscola acquiescente, fuori degli storici confini. Il guru della Farnesina nulla valeva, nulla poteva. Il primo ministro aveva palesi tedi nel sentirlo: solo voglie vindici verso i già licenziati plenipotenziari, un tempo amici dei comunisti, razza ormai desolatamente estinta. Ed a Berlusconi quel rimasuglio delle sue antiche crociate dava disgusto, come il parlar pederasta a donna che quando vergine fosse adusa a concedere la retroposta entratura. Aveva imposto abiure umilianti e remissive, anche il V*** s’era lasciato andare ad assiomatiche inconciliabilità tra comunismo e democrazia: poté diventare sindaco di Roma per momentanea permissione di monsignor Rubicchi arcigno modenese in eterno astio verso i conterranei rossi sciamanti dall’Abetone alle radure benedettine del nonantolese. Durò poco il canuto Violo e sparì di scena: sapeva d’affari e gli esperti suoi familiari seppero arricchire nell’interscambio astuto con gli astuti ex sovietici.

Fu un pomeriggio del 29 giugno, quando Roma in impercettibile devozione verso i suoi santi padroni Pietro e Paolo non permise agli addetti della Farnesina  di trasmigrare ad Ostia per la lasciva contemplazione degli ancora bianchicci glutei di ragazzotte romane dell’ultima generazione, alte poppute auree su trampoli rastremati come di gazzelle umane. Il guru, umidiccio di sudore, stanchi gli occhi dietro lenti spesse, quasi spenti per defluvio dell’intelligenza, ebbe scatto iroso:

-       ma che cavolo mi porti?

-       dottore, stava abbandonato sul tavolo dell’ambasciatore Michetti.

-       ed io di Michetti me ne sbatto le palle …. ma già ora trema per il suo culetto al n. 4 della Rehov Weizmann di Tel Aviv. Là ci fui anch’io, è vero; là anch’io ebbi talora spavento per quei palestinesi bombaroli … che si diverti ora lui, come hanno cercato di far divertire me i suoi porci amici quando comandavano … al soldo del Kgb …

 

Il dottor Giliberti, Mefisto nell’eloquio dell’ambiente, mefistofelico appariva davvero: nero, con abito sempre nero; barbetta nera sotto occhialetti tondi in radica nera; sibilante di parola, tetro, proprio infernale:

-       non so, proprio male forse ho fatto. L’ho visto là quel telex: l’ho letto. Misterioso l’ho trovato. Mi sono precipitato da sua eccellenza, prima che altri lo notassero.

 

Quell’eccellenza non si poteva più usare, non si doveva. Eppure Mefisto sapeva che al guru piaceva. Se era trasmigrato a destra da Lotta continua (perché da giovane il guru lì militò) non poco contribuì la soppressione democratica degli orpelli ministeriali. Finì l’«eccellenza» proprio quando la folgorante carriera del guru approdava al lido dell’ «eccellenza».

 

Il guru si ammansì di colpo:

-       dai, dai. Fai vedere, va! …. Ma che cazzo significa? Quella sfilza di citazioni bibliche, con l’indicazione dei soli libri e dei … versetti, è proprio stramba…

Il guru ebbe un moto di autocompiacimento per quel “versetti”…. si sentì eruditissimo come di sapiente “in utroque”. «Che bravo che sono» – si disse e plaudì a se stesso per quelle rimembranze del latino clericale. L’aveva appreso in seminario.

Restituì il foglio al Mefisto. Sottolineato colpiva:


Fino all’anglicismo e-mail il guru arrivava; Mefisto neppure lì.

-       Che ne faccio?

Un fuggevole istante per il solito tic: aggiustare gli occhiali sul naso mentre la fronte si aggrottava.

-    Passalo agli infami.

-       Al dottor Ciunnameli del Sisde? – volle con malizia essere preciso il Mefisto.

-       Ed a chi? Se no?

Tornò ingrugnito il guru.

Era pomeriggio duro, non tanto per il caldo che l’incombente temporale non riusciva ad addolcire, ma per l’inane gelosia che tutto nell’intimo sfibrava il signor ministro degli esteri dell’Italia berlusconiana. Elisa, napoletana di cerulee fattezze, quel pomeriggio aveva voluto godere della festività per i santi padroni di Roma. Segretaria del guru, imbecillotta ma avvenente, nella pausa antimeridiana doveva sobbarcarsi alla “fellatio in ore” in quella che nel gergo ministeriale si definiva l’ora erotica, dalle 14 alle 15. Sciamavano dal ministero le frotte impiegatizie per l’onanistico food nei bar dei dintorni. Dentro rimanevano i dirigenti, quelli d’alto grado che usufruivano di stanza a solo. Quasi tutti si sprangavano nel loro ufficio con la collaboratrice e consumavano l’ora erotica, appunto.

Il guru, prima da direttore generale ed ora da ministro, si avvaleva della bella Elisa, cui incombeva il bacio della lascivia. Non eravamo negli Stati Uniti ed il guru non era Clinton. Nessun timore, nessuno scandalo era da paventare. L’affaretto semifloscio stentava a piangere, ma con pertinacia anche se con ripulsa Elisa alla fine riusciva. Non volle però mai rapporti completi o diversi. Conservava la sua verginità per il suo lui. Ed una volta descrisse al guru annientato da collera gelosa l’imene violato dal suo priapo biondo, massiccio ed inestinguibile. La fece pedinare, il guru. Gli uomini di Tom Ponzi non ebbero nulla di impudico da riferire. Mentivano?

E quel pomeriggio la Elisa lontana, il bacio mancato, il disagio dell’estate incipiente in una Roma al caldo-umido ed il telex biblico snervavano il guru come in un preludio tetro e cupo del meritato castigo eterno. Già, il guru all’occiduo stagionare della vita era tornato cattolico, roso da scrupoli intrisi di religiosa tortura, inquieto, peccatore cui Dio stentava a dare l’ultima assoluzione, destinato alle pene del fuoco eterno. Solo il giorno in cui, con la lingua del burocrate, avesse dismesso Elisa si sarebbe forse salvato. Ma la volontà steccava, imperdonabilmente. Che fortuna nascere nella terra protestante dell’America clintoniana.

La porta si riaprì con nervosissimo scatto. Mefisto sibilò:

-       come glielo mando?

Il guru trattenne l’insolenza scurrile che l’esser distratto da pensieri di chiesa e da rabbie dell’eros stava per ingozzarlo con furia di non facile controllo:

-       ma mandaglielo con la solita nota d’accompagno ….. Mi raccomando: sii conciso!

-       Dovrò portargliela alla firma?

-       Firma tu, firmala tu stesso.

 

*    *     *

 

Così quella “nota d’accompagno” è lì ora sul mio tavolo da lavoro, nella mia villetta alla Zingarella. E qui è d’uopo presentarmi. Sono Meluccio Cavalieri di Giorgenti. Dottore in legge, molti anni fa; sceneggiatore squattrinato, per decenni in preda alla mala povertà; ora ricchissimo avendo scritto scriteriati gialli che la gente (pronuba la pubblicità) legge a valanghe. La mia notorietà – oh quanto l’avrei voluta da giovane! – è divenuta mitica; si è accoppiata – con mio disappunto – autorità indiscutibile, somma, perentoria. Persino il ministero, persino Berlusconi (ed io sono vetero comunista tutt’altro che pentito) si avvalgono di me, come consulente (e vengo profumatamente pagato) per dipanare i misteri dei tanti, troppi omicidi che si consumano in questa Italia di destra, che di efferati fatti di sangue, specie a sfondo politico, non dovrebbe registrarne di taluna sorta.

La “nota d’accompagno” reca in agghindata grafia la firma di M. Giliberti. Non scherziamo:‘M’ non sta per Mefisto. Michele? Mario? Manilo? Minuzio? Marcello? Marzio? Massimo? Metello? Sì, forse Metello: mi sembra il più acconcio a quel cognome tanto italianamente esotico. Non mi si dica: che ti costa interpellare il Ministero? Sì, mi basterebbe una telefonata alla signorina Saguatti (tanto modenese, tanto caruccia anche per i miei quindici lustri), ma non ne ho voglia alcuna. Diciamo: non mi va.

Vorreste sapere se vi sono le tante note di colore che prima ho profuso? Ovviamente, no. Eppure gli ipotattici incisi, alla Sciascia (limitatamente alla ostica sintassi, s’intende) e i miei irrefrenabili svolazzi fantasiosi rendono veridica, anche se non vera, la narrazione di quel pomeriggio romano alla Farnesia che si data 29 giugno duemila…..

Siete curiosi e vorreste sapere dell’altro? Con comodo, a suo tempo e luogo come si conviene ad un giallo di consueta fattura.

Sto rimestando carte, appunti, rapporti, ritagli, missive, libri ed ho già consultato l’intero hard-disk del dottore Aurelio La Matina Calello di Racalmuto. Ha tentato di mutarne i connotati lo scrittore indigeno Sciascia, cercò di farlo chiamare Regalpetra, ma Racalmuto resta Racalmuto ad onta di tutto. Ed il dottore Aurelio La Matina Calello racalmutese lo fu fino al midollo. In che senso? Ma nel senso da lui stesso dato in uno dei suoi abortiti sforzi letterari: «Da oltre sette secoli, Racalmuto lascia tracce di vita e di morte negli archivi, nei diari, nelle opere storiche e si appalesa popolo fervido di inventiva, coeso, dai costumi peculiari, dalla cultura inconfondibile, capace di azioni reprobe, narrabili, contraddistintosi in eventi rimarchevoli, con connotati magari di vigliaccheria o di perversione, però non privi talora di empiti nobili, senza - a dire il vero - nessuna propensione all’eroismo, ma rifuggendo sempre dalle abiezioni collettive. Nessun episodio di guerra, nessuna rivolta cruenta, nessuna carneficina, nessun sovvertimento sociale. Obbedienti e critici, sottomessi ma mugugnanti, specie nelle varie congreghe (religiose o civili, a seconda dei tempi).

 

*    *    *

A trovarlo riverso sul tavolinetto di ignobile fattura era stato il fratello il pomeriggio del 19 gennaio del 20…, quando messosi in apprensione per una lunga giornata di silenzio, anche a telefono, si era deciso ad andare a vedere che cosa fosse successo. Era giunto tra fanghi quasi invalicabili alla cascina di contrada Bovo, aveva bussato e non avendo risposto alcuno, col piccolo chiavino [2] di cui aveva copia aprì il portoncino in metallo dal colore stinto ed ebbe la violenta visione:

-       Liù! – gridò e dopo il balzo in vorticosa angoscia toccò di spalla il fratello per averne la tragica conferma della morte.

Non pensò, certo, a morte violenta, credette a “morti subbita”: del resto anche la vecchia mamma se ne era andata per improvviso cedimento cardiaco. Spostò il cadavere - ormai irrigidito, pendula la bocca, stravolti gli occhi - nel letto della stanza accanto, disfatto come d’abitudine per quel settantenne fratello, non privo d’ingegno ma nevrotico, eccentrico, loquace e senzadio. Solo, scosso ed anche lui non più giovanissimo, Girolamo La Matina Calello, stentò parecchio in quelle mortuarie incombenze. Alla fine si decise: telefonò alla moglie in paese. Insieme al figlio giunsero quasi all’istante. Il figlio sentenziò:

-       non toccate nulla! C’è qualcosa che non mi convince. Innanzi tutto chiamiamo il medico.

Laureato in legge da poco, aveva conseguito autorevolezza in famiglia.

Faceva impressione sul tavolinetto dozzinale la tazzina di caffè ancora piena fino a tre quarti; frantumata per terra un’altra analoga tazzina, senza caffè sparso per terra, comunque.

Non tardò molto il dottore, don Lillì Merillo. Politico sempre fallimentare, come medico curante, bravino lo era davvero. Girò e rigirò il cadavere. Tentennò, scosse varie volte il capo canuto ma folto di capelli. Sentenziò:

-       il dottore non è morto d’infarto: è stato avvelenato … addirittura ieri.

Il giorno prima aveva diluviato a Racalmuto: dalla Montagna e da Bovo fiumare d’acqua erano scese a valle; avevano trovato occluso il ponte del Carmine. Colpa di un vecchio tecnico comunale che aveva fatto otturare il canaletto sotto la strada provinciale. Il deflusso di acque dalle terre di Troisi aveva sradicato alberi e con il pietrisco in crescita si eresse sbarramento all’entratura del sottopassaggio del ponte ferroviario, ché follia era stata nell’Ottocento quella barriera sopraelevata per fare accedere alla stazione gli sbuffanti ma stracchi treni dell’epoca. Il fratello del tecnico ancor oggi vuol teorizzare dovute ad imperizia dei costruttori delle case popolari le allaganti ostruzioni.

 

Girolamo pensò che don Lillì non potesse dunque che sbagliare. Il medico che si era seduto sulla poltroncina color giallo senape in rudimentale rivestimento di un’anima in ferro – erano sedie e poltrone comprate d’estate all’imbocco di Canicattì – si scosse dal suo apparente letargo, non chiese neppure permesso, alzò la cornetta del telefono, ed ora flemmatico come si addice ad un professionista, sia pure racalmutese, quasi dettò:

-       qui alla casina di Bovo del dottore Aurelio La Matina Calello, ho trovato il medesimo deceduto per avvelenamento. Ignota al momento la natura del veleno. Ritengo risalire al tardo pomeriggio di ieri sera il decesso.

 

Imbarazzo, silenzi, grugniti all’altro capo del telefono.

-       Lascio tutto come l’ho trovato … non faccio toccare nulla. Penserà la vostra scientifica agli accertamenti del caso. Avvisate il giudice per la rimozione del cadavere.

La moglie di Girolamo svenne.

 

*   *   *

Rovistando tra le carte del dottor Aurelio La Matina Calello, m’imbatto in un plico bianco a doppia tasca. Do not foldNon piegare ed analoga dicitura in ebraico che naturalmente non so decifrare: Provenienza: Israele Tel Aviv, par avion. Leggo dietro: SENDER : Melissa Cohen, address 325 Haligilboa St., code 65223 Tel-Aviv country ISRAEL.

-       Chi cavolo sarà codesta Melissa Cohen?

Allegata vi è una rivista patinata in ebraico, come dire in turco per me. Ma un foglio è in italiano, sgangherato quanto si voglia ma in italiano. Del resto magari sapessi scrivere io in ebraico sia pure sgangherato. Leggo:

Caro Francesco,

Ti ringraziamo di cuore per un bellissimo pommerigio a Racalmuto: ci hai convinti nel modo pi’ assoluto che c’è chi ama la sua terra, in Sicilia. Speriamo di rivederti qualche giorno in Sicilia, o, chi sa, forse in Israele? Purtroppo l’articolo sulla Sicilia (pagine 90-94 della revista rinchiusa, “Massa Acher”) troverai un po’ difficile leggerlo … comunque c’è anche una foto di Racalmuto, vediamo se la trovi! Grazie anchora e tanti saluti, anche da parte di Dubi. Melissa Cohen etc.

 

La foto la trovo subito ed è splendida. La precede una sfilza di mirabili squarci fiorentini con la solita iconografia rinascimentale. Che birichina quella Melissa a propinare alle pudiche lettrici della terra della casta Susanna la tizianesca “Venere d’Urbino”, la cui masturbazione femminea, sfacciata ed irridente, è ostensa con maliziosissima impudicizia. E non solo, «bellezza tizianesca, bellezza fisica, colta nell’intimità della sua alcova, nella sua naturale esistenza» come singultiano i nostri scolastici testi d’arte.

E qui mi vien voglia di pensare ai fatti nostri, alla nostra cultura cattolica, all’ultimo catechismo del cardinale Ruini, a questa nostra cappa di moralismo sessuofobo di vaticanesca ispirazione.

Tiziano qui non si diletta nella pornografia? Proprio come oggi la chiesa censura: «la pornografia consiste nel sottrarre all’intimità dei partner gli atti sessuali, reali o simulati, per esibirli deliberatamente a terze persone. Offende la castità perché snatura l’atto coniugale, dono intimo l’uno all’altro. Lede gravemente la dignità di coloro che vi si prestano (attori, commercianti, pubblico) poiché l’uno diventa per l’altro l’oggetto di un piacere rudimentale e di un illecito guadagno: Immerge gli uni e gli altri nell’illusione di un mondo irreale. E’ una colpa grave. Le autorità civili devono impedire la produzione e la diffusione di materiali pornografici » (Ciò recita con sussiego catechistico l’art. 2354).

Caro Berlusconi, beccati questa: non tu (che il gusto del sesso ce l’hai) ma il tuo evirato improbabile successore chissà se non finisca per accogliere l’anatema del successore di Ruini e pronuba, magari, la casta pronipotina del castissimo Formigoni – sia pure incinta, o appunto perché incinta – non metta all’indice il pornografo Tiziano e svelli dagli Uffici cotanto materiale masturbatorio, addirittura femminile. Lo mandiamo a Tel-Aviv. Mi piacerebbe, al mio consanguineo Gheddafi (ma quello è costretto a ripudiare le immagini, se no, che arabo sarebbe?).

Non v’è rimedio: l’art. 2521 sancisce il pudore senza limiti «Esso è una parte integrante della temperanza.» Tiziano non è di sicuro un “temperato”. «Il pudore preserva l’intimità della persona». Tiziano ha voglia di diffondere, in tempi senza foto e senza cinema, le più intime voglie erotica di una bagascia insoddisfatta. «Consiste nel rifiuto di svelare ciò che deve rimanere nascosto» E l’intimo piacere poche donne hanno voglia di svelare, ancora ai nostri pecaminosissimi giorni. «E’ ordinato alla castità, di cui esprime la delicatezza.» La Venere d’Urbino, tutto al contrario. «Regola gli sguardi e i gesti in conformità alla dignità delle persone e della loro unione.» Caro Berlusconi, come “autorità civile” acclamata dagli ecclesiastici, non hai scampo. La condanna è da cassazione: svelli il Tiziano.

Tralascio di commentare la botticelliana nascita di Venere, tutta cerulea, conchigliata, presa da sublimità erotica, di certo splendida nudità ridestativa del fomite carnale e del deliquio visivo. Irridente per la tenebrosa bellezza delle figliole di Sion: nigra sum sed formosa. Giammai, però, glauche ispiratrici di concupiscenza, botticelliane. Ma in Israele non v’è censura? Non v’è l’analogo della morale cattolica? La licenziosità quali spazi di permissibilità consegue?

Mi accorgo, a questo punto, di avere sfogliato la rivista nel verso sbagliato: dovrei girarla dalla fine all’inizio come si addice ad una pubblicazione ebraica. Non ne ho più voglia. Mi soffermo solo sulla fotografia del panorama racalmutese. Vi è allegato un appunto del dottor Aurelio La Matina Calello. Invero è uno squarcio della lunga missiva inviata alla negroide Melissa (che se è quella che appare nella rivista è un’appetitosa gnocca, insomma una gran cucchia[3] ).



[1] ) non nel senso del Traina (= parlar con facezie), ma in quello del paese mio, come dire agghindate ma sciattamente; intraducibile dunque.
[2] ) al maschile come usa a Racalmuto
[3] ) Il senso va molto più in là del casto Traina.

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