martedì 16 maggio 2017

Dopo Asti, il dottore Aurelio La Matina Calello imboccò una prestigiosa stagione ispettiva; pur con grado gramo fu capo-missione in quasi tutte le quattro o cinque ispezioni punitive permessesi dalla Banca Centrale. A volere il Calello era lo scorbutico vice direttore generale dell’epoca, gran massone ma puritano, inflessibile, napoletano e calvinista. L’apprezzamento per il giovane ispettore derivava dal fatto che non si era lasciato infinocchiare in una verifica ad una banca di Terzigno, decotta ed ammanigliatissima.
 


Non aveva conclusa l’ispezione ad Asti il dottore La Matina: sul finire era stato incluso in un viaggio-premio nell’allora misteriosa Unione Sovietica. Di là degli steccati ideologici, le banche centrali dialogavano fraternamente fra di loro, anche quella sovietica. Dall’Italia partì uno stuolo di giovani e rampanti dirigenti. Da Via Nazionale a Mosca. Da poco introdotta la centrale dei rischi, sembrava un miracolo di efficienza bancaria. Cicciu Ciciru, volle interrogare il funzionario bancario russo dai ponti metallici sgangheratamente in risalto tra intartarati denti propri. «Avete anche voi la centrale dei rischi?» Il funzionario non capì ma con orientale furbizia aggirò brillantemente l’ostacolo. I colleghi di Ciccio ne trassero altri spunti per la usuale derisione del Ciciro.


 


Al ritorno dalla Russia, trovò il capo missione malconcio a Roma, in via dell’Acqua Bullicante, a casa sua, oltremodo gessato, il suo giovane collega. Andati a gozzovigliare a Cocconato, dopo abbondanti libagioni (carne cruda e barolo, insomma, ed altro), rimessisi in viaggio per il mero rito dei lavori ispettivi del pomeriggio, si addormentarono sulla pur robusta vettura “Lancia”, sbatterono contro un piliere sul ciglio della strada. Medicatosi appena, il capo raccolse le carte e tornò a Roma. L’ispezione fu chiusa. Ma non v’era “FAI” decente, i fogli di analisi ispettivi avevano sì e no i dati del Mod. 81 Vig. Un disastro. La questura tentò di indagare sull’incidente. Il direttore generale ricambiò la cortesia ed il caso fu archiviato, senza denunce alle superiori autorità (la magistratura penale).


 


Irridevano quelle tre o quattro paginette di “penna d’oro”.  Eppure “Penna d’oro” non volle o seppe vendicarsi: prese il FAI e vi scrisse sopra, a lungo, doviziosamente, pungentemente. Ne trasse un ponderoso “rapporto”. Il capo firmò felice e sollevato. Non pensava che “Penna d’oro” potesse avere tanta proficua fantasia. Quel rapporto passò in Vigilanza come un modello da imitare. La vicenda dell’intreccio di assegni a vuoto e la sottesa grande speculazione edilizia dell’ex federale e del sussiegoso piemontese finì eclissata.


 


Dopo Asti, un paio di pause di riflessione: in subordine a Fabriano e Morciano in ispezioni di poco conto. Poi gli scottanti incarichi che un qualche strascico nella storia dei crack bancari del dopoguerra l’hanno avuto. Si pensi: echi persino in parlamento ed a S. Marcuto. Sono vecende su cui forse dovrò tornare, al momento vediamo di svelare il mistero della morte del mio ormai diletto Aurelio. Già, quasi dimenticavo di dirvi che il povero Aurelio defunse per cianuro, ma un cianuro strano, non in commercio: pare posseduto solo dai maldestri servizi segreti iracheni. Impressionante: anche Diodona, il banchiere del crack su cui indagò il mio ispettore della Banca d’Italia, cessò di vivere alla Pitrusa con l’identico strano ‘cianuro’. Non pensate a Pisciotta: non c’entra.


 


Per Diodona si parlò di suicidio: ma nessuno ormai ci crede, come per Sindona, come per Calvi, come per altri banchieri, finanzieri …. di moda ora parlare di “faccendieri”, come se poi vi fosse davvero differenza.


 


Sia fatta la volontà di Dio: affrontiamo codesto nodo gordiano. Il rag. Giorgio Diodona era nativo di Barcellona Pozzo di Gotto, tra Palermo e Messina ossia nell’entroterra della provincia della città del faro. E non finiscono qui le somiglianze con l’altro celeberrimo banchiere, l’avvocato Sindona. Anche Giorgio Diodona si trasferì piuttosto giovane a Milano e riuscì a far fortuna nel mondo delle banche. V’era pur sempre quel Virgillitto che tra un diadema per la Madonna e qualche brillante per le madonne dei suoi amici politici determinò il salto di qualità degli affari di Cosa Nostra d’oltreoceano o dimorante di qua dello stretto. Navigò con gli inglesi. Amò gli svizzeri. Seppe delle isole Cayman. Non capì gli americani ma facendo grossi affari con loro credette di coglionarli. Ne fu coglianato. Con i russi, affari d’oro con la pesca le armi ed il grano americano. Col Vaticano, preghiere indulgenze opere pie denaro … e sesso per i vogliosi arcivescovi e si disse anche per qualche cardinale. Con il papa … Dio ne scansi e liberi … si sghignazzò di un giovanetto molto bello ed aggraziato … tanto femmineo, fu celebre latin lover del cinema italiano. Non mi va di proseguire: svilirei i fatti del mio giallo.


 


Col caso Sindona vi fu un’impressionante sinergia. Furono due crack alla carta carbone, una sorta di clonazione anzitempo ed extra moenia. Nel mondo dell’alta finanza può succedere, ogni umana fantasia è impari. Lo disse anche De Martino a S. Marcuto e lui fu sommo maestro, anche di storia del diritto romano. Presiedette indagini parlamentari bancarie, pur ignaro di partite doppie, accrediti, spot, swap, foward, outright, borsa, mercato parallelo, redditività, patrimonializzazione dei conti d’ordine, conti bilanciati, gergo dei ragionieri, quello degli agenti di cambio, quello borsistico.


 


Va ribadito qui con robusto tono che il dottor Aurelio La Matina Calello nulla ebbe a che fare con il caso Sindona: le sue incombenze, i suoi accertamenti, le sue allucinazioni, i suoi successi, il suo valore e la sua morte riguardano l’analogo e quasi coevo caso Diodona. Se qualcuno continuerà a confondere, io non ne rispondo. Non mi si potrà querelare. Distinzione .. distinzione, sia chiaro!


 


Il pasticcio della confusione s’origina forse dal fatto che, beffardo ed ironico, il dottore Aurelio La Matina Calello, sicuramente per invidia, si intromise negli sviluppi del crack Sindona prima aizzando Lotta Continua nel semestre finale del 1979 e poi cooperando – una cooperazione quasi integrale, tota ed ampla – nella stesura del pamphlet anonimo “Goodwill”  a firma di un improbabile Colbert.


 


Detto fra noi, è scritta quasi tutta di suo pugno, di Aurelio cioè, la parte da pag. 37 a pag. 187. Le pagine di ‘premessa’, e quelle dell’«antefatto», e poi quelle sugli artefici del sacco immobiliare di Roma sono rimasticature della truculenta letteratura giornalistica di quei giorni, un giornalismo ruffiano, pronto a traghettare sulla palude dell’incombente compromesso storico di Berlinguer. Scritte benissimo quelle pagine spurie – e non originali – risentono della bravura di un editorialista sommo come Dellacipolla, di un mistico come ci appare l’eterno ed immacolato parlamentare Beato Minutolo e di un ignoto – ai più – “alto esponente del mondo bancario”, abile e pungente, rimasto indisturbato dentro quel mondo, sino ai nostri dì.


 


Tutti pensano che il caso Sindona narrato in quel libro abbia travolto come ispettore il nostro Aurelio. Errore. Ma che vi abbia messo la mano sua beffarda ed ingannatrice è evidente sin dalle (sue) prime pagine. Leggiamole insieme.


 


«Racalmuto è il paese di Sciascia, ma – diversamente da come lo scrittore ama presentarlo – non è avvolto da nessun velo di onirica malinconia; umidiccio, con case disfatte intonacate di bianco, esso è disseminato lungo un declivio che si sperde tra calanchi e fiancate di colli minerari.


 


«A Michele Sindona questo squallido scenario apparve, improvvisamente, all’uscita di un’ennesima curva davanti al muso del suo traballante “dodge”.


 


«Proveniva da Patti. Affari arditi spingevano il giovane nell’entroterra agrigentino: approvvigionarsi di frumento in tempi di proibizionismo granario, compiacente il governo militare alleato, l’Amgot, per poi rivenderlo, a prezzi lucrosi, alla stessa Amgot. Era il 1944.


 


«Se nella vita dei santi, i segni precorritori si colgono in tenera età, i segni precoci della valentia affaristica del futuro finanziere si hanno evidenti ed avvincenti fino dalla prima giovinezza. Giunto a Racalmuto, Sindona aveva un personaggio preciso da incontrare: Baldassare Tinebra. Costui era sindaco imposto nel 1943 dalle truppe americane, su segnalazione di don Calogero Vizzini.


 


«Don Calogero Vizzini, di Villalba, accreditato – fino dal fascismo – come capo carismatico della mafia, ebbe a ritirarsi a Racalmuto, dopo il 1926. Si associò al Tinebra nella gestione della miniera di zolfo, la “Gibillini”, al confine con Montedoro, il luogo natale dell’onorevole Calogero Volpe, altro rispettato “notabile”. Labbro enfiato e pendulo, sempre seduto al sole con neghittosità e trascuratezza, don Calogero Vizzini s’industriava ad apparire insignificante – almeno agli occhi dei racalmutesi.


 


«In realtà, don Calò godeva di molta considerazione negli ambienti italo-americani tanto da essere prescelto come interlocutore privilegiato, i primi giorni del luglio ’43, quando le truppe alleate iniziarono la loro conquista rapida ed indolore della Sicilia.,


 


«Dimostrazione affettuosa fu quella elargita al vecchio socio d’affari, il Tinebra. Il quale, grassoccio, piccolo e volgaruccio di parola, fu il primo sindaco di Racalmuto, scacciato il predecessore dell’epoca fascista che medievalmente s’indicava come “podestà”.


 


«Baldassare Tinebra – insediatosi al Comune – un compito lo svolse bene: quello di dare protezione agli affaristi locali e no, che commerciavano al mercato “nero” della principale risorsa del paese, il grano. Protezione non del tutto disinteressata, a dire dei malevoli. Vi fu atto di corruzione da parte del Sindona nei confronti del neo-sindaco degli “alleati”? Non può più chiedersi ad alcuno. Sindona è oggi esule negli Stati Uniti [eravamo nel gennaio del 1980, ndr.]. Il Tinebra è finito morto ammazzato, un anno dopo la vicenda che si narra [o forse pochi mesi, ndr], in pieno centro, fra la gente. Ne fu incolpato un tipo del paese, conosciuto con la”’ngiuria” (nomignolo) di “Centeddeci”. Indiziariamente, fu condannato. Il figlio lavorava presso la miniera “Gibillini” [pare però che solo vi cercasse lavoro, ndr,] che sappiamo essere stata di Tinebra e Vizzini. Cercò di far luce sul delitto, convinto dell’innocenza del padre. Finì in un forno “Gill”, liquefatto tra lo zolfo. “Disgrazia grande fu” – si disse in paese.»


 


 


 


Non possono negarsi efficacia e sintesi. Aurelio non fu scrittore ma cercò di esserlo. Or non è molto, è uscito un libretto di un giovane narratore che riesuma quella vicenda, senza, però, la suggestiva venuta di Sindona. S’intitola: «Il silenzio dei congiurati». Ho dovuto prefazionarlo. Non so se mi è piaciuto o no. Ho scritto: «queste sono le cose che ho notato e che mi sono molto piaciute in quella che è la progettazione del romanzo.»  Poiché voler narrare non significa saper narrare, retoricamente mi sono domandato se il giovane fosse riuscito nell’intento. Non sapendo che rispondere, me la son cavata da gesuita smaliziato: «”amicu miu ora ti cuntu un fatto”». Il fatto è stato narrato. Come? Ho parlato del mio leggere ad alta voce i “cunti mia e chiddi di l’antri”.


 


Sfogliando, tra sbadigli reiterati, in crescendo, giungo a pagina 67: i caratteri si rimpiccioliscono; c’è da faticare ancor di più. Ora Aurelio ha voglia di cuntari lu cuntu: ci mette della fantasia, vediamo un po’. Non comincia con il classico e racalmutese «s’arraccunta e s’arrapprisenta». No, vuol fare persino lo sceneggiatore: «Interno di un palazzo umbertino in Roma» Oh! La presunzione dei dilettanti. Smette però subito: comincia ad essere accattivante.


 


«vi si aggira una signora di vetusta avvenenza, amante ormai dismessa del banchiere. Egli è lì, tra fascicoli e bilanci, ieratico e dai toni ironici ma nel fondo dello sguardo mediterraneamente malinconico. Trilla il telefono: è Londra. Dagli Hambro viene l’assenso al prestito per l’acquisto della grande Immobiliare romana, messa in vendita dall’IOR per timore della cedolare.


 


V’è, dopo, un moto liberatorio ed il banchiere si concede un attimo di umana effusione.


 


Spaccato della vita economica e politica romana.


 


La corsa in via Nazionale per l’incontro nella sala del San Sebastianino con il governatore della banca centrale. Penombra schizofrenica attorno al grand-commis della finanza nazionale che ascolta la versione del banchiere sull’operazione dell’Immobiliare con barbagli di raggelante distacco.


 


Poi d’imperio: “L’estero acquisti dal Vaticano ma con holding controllate dall’Italia: non voglio stranieri in Roma … in mezzo all’edilizia della capitale.”


 


“Ho due banche agenti in Milano che son pure abilitate alle operazioni con l’estero; potranno svolgere il ruolo da lei indicato nel flusso dei capitali valutari.”


 


Ciò è demandato alla fantasia dell’imprenditore privato … Il nostro indirizzo verte su obiettivi globali e nazionali.”


 


Sillaba a mo’ di maestoso imporre, il governatore; annuisce senza umiliazione il banchiere.


 


L’incontro con il primo ministro – che, gobbo, sarcastico, è partecipe palese della soddisfazione del banchiere – ha toni distesi, amichevoli come un socio d’affari, sia pure occulto. Dallo studio del ministro, la chiamata telefonica oltre Tevere. All’IOR quel grosso prete americano ascolta, rintuzza … quasi tentenna. Ci si vede alla villa dei Castelli. Il banchiere si rivolge alla bionda amica per agganciare la valletta televisiva, la minorenne quasi impubere all’acqua e sapone. Del resto è una stipendiata delle sue banche proprio per curare le relazioni sociali. Tutti alla villa per accogliere il grosso prete americano.


 


All’aeroporto arriva, giovanile ma composto, il delfino dell’ebraica famiglia di banchieri inglesi.


 


Nell’occiduo chiarore collinare, tra ulivi e merli dal mellifluo richiamo, il concitato dialogare tra il prete gigante, il gelido inglese ed il banchiere del sud. Medie delle quotazioni del titolo, “goodwill” dell’azienda, redditualità, prezzi, pacchetti azionari di controllo, la holding Idera, Trinico, Liechtenstein o Nassau: il folklore dell’alta finanza, insomma e la difficoltà a concludere. Si arriva a tarda sera, infruttuosamente. Il rito della sontuosa cena a lume di candela. Accanto al prete, tanto scorbutico nelle trattative, è la valletta in audacissimo décolleté. Ora il prete si ammansisce e diviene persino galante. La valletta sorride con delizia e adesca l’orco americano. Nelle grandi terrazze della villa, nella camera riservata di lui, lei abbozza discorsi sull’esistenza di Dio, sulle sue crisi, sulle sue angosce. E’ notte!


 


All’indomani l’orco americano – dopo avere celebrato messa nella cappella gentilizia – è arrendevole negli affari. Viene ceduto il quaranta per cento dell’Immobiliare al banchiere del sud o meglio alle sue finanziarie estere a loro volta sovvenzionate dagli Hambro.


 


Il nostro banchiere chiede ed ottiene dal monsignore dell’IOR l’amministrazione dei capitali in dollari conseguiti dalla vendita dell’immobiliare romana. Unica condizione al perfezionamento dell’investimento ideato è il consenso all’acquisto di una banca americana che il banchiere sta trattando da tempo. L’amor patrio del monsignore è quasi solleticato e l’accordo immediatamente siglato.


 


Le trattative a New York con padrini di riguardo: alcuni consulenti del presidente degli Stati Uniti alla cui campagna elettorale l’uomo del sud aveva contribuito con consistenti elargizioni.


 


E l’iniziativa ha felice esito.


 


A Milano, nell’attico a ridotto della Scala, il banchiere è al culmine del suo successo. Giù, telescriventi intrecciano messaggi in inglese con banche di mezzo mondo: da New York a Tokio, da Londra a Parigi e a Francoforte. Pacchetti azionari passano di mano, la borsa impazzisce, gli gnomi della finanza abbondano. Pavidi speculatori soccombono e le loro piccole immobiliari vengono fagocitate dal finanziere siculo con strascichi giudiziari che compiacenti giudici riescono ad archiviare. Lui: quasi triste, ormai brizzolato, persino mistico.


 


Fabbriche e palazzi si vendono o si addossano scompostamente con vorticoso giro di cambiali portate allo sconto nelle sue banche. Idee anche bizzarre quali l’acquisto di brevetti per la costruzione di macchine capaci di trasformare miscugli alimentari in gelati! Finanziamenti ai colonnelli greci e poi a quelli (meglio generali di casa nostra). Fondi alla Nova Scotia, camuffati da intrecci perdenti di outright, per finanziare il Mossad. Intanto dalla banca americana prestiti in dollari vengono convogliati in Italia e da qui all’estero per consentire la fuga dei capitali dei nostri industrialotti. Abile il banchiere nello sfruttare la loro insipienza. Si fa pagare da loro dollari del mercato nero a lire 750 e poi glieli acquista sotto forma di finanziamenti di holding estere a lire 650. Il banchiere si espande: compra banche in Svizzera, in Germania, in Francia e ne inventa a Nassau o a Cayman Islands o a Panama City. E’ un impero finanziario con stuoli di brokers e tecnici dal gergo per iniziati (outright; spot; swap; forward rate; time deposits, stand-by …)


 


All’EUR, nel solito palazzo a vetri, si susseguono i consigli di amministrazione dell’Immobiliare il cui capitale sociale passa da 30 a 40 a 60 a 100 a 120 a 160 miliardi. Le azioni inondano la borsa, il “parco buoi” abbocca. V’è sempre il banchiere con le sue finanziarie a partecipazione estera a far quotare oltre le lire 1000 le azioni inflazionate da lire 240 di valore nominale.


 


Dalle sue banche il sostegno finanziario, sempre più intenso, sempre più ambiguo, sempre più illecito. Dagli istituti previdenziali depositi alle banche. Di conseguenza, interessi neri o provvigioni ai dirigenti “politici” degli enti previdenziali. Il banchiere è munifico; l’onda della corruzione monta, senza argini, ammaliante, impetuosa.


 


Nel consiglio di amministrazione dell’Immobiliare siedono i probi presidenti delle banche pubbliche del sud. Vi siedono perché favoriscono l’aggiotaggio del banchiere. Dalle sue banche partono depositi fittizi presso le banche pubbliche che li destinano, sotto forma di riporto, alle finanziarie del banchiere detentrici del capitale azionario di controllo dell’Immobiliare. Una baraonda simboleggiata dall’atmosfera orgiastica delle serate distensive nella villa dei Castelli, dopo le riunioni del consiglio di amministrazione. I pingui e frustrati burocrati – assurti a strateghi della finanza per voto democristiano – si divertono chiassosamente, scompostamente con le ragazze approntate dal banchiere. In controluce, lui, dignitoso, parco, come in religiosa estasi.»


 


 


 


 - Oddio! … Oddio! …. Oddio, ma ecco qui tutto l’arcano, la vita e la morte, gli affari e gli intrighi, le connivenze ed i rinvii …. Eccetera, eccetera.. si sussurrava Meluccio Cavalieri di Giorgenti.


 


Strano, nessun accenno a fatti di mafia. Compiacente il siciliano e racalmutese Aurelio La Matina Calello. Si sussurrò una volta ma era panzana. Aurelio odiava la mafia. Nessuno della sua famiglia aveva avuto mai a che fare con l’onorata società. Ne provava disgusto. La considerava un’accolta di imbecilli … ed anche sanguinari. Un mafioso artefice di volpini intrecci affaristici, era idiozia, per Aurelio da sghignazzarci solo sopra. Le vicende delle banche siciliane di Milano degli anni sessanta, settanta ed ottanta era un baluginare di accecante intelligenza: altro che un ragliare di mafia.


 


“Lu sciccareddu” della dirimpettaia “Vecchia Maniera”, ragliando con la solita simpatica sconcezza, gli rammentò la succulenta e conviviale “mangiata a la racarmutisa” cui era invitato. Ebbe voglia di chiudere per quel giorno. Rimise ordine nelle carte del villino di Aurelio a Bovo. Ma ancora una sorpresa: sulla foderina color senape del carteggio con Melissa Cohen stava scritto, a matita,:


 


la donna

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