domenica 1 novembre 2015

Quando Roma finalmente tornerà pagana

Halloween ed io: la gioia di vivere e i Lupercalia nella mia Roma pagana

 

 

 

 

Stomacato leggo questo articolo di un giornale che dovrebbe essere tutt'altro che reazionario

 

 

Ieri sera vado a pagare il mio solito caffè con brioscia quando vengo scavalcato, spinto,  allontanato da frotte di bamboccetti che pressavano per avere dalla cassiera il bastoncino di cioccolato. Mascherati dipinti, impiastricciati ma sempre carinissimi. Sorride la cassiera sorridiamo i maturi avventori. E una gioia vederli, allegri loro diventiamo allegri anche noi. Già, così la vita è bella.

 

Al bancone ecco la solita arcigna barista. Ma stasera è pur ella ilare. In testa un fregio giallo. Slanciata, longilinea acquisisce stasera un richiamo erotica che mai le avevo notato. Maternità, amore, gioia, bambini, vita. Le chiedo cosa succcde.  - Festa pagana è, mi risponde come invasata. L'ombra funerea del Marino politico si dissolve tra questi bambini paganeggianti dirimpetto alla truce chiesa di Maria di Coromoto.  Viva la paganità!

 

Da vecchio delle omeriche porte Scee farnetico un ritorno all'antica Rona. Spero che questo febbraio, quando Papa Cicciu se ne starà là oltre Tevere a pregare, digiunare e flagellarsi, invece da queste parti esploda l'antica carnescialesca festa del LUPERCALIA.

 

Che spettacolo, giovani baldi e nudi danzare e farsi palpare da giovinette ormai libere che a loro volta  palpeggino per scegliersi chi le possa fare possentemente donne senza vinculo di coniugio.

Halloween, recuperiamo la nostra bellezza


di | 31 ottobre 2015
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di | 31 ottobre 2015
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Più informazioni su: Cimitero Monumentale, Halloween, Monumenti
Architetto, esperta di Beni Culturali
La volgarità che ha invaso ormai le nostre città, dalle vetrine ed insegne pacchiane nei centri storici o gli insulsi oggetti di arredo urbano, fino agli inutili e autoreferenziali grattacieli, viene accresciuta ogni anno da una allucinante festa trash-macabra. Mi riferisco all’importazione della “ricorrenza” di Halloween; di tradizione anglosassone, molto celebrata ed ampliata negli Usa, una vera “americanata” che ha poco a spartire con la nostra cultura e le nostre tradizioni, alcuni travestimenti con le maschere degli antenati avvenivano in epoca romana unicamente durante i funerali. Le vie delle città così vengono invase da mostri di tutte le età, le botteghe storiche e persino le scuole, riempite di zucche di cartapesta, teschi, falci, scheletri danzanti di plastica, nulla a che vedere con le varie Danze macabre (ad esempio quella di Clusone) in spregio al buon gusto. Inconcepibile a questo punto che i bambini ed anche gli adulti lo recepiscano come una nostra festa, una sorta di Carnevale o Befana.
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Mi sono addentrata in queste riflessioni perchè la non conoscenza porta la ricorrenza dei Defunti della nostra tradizione antica, già celebrata con rispetto nell’arte funeraria e nei monumenti funebri, ad essere dimenticata nei nuovi cimiteri identificati come dei mortifici e i sepolcri come contenitori di salme, senza voler infierire sulle recenti opere come il cimitero di Venezia. Diceva Ernesto Rogers: “La memoria conferisce alle cose dello spazio la misura del tempo: di tutto quel tempo che è prima di noi. Ma è il tempo dei morti, riuniti in consorzio per ammonirci di essere vivi come essi sono stati nel loro momento. Ammonire e ricordare (moneo e memini) hanno in latino la stessa radice e da esso acquista valore la parola monumento ed il concetto che essa racchiude simbolicamente”.
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Angelo di Monteverde – Cimitero di Staglieno, Genova

Nel passato questi luoghi, dopo l’editto napoleonico, assunsero in alcune città delle connotazioni di veri e propri complessi architettonici di grande rilevanza artistica. Sorsero così il Monumentale di Genova, lo Staglieno, progettato dallo stesso architetto del Carlo Felice, Barabino; poco lontano, a Zoagli, una sua riproduzione in miniatura e tantissimi altri in scala ridotta.
Decisamente curiosi come ‘Le Fontanelle‘ di Napoli o magniloquenti come il Cimitero della Certosa di Bologna: un insieme di tombe dei famosi e di firme di maestri dell’architettura e della scultura.
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Di impronta romantica il celebre Cimitero Acattolico di Roma che si avvia verso il 300° anno di costituzione e il cui percorso è un libro di storia della letteratura internazionale. Ma l’elenco è lunghissimo ed arriva sino in Sicilia con il Gran Camposanto di Messina; ovviamente non bisogna dimenticare il Camposanto di Pisa ed il Verano a Roma, oltre tutta la lunga serie delle necropoli etrusche da cui deriva il nostro culto dei morti.
E’ importante ricordare forse il più bel sepolcro rinascimentale: le Cappelle Medicee e i tantissimi monumenti funebri come la più emblematica tomba razionalista, quella progettata da Terragni sull’altipiano di Asiago per Roberto Sarfatti, o fare un salto a Ravenna per il mausoleo di Teodorico o sulla via Appia per il monumento a Cecilia Metella. Al di fuori dei cimiteri e dei famedi poi i monumenti funebri nelle chiese quella di Ilaria del Carretto a Lucca e Guidarello a Ravenna e i tanti nella Basilica di S. Croce, il Pantheon di Firenze. L’elenco sarebbe lunghissimo e volutamente ho ricordato i più conosciuti e facilmente raggiungibili perché potrebbe essere un’idea per gli insegnanti celebrare questa ricorrenza visitando i famedi, le chiese con monumenti funebri eccelsi o bizzarri come le Tombe dei Giganti in Sardegna e magari riscoprire le tradizioni culinarie italiane.
Invece dei dolcetti americani infatti occorrerebbe che i nostri forni riproponessero il pane dei morti tipico della Lombardia e Toscana, le ossa dei morti e i piparelli in Sicilia, o quello che ogni regione propone come propria specialità. Pertanto non mancano le motivazioni per compiere escursioni interessanti nei tanti musei all’aperto che sono i nostri cimiteri monumentali o il percorso delle tombe illustri, sia per i personaggi di cui custodiscono le spoglie sia per gli artisti che le hanno progettate ed un modo diverso per celebrare il 2 novembre e rispettare la nostra cultura che aveva il culto della Bellezza anche nella Morte.
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Ieri sera vado a pagare il mio solito caffè con brioscia quando vengo scavalcato, spinto,  allontanato da frotte di bamboccetti che pressavano per avere dalla cassiera il bastoncino di cioccolato. Mascherati dipinti, impiastricciati ma sempre carinissimi. Sorride la cassiera sorridiamo i maturi avventori. E una gioia vederli, allegri loro diventiamo allegri anche noi. Già, così la vita è bella.

Al bancone ecco la solita arcigna barista. Ma stasera è pur ella ilare. In testa un fregio giallo. Slanciata, longilinea acquisisce stasera un richiamo erotica che mai le avevo notato. Maternità, amore, gioia, bambini, vita. Le chiedo cosa succcde.  - Festa pagana è, mi risponde come invasata. L'ombra funerea del Marino politico si dissolve tra questi bambini paganeggianti dirimpetto alla truce chiesa di Maria di Coromoto.  Viva la paganità!

Da vecchio delle omeriche porte Scee farnetico un ritorno all'antica Rona. Spero che questo febbraio, quando Papa Cicciu se ne starà là oltre Tevere a pregare, digiunare e flagellarsi, invece da queste parti esploda l'antica carnescialesca festa del LUPERCALIA.

Che spettacolo, giovani baldi e nudi danzare e farsi palpare da giovinette ormai libere che a loro volta  palpeggino per scegliersi chi le possa fare possentemente donne senza vincolo di coniugio.
Lupercalia
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Lupercalia
Altar Mars Venus Massimo.jpg
Tipo di festareligiosa
Datadal 13 al 15 febbraio
Celebrata aRoma
ReligioneReligione romana e Via romana agli Dèi
Oggetto della celebrazioneFertilità e protezione del bestiame ovino
Altri nomiLupercali
I Lupercali (in latino: Lupercalia) erano una festività romana che si celebrava nei giorni nefasti di febbraio, mese purificatorio[1] (dal 13 fino al 15 febbraio), in onore del dio Fauno nella sua accezione di Luperco (in latino Lupercus), cioè protettore del bestiame ovino e caprino dall'attacco dei lupi. Secondo Plutarco sembra fossero dei riti di purificazione.[1]
Secondo un'altra ipotesi, avanzata da Dionisio di Alicarnasso[2], i Lupercalia ricordano il miracoloso allattamento dei due gemelli Romolo e Remo da parte di una lupa che da poco aveva partorito; Plutarco dà una descrizione minuziosa dei Lupercalia nelle sue Vite parallele.[3] I Lupercalia venivano celebrati nella grotta chiamata appunto Lupercale, sul colle romano del Palatino dove, secondo la leggenda, i fondatori di Roma, Romolo e Remo, sarebbero cresciuti allattati da una lupa.


Data[modifica | modifica wikitesto]

La festività si svolgeva a metà febbraio, con il suo culmine il 15 febbraio, perché questo mese era il culmine del periodo invernale nel quale i lupi, affamati, si avvicinavano agli ovili minacciando le greggi. Era quindi situata quasi alla fine dell'anno, considerando che i Romani festeggiavano il nuovo anno il 1º marzo.

Storia[modifica | modifica wikitesto]

Le origini della festa sono avvolte nella leggenda: secondo Dionisio di Alicarnasso[4] e Plutarco,[1] i Lupercali potrebbero essere stati istituiti da Evandro, che aveva recuperato un rito arcade. Tale rito consisteva in una corsa a piedi degli abitanti del Palatino (allora chiamato Pallanzio, dalla città dell'Arcadia di Pallanteo), senza abiti e con le pudenda coperte dalle pelli degli animali sacrificati, tutto in onore di Pan Liceo ("dei lupi").
Secondo una leggenda narrata da Ovidio[5], al tempo di re Romolo vi sarebbe stato un prolungato periodo di sterilità nelle donne. Uomini e donne si recarono perciò in processione fino al bosco sacro di Giunone, ai piedi dell'Esquilino, e qui si prostrarono in atteggiamento di supplica. Attraverso lo stormire delle fronde, la dea rispose, sgomentando le donne, che le donne dovevano essere penetrate (inito, che rimanda a Inuus, altro nome di Fauno) da un sacro caprone, ma un augure etrusco interpretò l'oracolo nel giusto senso, sacrificando un capro e tagliando dalla sua pelle delle strisce con cui colpì la schiena delle donne e dopo dieci mesi lunari le donne partorirono.
I Lupercalia furono una delle ultime feste romane ad essere abolite dai cristiani. In una lettera di papa Gelasio I[6] si riferisce che a Roma durante il suo pontificato (quindi negli anni fra il 492 e il 496) si tenevano ancora i Lupercali, sebbene ormai la popolazione fosse da tempo, almeno nominalmente, cristiana. Nel 495 Gelasio scrisse questa lettera (in realtà un vero e proprio trattato confutatorio) ad Andromaco, l'allora princeps Senatus, rimproverandolo della partecipazione dei cristiani alla festa. Si ignora se la festa sia stata abolita quell'anno, come riteneva il cardinale Cesare Baronio[7], o se sia sopravvissuta per qualche tempo ancora. William Green[8] riteneva che probabilmente il significato religioso della festa fosse andato perduto (del resto era già trascorso un secolo dalla proibizione dei culti romani decretata per legge da Teodosio I) e che ormai avesse un carattere puramente folklorico. Più tardi, nel VII secolo, venne istituita la festa della Candelora e collocata al 2 febbraio.
Tra le cerimonie pagane romane che Giacomo Boni mise in programma per il primo anniversario della marcia su Roma, ci fu anche il ripristino delle corse dei Lupercalia, inaugurate con l'esplorazione dell'antro celeberrimo, scrive Boni[9].

Celebrazione[modifica | modifica wikitesto]

La festa era celebrata da giovani sacerdoti chiamati Luperci, seminudi con le membra spalmate di grasso e una maschera di fango sulla faccia; soltanto intorno alle anche portavano una pelle di capra ricavata dalle vittime sacrificate nel Lupercale.
I Luperci, diretti da un unico magister, erano divisi in due schiere di dodici membri ciascuna chiamate Luperci Fabiani ("dei Fabii") e Luperci Quinziali (Quinctiales, "dei Quinctii"), ai quali per un breve periodo Gaio Giulio Cesare aggiunse una terza schiera chiamata Luperci Iulii, in onore di sé stesso. Secondo Dumézil è probabile che in origine le due schiere fossero formate dai membri delle gentes dalle quali prendono il nome (cioè i Fabii e i Quinctii). Secondo Mommsen un indizio potrebbe essere il fatto che il nome Kaeso si trova soltanto tra i membri di quelle due gentes e sarebbe collegato al februis caedere, cioè al tagliare (caedere) le strisce (februa) dalla pelle delle capre sacrificate.
Sulla base di alcuni passi di Livio[10], si è ritenuto generalmente che i luperci Fabiani fossero originari del Quirinale e i Quinziali del Palatino, ma ciò è contestata da Dumézil, per il quale non ci sono sufficienti motivi per trarre questa deduzione, anche perché i riti dei Lupercalia sono strettamente legati soltanto al colle Palatino e non anche al Quirinale.
In età repubblicana i Luperci erano scelti fra i giovani patrizi ma da Augusto in poi la cosa fu ritenuta sconveniente per loro e ne fecero parte solo giovani appartenenti all'ordine equestre[11].
Plutarco riferisce nella vita di Romolo[12] che il giorno dei Lupercalia, venivano iniziati due nuovi luperci (uno per i Luperci Fabiani e uno per i Luperci Quinziali) nella grotta del Lupercale; dopo il sacrificio di capre (si ignora se una o più di una, se di genere maschile o femminile: secondo Quilici un capro) e, pare, di un cane[13] (che per Dumézil è cosa normale se i Luperci sono "quelli che cacciano i lupi"), i due nuovi adepti venivano segnati sulla fronte intingendo il coltello sacrificale nel sangue delle capre appena sacrificate. Il sangue veniva quindi asciugato con lana bianca intinta nel latte di capra, al che i due ragazzi dovevano ridere.
Questa cerimonia è stata interpretata come un atto di morte e rinascita rituale, nel quale la "segnatura" con il coltello insanguinato rappresenta la morte della precedente condizione "profana", mentre la pulitura con il latte (nutrimento del neonato) e la risata rappresentano invece la rinascita alla nuova condizione sacerdotale.
Venivano poi fatte loro indossare le pelli delle capre sacrificate, dalle quali venivano tagliate delle strisce, le februa o amiculum Iunonis, da usare come fruste. Dopo un pasto abbondante, tutti i luperci, compresi i due nuovi iniziati, dovevano poi correre intorno al colle saltando e colpendo con queste fruste sia il suolo per favorirne la fertilità sia chiunque incontrassero, ed in particolare le donne, le quali per ottenere la fecondità in origine offrivano volontariamente il ventre, ma al tempo di Giovenale[14] ai colpi di frusta tendevano semplicemente le palme delle mani.
In questa seconda parte della festa i luperci erano essi stessi contemporaneamente capri e lupi: erano capri quando infondevano la fertilità dell'animale (considerato sessualmente potente) alla terra e alle donne attraverso la frusta, mentre erano lupi nel loro percorso intorno al Palatino. Secondo Quilici, la corsa intorno al colle doveva essere intesa come un invisibile recinto magico creato dagli scongiuri dei pastori primitivi a protezione delle loro greggi dall'attacco dei lupi; la stessa offerta del capro avrebbe dovuto placare la fame dei lupi assalitori. Tale pratica inoltre non doveva essere stata limitata al solo Palatino ma in epoca preurbana doveva essere stata comune a tutte le località della zona, ovunque si fosse praticato l'allevamento ovino.
C'è incertezza sull'etimologia delle parole Lupercalia, Luperci e Lupercus, anche se la base è sicuramente costituita dalla parola lupus ("lupo"). Secondo Ludwig Preller[15], Georg Wissowa[16] e Ludwig Deubner[17] si tratterebbe di un composto formato dalle parole lupus e arcere ("cacciare"); secondo Theodor Mommsen[18], Henri Jordan[19] e Walter Otto[20], invece, potrebbe essere un derivato sul tipo della parola latina noverca ("matrigna") da suddividere in nou-er-ca, anche perché nella celebrazione dei Lupercalia niente sembra far pensare a qualcosa rivolto contro i lupi. Émile Benveniste[21], però, ritiene che la parola noverca vada suddivisa in *nou-er+ca- (cfr. gr. nearós, arm. nor), rendendo più difficoltoso il confronto con lupercus. Secondo Jens S. Th. Hanssen[22], invece, Lupercalia sarebbe una retroformazione dalla parola luperca, a sua volta diminutivo di lupa, con una possibile influenza del nome di famiglia Mamerci, mentre per Joachim Gruber[23] l'origine si troverebbe in un ipotetico antico composto *lupo-sequos ("che è inseguito dai lupi").
Secondo Karl Kerényi[24], il carattere dei Luperci farebbe pensare alla sovrapposizione in loro di due rappresentazioni opposte: da una parte quella del lupo che sarebbe originaria e proveniente dal nord Europa, dall'altra il capro, successivo e proveniente dal sud. Per Andreas Alföldi[25] i Luperci sarebbero un relitto del "Männerbund" che avrebbe fondato Roma. Secondo Dumézil, invece, i Luperci rappresentavano gli spiriti divini della natura selvaggia subordinati a Fauno. Nel giorno dei Lupercalia, infatti, l'ordine umano regolato dalle leggi si interrompeva e nella comunità faceva irruzione il caos delle origini, che normalmente risiede nelle selve.
Secondo Dumézil, i Lupercali avrebbero avuto in origine anche la funzione di conferma della regalità adducendo come indizi alcuni passi compiuti da Cesare nel suo piano di restaurazione della monarchia a Roma. Egli infatti istituì una terza schiera di Luperci che intitolò a sé stesso (i Luperci Iulii)[26][27][28] e inscenò un tentativo di incoronazione durante i Lupercali dell'anno 44 a.C., facendosi offrire una corona intrecciata d'alloro da Marco Antonio che era uno dei Luperci; viste le reazioni del pubblico, Cesare rifiutò la corona e la fece portare come offerta al tempio di Giove in Campidoglio[29]. In particolare l'atto di Marco Antonio che esce dal gruppo dei Lupercali e, nudo, balza sui rostri per incoronare Cesare, potrebbe essere, sempre secondo Dumézil, la riproposizione di una scena antica all'epoca ancora viva nella memoria popolare.

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ a b c Plutarco, Vita di Romolo, 21, 4.
  2. ^ Dionisio di Alicarnasso. Antichità romane, I, 79, 6.
  3. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 21, 4-10; Vita di Cesare, 61.
  4. ^ Dionisio di Alicarnasso. Antichità romane, I, 80, 1-3.
  5. ^ Ovidio. Fasti, II, 425-452.
  6. ^ Gelasio Papa I. Adversus Andromachum senatorem et caeteros Romanos qui Lupercalia secundum morem pristinum colenda constituunt.
  7. ^ Cesare Baronio. Annales Ecclesiastici, t. IV-VII, p. 616.
  8. ^ William M. Green. The Lupercalia in the Fifth Century, Classical Philology, Vol. 26, gennaio 1931, No. 1, pp. 60-69.
  9. ^ Eva Tea. Giacomo Boni nella vita del suo tempo. Milano, Casa Editrice Ceschina, 1932, volume II, pp. 557-558.
  10. ^ Tito Livio. Storia di Roma, V, 46, 2 (Sacrificium erat statum in Quirinali colle genti Fabiae, cioè "La gente Fabia celebrava tradizionalmente un sacrificio sul colle Quirinale") e V, 52, 3 (Caio Fabio...sollemne Fabiae gentis in colle Quirinali obiit, cioè "Caio Fabio andò a compiere il rito della gente Fabia sul colle Quirinale).
  11. ^ Jörg Rüpke. La religione dei Romani. Torino, Einaudi, 2004, p. 196. ISBN 88-06-16586-0.
  12. ^ Plutarco. Romolo, 21
  13. ^ Plutarco. Questioni Romane, 111.
  14. ^ Giovenale. Satire, II, 142.
  15. ^ Ludwig Preller. Römische Mythologie.
  16. ^ Georg Wissowa. Religion und Kultus der Römer. Monaco, 1912, p. 209.
  17. ^ Ludwig Deubner. Lupercalia, Archiv für Religionswisswnschaft, 1910, 13, 481-508.
  18. ^ Theodor Mommsen. Roman history. Londra, 1868.
  19. ^ Henri Jordan, citato in Ludwig Preller, Römische Mythologie.
  20. ^ Walter Otto. Faunus, in REPW 6, 2 (1927), col. 2064.
  21. ^ Émile Benveniste. Origines de la formation des noms en indo-européen, I, 1935, p. 29.
  22. ^ Jens S. Th. Hanssen. Latin diminutives. Årbok for Universitetet i Bergen, 1951, pp. 98-99.
  23. ^ Joachim Gruber. Glotta 39, 1961, pp. 273-276.
  24. ^ Karl Kerényi. Wolf und Ziege am Fest der Lupercalia, Mélanges Jules Marouzeau. Parigi, 1948, pp. 309-317 (ripubblicato in Niobe. Zurigo, 1949, pp. 136-147.).
  25. ^ Andreas Alföldi. Die trojanischen Urahnen der Römer, Rektoratsprogramm der Universität Basel für das Jahr 1956. Basilea, 1957, p. 24.
  26. ^ Svetonio. Vita di Cesare, 76.
  27. ^ Cassio Dione. Storia romana, 44, 6, 2.
  28. ^ Cassio Dione. Storia romana, 45, 30, 2.
  29. ^ Plutarco. Cesare, 61, 2-3.

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

  • Renato Del Ponte. La religione dei Romani. Milano, Rusconi, 1992. ISBN 88-18-88029-2.
  • Georges Dumézil. La religione romana arcaica. Milano, RCS Libri, 2001. ISBN 88-17-86637-7.
  • Lorenzo Quilici. Roma primitiva e le origini della civiltà laziale. Roma, Newton Compton, 1979, pp. 227–228.


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