sabato 6 dicembre 2014

storia di Riesi

LA STORIA DI RIESI - DALLE ORIGINI AI NOSTRI GIORNI di Salvatore Ferro BODY 
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      Sezione: STORIA/ARTE/CULTURA/TRADIZIONI
       





             



                   SALVATORE FERRO



                  LA STORIA DI RIESI


                  DALLE ORIGINI AI NOSTRI GIORNI





                  CALTANISSETTA


                  PREM.  TIP.  SALVATORE DI MARCO


                  1934 - XII







                  Stampa intera opera



       
       




            INDICE DETTAGLIATO





                  CAPITOLI
                  Biografia di Salvatore Ferro
                   IScopo del libro
                  III feudi di Cipolla e di Riesi
                  IIILe investiture
                  IVtentativi di un casale
                  Vi magazzini – la parte intellettuale o i dirigenti – il 
                  palazzo – la prima chesetta - le feste
                  VIgiudicato – caserma e carcere - municipio
                  VIIla chiesa della madrice – la baronia – delineazione del 
                  borgo
                  VIIIfesta della madonna e di natale dal 1650 al 1700
                  IXla vecchia chiesa del rosario – le confraternite
                  Xil 1700 – clero e popolo – i conventi
                  XIi grandi massari, civili
                  XIIdal poeta contadino settecentista croce cammarata
                  XIIIla nuova chiesa del rosario
                  XIValtre grandi case di ricchi
                  XVla prima miniera di zolfo, buon andamento
                  XVIl’ 800
                  XVIIlo zolfo - la vigna
                  XVII bisfatti – lotte religiose
                  XVIIIla chiesa di san giuseppe – il colera del 1837
                  XIXla societa’ segreta – lotte politiche
                  XXil 1848
                  XXIMiseria e filantropia – colera del 54 – Aspettando, i 
                  liberali si fortificano
                  XXIIil 1860
                  XXIIIla liberta’ – come dalla notte al giorno – i primi 
                  sindaci dei nuovi tempi
                  XXIVil sindaco janni – colera del 67 – morte del quattrocchi
                  XXVil protestantesimo a riesi fin dal 1871
                  XXVI seguitando la vita del sindaco janni – la causa con la 
                  baronia – il processo – condanna - morte
                  XXVIIsindaco l’avv. don pietro d’antona
                  XXVIIIla filossera
                  XXIXla disgrazia della miniera grande di sommatino
                  XXXil partito liberale dei pasqualino, del poeta Dr. don 
                  carmelo lo stimolo
                  XXXIl’800 – la nuova vittoria del partito liberale dei 
                  pasqualino
                  XXXIIscioglimento del consiglio comunale – R.commissario l’ex 
                  prefetto debilio
                  XXXIIIla nuova amministrazione comunale sindaco in cav. 
                  carmelo inglesi
                  XXXIVlo “stato di assedio” - 1894
                  XXXVl’arresto del cav. ingLesi - sindaco l’avv. p. di 
                  benedetto – l’acqua potabile – causa degli usi civici –  
                  sentenza favorevole
                  XXXVIl’avv. G. carlo golisano sindaco – il primo centenario di 
                  garibaldi solennemente festeggiato
                  XXXVIIdal Cav. Inglesi, di nuovo sindaco a don luigi d’antona
                  XXXVIIIil suffraggio universale – caduta del potere d’antona – 
                  vittoria strepitosa degli operai con a capo pasqualino
                  XXXIXuomini insigni e uomini grandi del secolo XVIII  alcuni 
                  dei quali vissero nel nostro secolo XIX
                  XLil senatore antonono d’antona
                  XLImafia e delinquenza
                  XLIIgravi delitti
                  XLIIIgli scioperi
                  XLIVla grande guerra
                  XLVla “spagnuola”
                  XLVIil bolscevismo
                  XLVIIla mitragliatrice (famosa repubblica riesina)
                  XLVIIIil fascismo
                  XLIXsindaco il com. G. c. golisano – il ritiro – giuseppe 
                  martorana – la luce elettrica – vittoria del fascismo – il 
                  com. d’antona sindaco
                  XLIX bisdai sindaci al podesta’
                  Lun commissario prefettizio modello
                  LIla ferrovia - mentre scriviamo, terminando


       



            Biografia di Salvatore Ferro

            Nacque nel 1870 da Francesco e da Maria Matera. Colpito da paralisi 
            infantile, era costretto a camminare con la gamba sinistra 
            claudicante e il braccio dello stesso lato tenuto teso all’insù e 
            con la mano immobile curvata al contrario. Per la menomazione del 
            suo fisico non gli fu possibile imparare il mestiere del padre e del 
            fratello Vito entrambi calzolai; avendo frequentato la locale chiesa 
            Evangelica Valdese, mercé l’assistenza e le lezioni che gli venivano 
            impartite dal pastore Giuseppe Ronzone, riuscì ad avere una discreta 
            cultura che gli consentì di trascorrere una vita comoda anche se a 
            volte raminga. Lo chiamavano "Maestro Ferro", ma per non confonderlo 
            con l’altro maestro Ferro che insegnava nelle scuole comunali, 
            veniva distinto col nomignolo "Manuzza" per la menomazione della 
            mano. Frequentando assiduamente la chiesa valdese, da quell’istituto 
            ebbe nel 1902 il primo incarico come insegnante della terza classe 
            elementare, ove in quell’anno lo scrivente fu uno dei suoi alunni. 
            Alla fine di quell’anno scolastico ebbe l’incarico di recarsi in 
            Svizzera e propriamente a Ginevra e da quella città a Genova: Nel 
            1907, come colportore da quello stesso Istituto fu mandato in Egitto 
            per vendere la Bibbia, libri del Vecchio e Nuovo Testamento con 
            testi Evangelici valdesi. Colà ebbe l’occasione di girare la città 
            di Alessandria, il Cairo e quasi tutte le località ove regnarono i 
            Faraoni. Nel mese di febbraio del 1920 lasciò l’Egitto e imbarcato 
            su un battello, dopo un lungo e pericoloso viaggio sul mare 
            Mediterraneo, riuscì ad approdare a Siracusa e di là poté proseguire 
            per Catania. Si recò poi a Grotte e da qui, come egli ebbe a 
            descrivere nel suo libro Nell’Egitto antico e moderno fu 
            "trabalzato" nell ‘Abruzzo-Molise. Avido di girare, accettò ancora 
            una volta l’incarico di colportore per conto della Società Biblica 
            Britannica e Foresteria con sede a Livorno il cui Presidente 
            onorario era il Principe di Galles erede al trono inglese. Scopo di 
            quella società era di far conoscere e vendere in tutto il mondo i 
            libri della Sacra Scrittura protestante tradotta in tutte le lingue. 
            Stanco di girovagare e per l’avanzata età, abbandonò ogni cosa e se 
            ne tornò a Riesi "per potere ritrovare il bel sole, gli amici e il 
            lavoro delle piccole lezioni" da impartire agli alunni privati. 
            Scrisse il suo primo libro Nell’Egitto antico e moderno edito nel 
            1932 e poi l’altro La storia di Riesi dalle origini ai nostri giorni 
            pubblicato nel 1934 e cioè dopo che poté raccogliere i fondi 
            ricavati dalla vendita effettuata dal suo primo libro. Per la 
            compilazione del suo secondo volume s’era avvalso delle notizie che 
            aveva potuto apprendere dai suoi parenti che ebbero lunga vita 
            terrena. Egli non si sposò, rimase con la mamma finché visse costei, 
            poi abitò a casa di sua sorella ove morì l’8 novembre 1942.

            NOTA

            Biografia copiata dal libro "UOMINI, FATTI E ANEDDOTI NELLA STORIA 
            DI RIESI" di Luigi Butera




            Cap. I


            Scopo del libro

            Lo scopo per cui scriviamo questa pagine, è semplicemente quello di 
            far conoscere ai lettori le vicende più o meno storiche del nostro 
            paese, di Riesi, rintracciandone le origini narrandone la storia, 
            fornendoci di notizie, raccolte or qua, or là; siccome abbiamo 
            promesso, ci azzardiamo a pubblicare “La storia di Riesi” sperando 
            che possa essere bene accetta.
            Sotto l’impulso di questo desiderio, sotto questo punto di vista, 
            nel narrare tutto ciò che sappiamo intorno al nostro paese, facciamo 
            assegnamento non solo sulle nostre povere forze, ma su ciò che ci 
            hanno detto e ci dicono gli altri. Per tradizioni udite, per 
            informazioni assunte, per ricerche fatte, siamo riusciti a sapere 
            qualche cosa: speriamo quindi che la nostra fatica  non sia stata 
            vano. Se il fine però è buono, i mezzi, come appresso si vedrà, sono 
            scarsi.

            Riesi, essendo uno degli ultimi paesi nuovi, anzi nuovissimo della 
            Sicilia non ha un vecchio Castello feudale, come ce ne sono tanti 
            negli altri paesi che ne attestano la paternità e il nome di 
            battesimo; non ha monumenti che indicano lo scopo per cui fu 
            fondato; non ha documenti, manoscritti di sorta onde poggiarsi. 
            Insomma Riesi non ha una vera e propria storia con la quale potere 
            narrare i fatti accaduti nelle diverse epoche: tutto questo lo 
            abbiamo architettato noi a furia di congetture. Gli è vero che il 
            Giusti dice che — i1 fare un libro è meno che niente, — ma noi 
            confessiamo di non essere all’altezza di tanto; tuttavia lo 
            facciamo, implorando la benignità del lettore. La storia è la 
            maestra della vita, ma essa va soggetta alla critica, la quale se è 
            ben fatta, porta buon frutto; ma se è mordace, fa più male che bene. 
            Trattandosi di un paese come Riesi, è bene che la critica ci sia, e 
            noi l’accoglieremo col beneficio dell’inventano bene inteso, va da 
            se; ma col fermo proposito di migliorare quanto diciamo. 
            Incoraggiati, sorretti da questo sentimento, ci facciamo lecito 
            stampare quanto diciamo, poiché queste pagine ci sono state 
            suggerite di scriverle per fare un’opera buona per il nostro paese; 
            del resto chi ne sa più di noi, faccia meglio.

            I paesi non nascono come i funghi che si trovano or qua, or là non 
            seminati ma essi hanno bisogno di essere ricercati, coltivati e 
            sorretti. Noi quindi dobbiamo prima di tutto attingere, ricercare 
            delle notizie per sapere come e quando nacque il nostro paese; 
            secondo, chi sono stati i padroni; terzo, chi furono i primi 
            abitatori; quarto, lo sviluppo e lo accrescersi della popolazione; 
            quinto, gli uomini di genio e i grandi che onorarono ed onorano il 
            nostro paese; sesto, le lotte religiose e politiche, politiche e 
            religiose, per cui Riesi è diventato un paese scettico in fatto di 
            Religione; settimo infine il miglioramento, il progresso fino ai 
            nostri giorni. Nel compilare il presente libro, ringraziamo tutti 
            coloro che ci hanno dato una mano di aiuto, specialmente l’attuale 
            nuovo Parroco Rev. Cav. Ferdinando Cinque da Barrafranca, il quale 
            ci è stato largo di aiuto, mettendoci a disposizione l’archivio 
            della chiesa Madre.

            Per sapere le origini di Riesi e chi furono i padroni di queste 
            terre, nelle quali si fondò il nostro paese, ci serviamo del libro 
            dell’avv. Don Gaetano Pasqualino Pasqualino con Il diritto nella 
            storia; faremo conoscere in seguito lo accrescersi della popolazione 
            mercé la chiesa Madrice per le nascite, i battesimi, matrimoni e 
            morti, non che del Municipio per le nascite e i morti di date 
            recenti, poiché i. Registri cominciano dal 1820; l’aiuto della Casa 
            Fuentes non ci è mancato in parte; circa la storia raccogliamo quel 
            che abbiamo saputo dagli antenati, dai nostri nonni,, dai nostri 
            padri, i quali per tradizioni avute, ci fecero sapere quel tanto che 
            ci è necessario; il progresso infine lo si è visto, lo si vede tutti 
            i giorni.

            Dobbiamo dire ed inoltre fare osservare fin da principio che il 
            nostro paese essendo un paese interno della Sicilia, isolato, che 
            non ebbe nel passato mezzi di comunicazioni celeri, ha sempre fatto 
            da sè, progredendo. Come una pianta di giglio che in un vasto campo 
            attorniata di spine, lotta ed emerge, così si può paragonare il 
            nostro paese. E difatti fra le innumerevoli difficoltà della vita 
            stentata del popolo, si è riusciti a formare un paese simile agli 
            altri paesi della Sicilia; anzi, diciamo di più: oggi è un paese 
            degno del consorzio civile, invidiabile per la sua posizione, il 
            benessere e l’attività dei suoi figli. Nacque povero, ma a furia di 
            sacrifici, di lavoro, di miglioramenti, siamo giunti a questo punto.

            Tutto ciò lo vedremo man mano che si presentasse l’occasione; per 
            ora diciamo che ogni riesino, dovrà conoscere l’origine e la storia 
            del suolo nato per vedere chi fummo, chi siamo; che ci insegna la 
            storia, la nostra storia. Chi n si interessa del proprio paese? chi 
            non ama la storia? Essa ci diletta, facendoci ripetere col poeta:

             Il più bello di tutto il Creato

            È il paese dove sono nato;

            Qui ogni santa memoria s’aduna,

            Ogni fiore e ogni beltà;

            Qui di fiori ebbi sparsa la culla,

            I miei padri qui sepolti stan.

             Se l’uccello ama il suo nido, se le fiere amano le loro tane, 
            l’uomo deve amare il suo proprio paese; e l’amerà ancor più 
            apprezzandone i meriti per mezzo della storia, la quale ha per scopo 
            di farci conoscere i fatti accaduti e ce li poni  innanzi per il 
            nostro ammaestramento. E i fatti che sono accaduti a Riesi, fin dal 
            principio della sua fondazione, sono tanti e tali che sono degni di 
            rilievo. Peccato che essi fatti non siano stati tutti registrati 
            epoca per epoca e noi ne ignoriamo una gran parte  Però ci atteniamo 
            quelli che ci sono noti e crediamo che bastino per informare i 
            lettori di quanto si dice di Riesi, mettendoci al corrente del 
            passato.

            Questo e non altro è lo scopo del nostro libro che ci è costato 
            tempo e fatica. Noi lo pubblichiamo sperando che ci si venga in 
            aiuto alle spese della stampa che ancora oggi costa cara; e facciamo 
            dei sacrifici, pur di avere un libro che ci parli della nostra 
            storia. La nostra divisa è: Dire il bene, ovunque si trova, 
            lasciando il male. Ciò posto incominciamo a vedere anzitutto 
            l’origine, il principio di Riesi, dando uno sguardo retrospettivo 
            alle terre che formano l’oggetto del nostro lavoro.

            **  Torna su **




            Cap. II


            I feudi di Cipolla e di Riesi


            La prima cosa, che fa risaltare agli occhi di tutti, il nostro Don 
            Gaetano Pasqualino Pasqualino nel suo libro che a noi qui ci serve 
            di scorta è di sapere che Riesi e Cipolla, furono in antico, due 
            grandi feudi interni della Sicilia, la quale, diciamo noi, passata 
            dalla dominazione dei Saraceni agli altri governi, i sopra detti 
            feudi furono abbandonati a se stessi, senza che per lungo tempo, e 
            prima delle fasi del feudalismo, fossero cercati da alcuno. 
            Ignoriamo completamente donde derivano i nomi di Riesi e Cipolla, 
            perché tramandati dall’oscurità dei tempi. Giova pertanto sapere che 
            detti feudi molto distanti da Palermo, lontani da Caltanissetta e 
            dagli altri paesi vicini, come Butera, Barrafranca, Mazzarino, 
            Pietraperzia, Sommatino e Ravanusa; traversati dal fiume Salso, non 
            furono le terre cercate ne dagli Stati di allora, nè da singoli: 
            sicché erano delle terre incolte, che neppure forse, vi pascolavano. 
            mentre quelle dei su mentovati paesi, nei territori, erano 
            beneficate. Nessuno quindi vi penetrava. perché sconosciute al 
            demanio dello Stato: perciò possiamo dire, anzi affermare che Riesi 
            e Cipolla erano in preda dei lupi, i soli padroni. crediamo noi. Si 
            crede però, ed è probabile, che qui vi furono gli arabi o i 
            Saraceni, i quali regnarono in Sicilia due secoli e mezzo, dall’ 831 
            av. C. al 1072, epoca nella quale Ruggero il Normanno li cacciò via. 
            Essendo essi popoli nomadi, si sparsero dappertutto nell’isola; 
            stabilendosi or qua, or là, ebbero a ridursi anche da queste parti. 
            Vuolsi che sulla collina della Capreria fosse esistito un villaggio 
            arabo, i di cui abitanti invasero il territorio, come rilevansi da 
            alcune grotte dai ruderi di terra cotta, dai cadaveri che si sono 
            trovati, scavando in diversi punti; cadaveri che mostrano come erano 
            seppelliti in sarcofaghi di mattoni coi loro riti e costumi. Ad onor 
            del vero i Saraceni con la loro presenza non ci fecero del male, 
            anzi ci lasciarono le tracce della loro civiltà. E difatti ci 
            coltivarono le terre, ci importarono le piante di olivo, del 
            carrubo, del mandorlo, i fichi d’india e persino la palma che non 
            frutta. In prova di ciò si crede che i due boschi di olivi e 
            pistacchi nei territori di Riesi e Cipolla, siano stati opera dei 
            Saraceni; come credesi pure che l’arte di lavorar l’argilla, viene 
            da loro: inoltre al punto denominato la Sanguisuga esisteva una 
            fontana con una cupola di gesso detta Cubba. Ora la parola Cubba è 
            parola araba e significa luogo d’acqua abbondante. Spazzato via 
            questo di mezzo, che abbiamo voluto narrare sui Saraceni, ritorniamo 
            sui nostri passi. Venuti in Sicilia dopo i Normanni gli 
            Austro-spagnuoli, eccoci alle investiture dei due feudi in parola 
            Riesi e Cipolla, non ricercati, abbandonati, per cui il Pasqualino 
            si afferma storico ricercatore. Pria di andare avanti, è bene dire 
            due Parole qui intorno alle investiture, per avere un’idea circa il 
            feudalismo e le tali investiture che giunsero fino a Riesi. Entrato 
            Carlo Magno in Italia nel 1100, costui da Imperatore francese, 
            assoggettata tutta la penisola a sè, istituì nei Comuni il 
            feudalismo, dividendo le terre ai signori più furti. Nato il 
            feudalismo dalla proprietà, ne vennero fuori i principi, duchi, 
            marchesi e baroni coi loro castelli e i vassalli che erano i poveri. 
            Mentre i signori erano tutto, i vassalli erano niente: dovevano 
            ubbidire ai loro padroni, lavorando la terra, pagando le tasse, 
            senza nessun privilegio con tutti i loro doveri e dovevano star 
            zitti. I vassalli perciò erano dei diseredati della fortuna, i 
            signori erano dei privilegiati. Essi, profittando della legge, del 
            tempo e dell’oscurantismo, commettevano ogni sorta di abuso. La 
            Sicilia seguendo tale sistema divenne feudalista. Principi, duchi, 
            marchesi, baroni divennero feudalisti in virtù delle Investiture, 
            cioè della divisione delle terre ed è perciò che si fabbricarono dei 
            Castelli, ed è per ciò che dominavano nei loro territori sopra i 
            vassalli. Questi tigli della disgrazia generavano dei poveri coloni, 
            atti a coltivar la terra, senza nessun profitto, salvo quello di 
            mangiare e vivere stentatamente, nuotando nella miseria. Anco gli 
            operai erano soggetti ai padroni del feudo, vivendo senza i diritti 
            dell’uomo. E questo stato di cose durò tutta la lunga notte del 
            Medio Evo. A dir la verità i coloni di Riesi non conobbero tutte le 
            brutture del feudalismo che permetteva persino le primizie dei 
            padroni nei matrimoni; salvo qualche abisso o sopruso degli 
            amministratori locali, del campiere o di qualche signorotto che 
            approfittavano del tempo e della carica; a Riesi di grave, di 
            positivo, per quanto sappiamo, non ci fu nulla. Epperò è giusto 
            notare anche che le investiture per i feudi dì Riesi e Cipolla, 
            giunsero con ritardo qui. Fatta questa considerazione, rivolgiamoci 
            dunque alla storia allo scopo di apprendere chi furono i possessori 
            di queste terre. Da ciò vedremo lo svolgersi delle diverse 
            investiture dei diversi governi concedenti le dette terre a coloro 
            che l’hanno posseduto, facendone l’uso di cui si vedrà appresso. 
            Siccome furono concessi a dei padroni stranieri, così da 
            lontano,l’hanno fatto amministrare.

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            Cap. III  


            Le investiture


            Nel libro sul  diritto nella storia, del dotto, vecchio avvocato 
            Sig. Gaetano Pasqualino Pasqualino, mancato ai vivi il 4 Giugno 1931 
            alla bella età di 82 anni, libro che scrisse a proposito della 
             Rivendica degli usi civici a favore della popolazione di Riesi nel 
            la causa contro i principi Pignatelli-Fuentes con azione privata  di 
            singoli cittadini, formando la Società di Resistenza poscia assieme 
            al Comune, nel detto libro adunque troviamo la base, si può di re, 
            del nostro lavoro per le investiture di Riesi e Cipolla; con le 
            quali investiture si viene a capo di quanto vogliamo sapere circa 
            l’origine della proprietà che diede luogo al  nostro paese. Con 
            questo suo interessante, pregevole lavoro di interessanti ricerche, 
            il Pasqualino ci fa conoscere le date e i nomi : le copiamo 
            acciocché i lettori ci seguano.

            Secondo lui la prima investitura di Riesi e Cipolla, avvenne neI 
            1393 dal re Martino I°, che noi sappiamo essere venuto in Sicilia 
            nel 1394 dalla Casa Aragona (Spagna), Egli concesse questi due 
            grandi feudi a certo Federico Moac, spagnolo col titolo di Baronia. 
            Però stando al Pasqualino, lo stesso Re Martino tolse i due feudi 
            alla moglie del Moac, rimasta vedova, e li concesse a Palrmerio De 
            Caro, un soldato di Licata, per servizi prestati allo Stato. Ciò 
            “per ragioni politiche”.

            Ma — sempre dietro la scorta del Pasqualino — gli eredi della 
            signora Ventimiglia dopo 56 anni, cioè nel 1453, reclamarono i loro 
            beni e ne ottennero l’investitura da Simone Bologna, Presidente del 
            Regno.

            Andrea Ventimiglia perciò — seguendo il diritto nella storia — fu il 
            possessore dei su mentovati feudi. Alla morte di costui, siccome non 
            aveva figli, la proprietà passò al nipote Ingastone di Castellar, il 
            quale dovette ricorrere in Tribunale, perché dalla Regia Corte gli 
            si negava tale diritto; ma la Regia Magna Curia gli diede ragione e 
            nel 1476 ne ebbe l’investitura.

            Il detto Ingastone di Castellar — continua a narrar l’A.— sposando a 
            Roma Donna Giovanna di Lanuzza, ebbe per figlia unica Eleonora, la 
            quale andò sposa a Don Giovanni De Roys de Calcena che ebbe in dote 
            i feudi di Riesi e Cipolla per la investitura del 1505.

            E dopo venne la volta — informa Don Gaetano — di Don Pietro Altariva 
            che fu investito nel 1621, quale erede unico di Anna de Urries, la 
            quale morendo lasciò come erede universale sua figlia Beatrìce 
            Altariva Urries.

            Costei sposò Don Diego Moncaio che fu investita nel 1607.

            A lui gli successe il figlio primogenito marchese dì Coscoquela che 
            nel 1609 possedette i due feudi.

            Indi passarono nelle mani dì Donna Francesca Heredia Ventimiglia per 
            rinunzia fattale dal padre nel 1737

            Finalmente — conclude il nostro maestro e Autore — nel 18 Agosto del 
            1742  passarono a Dan Giovanni Pignatelli d’Aragona, principe, 
            primogenito di detta donna.

            Fin qui a dunque il nostro Pasqualino che continueremo a citare. 
            Come si vede i proprietari di queste terre sono stati i principi 
            Pignatelli-Fuentes d’Aragona.

            Questa potentissima, ricchissima famiglia viene da un incrociodei 
            nobili principi di Napoli con conti di Fuentcs, influenti signori di 
            Spagna, come leggesi nei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni del 
            i6oo. Il duca di Solferino, uno degli eredi della predetta famiglia, 
            ci fa sapere che i suoi antenati furono dei guerrieri che 
            combatterono in Italia, specialmente contro i Mori; ed è per questo 
            motivo che hanno dei  possedimenti a Cerignola (Puglia) e a 
            Solferino (Lombardia) Detta famiglia adunque è molta antica: nessuna 
            meraviglia, se in Sicilia ebbero tanti possedimenti, tra cui Riesi e 
            Cipolla.

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            Cap. IV


            tentativi di un casale


            I primi possessori di queste terre, trovandosi nella Spagna, vi 
            mandarono qui dei Campieri, i quali facevano sorvegliare i su 
            menzionati feudi, facendoli coltivare come meglio potevano e 
            credevano: appresso vi mandarono degli Amministratori per rendersi 
            conto dei loro averi. Nei primi tempi il raccolto dovette essere 
            scarso, perché ci volle un  po’ po’ di tempo per dissodare le terre 
            ed avere i confini. Sul vasto territorio poco alla volta cominciò a 
            delinearsi, a migliorarsi e a produrre; i proprietari, sebbene da 
            lontano, ne tennero conto, tanto vero questo che, come abbiamo 
            visto, la proprietà se la passarono di mano in mano  nei matrimoni. 
            Ma non contenti di ciò, vi volevano far sorgere un Casale per meglio 
            amministrarla ed avere l’onore di possedere un abitato in questi 
            luoghi per contare di più presso i! governo spagnolo.

            Avutola in dote il De Roys de Calcena, questi pensò di mettere  mano 
            all’opera per un Casale nel feudo di Riesi allo scopo di concentrare 
            l’amministrazione diretta ed avere dei vassalli. E ciò in virtù d’un 
            privilegio accordato dal re Ferdinando d’Aragona, presso il quale 
            era impiegato come Segretario e che gli concedeva pure di 
            fabbricarsi un Castello all’uso dei tempi come risulta dal libro del 
            Pasqualino.

            Il De Roys fece chiamare dei contadini a Riesi per lavorare anche a 
            Cipolla. Bisogna considerare che dopo la Casa d’Aragona, venne a 
            regnare in Sicilia la Casa d’Austria e Spagna. Siamo quindi al tempo 
            di Carlo V, 1500. Questo Imperatore ordinò di fabbricarsi il primo 
            ponte sul Salso, precisamente a Capodarso su due serre, detto “il 
            ponte del diavolo” per congiungere le terre di Caltanissetta, 
            Pietraperzia e Riesi; e un’altro ponte consimile doveva sorgere da 
            quest’altra parte del Saiso, a Tallarita con la serra dell’Aquila e 
            quella di Palladio con in mezzo un pilastro, detto “il Bastione di 
            Carlo V” che esiste tuttora, per congiungere le terre di Ravanusa 
            con queste di Riesi; ma esso ponte rimase all’inizio e non ne 
            sappiamo il perché: forse rimase in asso, perchè si cominciò più 
            tardi dopo la morte dell’ Imperatore.

            Ad ogni modo il De Roys fu sotto buoni auspici per il suo Casale di 
            Riesi. I coloni di questa prima impresa — afferma il nostro 
            concittadino — si stabilirono a ridosso della collina santa Veronica 
            che noi chiamiamo “la montagna” e precisamente di fronte alla 
            Capreria dalla parte nord-ovest, dove a basso c’è il vallone di 
            S.Giuseppuzzo e il Margio; cosa che a quei tempi, ci fa supporre, 
            esservi acqua abbastanza.

            Ad ogni modo il Casale sorse li. Una canzone contadinesca che si 
            accompagna con lo scacciapensieri, lo strumento tradizionale dei 
            nostri contadini, rispecchiando quei tempi e questi luoghi, nella 
            nenia si esprime proprio così;

             Ci vo’ vaniri dda-banna Riesi,, 

            Unna cci su pagliara comu li casi

            E d’intra ci su picciutti comu li rosi

             Il che significa che il lavoro e l’amore attirarono altri a venire 
            da quella parte della collina “cci su pagliara comu li casi” vuoi 
            dire che il Casale per lo più era formato di pagliaia; che gli 
            abitanti, i primi abitatori di quell’epoca si accontentavano di 
            vivere in quella maniera, zappando la terra dei de Calcena, la cui 
            moglie Eleonora di Castellar di Lanuzza, si disse che desiderava, 
            spronando il marito avere non solo il Casale, ma eziandio il 
            Castello.

            Crediamo che i primi ad arrivare in detto luogo furono i 
            pietrini(Pietraperzia), perché più vicini; poscia furono quei di 
            Caltanissetta e forse dalle parti di Palermo, giacchè ne avevano 
            avuto sentore a mezzo del ponte di Capodarso. E’ da supporre che il 
            nascente Casale nacque nei primi 25 unni d ‘500 e che si andava 
            formando.

            Le famiglie però vivevano in continua agitazione per due ragioni; 
            prima, perché in mezzo ai lupi che infestavano le campagne, gli 
            abitanti privi di mezzi e senza armi nei boschi, non potevano 
            difendersi; secondo, li vagavano i Saraceni che andavano di notte 
            rubando i bambini col motto: “dove c’è fumo c’è cristiani”; motto 
            che si spiega col fatto che vedendo fumo nelle case e nei pagliari, 
            si avvicinavano per la preda. Essendo Riesi nella zona marittima di 
            Terranova, oggi Gela, era facile un simile caso.

            Il Casale però non durò a lungo, si distrusse, non sappiamo quanto 
            durò, ne come e perché si distrusse, Don Gaetano ammette la malaria 
            ed altre cause che non spiega, qualcuno crede che vi sia stato un 
            terremoto: fatto sta che gli abitanti fuggirono e il feudo restò 
            deserto.

            Nello arare la terra sabbiosa dietro la montagna si son trovati le 
            vestigia del distrutto casale tra masserizie, oggetti di terra cotta 
            e persino, si disse, le fondamenta di una chiesuccia. Nella oscurità 
            dei tempi in cui vissero quei primi abitatori, non ci permettono di 
            fare dei nomi, ne di andare più oltre.

            Un altro tentativo riuscito più fortunato, di cui parla a lungo il 
            Pasqualino, del secondo Casale di Riesi, fu quello invece di Don 
            Pietro Altariva, “dopo 135 anni” . Di origine italiana, (i) egli, 
            dopo la di lui investitura ottenne il decreto dal viceré di Sicilia, 
            Filippo III° d’Austria di ripopolare il distrutto casale di Riesi, e 
            di esercitare sugli abitanti “il mero e misto impero”. A tal uopo 
            l’Altariva nel 1634, fece fare dal suo amministratore Cristoforo 
            Beninati, l’invito ai contadini degli altri paesi, concedendo loro 
            larghi privilegi, e cioè: le terre in gabella o a censito perpetuo, 
            col canone da pagarsi sul luogo; il diritto di legnare, gessare, 
            raccogliere erbe, lumache e di estirpare la liquirizia sulle rive 
            del fiume: insomma i diritti d’uso civico o promiscui.

            Pare accertata la data che il nuovo Casale di Riesi cominciò nel 
            1612, perché si fece una masseria laggiù al Canale. Stavolta i nuovi 
            arrivati si collocarono ivi, da questa parte di fronte a santa 
            Veronica dove c’era molta acqua, sulla parte rocciosa nelle 
            vicinanze del Margio. Indi sorsero le prime casuccie povere, basse, 
            attorno alla masseria, alla meglio; i pagliara, le grotte, onde 
            ripararsi i contadini dal caldo e dal freddo. La vecchia canzone si 
            ripete anche qui e i contadini che venivano lavoravano la terra, che 
            è la gran madre di tutti, affezionandosi al suolo sotto la guida dei 
            campieri vi si stabilirono. Onde scansare la malaria si 
            allontanavano dal Margio, salendo in su sulla pietra e aumentavano. 
            La prima viuzza stretta, ripida a zig zag con l’agglomeramento delle 
            casuccie, nacque sull’altura di giù in su, dove ora c’è il Cinema 
            teatro: col nome di Donna Ciucella, da una donna faccendiera, 
            residente ivi. Come osservasi il neo Casale si andava formando con 
            altre vie più o meno larghette e lunghette dalla destra della parte 
            montuosa, giungendo fino alla Pietra piatta. Ivi sorsero due vie 
            larghe,  una diritta in su, l’altra a sinistra verso la campagna con 
            un agglomeramento di famiglie numerose.

            A prima vista credevasi che dovessero fermarsi la, ma l’abitato 
            cresceva mercé la prolificazione e altri nuovi arrivati, di guisa 
            che te casuccie aumentavano nei dintorni sulla pietra a venire da 
            questa parte; i coloni si sentivano più sicuri stando uniti in 
            quartiere.

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            (I)Parma di Piacenza, prof. Gravina, Araldica

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            Cap. V  


            i magazzini – la parte intellettuale o i dirigenti – il palazzo – la 
            prima chesetta - le feste

            In quel primo momento l’amministratore dei feudi fece fabbricare per 
            conto della proprietà, ai piedi della montagna i magazzini per la 
            raccolta dei cereali e delle olive e un trappeto per la macinazione 
            onde avere l’olio: i primi furono fatti dove c’è la Flora dei Jannì, 
            il secondo nella straduzza di Donna Ciucella. Successivamente a ciò 
            vennero i due fratelli Rubbios dalla Spugna, uno dei quali nella 
            qualità di amministratore, l’altro per prendere delle terre a 
            censito. Essi, possedendo numerosi animali  impiantarono una grande 
            masseria. Si fabbricarono il palazzo alla punta dell’altura, d’una 
            nuova via che va verso il poggio ove da una parte e dall’altra 
            sorsero delle casette, divenendo la via dei Rubbios lunga e larga. 
            La casa sorse coi balconi e delle camere sui dammusi; un gran 
            cortile aveva magazzini e stalle. Dentro il salone sontuoso fu un 
            lustro; al disopra fecero mettere lo stemma della loro famiglia. 
            Erano tanto ricchi i Rubbios che a quel tempo prestavano della 
            moneta al Municipio di Caltagirone. La prima piazzetta sorso avanti 
            la casa, duve i contadini coloni si riunivano la Domenica sera per i 
            loro affari coi signori Rubbios. Questa famiglia poi si apparentò 
            coi Golisano che furono dei primi massarotti, i quali incominciarono 
            a fiorire, ed erano venuti da Ravanusa. Dopo Venne uno dei baroni 
            Camerata di Piazza Armerina che stabilitosi qua prese a censito 
            tutte le terre che dalla montagna vanno a tutto Castellazzo. Messa 
            su casa, la famiglia si fabbricò il così detto altro palazzo 
            sull’altipiano del Crocifisso, composto di quattro camere, i dammusi 
            ed un cortile che dà alla Pinninata e all’altra via che scende pure 
            al canale. I Cammarata erano qui di dei nobili parenti con quei di 
            Butera. Appresso Venne certo Don Costantino Sanfilippo di Agira, 
            prov. di Catania. Ricco e intellettuale personaggio si stabili dalla 
            parte del Canale in su fabbricandosi delle camerette per la sua 
            famiglia, coltivandosi delle terre. Egli fu il primo borgomastro di 
            Riesi, cioè il Sindaco. Visto cosi la proprietà fece erigere la 
            prima chiesetta. sull’altipiano accanto ai Cammarata. Essa cominciò 
            a servire di Madrice, facendo Venire un prete da Mazzarino. Ma la 
            chiesetta trovando il terreno frollo, si diroccò subito. Allora 
            l’amministratore e i pochi, ricchi, i primi massarotti, pensarono di 
            far fabbricare la chiesetta del Crocifisso accanto alla diroccata . 
            E’un errore il credere che la prima chiesa sia stata quella del 
            Crocifisso, essa fu la seconda che servì poi di Madrice. I muratori 
            che la fabbricarono furono due fratelli Giambarresi, Daniele e 
            Salvatore, venuti da Modica, provincia Ragusa. Di piccola 
            dimensione, bassa venne di stile semplice con due merletti e due 
            entrate a scaloni. L’interno misura 24 metri di lunghezza con 7 di 
            larghezza, pari a mq. 148. Sotto. pavimento è vuoto per la fossa dei 
            morti; in fondo l’altare maggiore presenta l’aspetto d’una chiesetta 
            di campagna e di fronte ha l’organo: le pareti imbiancate a Stucco 
            mostrano quattro quadri e al disopra un cornicione. La piccola 
            Sagrestia l’abitazione del sagrestano di dietro indicano che la 
            chiesetta fin dal 1630 cominciò a funzionare bene; campanile e 
            campane non ce n’erano fino ai principio del i8oo. Aperta al 
            pubblico, nella piazzetta detta il piano, il sagrestano suonava una 
            Campanella a mano indicando l’ora della messa e le feste solenni. 
            Questa chiesetta che fu dedicata al Crocifisso serviva di Madrice 
            nei battesimi, matrimoni e sepolture. Il proprietario dei feudi vi 
            mandò in regalo un Cristo di avorio che è stato giudicato d’una 
            bellezza artistica. La festa del Crocifisso si cominciò a celebrare 
            ogni anno la seconda Domenica di Ottobre con la processione dal 
            piano del Crocifisso al palazzo Rubbios nell’ora del Vespro. Il 
            prete mazzarinese, visto che la festa era riuscita, fece balenare in 
            mente di celebrare l’altra festa principale di Pasqua con la 
            processione del Venerdì Santo. Allora una croce di legno fu piantata 
            su un piedistallo di gesso, laggiù al Canale avanti i magazzini. La 
            processione si faceva col prete alla testa, molti uomini con una 
            tovaglia di bucato al collo e le candele a olio, dette lumiere in 
            mano: solo in quella occasione le donne uscivano di casa, nella 
            primavera stagione dei fiori. La processione prendeva il piano, 
            passava dalla Casa dei Rubbios e se ne scendeva al Canale per la 
            Petrapiatta; al ritorno prendeva dall’altra Parte del Canale e 
            saliva in chiesa. Così ci sono state descritte le due feste. Il 
            Canonico Vincenzo D’Amico, nella sua pianta topografica della 
            Sicilia, vi annovera 400 case come si diceva allora nel feudo Casale 
            di Riesi, il che fa circa 2 mila abitanti.
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            Cap. VI


            giudicato – caserma e carcere - municipio


            Il Governo di allora in Sicilia, informato di questo nuovo 
            villaggio, impose di istituire il Giudicato per la giustizia la 
            Caserma per le guardie e il Carcere per i rei. L’amministrazione 
            locale dell’Altariva, d’accordo col borgomastro provvidero a ciò, 
            prendendo i locali al piano del Crocifisso.

            Per il Giudicato presero una cameretta dei Cammarata con l’entrata 
            dal cortile; Caserma e Carcere in due case terrane dello stesso 
            cortile di proprietà degli stessi Cammarata.

            Il primo Giudice venuto a Riesi, fu un certo Liberto Gueli di 
            distinta famiglia da Mazzarino; come Cancelliere venne un certo 
            Antonino Ministeri da Noto (Siracusa), trascinandosi da Usciere Don 
            Angelo Ministeri proprio parente. Tutti e tre questi signori si 
            stabilirono a Riesi, prolificando, progredendo, tanto da diventare 
            proprietari. Il Giudice si fabbricò delle casette a pianterreno più 
            in giù del piano; il Ministeri una casetta al piano, dopo i 
            Cammarata e l’Usciere delle casette a basso verso il Canale.

            Oltre le guardie, delle quali non sappiamo precisare il nome, i 
            Campieri della proprietà erano autorizzati ad arrestare i ladruncoli 
            nelle campagne e condurli legati con corda in carcere. Tutto era 
            concentrato quindi al piano del Crocifisso. in un libretto 
            pubblicato dalla Casa dei principi Pignatelli Fuentes, anni fa, sono 
            elencate alcune casette di villici con sentenze emesse dal 
            Giudicato. Cosi un tale per aver rubato una zappa fu condannato a 
            tre giorni di carcere e un franco di multa; fra due rissanti a 5 
            giorni; un marito per avere maltrattato la moglie a un giorno. La 
            punizione era pane ed acqua all’oscuro. Il Corpo delle guardie stava 
            a sorvegliare i condannati di giorno e di notte. Esisteva fino al 
            1850 la sedia del Giudicato, fatta venire da Licata; sedia ereditata 
            dai Cammarata, sedia a braccioli in legno.

            Il borgomastro in seguito affittò una cameretta dai Ministeri per la 
            sede del Municipio. Là si ricevevano gli ordini dalle Autorità di 
            Caltanissetta per la parte amministrativa dal Luogotenente del 
            Vicere. Giustizia adunque, Municipio e amministrazione reggevano il 
            villaggio. In quanto alla chiesetta della prima Madrice, il prete 
            dipendeva dal Clero di Mazzarino, il cui Parroco veniva di tanto in 
            tanto.

            Abbiamo potuto raccogliere tutte queste notizie accampate in aria, 
            senza metterci nulla del nostro, data prima epoca di confusione. Ci 
            si fa sapere che nella chiesetta del Crocifisso, precisamente in 
            Sacrestia, vi erano dei quaderni, in cui venivano registrati gli 
            atti di battesimo, di matrimoni e di morte; ma i topi roditori ne 
            fecero strage, di guisa che intorno a quella prima epoca siamo 
            perfettamente al buio, congetturando quanto diciamo. Però è bene 
            sapere che il villaggio cresceva di numero e di casuccie dalla parte 
            di Pietrapiatta verso il poggio. Quivi si cominciarono a formare due 
            file di casuccie creando una via molto larga a venire in basso.
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            Cap. VII


            la chiesa della madrice – la baronia – delineazione del borgo


            Qui a basso non ci si poteva venire, perchè vi era un ammasso di 
            acqua morta, roveti ed erbaccia; ma la mano d’opera dei coloni, 
            sotto la guida dei Campieri, fece si di sgombrare ed asciugare 
            tutto, fino a trovare il taio. Si va verso la fine del 1650 e le 
            cose si volgono al meglio. Quando il proprietario Don Pietro 
            Altariva intese nel 1645 che nel suo feudo di Riesi, il villaggio 
            aveva preso consistenza, incamminandosi a diventare un borgo sul 
            serio, ideò di far fabbricare la chiesa padronale della Madrice, non 
            bastando più la chiesetta del Crocifisso per i bisogni spirituali 
            della nuova, nascente, ancor piccola popolazione. A tal uopo nel 
            dettò anno 1645, si fece fare da un Architetto in Palermo un 
            progetto da eseguirsi sul luogo. Venuti i capi d’arte palermitani, 
            per la bisogna si scelse tutto il piano di circa due tumoli e mezzo; 
            la parte rocciosa servì per la costruzione del nuovo Tempio. Nel 
            progetto è detto che la chiesa doveva essere fatta a tre navate ed a 
            Croce greca e le nuove vie dovevano sorgere lunghe, larghe e diritte 
            come una canna,; cosa che non si fece ne per l’una ne per le altre, 
            ne il piano fu lasciato tutto intero, E di. essa chiesa venne fatta 
            a due navi ed a Croce cristiana. Dopo tre anni di indefesso lavoro 
            fu consegnata la muratura e pare che la facciata sia stata fatta in 
            gesso semplice. La storia di questa chiesa ‘Madre, è compendiata in 
            due lapidi marmo, poste all’entrata principale alle pareti di destra 
            e di sinistra. Esse lapidi, tradotteci dal Rev. Cav. F. Cinque, il 
            parroco, dal latino, ci dicono, quella di sinistra: A perpetua 
            memoria. Sia a lutti noto che l’ill.mo Don Piero Altariva, barone di 
            questo Stato, dopo che curò d’abitare questa eresse la chiesa 
            Madrice per il servizio di Dio e la salute delle anime; ed in essa 
            fondò un beneficio Curato di diritto padronale come si legge negli 
            alti del Notar Baldassare Calderaio in Palermo, 10 Luglio 1648. 
            Essendosi però diroccata la vecchia chiesa il 25 Marzo 1726, 
            l’Eccellentissimo signor Don Bartolomeo de Moncajo, Marchese di 
            Coscoquela, barone di detto Stato,per devozione a proprie spese, 
            questo magnifico Tempio riedificò. E siccome nell’anno 1734, la 
            maggior parte di questo Tempio per puro caso rovinò, l’ill.mo Don 
            Clemente ed il di lui figlio Don Biagio Vincules,nella qualità di 
            Procuratori generali, curarono di restaurarlo. Finalmente nel giorno 
            9 Maggio1747 Matteo Trigona, Vescovo di Siracusa, Prelato domestico 
            al sacro soglio Pontificio e Consigliere del re, per sua grazia con 
            rito solenne la consacrò elevando a Basilica, essendo Reggente Don 
            Antonio Guliana, Dottore in sacra Teologia. L’altra di destra dice: 
            Regnando Benedetto XIV Pontefice Massimo e Carlo di Borbone re delle 
            due Sicilie al tempo di Don Giovanni Pignatelli,conte di Fuentes, 
            fondatore di Riesi barone d’Altariva, essendo Procura/ori generali i 
            Vincales, Matteo Trigona Vescovo di Siracusa ecc. consacrò questa 
            Basilica eretta alla SS. Vergine della catena e devotamente dedicata 
            ai SS. martiri Clemente, papa e S. Sabina. E ricorrendo il giorno 
            della consacrazione, a tutti i cristiani fedeli in questo Tempio, 
            elargì 40 giorni di vere indulgenze per lo stesso giorno della 
            consacrazione prescrisse l’Ufficio e la Messa da celebrarsi. La 
            chiesa cominciò a dipendere dalla diocesi di Siracusa essendo queste 
            terre considerate nella valle di Noto. Riferendoci a questi due 
            documenti storici, sappiamo quindi che la chiusa della Madrice fu 
            rifatta, si può dire tre volte; che essa fu dedicata alla Madonna 
            della Catena, padrona di Riesi e ai compatroni San. Clemente e Santa 
            Sabina: per la Madonna in virtù d’un miracolo operato a Palermo, a 
            tre condannati innocenti che nel giorno del supplizio, accompagnati 
            dalle guardie, a cagione di un temporale si ripararono in una 
            Cappella di campagna dedicata alla Vergine pria di giungere al luogo 
            della forca, le guardie, stanche, si addormentarono e i prigionieri 
            si rivolsero alla Madre santissima e le dissero: Voi sola sapete se 
            siamo innocenti; liberateci Voi . La Madonna scese, tolse loro le 
            catene e quelli fuggirono. Svegliatesi le guardie non trovarono i 
            prigionieri, ma videro li. catene appese alle mani della Madonna e 
            gridarono al miracolo che si sparse in tutta l’isola: laonde i 
            signori d’Altariva vollero che la chiesa della Madrice di Riesi 
            fosse dedicata alla Vergine sotto il titolo della Catena. (Da un 
            sermone stampato dal Can. Don Vincenzo Butera nella chiesetta del 
            Crocifisso il 1845). Sappiamo poi che ‘nella chiesa della Madrice la 
            facciata venne rifatta con pietre da taglio di stile dorico 
            castigato; difatti la cornice, le colonne e i capitelli sono molto 
            semplici; che la Sagrestia venne dalla discesa, accanto alla quale 
            vi era un deposito per la cerimonia dei cadaveri, mentre la fossa 
            comune era nel sottosuolo del pavimento che è tutto vuoto. Essa 
            misura metri 40 di lunghezza con metri 10 e più di larghezza, il che 
            fa circa 500 mq. Dalla base al campanile misura metri 27. Al disopra 
            dell’entrata di mezzo ad una grande finestra fu posto lo stemma dei 
            principi Pignatelli Fuentes. L’interno della chiesa è a Croce, 
            abbiamo detto, ed è venuta un gioiello. In fondo vi è l’altare 
            maggiore di marmo porfido, finissimo, scolpito con disegni; al 
            disopra havvi la Cappella della Madonna, la di cui immagine, fatta 
            venire da Palermo, è una vera bellezza d’arte; ai due lati vi sono 
            le due statue di gesso al naturale dei compatroni S. Clemente e 
            santa Sabina; il cielo o la cupola è una meraviglia, perché grande; 
            ai quattro spigoli si vedono le statuette in gesso dei quattro 
            Evangelisti S. Matteo, S. Marco, S. Luca e S. Giovanni; a basso una 
            scalinata con cancellata di ferro, divide il popolo dal Clero per la 
            Messa e le funzioni religiose, il quale Clero per i sacerdoti ha 
            degli appositi sedili in legno finissimo; l’organo e il pulpito, di 
            fronte, stanno nel mezzo della chiesa per potere il popolo sentire, 
            udir bene. Passando nella Croce di destra, un altarino è dedicato al 
            risorto o il Sacramento: un’altra piccola scalinata e cancellata per 
            assistere una parte del popolo alle funzioni della essa detta dal 
            Parroco o da un sacerdote; nella parete a destra un altarino è 
            dedicato a S. Antonio, la cui statuetta in marmo è ben fatta; di 
            fronte alla parete, un bellissimo quadro in una cornice di legno 
            chiuso a porte mostra la Madonna Grazie che si crede opera d’arte 
            del 400. Nell’altra parte della Croce di sinistra, l’altarino è 
            dedicato al Cristo morente sulla Croce, con una statuetta in legno 
            espressiva. Anche qui una statuetta alla Vergine. Da questa parte si 
            immetteva nella Sagrestia per i paramenti e l’archivio , nonché per 
            salire nell’organo. Per i quadri e gli affreschi dello pareti e per 
            Il tetto fu fatto venire il pittore Gonzales da Madrid (Spagna). 
            Essi quadri ed esse immagini religiose sono d’una finezza tale che 
            attirano lo sguardo di tutti. La stuccatura ed altri lavori deI 
            cornicione sono opera di un certo Don Michele Grosso da Bufera un 
            artista dimorante a Gela che visse nell’ 800. Terminata la sopra 
            detta chiesa Madre di Riesi nel 1648, quando era ancora rustica, si 
            può dire, il proprietario Don Pietro Altariva. nel 1650 fu a Messina 
            per stipulare l’atto con cui donava al suo paese questa chiesa della 
            Madrice, dotandola di Are 6 di buona terra al Canale detta la chiusa 
            della Madonna. Indi dalla Curia Vescovile di Siracusa fece nominare 
            a primo Parroco, con una congrua parrocchiale di L.300 annuo, Don 
            Angelo d’Angelo da Barrafranca. Visto ciò il Governo spagnolo nominò 
            l’Altariva barone di Riesi e Cipolla, un grande di Spagna, che 
            poteva sedere al Parlamento a patto di pagare la somma di onze 120 
            all’anno pari a L 2130, fornendolo pure di 12 cavalli per l’uso 
            militare. Installatosi qui a Riesi il primo Parroco, subito dopo il 
            barone Don Pietro Altariva moriva, ma il borgo e la chiesa Madre con 
            il Clero, per quanto piccolo, restava. Quindi vediamo risorgere 
            l’abitato a migliori condizioni. E difatti due grandi vie si 
            partirono dalla chiesa Madre: una la detta piazza che fu poi il 
            Corso; l’altra la via di Porta Licata che divenne dipoi la via del 
            Rosario. Queste due vie con quella di via, grande che parte dalla 
            chiesetta del Crocifisso, fecero prendere un altro aspetto al centro 
            del borgo. Esse furono il principio di altre vie e traverse, facendo 
            crescere sempre più l’abitato di nuove casuccie, come appresso 
            vedremo. E al tempo dei Vincales con la stessa pietra da taglio fu 
            fabbricato il palazzo della Baronia per l’Amministrazione dopo il 
            1734 vicino la chiesa, il primo cantone delle due vie. Da queste vie 
            si delineò il borgo; esse furono il fulcro, il principio di nuove 
            casetta sorte più belle e più solide, lasciando i pagliaia, 
            tenendosi solamente, al di fuori, le grotte per i coloni più poveri.
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            Cap. VIII


            festa della madonna e di natale dal 1650 al 1700


            Dal 1650 al 700 il Clero di Riesi, fornito di buoni sacerdoti, 
            istituì la festa della Madonna e di Natale. Così il popolino, oltre 
            quelle del Crocifisso e di Pasqua, aveva agio di svagarsi ancor di 
            più. La chiesetta del Crocifisso era una succursale della Madrice e 
            quindi funzionava pure. Quattro feste all’anno per un borgo di 3 
            mila abitanti, quanti erano alla fine del secolo XVI erano 
            sufficienti a far stare unito il popolino alle due chiese. Rileviamo 
            ciò dai battesimi, matrimoni e morti che si registravano nella 
            Madrice, ove la formula era: in queste terre di Altariva, in questa 
            chiesa sotto il titolo M. della Catena Parroci e Cappellani venuti 
            da fuori facevano a gara per accaparrarsi la simpatia del popolo. 
            Di. fatti i sacerdoti la facevano da precettori nelle famiglie 
            benestanti e i Parroci avevano una scuoletta nella Sagrestia per i 
            figli dei poveri. Dunque la festa della Madonna cominciò a 
            celebrarsi ogni anno la prima Domenica di Settembre. In principio il 
            concorso degli altri paesi fu scarso, ma poi poco alla volta, ogni 
            anno, i forestieri aumentarono a tal segno che la festa prese una 
            proporzione tale da far concorrere tutta la Sicilia e persino gente 
            dalla Calabria; intanto le casuccie aumentavano in queste vie 
            principali, donde le venne poi la via dei Santi al centro; tuttavia 
            la festa si celebrava in mezzo all’erba, alla ortica con pompa, 
            fasto e lusso. L’orchestra di Piazza Armerina e oggi l’antica Enna 
            venivano ad allietare la popolazione in chiesa; due musiche 
            arrivavano da fuori per fare la questua nelle vie e viuzze, 
            giungendo fino fuori le porte nelle campagne; due palchi rizzati al 
            piano, poggiati alla facciata della Madrice, la sera suonavano pezzi 
            scelti di musica classica, tenendo il popolo desto fino a tarda ora: 
            le famiglie si portavano le sedie di casa e stavano sedute fino che 
            la musica terminava di suonare: certamente che, data l’indole del 
            popolino, qualche baruffa, qualche ferimento succedeva, tanto vero 
            che si diceva: non c’è festa senza tamburini per significare che 
            qualcosa doveva succedere sempre. Otto giorni prima, la domenica 
            precedente si apriva la festa della Madonna con le corse dei 
            giannetti venuti da Catania e Messina, dedicate a S. Eligio Vescovo, 
            la cui statua in gesso al naturale, si vede a destra dell’entrata 
            della chiesa. Tutto il popolo accorreva alla testa della Corsa per 
            vedere correre i cavalli al suono dei tamburi, di dopo pranzo, dalla 
            Sanguisuga al Canale al punto dove c’era la Croce. Premi in denaro e 
            in drappi venivano dati ai migliori corridori. Il pieno della festa 
            era dal giovedì sera a tutto il lunedì, per la durata di quattro 
            giorni. Quindici giorni prima, dei negozianti in tutti i generi 
            venivano a piantare le loro capanne in mezzo al verde: ricche 
            gioiellerie da Palermo, drapperie, calzolerie, dolcerie da 
            Caltanissetta, stavano qui per tutto il periodo della festa. Così 
            gli abitanti avevano l’agio di fare le provviste necessarie per 
            tutto l’anno. Gli antichi dicevano che la festa della Madonna della 
            Catena di Riesi era cosi solenne e ricca che i forestieri se ne 
            andavano impressionati Due scherzi di fuoco con l’ossatura al piano 
            venivano sparati la sera della domenica e il lunedì. Il giorno della 
            festa, dalla mattina per tempo fino a mezzogiorno per la Messa 
            cantata, era un via vai di devoti e devote dai paesi a portare a 
            piedi scalzi doni e ceri, mentre alla chiusa si svolgeva la ricca, 
            fiera de!la Madonna. Uscendo nel pomeriggio il simulacro, la 
            processione assumeva un aspetto caratteristico: Clero, musiche e 
            popolo compresi i forestieri, appresso al simulacro con ceri accesi, 
            si ritiravano dopo l’Ave. Il lunedì era pure festa per i Paesani per 
            il grande traffico che avevano avuto durante gli Otto giorni; le 
            musiche restavano , mentre gli altri sfollavano: passata la festa . 
            E l’altra festa di Natale del 25 Dicembre, la chiesa della Madrice 
            cominciò pure a celebrare. Ogni anno il popolo vi accorreva per 
            vedere, alla mezzanotte, la nascita del bambino Gesù. Siccome prima 
            di recarsi in chiesa, gozzovigliavano, molti vi andavano con la 
            testa avvinazzata, di guisa che la funzione si svolgeva tra il 
            baccano, le grida e la confusione. Bella, caratteristica la 
            cornamusa, ciaramedda, strumento tradizionale dei pastori, che 
            uscendo di chiesa allietavano il popolo, specialmente i ragazzi, i 
            quali svegliandosi, si alzavano per sentirla. Non vogliamo lasciar 
            passare inosservata la festa di Carnevale a cui il popolo molto ci 
            tiene, tanto da dire: Pasqua e Natale farli con chi vuoi, ma 
            Carnevale farlo con i tuoi. Questa festa baccanale, ereditata dai 
            pagani, una festa di crapule e di brio. I buontemponi della vita ci 
            sono stati sempre per divertirsi e far divertire, scherzando, 
            chiassando; mangiando bene e bevendo meglio, si sollazzavano. A 
            Riesi, nei tempi antichi, tutti gli anni il Carnevale era aspettato 
            con ansia. Le maschere, i mascherati facevano a gara, ci si diceva, 
            per concentrarsi al piano della Madrice. Si ballava si scialava, si 
            rideva a crepa pancia le Domeniche di giorno. La sera di Carnevale 
            le famiglie, riunite coi parenti,la passavano allegramente. 
            L’indomani, primo di Quaresima, tutti in chiesa per il memento homo, 
            ricordati che sei uomo. La lunga Quaresima, come si sa, culminava 
            con la festa di Pasqua e il Venerdì Santo al Canale. Queste feste, 
            fin dai primi momenti, tenevano legato il popolo al Clero, il quale 
            si dimostrava premuroso verso la chiesa, la Baronia, le Autorità e 
            si cresceva di numero e di cosucce. In cinquant’anni, dal 650 al 700 
            i Parroci e i preti da fuori furono i seguenti: Don Angelo d’Angelo 
            ci stiede fino al 1657; lasciò Riesi e ritornò nella sua Barrafranca 
            perchè come dice il Don Gaetano Pasqualino, non ci poteva vivere con 
            lo scarso stipendio. 11 secondo fu il vice Parroco Don Paolo Caci, 
            di cui non si sa da dove venne, assieme ai Canonici l)on Taddemi e 
            Don Francesco Costantino e Gambacurta fino al 64. Lo sostituì Don 
            Giuseppe Lostimolo da Castel di Lucio, provincia di Messina. Altri 
            preti furono; Don Giuseppe Averna , Don Pietro Antoni; il quarto 
            Parroco fino al 70 fu don Michele Ferrigno con Don Filippo Margotta 
            , sesto Parroco fino al 74,Don Pietro Zancari rimase in carica fino 
            al 1707,aggiungendovi altri nuovi sacerdoti Cappellani. Il più di 
            tutti rimase in carica (17 anni) chiudendo il secolo e aprendo il 
            nuovo, l’ultimo parroco Don Pietro Zangari che dal cognome pare sia 
            stato proveniente da Gela.
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            Cap. IX


            la vecchia chiesa del rosario – le confraternite


             Negli ultimi anni del secolo XVI o probabilmente al principio del 
            nuovo secolo, il Zangari animato da santo zelo, vista la religiosità 
            del piccolo popolo, fece fabbricare assieme agli altri, la vecchia 
            chiesetta del Rosario a metà della via di Porta Licata. La terza 
            chiesa, Per quanto piccola, servì a dare più importanza al borgo. 
            Essa bassa, povera, con un altarino, fu dedicata alla Madonna del 
            Rosario, dando il nome alla via. Posta dove ora c’è il Municipio, 
            nella discesa, dava nell’aperta campagna; ai lati sorgevano delle 
            caselle e la via si andava formando. Un’altra festicciola fu 
            istituita per la Madonna del Rosario la terza Domenica di Ottobre. 
            Essa veniva celebrata alla buona, senza pompa, con la sola 
            processione. Clero e popolo vi partecipavano con devozione. In detta 
            chiesa vi si celebrava una Messa ogni tanto di modo che era pure 
            aperta al pubblico. Con queste tre chiese il Clero volle fondare le 
            così dette Confraternite, per come erano negli altri paesi. 
            Associazioni di uomini devoti ai diversi santi, costituivano una 
            classe privilegiata sotto la guida di un prete che era il Canonico 
            della chiesa. Ogni socio pagava un contributo per il mantenimento 
            della propria Confraternita e per le spese occorrenti nella chiesa 
            alla quale apparteneva. Un Regolamento chiamato Verbo Regio faceva 
            godere dei diritti in caso di malattia o di morte; i funerali si 
            facevano con l’accompagnare il cadavere in chiesa con il prete, la 
            Croce e i membri, i quali indossavano la sottana bianca e il bavero 
            a colori, secondo la Confraternita alla quale si apparteneva. Ben 
            presto adunque a Riesi sorsero, prima che finisse il secolo, le tre 
            Confraternite della Madrice, del Crocifisso e del Rosario. Tutto 
            andava bene, ma.... c’ è un ma che ha bisogno di una spiegazione. La 
            chiesa del Rosario, dopo un quarto di secolo tra il vecchio e il 
            nuovo, si diroccò; non fu fatta più innalzare ne riparare, si 
            distrusse e rimase un casalino di lato al Comune. Essa chiesa fu un 
            ricordo, di cui solo i primi abitanti del 700 ne parlarono. Sicchè 
            Riesi, per lungo tempo, ebbe le sole due chiese, aspettando di 
            rifare altrove quella distrutta. Ad ogni modo, non pertanto i nostri 
            antenati di quell’epoca si scoraggiarono: la Confraternita della 
            Madonna del Rosario andò ad ingrossare quella della Madrice e quella 
            del Crocifisso; ne il Clero, che si faceva sempre più numeroso, si 
            tirò indietro, per il servizio di Dio e la salute delle anime. Il 
            locale distrutto della prima chiesa della Madonna del Rosario lo 
            chiamarono poi Il Rosario vecchio . Tanti e tanti dei nostri vecchi 
            l’hanno designato sempre con tal nome, significando che vi fu la 
            prima chiesa del Rosario. Essa non fu più neppure fabbricata a 
            casetta: rimase lì come un luogo comune.
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            Cap. X


            il 1700 – clero e popolo – i conventi


            A cominciare dal 1700, Riesi fa un altro passo avanti nella via del 
            progresso numerico, industriale, edilizio. Il secolo XVII si apre 
            sotto buoni auspici. Alcuni fatti provano il nostro. asserto, poichè 
            siamo informati di quanto diciamo. L’immigrazione continua; dei 
            campagnoli si fanno avanti per diventar massari; altri uomini ricchi 
            Vengono a stabilirsi qui; degli operai affluiscono da tutte le parti 
            della Sicilia e persino dalle Calabrie; case e casette belle sorgono 
            attorno alla periferia ed al centro; spiccano i ricchi signori; il 
            popolo ama il lavoro; il Clero, sotto la guida di buoni Parroci, 
            diventa più numeroso: insomma il borgo passo passo, durante il corso 
            di un secolo, diventa un paesetto bello e formato con vie, traverse, 
            cortili e camerette. La Baronia dei Fuentes accoglie bene i nuovi 
            arrivati, agevolandoli. Nel narrare tutto ciò come meglio possiamo e 
            sappiamo, ci facciamo lecito di chieder venia, se possiamo cadere in 
            qualche errore; se vi sono dei lettori che non sono informati 
            meglio, ci possono mettere in carreggiata, compatendoci. Anzitutto è 
            bene riferire che da ora in avanti Riesi non è più un feudo, ma un 
            paesetto nelle terre di Altariva; il suo stato o territorio prende 
            il nome di feudo Calamuscini con le diverse contrade. Siccome 
            l’intero feudo di Riesi era abbastanza grande, così la proprietà lo 
            divise in altri sei feudi che sono: Tallarita, Gurretta, Palladio, 
            Spampinato, Contessa, in tutto 7 feudi. Dalla penna del nostro 
            concittadino avv. Gaetano Baglio nel suo volume di 6oo e più pagine 
            sulle ricerche dei lavoratori in Sicilia: lo zolfataio, riportiamo: 
            Riesi sorge sul declivio di un poggio di 300 metri sul livello del 
            mare.Il suolo che costituisce il territorio, fortunatamente 
            ondulato, di natura or calcareo, or argilloso, è povero d’acqua. Il 
            territorio confina a nord col feudo di Cipolla; ad est e sud col 
            territorio di Mazzarino e di Butera; ad ovest col fiume Salso. È 
            situato ,nel più importante bacino zolfifero della Sicilia e ne è il 
            più antico centro. Come bene osservasi, il territorio è abbastanza 
            ristretto, perchè Mazzarino e Butera sono vicinissimi, si può dire,. 
            alle porte di Riesi; oltre il fiume altre terre, di altri 
            proprietari ci dividono; Cipolla distante rimase tale e quale diviso 
            in Cipolla superiore e Cipolla inferiore: ed è per questo che i 
            riesani così chiamavansi anticamente gli abitanti di Riesi sono 
            stati costretti a coltivare le terre fuori territorio.

            Dopo il settimo Parroco Don Pietro Parisello, dal 1707 al 1742 venne 
            da Caltanissetta Don Felice Amico. S. T. D. con altri sacerdoti e 
            dopo di lui. il nono fu Don Antonio Baldassare Giuliana, gia Parroco 
            di Vallelunga e qui Primo, Arcipresbitero fino al £746, di cui noi 
            già conosciamo.

            Qui cominciarono a venire dei preti Cappellani di buone famiglie del 
            luogo, il che significa che il paesetto era in progresso verso 
            l’avvenire. In quell’epoca perciò fiorivano finanziariamente, 
            intellettualmente e moralmente. Esse famiglie si affezionavano alle 
            due chiese e ai preti. Ecco intanto alcuni nomi di famiglie che i 
            primi Parroci trovarono registrati in certi quaderni - dicono essi, 
            nella chiesetta del Crocifisso, per vedere chi furono coloro che 
            cominciarono e seguirono a popolare il feudo, cioè:

             BALDACCHINO BIAGIO, SEMINERIO DOMENICO, PALERMO VINCENZO, 
            CANNAROZZO DOMENICO, SCARDINO FILIPPO,  LA TORRE VINCENZO, VITELLO 
            DOMENICO, D’AMICO ROSARIO, CHIOLO FRANCESCO, BURGIO SEBASIANO, LO 
            GRASSO FELICE, PISTONE ROCCO, GOLISANO ROSARIO, RUSSO ROCCO, 
            RAMPANTI SALVATORE, VALENZA RAFFAELE, MULE’ PIETRO, LA MARCA 
            FILIPPO, GIULIANA PAOLO, SCIMONE FILIPPO, ARONICA PAOLO, TAGLIAVIA 
            PIETRO, MARCHESE FILIPPO, ATTURIO FILIPPO, GERBINO PAOLO, DI 
            SILVESTRO PAOLO, CUTAIA PIETRO, PIZZUTO PLACIDO, MAURICI NATALE, 
            BONSIGNORE NICOLA, JANNELLO ANTONIO, GRIMALDI ANTONIO, STUPPIA 
            MICHELANGELO, GALLO MODESTO, ASSENNATO MELCHIOR, CIULO MATTEO, FONTI 
            LUCIANO, GUELI GIUSEPPE, SABBIA ROCCO, BAGLIO ANTONINO, DI BUONO 
            ANGELO, CALI’ SALVATORE, CAPIZZI GIACOMO, SCIBETTA LORENZO, OLIVERI 
            GIUSEPPE, SESA GIOVANNI, GRIFASI GIACOMO, LA JACONA GIUSEPPE, LO 
            BLUNDO GIOVANNI, MEDICINA VINCENZO, DESTRO ANDREA, PELLEGRINO 
            ANTONINO, ALDUINO ANTONIO, CALASCIBETTA ANGELO, ZARBO LUCIO, 
            LAURICELLA ANTONIO, LA ROCCA ALESSANDRO, LUPO GIUSEPPE, TALIANO 
            ROCCO, ZUCCALA’ FRANCESCO, BURGIO FILIPPO, SFERRAZZA GIACOMO, 
            RIMBISI LUCIO, LA ZIA FILIPPO, GUASTELLA DOMENICO, CINARDO MARTINO, 
            CIANCI ROSARIO, SCIMECA LUIGI, BRUNITO DIEGO, COCITO MICHELE, GIGLIA 
            NICOLO’,  LA PIANA MARIANO, PARISI FRANCESCO, FRANCESCO E SALVATORE 
            GIAMBARRESI, ECC, ECC.

            Fra i nuovi arrivati, al principio del 700’ abbiamo: i DEBILIO 
            STEFANO, MATTEO e PAOLO, i VITELLO, i GIULIANA, i MARTORANA, i 
            GIARDINA, i SESA, ed altri.

            Su questi e altri nomi che non abbiamo potuto raccapezzare si basò 
            la fondazione del paesetto al principio del secolo. Alcune famiglie 
            di questi nomi si sono estinte; altre ne vennero a sostituirle, e 
            fra i rimasti alcuni si sono elevati a Massarotti; come pure si 
            moltiplicavano.

             Giunti a questo punto è bene dire due parole sui Conventi, sebbene 
            non esistono più da noi. Non c’è paese, non c’è popolazione per 
            quanto piccola che non abbia avuto i suoi Conventi per la parte 
            asceta.

            Da noi ve ne furono due. Il primo sorse al poggio Grande a sud della 
            roccia. A memoria d’uomo nessuno si ricordò di esso, ne si seppe 
            quando fu fabbricato, nè se fu abitato e quanto tempo ci stiedero. 
            Il fatto sta che fin dal 1750 fu trovato distrutto. Esso era piccolo 
            e fu chiamato il Conventino. Aveva quattro cellette e i muri non 
            erano tanto solidi. Dacchè fu distrutto vi crebbe rigogliosa 
            l’ortica, poi divenne una mandra: i ragazzi fino alla metà del i8oo 
            vi andavano a giocare. 

             Nell’oscurità dei tempi in cui ci troviamo, è inutile fare delle 
            congetture, perciò passiamo all’altro.

            Il secondo era più grande e fu fabbricato sopra la roccia forte e 
            grande di Porta Licata ad oriente e agli alti venti esposto, bene 
            arieggiato. Esso aveva 8 celle, oltre la chiesetta, il refettorio e 
            la cucina. Nella roccia furono scavate delle grotte per la stalla, 
            la cantina o dispensa e la legna.

             Nell’atrio fu scavata una profonda, larga cisterna per raccogliere 
            l’acqua piovana. Di fronte all’entrata un orto per la verdura e la 
            frutta da servire ai monaci.

            I Conventi erano opera dei PP. Benedettini di Palermo; questo di 
            Riesi fu dedicato a S. Antonio ed ebbe in dote tumoli otto di terra 
            adiacente per la seminagione dei cereali. Pare che esso sia stato 
            fabbricato dopo la distruzione d primo.

            Ogni anno un Priore veniva da Caltagirone per fare gli esercizi 
            spirituali; il popolo vi accorreva. Fino al 1824 fu abitato da sei 
            frati, ma da quell’anno in poi i frati se ne andarono e non 
            ritornarono più; il Convento rimase deserto in balia del Clero per 
            conto della chiesa.

            Onde completare la storia di questo Convento, mezzo diroccato, 
            facciamo conoscere che esso fu venduto a alla terra dal Parroco 
            D’Antoua a certo Filippo Livolsi nel 1876.

            Il Parroco l’aveva acquistato dalla vendita dei beni ecclesiastici 
            dopo la legge del 6o che furono espropriati; il Rivolsi lo fece in 
            parte riparare per la sua abitazione, per affitto, facendovi 
            fabbricare altre casuccie accanto e scavare altre grotte di 
            abitazioni. Oggi il Convento è il centro di un grosso rione, di 
            guisa che il figlio del Livolsi, con l’eredità lasciatagli dal 
            padre, vive di rendita.

            E questo fia suggel che …

            Tutto ciò prova che il sentimento religioso c’era nel popolino 
            primitivo; che il Clero faceva causa comune con quegli abitanti. 
            Infatti alcuni frati riesini di Messa venivano in quell’epoca a 
            battezzare nella chiesa della Madrice o al Crocifisso.
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            Cap. XI


            i grandi massari, civili


            Fra le grandi Case che s’innalzarono alla dignità di Massari e 
            poscia a civili, oltre i Golisano, già Rubbios, i Cammarata, i Gueli 
            i Ministeri, nella prima metà del secolo XVII cominciarono a 
            spiccare le seguenti:

            La famiglia dei Rubbios di origine spagnola, come sappiamo, cedette 
            il posto ai Golisano che venuti da Ravanusa da semplici Massarutti — 
            leggesi nei matrimoni — ne sposarono le figlie e si nobilirono.

            I tre fratelli Stufano, Matteo e Paolo Debilio venuti dalla vicina 
            Sommatine, al principio del secolo e precisamente nel 1701/2, si 
            stabilirono qui per le cave di gesso. Arricchitisi di molto, 
            lasciarono il loro mestiere e presero delle tèrre a cenasito, 
            impiantando una grossa masseria. I figli, mandati fuori a studiare, 
            divennero dei professionisti. Due di essi si fabbricarono i palazzi 
            nel centro della via che portò il loro nome. Detti palazzi furono 
            sontuosi con camere, saloni e due grandi cortili di entrata con 
            annessi la dispensa, i magazzini e i ripostigli. 

            La Casa dei Debilio gareggiò con quella dei Rubbios-Golisano. Erano 
            tanto numerosi gli animali che possedevano che allorquando il bovaro 
            li conduceva ad abbeverare al Canale, essi invadevano la via del 
            Rosario, passando per il piano della Madrice e si diceva che non 
            finivano mai.

             Appresso, nel 1704, vennero i Vitello da Ravanusa, in principio 
            erano dei piccoli borgesì, ma poi a poco a poco si innalzarono a 
            Massari. Fabbricatasi la casa in questi paraggi. Vicino al piano, 
            ebbero terre ed animali, figurando accanto ai Golisano, Cammarata, 
            Gueli e gli altri.

            Dal 1710 in poi comparvero i signori Giardina da San Cataldo. Essi 
            erano anche degli intellettuali,. di guisa che, oltre a badare alle 
            terre, studiando, divennero una famiglia di Notari. Un corpo di 
            casette sorte nella via Grande formarono una traversa. Essi 
            prolificarono e si .arricchirono.

            Il primo Notaro però venuto a Riesi fu Don Giacomo Martorana da 
            Licata. Egli mise il suo studio nella stessa via Grande, dove si 
            fabbricò delle camerette ed un cortile. La famiglia dei Martorana si 
            sparse dappertutto a Riesi facendo buoni matrimoni.

             Certo Giorgio Radosta, un contadino intelligente nato alla 
            Pietra-piatta, messosi a fare il misuratore di terre divenne 
            benestante, istruendo i figli. Così dicesi di un Giacomo Ciglia che 
            si elevò pure a benestante con un corpo di casette alla discesa del 
            Canale. E lo stesso fu Don Michele Brunito che diede il nome alla 
            via dalla parte opposta in su verso il poggio Grande; così dicesi 
            pure degli Scardino. Da queste famiglie nacquero dei sacerdoti del 
            borgo che abitavano in modeste camerette.

             Un’altra famiglia benestante di quell’epoca furono i Sesa che si 
            fabbricarono una casa in cima alla via Brunito come pure, in sul 
            finire della prima metti del secolo, l‘altra famiglia del Massaro 
            Luigi Mirino la venne a prendersi a censito sei salme di terra, alle 
            Murgitella per una Masseria, fabbricandosi. la casa sull’ascesa ai 
            piedi del poggio Grande, all’angolo della quale casa ne venne dipoi 
            la via Gallè, altro nome di benestante, la quale via porta 
            all’entrata della figurella del Crocifisso verso Mariano dove ci 
            avevano molte terre i Vìtello. I Baglio venuti da San Cataldo furono 
            una famiglia di Massari, stabilitisi alla Pietra-piatta con un corpo 
            di casette onorando quel quartiere con il lavoro e l’onestà. Dal 
            Massaro Cataldo Baglio in poi, progredirono. La riuscita di questa 
            famiglia l’abbiamo avuto ai nostri tempi con un valente avvocato 
            civilista a Napoli, prima Segretario dell’ Università di Genova, 
            poscia R. Provveditore agli studi a Bari e ora pensionato; e con un 
            ex Colonnello in ritiro.

            Ora tutti questi Massani ed altri ancora più o meno piccoli davano 
            lavoro ai contadini e agli operai che man mano venivano ad 
            ingrossare il borgo. Muratori ce n’erano; i Calamita dei 
            fabbri-ferrai vennero da Licata, i Muzzapica da falegnami ignorasi. 
            Il primo calzolaio fu un certo Giovanni Vinci da Barrafranca e fu il 
            papà di tutti i calzolai di Riesi. A quell’epoca gli abitanti 
            reclamarono i mulini ad acqua per macinare il grano ed avere la 
            farina per il pane e la pasta di casa; la Baronia fu sollecita nel 
            far fabbricare i mulini della Ciarla “ e di Jusu  in riva al Salso. 
            Gli è vero che l via dalla Scalazza è scoscesa e brutta, ma è vicina 
            e gli abitanti non andarono piu a Piazza Armerina e all’antica e 
            nuova Enna, molto distanti.

             Oltrepassata la prima metà del secolo, nei successivi cinquanta 
            anni si continua a prosperare di bene in meglio con altre famiglie 
            di ricchi e con altre belle e grandi case. Ma prima di continuare su 
            ciò, fermiamoci su due fatti: il poeta settecentista Croce Cammarata 
            e la nuova chiesa del Rosario terminando il secolo XII con la prima 
            miniera di zolfo. Vediamoli:
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            Cap. XII


            dal poeta contadino settecentista croce cammarata


            Il poeta settecentista, il contadino Croce Cammarata, nacque a Riesi 
            nel 1695 da Filippo e Angela Scimeca. I suoi genitori erano poveri, 
            perchè discendenti da un certo Trentacoste, fattore dei baroni 
            Camerata di Butera, che andava e veniva da Riesi. Il padre viveva 
            con due tumoli di terreno ad orto alla Sanguisuga ed una casuccia 
            avuta in dote ai piedi del poggio ‘Grande in via Mirisola. Da 
            bambino il ragazzo di nome Croce, figlio unico, frequentò la 
            scuoletta della Sagrestia, ove apprese i primi elementi del leggere 
            e dello scrivere. Cresciuto in età, da giovane si mise al lavoro, 
            zappando la terra a giornata. Nell’anto, sul lavoro s’avvide che 
            aveva la vena poetica e deliziava padroni e compagni coi suoi versi 
            estemporanei. Tutti quindi lo conoscevano come un poeta e lo 
            stuzzicavano per sentirlo poesiare. I padroni lo amavano ed i 
            compagni erano felici di lavorare assieme a lui; di rado il Croce si 
            vedeva in paese e quando la Domenica andava a Messa, molti lo 
            attorniavano per sentirlo. Lu nnu Cruci Cammarata era devoto della 
            Madonna della Catena perciò di sera frequentava spesso la chiesa. 
            Nelle annate scarse, d’inverno, a cagione delle piogge continue, il 
            nostro Cammarata, con la sua sacchina girava per le masserie e i 
            mulini per avere qualche soccorso. I suoi genitori erano morti ed 
            egli si era accasato con una povera donna di nome Lucia Chiolo, 
            dalla quale ebbe un figlio: quindi il Croce doveva provvedere ai 
            bisogni della casa. Una volta stanco del cammino, con la pioggia, 
            pieno di freddo, entrando in paese volle ripararsi in Sagrestia. Il 
            Parroco Don Giuseppe Tagliavia che lo conosceva bene, lo accolse, lo 
            fece riscaldare, lo rifocillò. Indi lo invitò a dire qualche cosa. 
            Cosa vuole che le dico? 

            Nnaiu firriatu marcati e mulina 

            Nuddu m’à datu na impastata sana 

            Si nun fussi ppri la Bedda matri di la Catina 

            Arrifiutassi la fidi cristiana 

            Questi versi furono ripetuti dinanzi al Clero, e valsero al poeta 
            tutta la stima e la simpatia. I preti lo conducevano spesso nelle 
            loro campagne non solo per farlo lavorare, ma; anche per divertirsi 
            e nello stesso tempo lo istruivano nella, storia, geografia. 
            religione ecc. ed è per questa ragione che il poeta Croce Cammarata, 
            anche in prosa, ne sapeva più degli. altri. I contadini analfabeti 
            alle volte lo andavano a trovare in casa per farsi spiegare tante 
            cose intorno ai misteri della vita, Leggeva qualche libro che gli 
            prestavano e, avendo un fine acume, era contento di apprendere. Si 
            ricorda di lui questo fatto; propose questo enigma: “Io lo trovo 
            sempre,  il re di tanto in tanto, Dio non lo trovo mai!…” Come?… gli 
            dissero: Voi si Io trovate e ,Dio no? Ebbene, spiegò egli: Io posso 
            trovare un altro uomo como me, il re può trovare un altro re, ma Dio 
            non può trovare un altro Dio. Tutti rimasero a bocca aperta; come 
            Sansone, di cui conosceva la storia, così il Cammarata se ne uscì 
            vittorioso. Ma sopratutto, egli si distinse in occasione della 
            venuta a Riesi del principe Don Giovanni Pignatelli Fuentes 
            d’Aragona per visitare i suoi beni. Saputa la notizia lu nnu Cruci, 
            il  giorno dell’arrivo, siccome gli impiegati e dei curiosi vi 
            andarono incontro, così il poeta si confuse fra questi ultimi, 
            accorrendo anche lui. Giunti dietro al Canale, dove il principe 
            scese. dalla lettiga, il contadino Croce Cammarata salito sopra una 
            pietra, facendo fermare tutti, recitò i seguenti versi: 

            Principi ereditario di la Spagna, 

            Ca tiniti la spata ntra li pugna 

            E siti vistutu ccu la cappa magna. 

            Di stu paisi Vostra Eccellenza cchi ci guadagna? 

            Riesi è divintatu na cuccagna, 

            E l’impiegati si liccanu l’ugna 

            Il    principe non ci capì nulla. Siccome con questi versi il 
            Cammarata toccava la suscettibilità gli impiegati, così fu lasciato 
            in asso in segno di disprezzo. Ma il poeta non si perdette ’animo. 
            Che fece? L’indomani si azzardò a voler parlare personalmente col 
            principe. Vestito contadinescamente calzoni corti, calze di lino 
            lunghe di fuori, giacca di braccio e la berretta, salì le scale 
            della Baronia. Qui il Segretario Sensalez, trattenendolo sul 
            pianerottolo, lo voleva rimandare, ma il nostro poeta col dito teso 
            gli sì piantò dinanzi; ed ebbe il tempo di recitargli questi Versi 
            che noi riportiamo, avendoli raccolti, come del resto altri che ci 
            sono stati tramandati dai nostri antenati, i quali se li ripetevano 
            ad ogni pie sospinto per parlare del poeta contadino riesano 
            settecentista Don Croce Cammarata. I versi sono così belli che 
            meritano la nostra attenzione, eccoli:

                            Adamu fu lu succu e nui  li rami; 

            Di un fierru su stirati tanti Iami; 

            Di un linu su stirati tanti trami; 

            Di un critu su furmati tanti dami. 

            Un mari ricivi acqui di tanti fiumi, 

            La Vera nubiltà su li custumi! 

            In questo, sentito il rumore, si affacciò il principe. Persona colta 
            e gentile, invitò il ammarata ad entrare, ricevendo!o nel suo 
            appartamento. Subito dopo si annunziò il Parroco Giuliana, al quale 
            Sua Eccellenza domandò chi era questo contadino; e il Parroco le 
            rispose che era il nostro bravo poeta, un devoto della Madonna della 
            Catena, facendogli ripetere, spiegandole, alcune poesie, specie 
            quella della Madonna per la di lui fede. Bene, bene; bravo, bravo I 
            fece il Principe battendo la spalla al Cammarata. Ditemi buon uomo, 
            che desiderate? E al Cammarata, botta e risposta, gli fece dire che 
            voleva il posto di sagrestano della Madrice. Subito il principe lo 
            raccomandò al Parroco, il quale lo condusse in chiesa e lo vestì da 
            Sagrestano delle due chiese. In questa seconda fase della sua vita, 
            il Cammarata prese, il Don e poteva meglio sbarcare il suo lunario. 
            Tutti di Don Croce ne furono Contenti. Ora una Domenica, in 
            Sagrestia, i preti lo incitarono a dire una poesia in proposito ed 
            egli, senza farselo dare duo volte, declamò: 

            Chistu ie lu fattu di santu Agustinu 

            E di lu tempu quann’era paganu 

            Ca illuminatu di spiritu Divinu 

            Di turcu si fici cristianu 

            Mentri voli accussi’ lu ma distino 

            Di livarimi la zappa dili manu 

            Nun sugnu nnè monacu nnè parrinu 

            Mi misiru lu do’: fora viddanu ….! 

             La presente ottava trovasi inserita in un fascicolo della Antologia 
            nella Biblioteca di Palermo fra i poeti settecentisti della Sicilia 
            con la dicitura: “ Versi di Croce Cammarata di Riesi “. Il nostro 
            compaesano aveva un quaderno, ove scriveva tutte le sue poesie, ma 
            dopo la di lui, morte, la moglie ignorante, non solo non le 
            conservò, ma peggio ancora le stracciò, distruggendo i versi del 
            Cammarata di modo che la famiglia non ereditò nessuna poesia; a 
            stento ne abbiamo potuto raccogliere un’altra della prima fase della 
            vita del poeta. Quando fu in miseria si adattava pure a fare dei 
            liami per venderli e vivere. Con un suo compagno una volta si recò a 
            Caltanissetta a vendere i liami. Una donna curiosa gli si avvicinò 
            stuzzicandolo, disprezzando i suoi liami; ed egli:  

            A la mia liama mintiti difetta? 

            Ca cu l’accatta la riscedi tutta? 

            Nun s’avi a diri intra Cartanissetta 

            D’essiri criticata di na brutta 

            Togliamo da questa sestina gli ultimi due versi, perché osceni. La 
            donna se ne andò mortificata. Abbiamo parlato col vecchio nipote che 
            porta lo stesso nome del nonno e ci dice che non lo conobbe, ma che 
            la madre gli raccontava bambino le prodezze del di lei suocero. Per 
            altro il Cammarata era un tipo bislacco che di tanto in tanto, a 
            piedi, si recava a Palermo. Egli visse povero ed onesto e come tale 
            mori sazio di giorni il 1766 cd ebbe onorata sepoltura nella chiesa 
            Madre dal Parroco Don Giacomo Ballistreri da Caltagirone i cui 
            parenti facoltosi nei sette anni di Paracato, 66-72 vennero a 
            stabilirsi qui. I più vecchi che lo conobbero al principio dell’ 800 
            parlavano con ammirazione di Croce Cammarata, poeta, riportando i 
            noti versi che sono giunti fino a noi. Evocando la di lui memoria 
            con questa pagina, crediamo di aver fatto cosa grata additandolo a 
            coloro i quali lo ignoravano.Don Croce Cammarata fa parte della 
            nostra storia di Riesi. 

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            Cap. XIII


            la nuova chiesa del rosario


            L’altra nuova chiesa del Rosario fu fabbricata nella seconda metà 
            del secolo, probabilmente all’epoca di cui accenniamo, cioè dopo la 
            partenza del Principe e del poeta Cammarata per l’altra vita. Poiché 
            non abbiamo nessun documento. poiché non c’ è nessuna traccia, ci 
            serviamo dell’esistenza di essa. I muratori che la fabbricarono, ci 
            vien detto, furono i  fratelli Pietro e Vincenzo Medicina, venuti da 
            Pietraperzia. Notiamo la presenza dei Medicina a Riesi fin dal 1745. 
            Essi da muratori seppero elevarsi a coltivatori di terre, 
            fabbricandosi una modesta casa laggiù alla via Larga con un  
            trappeto sulla roccia. Divennero anche degli intellettuali, avendo 
            avuto in famiglia due sacerdoti Vincenzo prima e Giuseppe dopo. Lo 
            stesso dicasi dei Piccadaci famiglia di contadini benestanti che 
            ebbero un sacerdote, dei Radosta e degli Scardino. Naturalmente la 
            nuova chiesa del Rosario si imponeva. Essa fu posta nella stessa 
            via, si può dire alla punta estrema.  Bassa, piccola. di stile 
            barocco di fuori, dentro misura m.30 dì lunghezza con m. 6 di 
            larghezza, pari a mq. 180. Un altare, delle immagini alle pareti, un 
            fonte battesimale è tutto l’ornamento di questa chiesa. L’immagine 
            della Madonna del Rosario è alquanto bella. La sua festa si cominciò 
            a celebrare con pompa  ogni seconda Domenica di Ottobre. Risorse la 
            Confraternita. Fuori la chiesa porta la data del 1775 con le parole 
            dell’Angelo: Ave Maria gratias plena. Fu sfornita di campanile fino 
            al 1877. Di fronte alla chiesa si aprì una larga, corta via con le 
            case dei Chiantia da mia parte e dall’altra; attorno e lungo la via 
            di detta chiesa si andavano fabbricando case, e camerette la discesa 
            diede il nome alla via Medicina; dopo la Sagrestia si cominciò pure 
            a fabbricare arrivando fino al punto detto del Serraglio che è un 
            buco lungo formato di case e casucce. In questa via del Rosario in 
            seguito sorgevano dei palazzi.  La nuova chiesa diede luogo ad un 
            quartiere del proprio nome. Tutte e tre le chiese si divisero in 
            quartieri che aumentavano di giorno in giorno. Fu giocoforza quindi 
            avere un Municipio più grande, un nuovo Carcere, una nuova Caserma 
            ed un Giudicato più adatto. Per il Municipio si scelse il salone dei 
            Golisano, per la Giustizia la casa dei Di Benedetto; la Caserma fu 
            fabbricata in un dammuso al piano della Madrice e il Carcere in due 
            casette con sotterranei per le donne alla discesa del Canale dalla 
            parte del piano. Possiamo dire che dalla fondazione della nuova 
            chiesa del Rosario in poi, vale a dire dal 1775  Riesi prese 
            un’altro aspetto. Con l’andar del tempo però la chiesa si diroccò, 
            il tetto sprofondò e rimase un poco di tempo guasta: essa venne 
            riparata ai tempi nostri con elargizioni popolari mercè il Vescovo 
            di Piazza Armerina ed il Sindaco Cav. avv. Don Pietro Di Benedetto. 
            Stando a quell’epoca, dopo il 1775 gli eredi dei Golisano 
            fabbricarono altri palazzi, due al Corso e uno di fronte al Corso 
            che diede luogo ad una seconda via Golisano, non che il palazzo al 
            piano della Madrice. Oggi la chiesa del Rosario, è in piena 
            funzione, ha un Cappellano e Serve di parrocchia; cosa che non è la 
            chiesa del Crocifisso, la quale merita di essere riparata e rimessa 
            al suo primiero stato. Elevata a Parrocchia la chiesetta del Rosario 
            funziona bene, dividendo il paese in due parti.

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            Cap. XIV


            altre grandi case di ricchi


            Seguitando a narrare gli avvenimenti dell’altra metà del secolo; 
            troviamo che altre grandi Case di ricchi vengono a fondarsi e sono 
            le più importanti. Negli ultimi 25 anni si progredisce ancor meglio, 
            con gli intellettuali.

            Verso quell’epoca apparve a Riesi il primo dei Pasqualino. Stando 
            alla Araldica del prof. V. Gravina di Caltagirone, l’origine di 
            questa nobile famiglia discende da Parma di Piacenza (Emilia). 
            Perseguitati i membri dal duca di Mantova per ragioni politiche, 
            dapprima si rifugiarono a Bari nelle Puglie e poscia se ne vennero a 
            Palermo. Nella capitale dell’isola,’ sotto il vicere Caracciolo, 
            trovarono appoggi, onori, protezioni e alti gradi, fino ad arrivare 
            al titolo di marchesi

            Uno di essi di nome Cav. Giuseppe, si ridusse a Riesi, da 
            sconosciuto, nella seconda metà del secolo. Tipo bislacco a quanto 
            ci si dice, si impiegò al Municipio. Fattosi conoscere, sposò la 
            figlia del Sindaco Maria Vitello che oltre appartenere a cospicua 
            famiglia, era un’ Ester formosa e di bello aspetto.

            Da questa coppia fortunata, nacquero figliuoli e figliuole,  
            esprimendoci con la bibbia, che furono poi ben posizionati, ricchi 
            ed intellettuali. Un Giuseppe fu Giudice che promosso al Mandamento 
            di Gela non vi poté andare, perché  morì. Egli, che si aveva 
            fabbricato il palazzo al piano del Crocifisso, lasciò la famiglia in 
            prospere condizioni; Don Salvatore, che visse da proprietario aveva 
            un corpo di case terrane dopo il palazzo; Don Francesco Pasqualino 
            fu un accreditato Notaio presso l’Amministrazione della Baronia.

            Venuti i principi per visitare i loro possedimenti, avevano con loro 
            un Segretario di nome Don Francesco Lentini; siccome ci stiedero un 
            bel po’, così alla principessa venne in mente di voler sposare qui 
            il Lentini con una distinta giovane del borgo; ne parlarono al 
            Notaio, il quale mise avanti la nipote del vice. Parroco Don 
            Giuseppe Inglesi da Mazzarino di nome Caterina.

            Il Pasqualino ebbe l’incarico di combinare il matrimonio, e andò a 
            trovare il prete che abitava in due camerette della così detta 
            piazza. Quando gli parlò dell’affare, il buon sacerdote lo apostrofò 
            dicendogli: “Non sia mai, caro Don Francesco, amico mio, ch’io dia 
            mia nipote ad un forestiero, allontanandola da me!...”

            Allora il Notaio con una presenza di spirito gli disse: “Ebbene, 
            Reverendo, se lei non la vuole dare ad uno Sconosciuto, sposi sua 
            nipote con un altro Don Francesco di qui . Chi? “Io stesso, se... 
            “Accetto, se mia nipote vuole!...” Caterina accettò.

            Saputo ciò i principi, montarono su tutte le furie, ma il Pasqualino 
            li lasciò cantare. Egli sposando la Inglese ebbe in dote dallo zio 4 
            mila onze (L. 50 mila) e quattro salme di terra dai parenti a 
            Mazzarino. Venduta quella proprietà, acquistò la tenuta di 
            Passarello, territorio di Butera: indi impiantò una Masseria e si 
            fabbricò il palazzo in linea dei due fratelli, dopo la traversa, 
            formando il primo cantone dei quattro canti, dove visse con la sua 
            famiglia da signore intellettuale.

            I principi gli fecero dieci anni di causa per espropriargli le terre 
            della Oliva, ma inutilmente. Morendo lasciò detto ai figli di mai 
            avere a che fare con la Casa dei principi.

            Così uno dei più vecchi intelligenti dei Pasqualino.

            La famiglia dei Pasqualino quindi s’impose con l’ingegno e il censo 
            e cominciò a regnare nel borgo nobilmente. Gli eredi intelligenti, 
            studiosi, sia maschi che femmine, vivendo da signori, a quel tempo 
            erano riguardati dal popolino come persone altolocate. La storia ci 
            dice che i loro discendenti si sono sempre distinti, come in seguito 
            vedremo, nel senso in cui diciamo.

            In seguito, durante il periodo della rivoluzione francese del 
            1789/93, venne qui la famiglia dei Napoletano, nascosta sotto questo 
            falso nome. Detta famiglia, perseguitata perché liberale di Napoli, 
            giunta a Palermo venne esiliata a Riesì. Il capostipite fu il conte 
            Don Gaetano, il quale fu imprigionato in questo carcere e pare sia 
            stato fatto morire. Lasciando la famiglia, questa si immiserì e i 
            figli si adattarono al lavoro.

            Un’altra famiglia di origine nobile fu quella degli Inglesi.

            Secondo il prof. Gravina, detta famiglia discende dai nobili 
            guerrieri di Alessandria della Rocca, provincia di Agrigento. Il 
            primo, Giuseppe, era venuto qui per sposare una Golisano, ma non fu 
            fortunato nel matrimonio, perché la moglie morì dopo breve tempo ed 
            egli se ne andò a Mazzarino, ove passò a seconde nozze.

            Un erede di Don Giuseppe di nome Onofrio Inglese se ne venne qui 
            come Notaro, futurista presso lo studio di Don Luigi Pasqualino, 
            morto il quale rimase Don Onofrio come titolare con lo studio al 
            piano del Crocifisso. Nei paraggi abitava nel Cortile la famiglia 
            Butera in buona posizione di Massarotti.e il notaio Don Onofrio 
            Inglesi ne sposò la figlia Maria Anna. Da coniugi gli lnglesi-Butera 
            si fabbricarono un bel corpo di case al principio del Corso, la 
            piazza dall parte opposta della Madrice. Nella detta casa 
            prolificarono, accumulando ricchezze a ricchezze e acquistando 
            persino dei feudi.

            E un’altra buona, ricca famiglia, fu la famiglia Batoli-Capizzi,. 
            della quale dobbiamo intrattenerci un po’.

            Certo Dan Gaetano Capizzi, un ex frate di Mazzarino inteso l’Abate 
            Capizzi, volle venire a stabilirsi a Riesi. Uomo facoltoso, 
            intelligente e pio, nello acquistare molte terre nei dintorni di 
            Riesi e fuori territorio, si fece fabbricare una ricca, sontuosa, 
            bellissima casa. Il punto che scelse fu di fronte la casa Inglesi. 
            Mandato a chiamare un cupo d’arte da Caltagirone, questi si mise 
            subito all’opera. La solida costruzione col piano di sopra, col 
            giardino e tre portoni di entrata, abbraccia quattro vie; 
            nell’interno, oltre le sale e i saloni, vi fu una chiesetta ben 
            messa, bene adornata. Durante la muratura, tra una alcova ed 
            un’altra vi fece murare una cassa di sette palmi piena di monete 
            d’argento. Finita la costruzione, fece venire due decoratori da 
            Comiso per adornare l’interno. I fini disegni, le pitture erano 
            degne d’una casa principesca; già i gattoni sostegno dei balconi, 
            lavorati in pietra a forma di animali, mostrano ancor oggi il 
lavoro.

            Abate Capizzi era felice neÌle sue stanze dorate, col giardino, la 
            chiesa; egli conviveva con una sua nipote di nome Carmela, figlia 
            del fratello e la serva. Benefattore, religioso, ogni anno per la 
            festa di S. Giuseppe, il 19 Marzo, invitava tutti i poveri che 
            incontrava alla tavolata in onore del Santo per il quale si suole 
            fare l’altare e dopo averli satollati, riempiva loro le tasche di 
            baiocchi. La vita del signore Abate era considerata un tessuto di 
            beneficenze: egli non conosceva il male, ma piuttosto il bene.

            Ma ohimè! una triste fine lo aspettava. La nipote andò sposa a Don 
            Vincenzo Bartoli, proprietario di Mazzarino, alla quale lo zio diede 
            in dote 4 mila onze e una salma di terra qui a Riesi. I coniugi si 
            stabilirono a Mazzarino, dove Donna Carmela Bartoli-Capizzi ebbe 
            otto figli maschi ed era incinta del nono, quando avvenne il 
            fattaccio.

            L’Abate Capizzi invecchiato, fece il suo testamento a Riesi, 
            lasciando erede universale il fratelli. Ciò dispiacque al nipote Don 
            Vincenzo, il quale meditò un orribile delitto. In occasione della 
            festa della Madonna del Mazzaro chiamò lo zio per farlo divertire, 
            ma una notte lui e il figlio maggiore Giuseppe assassinarono il 
            povero Abate a colpi di pugnale e scapparono, avendo il tempo di 
            salpare le acque e ridursi a Livorno. Trovato il cadavere dietro il 
            portone immerso in una pozza di sangue, fu arrestata la signora 
            Carmela, La quale fu deportata nel carcere di Piazza Armerina, dove 
            partorì il di lei ultimo figlio Gaetano: gli altri sette rimasero i 
            balia dei parenti.

            Fattasi, la causa al Tribunale, la signora fu assolta per innocenza; 
            rimessa in liberta, ritornò a Riesi coi suoi figli; morti i di lei 
            genitori, figlia unica, ereditò tutto il patrimonio.

            La casa Bartoli-Capizzi quindi cominciò a brillare, ma alla morte 
            della madre si divisero tutta la proprietà, I. figli furono: 
            Vincenzo, Francesco, Lorenzo, Lucrezio, Baldassare, Stanislao e 
            Gaetano; Francesco Dottore e Lorenzo sacerdote morirono giovani. Al 
            piccolo Don Gaetano toccò la parte della casa dove era nascosta la 
            moneta.

            Ora il muratore che aveva murata la cassa, prima di morire aveva 
            confidato al proprio figlio il segreto del tesoro nascosto questi 
            venne a dire a Don Gaetano se volesse smuruta la tabia previo un 
            compenso. Don Gaetano mangiandosi la foglia, come suol dirsi, gli 
            promise di mandarlo a chiamare; ma intanto da solo, tastando e 
            ritastando, tuonando e rituonando si disse di averla trovata: fu 
            quindi il più ricco di tutti. Compratasi la tenuta della Donna, 
            sposò poi Donna Antonina inglesi del Notaro Onofrio.

            Fattore della Casa Bartoli-Capizzi fu u Massaro Vincenzo Mezzatesta 
            da Pietraperzia, il quale fabbricatasi una casetta con camere nella 
            traversa della via Giuliana, di fronte al portone dei Bartoli, diede 
            il nome alla via che va verso il poggio; un’altra via consimile 
            sorse contemporaneamente dalla parte della casa Inglesi nella via 
            Fiandaca verso lo stesso poggio con magazzini e casetta del Massaro 
            Calogero Di Letizia.

            E questa è una storia che va dalla fine del 1790 fino al 1830.

            Bisogna distinguere qui le altre due famiglie dei Capizzi e dei 
            Bartoli. La prima, di vecchia data, è stata una famiglia di 
            proletari. in tutti i mestieri; la seconda oriunda da Messina sullo 
            scorcio del secolo XVII, è stata una famiglia di lavoratori di 
            argilla i quali si son tramandati, di padri in figli, la lavorazione 
            della terra cotta. Trovata adatta, porosa la creta dietro la 
            Montagna, perfezionandosi e perfezionandola sono arrivati a farla 
            apprezzare, tanto che si dice “Creta di Riesi” mantenendo fresca, 
            chiara l’acqua nelle  quartane, giarre e giarruna

            Il Giornale di Sicilia in diversi articoli l’ha elogiato e gli 
            operai sono stati premiati; Ultimamente l’operaio Salvatore Bartolì, 
            avendo presentato nel 1931 alla IV Fiera Campionaria di Tripoli due 
            anfore e due vasi da fiori ben lavorati, ebbe il Diploma con 
            medaglia d’oro e medaglia di argento. Onore al merito!

            Merita ora speciale attenzione la ricca, importante casa dei signori 
             D’Antona. Quattro fratelli, Cateno, Vincenzo, Luigi e Rocco da 
            Canicattì, feudatarii, avevano una Masseria a Castelluzzo e 
            Gorgazzi. Essendo vicini a Riesi, vollero piantare le loro tende qui 
            da noi. Dapprima si stabilirono ai piedi del poggio Grande sulla 
            parte orientale, con delle modeste case. Ivi il Massaro Cateno, 
            abile, intelligente agricoltore, sposò una certa Pasqua Di Legami, 
            di famiglia benestante a quanto pare. Da essa ebbe undici figli, 
            cinque femmine e sei maschi. Col lavoro dei campi, progredendo, 
            Scesero a basso e si fabbricarono la casa all’estremo limite della 
            via Grande; due dei figli, Don Gaetano e Don Salvatore presero la 
            carriera ecclesiastica mentre gli altri, istruendosi s’incivilirono 
            e nei matrimoni fecero fortuna; le donne furono ben posizionate.

            Anche gli altri fratelli lasciarono il poggio Grande e vennero a 
            fabbricarsi i palazzi nella stessa via di fronte e accanto al primo. 
            La famiglia D’Antona, divenuta così numerosa e ricca, incominciò a 
            regnare pure.

            Nello stesso tempo venne la famiglia Rindone da Raddusa, prov. di 
            Catania. Un Don Francesco Rindone per il primo si fabbricò il 
            palazzo sopra la via Debilio, avendo pure una Masseria.

            La famiglia Accardi, proveniente da Mazzarino, impiantando una 
            Masseria, si fabbricò la casa vicino al Lago. Un Don Francesco sposa 
            una Federico di famiglia ricca nella stessa via che prese il nome 
            Accardi, stretta ripida che va verso il poggio Grande. Così dicesi 
            dei Riggio, dei Verso e dei Vecchio.

            Chi diede un buon impulso al paesetto furono i Trapani. L’avv. 
            Giuseppe Gaetano Trapani da Canicatti venne a sposare qui Donna 
            Lucia Debilio Palacino. Essi si fabbricarono il palazzo accanto alla 
            vecchia chiesa del Rosario, facendo nascere la via Trapani che 
            scende a basso. in detta via del Rosario si formarono la via 
            Valanzola, la via dei Coniglio e la traversa Zagarella di case e 
            casette basse.

            Il paese passo passo si andava arricchendo di case e casette. Tra 
            civili, Massari, campagnoli e operai li riisani popolavano il feudo 
            nelle terre di Altariva, di cui si diceva poi Comune.

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            Cap. XV


            la prima miniera di zolfo, buon andamento


            Negli ultimi anni del 700, prima che finisse il secolo, fu trovato 
            lo zolfo al punto denominato Portella di Pietro, feudo Spampinato. 
            Questa scoperta fece rallegrare tutti, cioè i Rappresentanti dei 
            principi e la popolazioncina. La notizia li mise in moto, 
            constatando il fatto. I primi a portare la nuova furono i contadini 
            che arando quel pezzo di terra montuoso e pietroso, scorsero il 
            minerale. La prima miniera di zolfo dunque, nel territorio di Riesi, 
            fu Portella di Pietro. L’impresa di scavare più a fondo fu data in 
            economia; alcuni operai pratici venuti da Sommatino e da Ravanusa 
            fecero i buchi e i calcaroni, li riisani da manuali cominciarono a 
            divenire pratici. Bruciandosi lo zolfo, per quanto piccola fosse la 
            miniera, si ebbero dei guadagni seducenti che allettarono i 
            lavoratori. Trovandosi Portella di Pietro a 2 km di distanza dal 
            paesetto, la via la facevano a piedi, rientrando la sera a casa per 
            ritornare l’indomani a lavoro. Nelle vicinanze della miniera i 
            contadini, spinti dalla curiosità, andavano a vedere la lavorazione 
            dello zolfo. La proprietà vi manteneva un impiegato a posto fisso 
            onde controllare le giornate dei lavoranti che tra grandi e piccoli 
            ve ne potevano essere una dozzina. L’Amministrazione della baronia 
            ogni tre mesi mandava a vendere lo zolfo fuso a Licata sugli asini: 
            ecco quindi un’altro fornite di lavoro per le famiglie povere 
            paesane. Chi aveva un somarello poteva guadagnarsi una discreta 
            giornata: erano dei contadini che venivano adibiti a tale lavoro, 
            aspettandolo come la manna dal cielo. In questa prima miniera di 
            Portella di Pietro, altri andavano e venivano a cercar lavoro nello 
            zolfo, e quantunque essa miniera progrediva lentamente, qualcuno dei 
            paesani, levandosi la zappa dalle mani, impugnava il piccone, 
            stritolando il materiale nelle viscere della terra. Il lavoro era 
            più pesante, ma il premio della giornata fissa compensava la fatica. 
            Ve ne erano di quelli che lavoravano la notte al lume di una candela 
            di creta ad olio col meccio di cotone chiamata 1umera, nome che 
            viene dal francese, facendo luce, lumiére; e queste 1umiere usavano 
            nelle case la sera le famiglie basse; e queste 1umere  tenevano 
            accese davanti la porta i bottegai e i macellai. I ricchi avevano i 
            candelieri di rame, di stagno o di latta, a seconda la loro 
            possibilità: erano i candelieri a uno, a due e a tre mecci 
            alimentati ad olio. Il paesetto quindi giaceva completamente 
            all’oscuro e in mezzo al fango. Nei casi di urgenza, la notte per 
            poter uscire si accendevano un pugno di frasche con busci dette 
            fonare avendo lo zolfo, era facile avere il fuoco per accendere la 
            legna. La vita adunque si svolgeva così miseramente, eppure lo 
            chiamavano: Buon andamento. Il vero buon andamento però si svolgeva 
            nella chiesa e nel lavoro. Durante tutto il 1700 si celebrarono più 
            di mille battesimi e 500 matrimoni. Dalla metà del secolo in poi i 
            sacerdoti erano quasi tutti paesani; i Parroci del 700 furono: Dal 
            1702 al 1712 Don Pietro Zangari; dal 13 al 29 Don Pietro Tagliavia; 
            dal 30 al 47 Don Giuseppe Medicina; dal 47 aI 64 Reggente Don 
            Baldassare Giuliana nono Parroco e primo Arciprete; dal 65 al 77 Don 
            Giacomo Ballistreri da Caltagirone; dal 78 all’ 81 Don Antonio Verso 
            da Palermo, secondo Arciprete; dall’ 81 all’ 86 Reggente Don 
            Giovanni Maglietta da Palermo, terzo Arciprete; dall’ 87 a11’ 88 
            vice-Rettore Don Giuseppe  Inglesi, vicario foraneo; dall’ 89 aI 
            1802 Don Giuseppe Fernandè Reggente Arciprete caltagironese. E’ da 
            supporre che i signori Verso, attirati dallo zio Parroco, vennero da 
            Palermo a dimorare qui. Uomini intraprendenti, d’una certa 
            perspicacia e istruiti, sposarono delle figlie di Massari  e 
            massarotti, fabbricandosi palazzi e case e acquistando delle terre 
            che coltivarono. Così dicesi dei Ballistreriri venuti da 
            Caltagirone, uomini facoltosi, ma semplici e alla buona. Vediamo 
            quindi clic il secolo XVII si chiude con un crescendo meraviglioso 
            di popolazione non solo rurale, ma anche intellettuale in tutti i 
            campi dello scibile umano. Il borgo per quanto ancora circoscritto, 
            da un calcolo fatto poteva contare un 4 mila anime, aprendo così il 
            nuovo secolo sotto migliori auspici.

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            Cap. XVI


            l’ 800


            Affacciandoci al 1800, col secolo XVIII, un’era nuova di pace, di 
            prosperità, di benessere per tutti si inizia a Riesi col lavoro. Tra 
            lo zolfo  la vigna, le case, i palazzi che crescono, gli altri 
            mestieri prosperano perchè, lavorando la muratura, tutti ne godono; 
            la moneta circola, quindi la popolazione aumenta; molti vengono da 
            fuori a trovare pane e lavoro e persino fortuna. Il lavoro incalza, 
            le case e casette aumentano e per conseguenza le nuove vie. Qui è 
            d’uopo smentire di sana pianta una diceria che alcuni fanno 
            circolare e cioè che Riesi fu una terra di domicilio coatto. Ciò non 
            è vero. Coloro i quali venivano qua erano attratti dal guadagno per 
            mezzo del lavoro. Certamente non si può negare che chi sta bene nel 
            proprio paese, generalmente non si muove; che dei facinorosi ve ne 
            furono; ma fra questo fatto e il dire che Riesi era una terra di 
            coatti, ci corre! Sfatata questa diceria per l’onore del nostro 
            amato paese, seguitiamo a narrare la storia, giacchè la luce in 
            questo secolo si fa più viva, noi ne siamo meglio informati. Col 
            secolo XVIII fioriscono gli ingegni, la politica si fa sentire, si 
            lotta per la liberta; i professionisti spiccano, una parte del 
            popolo li segue. Per quanto in principio col Governo dei Borboni 
            siamo ancora nell’oscurantismo, pure il paesetto di Riesi si fa 
            sentire, si fa notare fra i paesi attorno. Le scuole vi sono e ne 
            usufruiscono tutti, salvo le donne, le quali dipoi rompono il 
            ghiaccio; la chiesa della Madrice si abbellisce sempre più ed una 
            nuova chiesa cresce. Per contro nel detto secolo dobbiamo assistere 
            ad una sequela di disgrazie, una più terribile dell’altra; si rimane 
            scossi ma non si perde d’animo, si va avanti. Noi narrando 
            praticamente i fatti accaduti, abbiamo fatto appello ai nostri 
            vecchi ed infine alla nostra memoria. Un signore che rasenta il 
            secolo, nato nel 1840, intelligente, di buona famiglia, istruito, ci 
            fa notare la differenza tra l’epoca passata e la presente; un 
            operaio della stessa epoca passata, del pari intelligente, ci 
            racconta molte cose; un vecchio contadino di quel tempo si ricorda 
            dei suoi giorni passati nelle campagne: nato sul poggio grande in 
            mezzo alle mandre dei pastori, ci descrive la vita misera, stentata 
            del suo quartiere, come al piano della Madrice vi cresceva ancora 
            l’erba e vi venivano a pascolare le pecore.

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            Cap. XVII


            lo zolfo - la vigna


            Al principio del 1800, fu trovato lo zolfo nel feudo Tallarita, alla 
            riva sinistra del fiume Salso, mentre all’altra riva vi era la 
            grande, ricca miniera del principe Trabia, in territorio di 
            Sommatino. La nuova miniera prese il nome del feudo e cominciò ad 
            essere pure importante simile all’altra vicina. Ecco la ricchezza. 
            Assieme a quella di Portella di Pietro, gli operai zolfatai 
            aumentano. Lo zolfo è un minerale utile che serve a tanti usi: alla 
            fabbricazione della polvere da sparo, all’acido solforico 
            medicinale, per le tinte dei tessuti, per i fiammiferi, per la vite 
            ccc.

            La miniera Tallarita fu data in appalto ad una Società inglese per 
            39 anni. Dettà Società venne qui ad impiantare un cantiere. Operai 
            di Riesi e di altri paesi accorsero per la lavorazione, di modo che 
            la Domenica il suono dell’argento tintinnava nelle mani e nelle 
            tasche di tutti. Immettendosi l’acqua del fiume dentro la miniera, 
            abbisognarono delle sbarre di  legno per tirarla fuori di notte e di 
            giorno e di conseguenza nuovi operai nella mano d’opera. Allo scopo 
            poi di agevolare gli operai, una piccola casuccia fu trasformata in 
            cantina di vino e per vendita di pane e cacio. Coloro che la sera 
            restavano in miniera, potevano rifocillarsi alla meglio.

            La Società inglese lasciò la miniera Tallarita prima di scadere il 
            termine del contratto, nel 1825. Un operaio ardito di nome Giuseppe 
            Faraci, vero tipo di zolfataio, azzardò di prenderla lui e lavorando 
            e facendo lavorare, in 20 anni si arricchì di motto. Questo è lo 
            zolfataio di cui parla il Baglio nel suo libro, dicendo che “divenne 
            il più ricco proprietario del paese” .

            Giuseppe Faraci nacque il 4 Dicembre del 1799 da Giuseppe e Filippa 
            Chiantia. Suo padre era un zolfataio, ma. il fratello del padre, Don 
            Salvatore, era un agiato agrimensore.

            Giuseppe Faraci e il padre lavorarono da picconieri nella miniera 
            Tallarita. Lasciatala gli inglesi, il figlio Giuseppe, con, l’aiuto 
            dello zio che era ben quotato presso l’amministrazione dei Fuentes, 
            volle pigliarsi in appalto la miniera e siccome la fortuna gli 
            arrise, riuscì a farsi una buona posizione, disponendo di bella 
            moneta. Non contento di ciò, prese pure in affitto la piccola 
            miniera di Portella di Pietro e l’altra nuova di Strozzo nel feudo 
            Spampinato. Lasciata la miniera Tallarita, prese quella di Galati 
            nel territorio di Barrafranca, dove si arricchì ancor di più.

            Don Giuseppe Faraci da ricchissimo si fabbricò la casa o palazzo 
            Faraci dalla parte del Lago, dando principio alla via che porta il 
            suo nome. L’amministrazione o Casa Faraci a Riesi divenne 
            importante. Da ricco sposò una certa Lucia La Marca di distinta 
            famiglia, i di cui parenti furono piu volte Sindaci.

            Quando Don Giuseppe Faraci per la vendita dello zolfo andava a 
            Licata, Catania, Messina o Palermo, viaggiando sfarzosamente col suo 
            seguito, era Conosciuto e rispettato. A Palermo conobbe il Dott. 
            Rosario Vassallo da S.Cataldo, professore d’Università che era 
            vedovo. Il Faraci tanto fece, tanto disse che lo condusse a.Riesi 
            dove gli fece sposare la figlia dello zio Don Salvatore Faraci che 
            abitava di fronte la vecchia chiesa del Rosario.

            Ecco un’altra famiglia benemerita del paesetto, dove insieme alle 
            altre si distinse; e oltre a queste famiglie, altre ne venivano e se 
            ne aggregavano, dando maggior incremento, spiccando, onorando questo 
            suolo col lavoro, la vita e l’ingegno,

            Già nel 1804 si era laureato in giurisprudenza, a Catania, il Sig. 
            Matteo Sanfihippo, avvocato d’un certo valore che poi fu un 
            Amministratore della Baronia. Questa nuova, ricca famiglia, era 
            venuta da Palermo e non aveva a che fare con la prima, la quale era 
            in decadenza.

            Nel 1806 venne qui come Notaro Don Gaspare Musarra. Egli, oltre ad 
            essere Notaro, fu amministratore dei principi di Casa Trabia. 
            Siccome il Musarra era molto ricco, rifiutò altre terre dei 
            principi, dicendo che quelle che aveva a Riesi erano più che 
            sufficienti. La famiglia Musarra viveva nelle case basse nei paraggi 
            del piano del Crocifisso e il piano della Madrice.

            Dopo il Musarra nel 1810 venne Don Giuseppe Amarù da Pietraperzia, 
            nella qualità di Ricevitore. Sposando la figlia Rosaria con il 
            farmacista Don Francesco Correnti, si fabbricarono il palazzo in 
            questa via del Rosario.

            Verso 1815 vennero da Delia i. tre fratelli Calogero, Rocco e 
            Francesco Riccobene. Essi erano uno calzolaio, uno sensale e uno 
            commerciante. Qui vi trovarono la fortuna e si fecero ricchi, 
            acquistando terre e fabbricandosi delle case con camere. il Calogero 
            sposò la figlia di un G. Pasqualino e si fabbricò la casa con il 
            fondaco di fronte al suocero al piano del Crocifisso e mise su una 
            piccola locanda con l’entrata dal cortile in via Grande.

            Nel 1802 altri tre fratelli fabbri-ferrai erano da Barcellona Pozzo 
            di Gotto (provincia di Messina) per fare !a cancellata interna della 
            chiesa della Madrice, il Campanile e la Croce alla facciata. Essi 
            furono: Vito, Stefano e Luigi Matera. Tutti e tre presero moglie qui 
            e prolificarono.

            Mastro Vito Matera fu il primo a mettere una botteguccia di merceria 
            ai Quattro canti di fronte alla casa Pasqualino, innalzandovi due 
            camerette al dammuso per fare il terzo Cantone di fianco al palazzo 
            Correnti Giuseppe, al quale il padre Antonino aveva fatto 
            fabbricare, sposandolo con Donna Vincenza Calafato. Rimaneva solo il 
            quarto Cantone dalle casette basse col cortile dei signori Gueli e 
            più in giù un altro cortile grande con la casa degli Scimena di 
            fronte alla casa dei Dì Benedetto, allungarono il Corso.

            Nella merceria di mastro Vito Matera, per comprare i generi 
            affluivano da tutti i punti e siccome vicino vi erano le bottegucce 
            di generi alimentari, così gli abitanti si vedevano spesso in piana. 
            La Casa Correnti-Calafato poteva dirsi rispettabile per censo, 
            avendo molto traffico coi contadini.

            Le miniere di zolfo intanto avevano preso un serio è grande 
            sviluppo: oltre Tallarita, Portella di Pietro e Strozzo, nel 
            territorio si aggiunsero Pacienzia e Vallone fonduto. La Moculufa 
            nel territorio di Ravariusa e Galati, vicine, diedero un buon 
            contingente di zolfatai: un terzo della popolazione lavoratrice, 
            possiamo calcolare che viveva del lavoro di dette miniere. Cli 
            zolfatai erano considerati degli operai. Il lavoro faticoso li 
            rendeva abbrutiti, ma in compenso, mentre per 6 giorni in miniera 
            mangiavano pane e cipolla, il sabato sera, la domenica e il lunedì 
            mattina in paese facevano una vita spendereccia. Nei giorni di festa 
            vestivano bene col berretto e il fiocco e le loro donne, 
            specialmente nei battesimi, in chiesa e nei matrimoni, sfoggiavano 
            in lusso con lo scialle e piene d’oro.

            Lo zolfataio si distingueva subito nella vita. Andando in miniera, 
            lavorava nudo, estirpando lo zolfo a colpi di piccone, che veniva 
            trasportato fuori a spalla dai carusi, i quali erano pagati ad una 
            misera giornata, mentre il picconiere era pagato a cottimo e per 
            ogni cassa di un metro cubo riempita. I picconieri lavoravano a 
            cottimo ed a partite di quattro o cinque. Ogni picconiere aveva due, 
            tre o quattro carusi, i quali messi a quel lavoro per guadagnarsi la 
            spesa fin dall’età di sei anni, crescevano deformi, rachitici e per 
            lo più restavano carusi fino all’età matura e ignoranti. Entravano e 
            uscivano dalla miniera come tanti diavoli, sotto il peso del masso 
            grezzo, salendo le scale ripide, fetide e pericolose.

            Adolfo Rossi nella Tribuna del 1893 paragonò i buchi delle miniere 
            di zolfo a tante bolgie dantesche. Quello che era vergognoso per i 
            carusi era il cosiddetto morto. Consisteva nel dare il picconiere un 
            anticipo alla famiglia del caruso; con una somma di lire cinquanta, 
            cento e persino duecento il caruso rimaneva vincolato col suo 
            principale fino a che scontava il morto: era difficile potersi 
            svincolare il povero caruso, perchè le famiglie erano in ristretto 
            bisogno. Picconieri e carusi nelle miniere ubbidivano al capo. 
            mastro, al quale portavano rispetto.

            Questo stato d cose ora non c’è più, ma le miniere hanno continuato 
            a dar pane e lavoro a molti operai.

            Un’altra fonte di ricchezza del secolo XVIII che si può chiamare il 
            secolo d’oro per Riesi fu la vigna. Trovata adatta calcarca la 
            terra, dal 1820 in poi tutti si misero a piantare la vite. Lo stato 
            di Riesi, ossia la proprietà, essendo divisa e suddivisa, ancora gli 
            operai erano dei piccoli proprietari, avendo, ognuno la loro vigna. 
            Si soleva dire che: Chi ha una vigna, ha pane, vino e legna. E con 
            la vigna nasceva il lavoro per tutti i contadini braccianti: zappa, 
            potatura, vendemmia, l’allegra vendemmia  e in mezzo alla vigna gli 
            alberi da frutta, i parmenti per pigiare l’uva, la casa per i 
            proprietari. Lavoro quindi non ne mancava, ed questa la ragione per 
            cui da noi non vi sono mai stati tanti accattoni per le vie.

            La vigna!... la bella, rigogliosa vigna, dalle verdi pampine, 
            dall’uva nera, bianca, rossa, dai grappoli dagli acini grossi, 
            grandi, pesanti; e con l’uva i frutti abbondanti e il vino, il 
            rinomato vino di Riesi!

            i contadini molto poveri (e ce n’erano a Riesi che formavano la 
            classe dei diseredati, campavano la Vita stentatamente vendendo 
            verdura di campagna: e cicoria, cardonì selvutìci, carciofi di 
            spina, finocchi, fichi pali ecc. Tutti allevavano il maiale in casa, 
            ma i detti contadini lo allevavano per risolvere il problema della 
            casuccia in fitto. Per un anno lo tenevano in casa, carezzandolo, 
            assieme con l’asino e le galline, poco curandosi de lo spettro della 
            civiltà, come ebbe a scrivere una volta  Napoleone Colajanni, il 
            grande statista, parlando dei nostri paesi a proposito dell’animale 
            immondo che i proprietari tenevano nella stalla. Quando vendevano il 
            maiale che ammazzavano in casa propria, nella famiglia facevano 
            festa perchò si trattenevano le entraglie, robs d’intra, e solo 
            allora la povera gente poteva assaggiare la carne. Erano tempi di. 
            miseria anche quelli del secolo scorso in cui vissero i nostri 
            nonni. Relativamente a Riesi si stava bene, ma... contadini stavano 
            male dappertutto: essi un po’ per la loro ignoranza un po’ per 
            l’ingordigia padronale, sono stati sempre disprezzati. Col governo 
            borbonico, specialmente, tutto andava a rotoli.

            Dal 1820 in poi con la legge napoleonica, nei Municipi si 
            istituirono i Registri per gli atti pubblici, nascite, morti, 
            matrimoni; parve che la vita doveva migliorarsi, ma fu un passo 
            lento, il primo passo della civiltà, frutto della Rivoluzione 
            francese coi diritti dell’uomo.

            Bisogna considerare però che si era sotto il Governo dei Borboni che 
            lasciava i paesi del Regno delle Due Sicilie in completo abbandono e 
            di conseguenza, quantunque abolita la feudalità, i signorotti, con 
            le loro prepotenze, vi erano sempre. Venendo su gli anni, 
            inoltrandoci nella prima metà del secolo, da bambini si cresceva e 
            si diventava uomini nel senso vero della parola, atti a comprendere 
            la dignità della vita.

            Ad ogni modo a Riesi tra lo zolfo e la vigna, col benessere, nella 
            classe operaia c’era una specie di indipendenza; il popolo riesino 
            si distingueva in tutto.

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            Cap. XVII bis


            fatti – lotte religiose


            Per quanto da noi c’era quel che c’era, il paesetto di Riesi se da 
            una parte cresceva, se aumentava, se c’era la divisione di classe, 
            se i ricchi primeggiavano, se le scuole erano frequentate, si era 
            ancora come le talpe.

            Onde provare in quale stato si trovava Riesi in quei. tempi, citiamo 
            dei fatti.

            La viaggiatrice inglese Giovanna Pouwar che nel 1830 girò palmo a 
            palmo la Sicilia, lasciandoci una Guida dei paesi dell’isola, giunta 
            a Pietraperzia sul Capodarso, scrisse queste precise parole:  “Al di 
            là del Finocchiero trovasi Riesi dove vi sono delle zulfare “. La 
            Pouwar divide il fiume Salso in tre nomi che sono:

            Il Petroliero che dalle sorgenti delle due Petralie va fino a 
            Caltanissetta; il Finocchiero che bagna le terre di Pietraperzia, 
            Riesi, Sommatino e Ravanusa e il Fangoso che va da Ravanusa a 
            Licata, sua foce.

            Non sappiamo perchè la detta viaggiatrice chiami il Finocchiero 
            questo braccio del fiume.

            Due decreti uscirono nel 1836 e nel 1838 dal re Ferdinando di 
            Borbone per nostri paesi. Col primo decretò di fare una nuova 
            Trazzera Regia da Barrafrunca, Riesi, Butera e Terranova (Gela) per 
            agevolare il trasporto degli zolfi col secondo decreto aboliva la 
            feudalità, dando alle popolazioni i diritti d’uso civico. “Visto — 
            dice egli che aveva girato qua e là in Sicilia — le misere 
            condizioni in cui si trova il nostro amato popolo, abbiamo decretato 
            di dare i diritti d’uso civico, nascente dalle terre, spettante ai 
            Comuni .

            La Trazzera Regia nominata Montagne e Marine che passa dalla 
            Finocchiara va fino a Messina.

            Circa gli usi civici, una Circolare fu diramata dal vicerè marchese 
            di Satriano agli Intendenti Prefetti di Sicilia per cercare nei 
            Comuni se vi fossero tali diritti. E l’intendente di Caltanissetta 
            per tre volle si rivolse a questo Decuriunato del tempo e per ben 
            tre volte il Decurione (Sindaco) respinse la proposta dicendo che a 
            Riesi non esistevano usi civici.

            Dopo questo fatto, un illustre sconosciuto fu di passaggio a Riesi. 
            Venendo a cavallo da Butera, che allora era suffraganeo di Riesi, 
            cerco alloggio nell’unica, piccola locanda dei Riccobene, ma non 
            trovando posto, lasciato il cavallo al fondaco, se ne venne in 
            piazza costernato. Certo Giorgio Ingrascina, uomo faceto, curioso e 
            liberale (famiglia estintasi) gli si. avvicinò, levandolo dalla 
            costernazione con dargli alloggio a casa sua. L’ospite illustre 
            accettò. Lo Ingrascina aveva una btteguccia di terraglie vicino gli 
            Accardi; sposato di recente, fece mettere alla moglie le lenzuola di 
            bucato, mentre mandò la stessa a dormire dalla madre, certa 
            Federico. Quella sera la cena si componeva di una minestra di 
            cicoria, due uova e il solito tradizionale fiasco di mezzo litro di 
            vino. Condivisero la cena e andarono a letto.

            La dimane, alzatisi per tempo, si recarono al fondaco a rilevare il 
            cavallo dovendo il forestiero trasferirsi altrove, e anche qui il 
            riesino volle essere gentile, accompagnandolo alle porte del paese. 
            Giunti dietro la Montagna, nell’atto di dividersi, il forestiero nel 
            ringraziare  Ingrascìna gli diede una carta. Era nientemeno il 
            Segretario del viceré, Cav. Ruggero Mistrangelo I°.

            Rientrato in paese, Don Giorgio fece sfoggio dell’illustre nome e 
            saputolo il Decurione, montò su tutte le furie, dicendo che lo 
            doveva condurre da lui, ma il nostro compaesano mostrandosi 
            misterioso, si scusò. di non averlo conosciuto.

            Ma la storia non finisce qui. Si disse che lo Ingrascina dipoi andò 
            a piedi a Palermo a trovare il suo ospite illustre, il quale lo 
            accolse gentilmente, tenendolo con sè alcuni giorni. Ritornato a 
            Riesi, mostrò il decreto di sensale Regio.

            Mentre il paesetto si allargava da tutti i punti, facendosi strada, 
            diamo uno sguardo alla chiesa Madre e al Clero. Fin dal principio 
            del secolo la chiesa e il Clero di Riesi passarono sotto la Diocesi 
            di Caltagirone; perciò i Parroci venivano di li mentre i sacerdoti 
            Cappellani erano quasi tutti del paese. Fermiamoci un momentino su 
            Don Giuseppe Fernandez. Questo Parroco ci stiede 10 anni. Una sera, 
            mentre egli si trovava in Sagrestia, fu fatto segno, da mano ignota, 
            ad un colpo di pistola andato a Vuoto. L’indomani mattina il 
            Fernandez prese una cavalcatura, per far ritorno alla sua città e 
            arrivato alla figurella del. Crocifisso messosi a cavallo, rivoltosi 
            all’indirizzo di Riesi disse: “Mandra ti trovai, mandra ti lascio 
            mandra sarai…”. In sostituzione fu nominato Parroco Don Rocco 
            Veneziano, di indole buona, mite e di famiglia patrizia, parente dei 
            Jannl. Qui cominciano le dolenti note . Aspirando a tale carica il 
            Cappellano Don Giuseppe Golisano, il Clero si divise in due partiti 
            e malgrado il Veneziano avesse fatto fondere nel 1818 a Catania la 
            Campana di mezzo, pure fu avversato tanto che si voleva dimettere; 
            tuttavia rimase a quel posto fino al 1837.

            Aspiravano alta Parracatura i due giovani sacerdoti Don Gaetano 
            D’Antona e Don Vincenzo Butera. Il D’Antona nato nel 1804 oltre ad 
            essere un sacerdote, era un ricco possidente che continuò a fare 
            l’impresa del padre nei feudi; il Butera era un principe della 
            Teologia, persona stimata,. Giustizia vuole però il dire che in 
            occasione della visita pastorale di Monsignor Menichini il prete 
            D’Antona fu nominato Vicario. La lotta religiosa non cessò sì 
            presto. Andato il D’Antona a Caltagirone, ritornò col titolo di 
            Parroco. Il Butera concorse al posto di Pietraperzia e vi fu 
            nominato, ma, oh ironia della sorte! anche il fu perseguitato, 
            deposto, .e quindi costretto a ritornare a Riesi..

            Così ci disse il vecchio prete Don Salvatore Riggio, morto 
            ultimamente in età di 81 anni. .. .

            Dal 1838 dunque fu Parroco Don Gaetano D’Antona. Egli diceva: 
            “Quanto mi dà a rendere quel tumolo di terra (la chiesa) nemmeno un 
            feudo”. Sotto di lui il Clero era ricco e numeroso. Generoso quanto 
            mai il Parroco D’Antona, senza trascurare la chiesa ne i parenti, 
            volle incettare pure nelle miniere di zolfo, prendendo in gabella 
            assieme ai fratelli Turco la miniera Taltarita, dove si arricchì 
            ancor di piu  La Casa del Parroco D’Antona, gareggiando con la Casa 
            Faraci, divenne a Riesi motto importante il fratello Don Salvatore 
            era il Vicario; i suoi parenti tutti vivevano del prestigio della 
            Casa.

            Per altro egli era molto coraggioso. Si racconta di lui, che una 
            volta trovandosi in campagna, a Castelluzzo, una compagnia di 
            briganti la sera lo andò a trovare per una visita. L’Arciprete 
            D’Antona apri loro le porte, li fece entrare, diede loro a mangiare 
            e mise avanti il suo portafogli dicendo: “ Servitevi”.

            Quei galantuomini accettarono solo dei sigari, lo ringraziarono, si 
            licenziarono, gli baciarono la mano dicendogli: “Vossignoria può 
            camminare di notte e di giorno!”. Lasciamo per un momento il Parroco 
            e passiamo ad altro.

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            Cap. XVIII


            la chiesa di san giuseppe – il colera del 1837


            Fu appunto in quei tempi che sorse, si fabbricò la simpatica chiesa 
            di S. Giuseppe a spese di un ricco signore. Un privato si rese 
            benemerito di questo grazioso dono, adornando al piccolo paese che 
            si accrebbe di un’altra chiesa, di un’altro quartiere. Il Dott. Don 
            Rocco Correnti, devoto di S. Giuseppe, pensò di lasciare questo 
            monumento storico. Egli abitava nel palazzo lungo il Corso, ed 
            essendo affetto da podagra, si faceva trasportare dai servi su una 
            sedia a braccioli nella chiesa della Madrice. Ricco, munifico 
            signore intellettuale, senza prole, tutta la sua proprietà, si può 
            dire, l’adoperò a beneficio di detta chiesa. Scelto il punto 
            sull’altura del poggio in linea retta del Corso che guarda la chiesa 
            Madre, si mise all’opera, facendo venire un capo d’arte da 
            Caltanissetta che fece il progetto da eseguirsi subito. Vi lavorò 
            nella muratura il giovane manuale mastro Rosario Puzzanghera, nato 
            il 1813 che, come vedremo in seguito, tanta parte ebbe negli 
            avvenimenti politici del nostro paese. La muratura cominciò nel 1836 
            e fu consegnata dopo un anno indefesso lavoro; la facciata che prese 
            la forma semplice con dei sostegni a metà della porta per 
            l’illuminazione a lanterne, col suo campanile i merli, parve una 
            cosa meravigliosa; su l’altura venne fatta una comoda scalinata per 
            la facilità del pubblico. Un decoratore-disegnatore venne da 
            Siracusa per l’interno della chiesa. Le ricche immagini, l’altare, 
            il cornicione, l’organo e il pulpito sono lavori fini dell’8oo. La 
            sagrestia accanto dava accesso ad un piccolo orto dalla parte di 
            dietro la discesa. Insomma la chiesa di S. Giuseppe che misura m. 40 
            di’ lunghezza con m. 10 di larghezza, pari a mq. 400 e capace di 
            contenere 2000 persone, fu aperta con un gran successo, accrescendo 
            a Riesi un’altra Confraternita col Cappellano. La festa di S. 
            Giuseppe si cominciò a celebrare la terza Domenica di Luglio; la 
            statua del santo in legno massiccio tocca la perfezione dell’arte 
            scultoria siracusana; un bastone di argento massiccio fu regalato. 
            Dopo la festa della Madonna, possiamo dire che la festa di S. 
            Giuseppe assunse ad una solennità tale da attirare numerosi 
            forestieri; con musica e fuochi di Bengala, con la processione e le 
            confraternite, si è sempre rallegrato il paese; l’illuminazione poi 
            nei primi tempi, dentro e fuori la chiesa, era meravigliosa, 
            fantastica. La Confraternita di S. Giuseppe fu la più numerosa di 
            tutte. Composta di operai benestanti aveva un buon fondo di cassa 
            che serviva per aiutare i confratelli nei bisogni della vita, 
            specialmente nei funerali. Le quattro Confraternite avevano ciascuna 
            il loro tamburo, quella di S. Giuseppe vestiva il bavero celeste. Il 
            signor Rocco Correnti per la nuova chiesa fece ancora di più: donò 
            quattro tumoli di buona terra al Margio come patrimonio del 
            Cappellano, a patto però dice il contratto - che esso doveva essere 
            un parente delle famiglie Correnti, Calafato o Golisano. E difatti 
            in prima ci fu un Giuseppe Correnti, uno dei Calafato e indi il 
            sacerdote Cappellano Don Luigi Molisano. E il Parroco D’Antona, 
            volendo essere riconoscente al donatore della chiesa di S. Giuseppe 
            Don Rocco Correnti, a nome della stessa, neI 1840 la processione dal 
            Canale cominciò a farla passare avanti la detta chiesa e la casa del 
            Correnti lungo il Corso. Fece fare una Croce di pietra, mettendola 
            sul comignolo del poggio Grande, che d’allora prese il nome di 
            quartiere della Croce. La festa del Venerdì santo prese un aspetto 
            solenne, meraviglioso con la discesa dalla Croce del Cristo su una 
            apposita urna di cristallo, tanto che si dice: Giunta di Terranova a 
            scinnenza di Riesi,. La processione sull’imbrunire, dopo la giunta 
            dei quattro canti tra l’Addolorata uscente dalla chiesa del 
            Crocifisso e il Cristo dalla Madrice, sembrava una ferie. Nel brio 
            della primavera tutto il popolo, senza distinzione di ceto, si 
            riversava ai piedi della croce a fare “il viaggio, e dopo le tre ore 
            dell’agonia, la processione bene ordinata, al lume delle candele, 
            comparendo il letto dalla chiesa di S. Giuseppe, lentamente per la 
            scalinata, attraversava il Corso per finire alla chiesa Madre. Ogni 
            anno questa festa si celebra così, aggiungendovi anche la musica che 
            suona marce funebri, ma le Confraternite da tempo non ci sono più. 
            La festa di Pasqua con la Giunta al piano della Madrice o del 
            Crocifisso o del Rosario, la mattina col Cristo risorto, il 
            Salvatore degli uomini, la Madonna parata a festa e due enormi 
            statue rappresentanti S. Pietro e S.Paolo, prendono la via dei 
            Santi, seguiti dal popolo. Non sappiamo spiegarci che c’entra S. 
            Paolo, il cieco fariseo, nella Resurrezione, come non sappiamo 
            spiegarci che il Clero, tanto intelligente, abbia fatto passare 
            questo anacronismo. Ad ogni modo, cosa fatta, capo ha; paese che 
            vai,usanza che trovi. Ora dalle feste, passiamo al lutto. Proprio in 
            quell’anno 1837 appena terminata la muratura della chiesa e si erano 
            iniziati i lavori decorativi, in tutta la Sicilia scoppiò fulmineo 
            il colera. Dappertutto si fecero i cordoni sanitari, sicchè nè la 
            famiglia del capo d’arte, nè il’ decoratore poterono partire. I 
            colerosi nei Comuni erano numerosissimi, i morti non si potevano 
            contare. Chi vuole avere un’idea del terribile colera del 37 in 
            Sicilia, legga nel bel romanzo di Giacomo Oddo su L’Apostata 
            siciliana, la pagina che riguarda Palermo. Non c’era famiglia nella 
            quale non vi fosse uno o due morti di colera; basti dire che i 
            becchini la sera non avevano il tempo di trasportare i cadaveri, 
            tanto che il Sindaco diede ordine di accendere un fanale avanti la 
            porta dei deccesi dl morbo crudele. Le notti scrive lo scrittore, 
            Palermo era tutta illuminata. Immaginiamo quel che ci poteva essere 
            nelle vie di Riesi, nelle case, fra le famiglie. Presi alla 
            sprovvista, non conoscendosi il male e senza mezzi di soccorso, la 
            povera gente non sapeva che cosa fare. I medici chiamati a destra e 
            a sinistra non sapevano nulla di nulla, cosicché anche i ricchi 
            morivano colpiti dalla peste; pochi erano coloro che si salvavano 
            dal colera morbus. Vi erano quelli che dicevano:

            Ci vien dagli uomini, non vien da Dio

             Molti credevano che il colera lo gettassero, certuni lo credevano e 
            lo credono tuttavia per ignoranza o in buona fede, altri lo facevano 
            credere allo scopo di rubare, come altresì si credeva al lupo 
            Mannaro per lo stesso scopo; e questa superstizione del lupo Mannaro 
            esiste nel popolo basso napoletano. Essa viene raccolta dal Dott. 
            Axel Munhte ad Anacapri nel suo meraviglioso libro: La storia di S. 
            Michele (voI. di 6oo pag. Fratelli Treves). Nessuna meraviglia 
            adunque se nei riesini, popolino sparso in fondo alla Sicilia, vi 
            era tale superstizione. ci viene dagli0. uomini il colera per causa 
            dell’igiene. Ad ogni modo il colera durò tre mesi: Giugno, Luglio ed 
            Agosto e fu il caso poi che i palermitani condussero seco loro il 
            giovane R. Puzzanghera, il quale, perfezionatosi nella muratura, 
            ritornò a Riesi e mise su casa. Questo operaio analfabeta, filosofo, 
            contribuì con la vita e il lavoro al liberalismo e all’incremento 
            del paese

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            Cap. XIX


            la societa’ segreta – lotte politiche


            Riesi non progrediva solamente numericamente e finanziariamente, ma 
            progrediva anche intellettualmente e liberalmente. Formatosi il ceto 
            pensante con una schiera di buoni professionisti, alcuni di essi 
            volsero il pensiero all’idea della libertà politica, immischiandosi 
            nei Risorgimento italiano ed aprendo gli occhi ad una fazione dei 
            popolo tra operai, zolfatai e contadini. I nostri professionisti 
            liberali, cercando il miglioramento della vita sociale, si 
            affermarono lottatori intrepidi, coraggiosi e benefattori. Essi 
            ebbero di fronte il Governo, la chiesa e la Baronia, eppure non 
            retrocessero. Che importava se i loro padri la pensavano 
            diversamente? Che importava se ebbero umili natali? Bisognava 
            lottare.

            Era ben naturale che i figli dei ricchi, degli agiati e persino 
            degli operai benestanti andassero fuori a studiare. I padri facevano 
            enormi sacrifici pur di riuscire i figli, ma le difficoltà erano 
            immense. Senza mezzi dì comunicazione, con le sole trazzere regie, 
            coi dirupi e scoscesi negli accorciatoi, con le piene del Salso, a 
            quei tempi era un problema molto difficile il viaggiare in 
            cavalcature. Aggiungete a tutto questo il pericolo degli amici, cioè 
            i briganti, che trovandosi alla passata vi domandavano o la borsa o 
            la vita e spesse volte vi levavano e la borsa e la vita. Gli è vero 
            che c’erano i Compagni d’armi che sorvegliavano le campagne, ma 
            costoro erano ladri di notte sbirri di giorno cioè complici dei 
            ladri. Il governo borbonico aveva la massima di reclutare i 
            vagabondi dei paesI per non farli rubare, vestendoli da militi a 
            cavallo, ma quegli erano l’uno e l’altro e salvo a pagare una grossa 
            taglia per aver salva la vita, i Compagni d’armi facevano quel 
            mestieraccio. Vestivano in divisa con una lunga sciabola, armati di 
            moschetto e pistola, andavano a cavallo e nei paesi del Governo dei 
            Borboni rappresentavano la forza pubblica. Detti sbirri, amici degli 
            amiici, odiavano i liberali. A Riesi ce n’erano una mezza dozzina.

            Tutto questo lo abbiamo detto incidentalmente, per provare come il 
            viaggio degli studenti e dei loro padri, ai tempi dei quali 
            scriviamo, era un serio rischio. Bello l’esempio i Don Giuseppe 
            Correnti, il quale andò a chiudere i due suoi figli Antonino e 
            Giuseppe a Bronte (prov. di Catania) e mai volle farli venire a 
            Riesi, malgrado l’ardente desiderio della madre, fino a che 
            terminassero il Ginnasio.

            A Bronte vi era un rinomato Collegio dei gesuiti e molti vi andavano 
            per studiare, ma si andava anche a Caltagirone, Piazza Armerina, 
            Caltanissetta, Catania e Palermo.

            I laureati adunque, ritornati in paese esercitavano con onore la 
            loro professione. E bene sapere che i loro guadagni non erano tanto 
            famosi e per lo piu vivevano del proprio. Ci si informa che un 
            medico nelle famiglie ricche, pagato ad anno, aveva dieci lire e 
            spesse volte domandava l’anticipo di sei mesi; una visita agli 
            ammalati era tre turi, pari a una lira e 25 centesimi; nelle 
            famiglie povere un galletto che costava una lira o qualche altro 
            regaluccio.

            Alcuni di essi laureati nel 1840 fondarono la Società segreta “La 
            Giovane Italia” a cui faceva capo il grande pensatore genovese 
            Giuseppe Mazzini, l’apostolo della libertà italiana. I primi furono: 
            il Dott. Don Giuseppe Matera, il Dott. Don Gaetano Giuliuna, l’avv. 
            Don Calogero Accardi, il farmacista Don Salvatore Bartoli, il 
            negoziante DOn Salvatore Di Lorenzo, mastro Rosario Puzzanghera, lo 
            zolfataio Leopoldo Turco il falegname Michelangelo Mazzapica e i 
            contadini Calogero Chiolo, Rocco Scimeca e un certo Santo Balbo.

            Anima della Società segreta era il giovane studente Giuseppe 
            Quattrocchi del fu Dott. Luigi e Mara Anna Pasqualino, nato nel 1830 
            Nipote del Giudice Don Onofrio Pasqualino, che fu il più piccolo dei 
            figli di Don Francesco e Caterina Inglesi; il giovane Quattrocchi da 
            ragazzo fu inviso allo zio per l’ingegno, la politica e la vivacità.

            Il Dott. Matera, nato nel 1809, era figlio di mastro Vito e Saveria 
            Sarpietro. Contrariamente alla volontà del padre che lo aveva 
            mandato a Caltagirone a perfezionarsi nel mestiere di chiavettiere, 
            il figlio fuggi a Catania dove, studiando, si laureò in medicina.

            Il Dott. Giuliana. figlio del Massaro Salvatore e di Filippa 
            Giuliana, nacque nel 1810. Avendo da bambino dimostrato di avere 
            buon ingegno ed appassionandosi nella medicina, la famiglia lo 
            assecondò nelle di lui aspirazioni, per cui divenne un bravo melico.

            L’avv. Accardi era figlio del Massaratto Giuseppe e di Provvidenza 
            Verso. Nacque nel 1807 e studiò legge a Catania. Irruente nelle 
            difese, era un uomo coraggioso.

            Il farmacista Don Salvatore Bartoli, figlio di mastro Giacomo, 
            cretaio, e di certa Di Benedetto, nacque nel 1818. Contrattò 
            matrimonio con Crocifissa Di Lorenzo ed apri la sua farmacia in via 
            Grande.

            Di Lorenzo fu un negoziante di tessuti. Venuto da Lipari. sposò qui 
            Maria Catena Butera e fece fortuna, fabbricandosi la casa in via 
            Grande.

            I membri della Società segreta si riunivano in una cameretta di 
            certa Maria Lupo nel cortile del piano del Crocifisso che dava nel 
            Corso. Ivi la notte si congiurava, leggendosi le lettere di Mazzini 
            e di Garibaldi. Si dice che le lettere erano scritte col sugo di 
            limone e che bruciandosi la carta, il contenuto si leggeva 
            perfettamente bene, indi si distruggevano.

            Ben presto però la polizia borbonica venne a sapere i nomi degli 
            affiliati della Giovane Italia, che ne erano spiati continuamente. 
            il giovane Quattrocchi, trovato sospetto, fu arrestato a Catania e 
            mandato a domicilio coatto a Favignana, per sei mesi. Lo zio avv. 
            Don Luigi Pasqualino vi andò a tenergli compagnia cercando di 
            dissuaderlo, ma Peppino, negando, si mantenne serio. Siccome lo zio 
            era un pezzo grosso della Polizia, cosi lo liberò. Venuto a Riesi, 
            abbracciò la madre cercò i compagni e’ riparti per Catania, onde 
            continuare a frequentare l’Università ramo legge. A Catania una 
            volta in una villa si incontrò con Mazzini che lo baciò alla 
            presenza degli affiliati catanesi.

            La Società segreta qui era terribilmente avversata dal potere 
            giudiziario, di cui era Giudice, dopo la morte del fratello l’avv. 
            Don Onofrio Pasqualino; dal potere amministrativo i cui Decurioni si 
            aggiravano fra i Martorana, i La Marca, i Debilio e i Pasqualino; 
            dal Clero con a capo l’Arciprete D’Antona che era una potenza e 
            dalla baronia, i cui amministratori erano qualche cosa. Gli altri 
            civili, se non facevano della politica, erano ligi ai su detti 
            signori; il popolino seguiva i grandi, e perciò i liberali erano 
            odiati e chiamati dei pazzi.

            La lotta era impari; la politica fra travedere e intravedere giunge 
            alla personalità; la sbirruglia borbonica era a disposizione dei 
            Comandanti, quindi i liberali erano continuamente bersagliati, 
            perseguitati; ma quei sognatori che seguivano la politica generale 
            dell’Unità italiana, stavano fermi, la ridevano sotto i baffi e 
            lasciavano dire e lasciavano fare. L’odiato straniero in casa nostra 
            col “bastone tedesco” imparento cui borboni, adoperava tutti i mezzi 
            per reprimere il movimento avversario, ma la Società segreta in 
            tutta Italia lavorava con accanimento; il foglio di Mazzini su la 
            Giovane Italia arrivava ovunque; in questo estremo lembo vi 
            penetrava e si leggeva, sebbene nascostamente.

            Le lotte politiche così si acuivano: gli sbirri facevano il loro 
            mestiere di spiare e rapportare. Il vecchio Dott. Rosario Vassallo 
            col Sig. Faraci, per quanto se ne stessero in disparte, 
            disapprovavano la condotta dei clerico-giudiziario-baronali.

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            Cap. XX


            il 1848


            Scoppiata la Rivoluzione in Palermo ai 12 di Gennaio di quell’anno 
            memorabile 1848 con a capo il Conte Ruggiero Settimo e l’Avv. 
            Giuseppe La Masa per avere lo Statuto dal Governo delle Due Sicilie, 
            i Comuni dell’isola avendo saputo che le truppe borboniche 
            fuggirono, insorsero. Il momento fu grave. La ribellione dappertutto 
            diede luogo ai saccheggi, agli omicidi, alle vendette private; la 
            teppa approfittò del momento par fare man salva. Non tutti cercarono 
            l’idea della liberta politica; i capi rivoluzionari ne furono 
            compromessi: si sparse del sangue.

            A Riesi però non fu cosi. I partiti contrari presero prima, armando 
            i loro amici che fecero fuggire i liberali, i quali si ridussero 
            nascosti nelle campagne.

            Costituitosi in Sicilia il Governo provvisorio, i nostri se ne 
            vennero a casa: sicche da noi non successe nulla di nulla. Col 
            Parlamento siciliano di Ruggiero Settimo e La Masa, le cose parvero 
            migliorarsi: i clericali e i partiti affini, stettero zitti; i 
            liberali dal canto loro pacificamente, credettero di aver preso il 
            terno. Ma ohimè, fu un sogno.

            La stessa rivoluzione successe a Napoli un mese dopo. Ferdinando di 
            Borbone spaventato di ciò, affacciatosi dal balcone del palazzo 
            reale, promise al popolo napoletano di dare lo Statuto. Ma questo. 
            lo sappiamo dalla storia fu un inganno, il re divenne spergiuro: 
            egli dopo alcuni giorni, di notte tempo fece arrestare tutti i capi 
            liberali del suo Regno e fu peggio di prima.

            Gli arrestati a Riesi furono:

            1. Il giovane Giuseppe Quattrocchi, L’arresto avvenne in modo 
            drammatico. Piombata la sbirraglia borbonica dietro la porta, egli 
            fu svegliato dalla madre: ebbe il tempo di vestirsi, immettersi 
            nella pugliarola all’entrata del portone dei Pasqualino, dove c’era 
            un fosso in fondo. Saliti gli sbirri, cercarono dappertutto la casa, 
            non trovandolo se ne scesero; ma tal Giovanni Calamita fabbro 
            ferraio, spia segreta, li condusse dietro al portone facendo aprire: 
            gli stessi parenti dei Pasqualino pér intercessione della madre, 
            glielo consegnarono. Condottolo al Carcere, lo consegnarono e lo 
            chiusero dentro, facendolo guardare da un compagno d’arme.

            2. Poi passarono al piano del Crocifisso nel cortile dei Butera, per 
            l’abitazione del Dott. G. Matera da un scala, esterna che ancora 
            esiste diruta e triste ricordo di quel fatto. Bussati

            alla porta, svegliatosi il Dottore, questi dissi di aspettare un 
            momento, inteso il rumore delle sciabole. Uomo socratico, accesa la 
            candela, si vestì, baciò la moglie, figlie e figli ed aprì.

            Egli fu condotto al carcere assieme all’altro.

            3. Di corsa si recarono al Lago nella casa Accardi l’avv. Don 
            Calogero, più Vivace ed energico, aveva tentato scappare dal 
            tettaccio, ma un colpo di pistola a scanso, sparatogli da un 
            antiliberale, che non nominiamo per amor del prossimo e per carità 
            di patria, fece atterrire la famiglia; fu gioco forza arrendersi.

            4. Indi passando dalla via del Parroco, venendo giù salirono da Don 
            Salvatore Di Lorenzo che svegliatolo lo fecero levare e lo 
            arrestarono. La moglie ignara del perché, affacciatasi al balcone si 
            mise a piangere e a gridare: “Hanno arrestato mio marito… hanno 
            arrestato mio marito…”.

            Fattosi giorno si seppe la notizia dello arresto. Scesi in piazza 
            (quattro Canti) Don Giuseppe Faraci e Don Giuseppe Correnti 
            criticarono l’operato della polizia; il popolo rimase muto, triste, 
            atterrito.

            Gli arrestati la mattina stessa furono fatti partire per Palermo. 
            Arrivati a Caltanissetta li fecero sostare nel carcere del Centrale 
            fra i delinquenti volgari. Bella la tirata di Don Calogero Accardi 
            con un capo mafioso. Un recoluto della mafia, si presentò ai quattro 
            nuovi arrivati dicendo che dovevano pagare il diritto giusto il 
            Codice della Mafia. Lo Accardi si fece spiegare in che cosa 
            consisteva questo pizzu e questo Codice e di botto domandò:

            — E se non lo vogliamo pagare?

            Botta e risposta:

            — Allora c’è la tirata....

            —Come ?....

            — Con i coltelli

            — Con chi?

            — Col Capo...

            — Quando?

            — Domani mattina all’aria.

            Ebbene accetto i disse Don Calogero risoluto.

            — A domani e, li lasciò.

            E difatti l’indomani, all’ora che i carcerati dovevano andare a 
            prendere una boccata d’aria, nell’atrio, vi doveva essere la tirata. 
            Don Calogero, uscendo dalla cella, seguito, dai compagni, nel 
            corridoio, vedendo un grosso ciottolone, lo estirpò e se io mise in 
            mano sotto la giacca. Il capo mafia, si presentò con un lungo 
            coltello di coscia acuminato, pronto alla sfida; ma il riesino fatti 
            due passi indietro, mostrando il ciottolone, in atto di tirarlo 
            contro il mafioso, disse Largo! ..; Ma i carcerati presenti 
            gridarono: No... no... non è cosi che si fa la tirata — L’avy 
            Accardi; “io cosi sono abituato a tirare ai buoi della mia 
            Masseria”.  Il  mafioso rimase perplesso; i suoi amici gli fecero 
            cadere il coltellaccio dalle mani e lì fecero conciliare; la onde il 
            liberale di Riesi esclamò: “Come! noi siamo di passaggio qui, perché 
            arrestati politici e voi ci volete far pagare il pizzo?”

            Infatti essi furono deportati alla Quinta casa, carcere di Palermo, 
            insieme agli altri arrestati politici dell’isola.

            Il processo non fu tanto lunghetto, la Sentenza non si fece tanto 
            aspettare: tutti i capi furono condannati alla pena di morte “rei di 
            avere fomentata la Rivoluzione contro lo Stato e di avere fatto 
            commettere saccheggi e uccisioni “. Giusto in quel momento si 
            trovava in Palermo il Giudice Pasqualino, il quale recatosi alla 
            Quinta casa, fece chiamare i compaesani, ai quali disse loro: 
            “Sapete, mi dispiace il dirvelo, è stata firmata la vostra 
Sentenza”.

            Giunta a Riesi la notizia, le povere famiglie si chiusero nel lutto, 
            gli amici esterrefatti, repressero il dolore. Donna Maria Anna 
            Pasqualino, la madre di Peppino, pazza dal dolore, risolvette di 
            andare a Palermo, facendosi accompagnare da un parente. Per fortuna 
            ivi si incontrarono con il prete concittadino P. Ercole Volpe dei 
            Gesuiti di Casa Professa: il quale era amico del Rettore, Cappellano 
            di Corte, confessore della vice regina. D’accordo combinarono di 
            andare dal vice—re, marchese di Satriano per chiedergli la grazia 
            sovrana con una Supplica. Cosi fecero.. Il vice re ascoltò con 
            deferenza la nobile donna e, sfogliate le carte, visto che a Riesi 
            non c’era stato niente; ascoltato il parere del Segretario di Stato, 
            uditi i PP. gesuiti accordò la grazia ai quattro riesini. Il 
            Segretario di Stato volle conoscere il Quattrocchi accompagnando la 
            madre al Carcere. Li, avvenne la scena che riportiamo, informati da 
            una donna liberale del 48

            Il carceriere chiama ad alta voce:

            — Giuseppe Quattrocchi fu Luigi da Riesi? — presente — Siete libero; 
            qui c’è vostra madre che vi aspetta.

            Peppino si preparava ad uscire.

            Dottor Giuseppe Matera, idem; avvocato Calogero Accardi; Don 
            Salvatore di Lorenzo, idem potete uscire, siete in libertà.

            Il primo ad uscire fu Peppino che volò fra le braccia della madre 
            che se lo strinse baciandolo: Libero... libero, figlio io, ti ho 
            salvato dalla morte; si sei libero…

            A questa scena il Segretario di Stato, mirando il figlio:

            —. Imberbe giovanotto, abbaia per l’osso; glielo daremo!

            E Peppino Quattrocchi, svincolatosi dalle braccia della madre 
            guardandolo con disprezzo col dito teso, gli fa:

            L’osso lo faremo mangiare a te, noi liberali sbirro sfottuto! E la 
            signora messagli la mano in bocca:

            — No... no, figlio mio, non dir così! E rivotasi al Segretario:

            — Lo compatisca, signore lo compatisca!....

            Quegli scrollando le spalle, se ne uscì.

            Gli altri tre furono pronti e se ne uscirono dalla prigione tutti e 
            cinque. Ebbero il tempo di andare a ringraziare il P. Ercole, 
            prendere un boccone e venirsene a casa; già la notizia era arrivata 
            a mezzo del Sindaco che in quell’anno 48 era il Sig. Giuseppe 
            Martorana, uomo piuttosto dei fatti suoi. I nostri liberali 
            mostrandosi in piazza, furono adocchiati da tutti e specialmente 
            fatti segno dai contro partito, Già un’altra volta il Quattrocchii 
            fu arrestato ed egli disse allo zio: inutile quel che fate, anche se 
            mi infilate dentro un fiasco quel che sono sono; quel deve avvenire, 
            deve avvenire....!

            Siccome il Governo borbonico si intitolò poi il Buon ordine, così i 
            siciliani ripresero la vita normale; e il Governo del Bonordine 
            avendo bisogno di moneta ricorse ad un prestito Nazionale per far 
            fronte alle spese, previo il titolo di barone; a Riesi concorsero il 
            Notaro Onofrio Inglesi e Don Giuseppe Faraci, i quali furono 
            nominati baroni; ma il Faraci non volle mai esser tale per modestia 
            nella sua grandezza continuando a lavorare, anzi… una volta sceso di 
            notte nella miniera Galati si levò la giacca e tracciò egli stesso

            una galleria, insegnando al capo mastro come doveva fare.

             Questo era l’uomo di quel tempo!…

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            Cap. XXI


            Miseria e filantropia – colera del 54 – Aspettando, i liberali si 
            fortificano


            Dopo il 1848, seguirono tre anni di carestia a cagione della 
            siccità. Il paesetto faceva circa 7 mila abitanti. La massa dei 
            contadini soffriva la fame; le fave si vendevano a sei un grano la 
            cicoria si mangiava cotta senza olio; la povera gente non aveva 
            lavoro. La miseria era estrema.

            Allora i proprietari aprirono i magazzini per soccorrere i 
            bisognosi. I primi a dare l’esempio furono Don Giuseppe Faraci, Don 
            Giuseppe Correnti ed il Parroco D?Antona. Il frumento si distribuiva 
            generosamente a seconda la famiglia che ne aveva bisogno; Don 
            Giuseppe Faraci scendeva in magazzino e dava persino del la moneta 
            per il macino. Il Municipio dal canto suo prestava anch’esso l’opera 
            assistenziale contribuendo con una data sommetta, dando ordini 
            precisi in sollievo della popolazione sofferente; i liberali dal 
            canto loro nascostamente facevano il loro dovere senza mostrar la 
            mano alla plebe, la quale in simili casi non sa quale santo votarsi.

            Questi atti di filantropia stringevano il popolo coi ricchi, i quali 
            erano larghi di cuore, specialmente i Massari che amavano i 
            lavoratori della terra. I filantropi, benefattori, erano segnati a 
            dito dai beneficati, i quali si mostravano riconoscenti ad ogni piè 
            sospinto. La chiesa o meglio le chiese erano affollate per ricevere 
            non il pane materiale, ma la dolce parola del conforto spirituale. 
            Certamente che in mezzo alle rose vi erano le spine pungenti che 
            qualche volta facevano il sangue, ma in generale si possa dire che 
            la miseria veniva alleviata.

            Per ben tre anni durò questa brutta miseria, cioè fino al 1852; dopo 
            la siccità cessò, la pioggia venne; ì lavori della campagna si 
            riaprirono, i contadini ripresero la vita normale mancando il lavoro 
            manca tutto, il commercio si paralizza col lavoro viene 
            l’abbondanza; la miseria nera non si fa sentire, si sopporta la 
            povertà. Nascer poveri non è un delitto, ma la povertà spinge a mal 
            fare. Ecco perché succedevano dei furti: salvo i ladri di mestieri, 
            i ladruncoli o i  pagliarolara erano arrestati, imprigionati, 
            condannati e le famiglie soffrivano di più.

            Nel 54 scoppiò un’altro colera più fulminante del primo, quello del 
            37. Stavolta l’infezione la portarono i terranovesi venuti a vendere 
            del frumento comprato da un bastimento indiano, si disse; sicché 
            esso colera fu isolato in pochi paesi attorno.

            Era l’andazzo della vendemmia, tra gli ultimi di Agosto e Settembre, 
            la gente si trovava in campagna e nessuno volle ritornare in paese: 
            La frutta si gettava. Anche nelle campagne il colera faceva strage; 
            c’era chi seppelliva i cadaveri sul luogo stesso, chi li portava sui 
            muli o su di una scala a pioli avvolti nei materassi o stracci. 
            Nulle fosse delle chiese in paese erano i parenti stessi che 
            venivano a gettare i loro cari, perché i becchini non avevano il 
            tempo di seppellire i morti. Aggiungiamo che le piogge torrenziali 
            di Settembre e di Ottobre rovinarono il raccolto del mosto e per le 
            trazzere, viottoli e sentieri, resi impraticabili, nemmeno si poteva 
            trasportare.

            Il colera cessò nella prima quindicina di Ottobre.

            Quando i proprietari rientrarono in paese, trovarono gli abitanti 
            superstiti desolati nelle loro case, decimati dal morbo crudele; ma 
            poi si riprese la via dell’ascesa.

            I proprietari infatti istituirono il Monte frumento pei venire in 
            auto ai piccoli mezzadri, anticipando loro le sementi. Il magazzino 
            era gestito dal Municipio fino al 1915, ed ora, con decreto 
            luogotenenziale si chiama: Cassa Comunale di CrediLo Agrario.

            Passata questa jattatura, venne la calma. E’ bene pensare un pò ai 
            liberali che si fortificano, poiché l’alta politica di Vittorio 
            Emanuele II, nuovo Re del Piemonte, col Conte Camillo Benso di 
            Cavour, pensando ai destini d’Italia, dava molto a sperare. Ma, 
            oltre ad essi, altri liberali vennero ad ingrossare le nostre file 
            dei lottatori ; buoni propagandisti oculati, guadagnando terreno 
            nella Società Segreta, aspettavano.

            Due buoni elementi furono:

            1) Don Girolamo Caramanna da Marineo (Prov. di Pa lermo), figlio di 
            un farmacista che apprese il mestiere di sarto nella detta città: il 
            48 si trovò fra gli insorti, perseguitati dal famoso Generale 
            borbonico Del Carretto, fu ferito alla gamba destra sotto Acireale, 
            e, messosi fuori combattimento, si ricoverò in una casa di campagna 
            dove fu curato. Guaritosi - andò girovagando fìnchè nel ‘55 si 
            ridusse qui a Riesi, dove trovò lavoro nella sartoria di Don 
            Giuseppe Alfano, venuto da Racalmuto (prov. di Agrigento), che 
            sposatosi con una Golisano, fece fortuna.

            Il Curamanna, che aveva avuto il battesimo di sangue, conobbe i suoi 
            amici politici coi quali entrò in relazione. A poco a poco sì rese 
            pratico del paesetto: frequentando la famiglia Di Benedetto sposò la 
            figlia a nome Grazia. Allora smise di fare il sarto e mise su un 
            negozio di tessuti; oltre a ciò ricettava dei cereali guadagnando 
            bene. Nella Società Segreta contribuiva largamente e nei negozi, tra 
            una parola e l’altra, seminava il germe della libertà. Quel che fece 
            poi lo vediamo fra breve.

            2) Giuseppe Bruno o don Pippo fu un’altro membro, affiliato, attivo, 
            entusiasta, ricco: contribuì non solo al partito liberale, ma con 
            l’ingegno della famiglia onorò Riesi..

            Don Pippo Bruno era oriundo da Nicosia (prov. di Catania). Egli, di 
            famiglia patrizia, per il suo liberalismo era odiato da un fratello 
            monaco e dai suoi. Un giorno, stufo dei disprezzi, fuggi da casa e 
            prese la via della campagna; incontratosi coi briganti, si uni con 
            loro per vivere e scorazzare di qua e di là, giunsero nel feudo 
            Tallarita, alla miniera. Qui Don Pippo, lasciata la masnada, si 
            impiegò come contabile presso l’amministrazione del Parroco.

            Ciò fu nel ‘57.

            Conobbe la ricca famiglia dei Buttiglieri e ne sposò la figlia 
            Lucia, la quale gli portò una vistose dote. Mettendo su casa, se la 
            fabbricò dentro il cortile di Via Verso con la prospettiva dalla 
            traversa Chiantia, al Rosario.

            Il Bruno, morti i di lui genitori, ebbe la parte spettategli della 
            ricca proprietà. Ricco intellettuale, mantenne i suoi figli .e le 
            sue figlie agli studi a Napoli.

            Uomo liberale, Don Pippo Bruno fece causa comune con la Società 
            Segreta. i tempi si andavano maturando; le battaglie di San Martino 
            e di Solferino, con esito favorevole all’Italia per aver cacciato lo 
            straniero dalla Lombardia, facevano guadagnar terreno, giorno dopo 
            giorno, ai liberali.
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            Cap. XXII


            il 1860


            Dal 1848 al 60, dodici anni passarono in un fiat. L’alba del 12 
            Maggio 1860 spuntò bella, radiosa per tutta l’isola dì Sicilia. Si 
            disse che il Generale Giuseppe Garibaldi con mille uomini volontari, 
            era sbarcato a Marsala; i clericali, baronalì, realisti si 
            affrettarono a voler smentire la notizia, ma dopo il proclama di 
            Salemi – 15  Maggio - quando Giuseppe Quattrocchi volò da Catania  a 
            venirlo a leggere non vi fu piu ritegno. Un movimento insolito ogni 
            giorno si notava; i liberali scesero in piazza; la casa del 
            Quattrocchi era frequentata con un via vai di persone d’ogni ceto; 
            la battaglia di Calatafimi, in cui la spada fiammeggiante dell’Eroe 
            dei due Monti mise in rotta i soldati borbonici, fu appresa con 
            soddisfazione; e il 27 Maggio l’entrata di Palermo convinsero Don 
            Giuseppe Faraci e Don Francesco D’Antona, fratello del Parroco, a 
            stringere la mano al Quattrocchi e comprimendosi a loro. 
            L’entusiasmo ognora crescente, avvinceva l’animo dei riesini: gli 
            indifferenti, i tiepidi si affiancavano ai liberali, mostrandosi in 
            pubblico contenti; il Clero, gli increduli, gli interessati se ne 
            stavano lontani, spettatori.

            Ma Garibaldi scriveva a Don Calogero Accardi che aveva bisogno di 
            uomini per passar lo Stretto di Messina e giungere a Napoli onde 
            snidare la dinastia dei Borboni. Allora si formò un Comitato di cui 
            risultò presidente Don Giuseppe Faraci. intanto il Generale Nino 
            Bixio era giunto a: Terranova (Gela) per fare l’arruolamento dei 
            volontari. Un Sergente dei garibaldini venne per lo stesso scopo 
qui.

            Si iscrissero e partirono: 

            1. Francesco Matera, figlio del Dottore; 

            2. Francesco D’Antona di Francesco; 

            3. Antonino Correnti Di Giuseppe, chierico; 

            4. Giuseppe Celestri di Giuseppe, studente; 

            5. Francesco Infantone, pittore; 

            6. Giuseppe Ferro, musicante; 

            7. Luigi Matera, fabbro ferraio; 

            8. Matteo Mercurio calzolaio; 

            9. Nicolò Scibetta, barbiere; 

            10. D’Aleo Carmelo, stagnino; 

            11. Francesco Mulè, figlio del sagrestano della Madrice; 

            12. Francesco Lo Grasso, zolfataio; 

            13. Giovanni Giuliana, agricoltore;1

            14. Antonio Zagarella, contadino; 

            15. Giovanni Dilegami, tamburinaio.

            Ne sarebbero partiti di più se non fossero stati trattenuti dalle 
            madri, dalle mogli, dai figli. L’Avv. Don Calogero Accardi volle 
            accompagnarli fino a Terranova per entusiasmarli.

            Bello esempio dei due suoi figli, Giuseppe e Calogero, che, venendo 
            dal mulino del Rizzuto con le mule cariche di farina, affidate le 
            bestie a dei contadini, seguirono gli altri. Non tutti però 
            partirono col desiderio di combattere per la libertà: al alcuni vi 
            andarono per secondi fini; laonde arrivati a Leonforte, quando Nino 
            Bixio mise l’ordine: “Chi ruba va fucilato”, i tali di tutti i paesi 
            se ne ritornarono alle loro case. Da Gela ritornarono Don Calogero e 
            i figli; Don Giuseppe Correnti si parti da Riesi e andò a cavallo a 
            rilevare suo figlio a S. Caterina, presentandosi a Garibaldi che si 
            era unito con Bixio per marciare alla volta di Messina. E il 
            Generale fu ossequiente alla volontà del padre. Laonde Antonino 
            Correnti si strappò il collare, non volle più farsi prete  - e 
            questo fu un bene perché divenne quel che divenne, e che a suo tempo 
            vedremo.

            Coloro dei nostri paesani che vestirono la camicia rossa a Messina, 
            furono chiamati d’urgenza di rinforzo nella terribile battaglia di 
            Milazzo del 20 Luglio, descritta da Alessandro Dumas (padre) nel suo 
            romanzo I GARIBALDINI dove Caribaldi perdette il meglio dei suoi 
            Ufficiali e soldati, senza punto scomporsi, dicendo: “La mia palla 
            ancora fusa”. I borbonici, comandati dal Generale Bosco, siracusano, 
            si erano nascosti dentro il vallone, fra i fichi-pali; i garibaldini 
            venivano da Palermo, il Generale mandò le guide per vedere se si 
            poteva passare da Milazzo; esse passarono inosservate facendo segno 
            di venire avanti; ma l’agguato, il tranello fu che al petto del 
            vallone incominciò la fucileria; i garibaldini cadevano numerosi e 
            in breve l’esercito fu decimato. Intanto, mentre ai borbonici 
            andavano esaurendosi le munizioni, ai garibaldini giunsero dei, 
            rinforzi non solo da Messina, ma anche dai paesi vicini, e così la 
            posizione fu salvata. I borbonici furono presi prigionieri: Bosco, 
            il bravo generale, tra fischi e urla, fu accompagnato bordo dl un 
            battello. I garibaldini andarono avanti verso la città del Faro, 
            onde passare la Stretto ed incamminarsi per le vie delle Calabrie.

            Dopo questo fatto d’armi, Francesco Matera scrisse al padre: Caro 
            papà, abbiamo avuto a Milazzo uno scontro coi borbonici ed abbiamo 
            vinto, presa la fortezza della cittadella, ora dobbiamo marciare 
            verso Napoli, con la speranza di abbattere i borboni; col Generale 
            Garibaldi non si perde mai, I ma si vince sempre. I nostri 
            compaesani stanno tutti bene. Dirai alla nonna che Luigi (zio) è 
            stato fatto trombettiere.  Io e Ferro saremo caporali; tutti 
            salutano le famiglie. -  (Messina 30 Luglio 1860) .

            Avuta questa lettera nelle mani, il IDott. Matera la comunicò prima 
            a la signora Antonina Ferro che abitava di fronte alla di lui casa 
            nello stesso cortile, dicendole che i nostri avevano fatto urna 
            scaramuccia coi regi, e poi, tutto contento si recò dalla matrigna 
            dicendole che Luigi era stato fatto trombettiere. Sia l’una che 
            l’altra donna si misero a vociare e a piangere, credendo chi sa che 
            cosa,  in modo che le altre famiglie dei garibaldini in breve si 
            allarmarono e il paesetto fu sottosopra. Allora Don Girolamo 
            Caramanna e Don Pippo Bruno girando le famiglie, le rassicuravano, 
            apportando anche degli aiuti materiali alle più bisognose.

            La notizia della battaglia decisiva sul Volturno non si fece tanto 
            aspettare. La dinastia d borboni era distrutta il Regno delle due 
            Sicilie era crollato. “Garibaldi fu d’un gran popolo Redentore; 
            compiendo il sogno di molle età”.

            Don Girolamo Caramanna, pazzo li gioia, andava gridando: “Cadi, cadì 
            la mula!”.

            Con l’incontro di Garibaldi e Vittorio Emanuele II a Teano salutato 
            il primo Re d’Italia, Riesi si decise di partecipare al plebiscito. 
            Quindi si allestirono le coccarde tricolori da fregiarsi il petto. 
            Don Girolamo Caramamma  le appuntava, proferendo il motto: “Chi non 
            la mette è sorce”. Allo spiazzale della Madrice, battezzato “Piazza 
            Garibaldi”, si ballava, si cantava; fra i dimostranti vi erano anche 
            i due preti: Don Rocco Peritori e Don Gaetano DAntona, per far 
            dispetto al Parroco, perché dissidenti.

            Sindaco era Don Carmelo Bartoli Capizzi; Giudice, invece, era il 
            Notaro Don Giuseppe Calogero Verso: il primo era uomo di buon senno, 
            remissivo, e lasciava fare; il secondo, borbonico, non volle 
            arrendersi; allora il popolo riunitosi sotto la di lui casa, gli 
            gridò “abbasso”, e fu costretto ad andarsene a Pietraperzia, presso 
            i parenti della moglie.

            Calmatesi le cose, col nuovo Regno di Vittorio Emanuele II, si 
            istituì subito a Riesi la Guardia Nazionale, detta “La civica”. Buon 
            numero di cittadini dovevano sorvegliare, giorno e notte, l’interno 
            del paesetto, che allora contava piu dì sei mila abitanti. Il loro 
            Capitano era Don Francesco D’Antona e tenente il Caramnanna. Fu in 
            quel periodo che, davanti la casa Faraci, con un colpo di pugnale al 
            cuore, venne assassinata la Guardia Nazionale V. F., mentre si 
            recava ad accompagnare un nipotino dalle sorelle, in Piazza 
            Garibaldi. Caduto vittima il povero F., il nipotino piangendo andò a 
            riferirlo ai genitori. Con essi accorsero molti, e il cadavere fu 
            piantonato dalle guardie fin l’indomani mattina. Movente del 
            delitto? Mistero.  Gli autori? Mistero ... E durante il periodo 
            della rivoluzione del ‘6o venne fucilato sopra la montagna, certo 
            Gangitano, vagabondo da Canicatti, perche chiedeva con lettera 
            minatoria denaro al Faraci. Nessuno dei riesini volle sparargli, e 
            fu un forestiere che li tirò.

            Eccetto questi due fatti di cronaca nera, niente altro di grave 
            avvenne a Riesi; furti, risse, ferimenti ve ne furono, ma poi....

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            Cap. XXIII


            la liberta’ – come dalla notte al giorno – i primi sindaci dei nuovi 
            tempi


            Venuta la libertà, parve “come dalla notte al giorno”, e questa  è 
            un’espressione d’un vecchio garibaldino che di ritorno con gli 
            altri, ci intratteneva spesso con racconti dei passato e del 
            presente. Per comprendere meglio il valore di questa bella 
            espressione, giova qui narrare qualche fatterello che ce ne da 
            l’idea.

            Un giudice palermitano a nome Pirrotta, di sangue borbonico, 
            sorvegliava, spiava minutamente gli atti delle persone. Un giorno, 
            incontrato un cittadino, che a caso aveva comprato “Le mie prigioni” 
            di  Silvio Pellico, glielo strappò di mano dicendogli: “Non sapete 
            che questi libri non si possono leggere?”. E glielo stracciò. lui si 
            recò dal libraio e lo rimandò. La legge la faceva con la taglia, 
            come suoi dirsi : al migliore quotato dava la sentenza di favore.

            Nella Rivoluzione il popolo voleva far giustizia sommaria di quel 
            giudice ma i liberali lo salvarono, accompagnandolo alle porte del 
            paese. Il tracotante disse di ritornarvi col ritorno dei Borboni.

            I ricchi così ne approfittavano contro la povera gente. Un tale che 
            voleva vendere una mula, chiamava un uomo e gli diceva: “Voi 
            stimatemi quest’animale cent’onze, e, il compratore, doveva per 
            forza acquistarla per tanto”. I ricchi perciò, abusavano fin troppo 
            dei tempi borbonici; i poveri erano soggiogati.

            I preti erano non solo rispettati, ma temuti. Essi, nelle scuole, 
            bastonavano di santa ragione, talché gli scolari, disertavano la 
            scuola restando ignoranti per tutta la vita. Il Clero, mano forte 
            del potere politico, dominava le coscienze. La  Baronia, d’altro 
            canto, non si accontentava di riscuotere i censii ma vessava gli 
            abitanti.

            Con la libertà tutto questo non vi fu più.

            Don Francesco D’Antona, nella qualità di Capitano delle guardie, una 
            domenica entrò in chiesa a cavallo per far dispetto al Parroco. Il 
            Quattrocchi, per quanto si fosse appartato dai liberali, perché 
            dalla scuola di Mazzini, pure era l’avvocato dei poveri qui e a 
            Caltanissetta.

            La libertà che sembrava un sogno, aveva messo tutto e tutti a posto. 
            Però il paesetto era ugualmente pieno di fango e privo 
            d’illuminazione. Per potere d’inverno camminare per le vie bisognava 
            cospargere di paglia, e poi, a suo tempo, venire raccolta e farne 
            fimo. Nelle scuole vi era qualche insegnante laico che si 
            distingueva.

            Intanto gli abitanti crescevano e si sentiva il bisogno di 
            respirare. La nuova Via Drogo, lunga e larga, dalla vicina casa 
            Accardi, si andava popolando, la Via Schifano verso la Sanguisuga, 
            la Via Larga, erano indice di progresso. Dei proprietari come i 
            Drogo, i Rotella, i Vecchio, si erano fortificati; altri erano 
            caduti in basso. Cosi, la nobile e prima casa di Riesi, era in 
            decadenza, avendo commessa un assassinio: certa Cangiola Maria, 
            mantenuta dal cosi detto baronello (sic), fu trovata assassinata 
            nella di lei abitazione. La moglie e la suocera del detto barone 
            scapparono a Delia dove furono nascoste; lui fuggì; i figli e le 
            fìglie del baronello Don Felicetto rimasero ricchi: essi si 
            fabbricarono i palazzi al centro, nel corso e in piazza; essi 
            palazzi erano imponenti: uno diede il nome alla 2. Via Golisano, 
            un’altro fu quello del farmacista Correnti che sposò Donna Rosaria 
            Amarù. Ma poi tutti, eccetto uno, si ridussero alla malora e furono 
            costretti a vendere. E i Camerata, anch’essi, perché imputati due 
            fratelli di un omicidio in campagna, i ridussero poveri.

            Era i ricchi primeggiavano i D’Antona, i Pasqualini e gli Inglesi, i 
            Vitello, i Bartoli Capizzi, gli Amarù, i Jannì, il Dott. Riccobene, 
            i Di Benedetto, i Verso e i Federico.

            Bisognava cercare un Sindaco dei tempi nuovi, dopo iL ‘6o, A dir la 
            verità, nessuno dei liberali brigò di andare a quel posto, di modo 
            che, il Prefetto di Caltanisselta fece cadere la scelta sul Cav. Don 
            Carmelo Inglesi.

            I fratelli Giuseppe Antonio e Carmelo erano figli del Notaro Onofrio 
            e di Maria Anna Butera. Essi furono mantenuti agli studi a Palermo, 
            comparendo da nobili, tanto che li chiamavano i “I Baroni della 
            Sicilia”. Morti i genitori, ereditarono il feudo del Pantano ed una 
            buona q quantità di moneta; le sei sorelle avevano avuto la loro 
            dote, tutta in denaro.

            Il Pantano fu dato ad ortaggi ai fratelli Lo Giudice, i quali, 
            coltivandolo, abbondarono la verdura in paese. Dipoi, si 
            fabbricarono i due bei palazzi attigui. Don Giuseppe Antonio, che si 
            fa sempre chiamare “barone”, sposò una ricca Molisano,Teresa ; il 
            fratello ebbe il titolo di cavaliere dal Re Francesco di Borbone nel 
            1856. La figlia Donna Giulia ci disse prima di morire: che il padre 
            avendo un bel cavallo inglese col quale si pavoneggiava. in 
            occasione della venuta del Re a Canicattì volle andarvi, 
            confondendosi cogli altri nobili dei paesi vicini. E siccome il 
            cavallo era ben sellato ed egli era d’una bella Presenza, tale da 
            sembrare un vero “Sermala” (nobile toscano del Medio Evo), gli occhi 
            del Re si posarono sul bel cavallo e chiamato il cavaliere gli disse

            — Che bel cavallo, me lo vuoi vendere?

            — Maestà... regalato, si... venduto. no...

            — Bene, bene, si tenga il suo diletto!

            Arrivato a casa, lo Inglesi, fu nominato Cavaliere. Questi, nel 
            1863, fu dunque il primo Sindaco di Riesi dei tempi nuovi. Egli, da 
            brav’uomo, iniziò a fare un pò di bene al suo paese, chiamandosi a 
            Vice-Sindaco il Dott. Don Giuseppe Riccobene.

            La prima cosa che fece il nuovo Amministratore Comunale, fu di far 
            collocare un orologio pubblico al campanile della Madrice, dando al 
            paese un aspetto civile; fece ciottolare

            il Corso, rendendolo transitabile; fece collocare una dozzina di 
            lampioni a petrolio nelle vie principali; badò alla pulizia, e, 
            sopratutto, lui di persona sorvegliava l’Annona.

            Questo a tutta prova, il Cav. Inglesi non cercò piu il suo interesse 
            Personale, ma bensì il bene dei suoi amministrati. Ricco di casa 
            sua, badò pure alla proprietà. allestendo neI ‘63 il palazzo che 
            riuscì il migliore di tutti, perche aveva un grazioso giardino col 
            pozzo per le aiuole. Se egli qualche volta lasciava fare al 
            Vice-Sindaco, non significava trascuranza verso il Comune, giacché 
            poi, voleva sapere tutto dai pochi impiegati.

            Dopo due anni e mezzo, stanco di questa vita, si dimise ritirandosi 
            a vita privata; lasciò in carica il Dr. Giuseppe Riccobene.

            Era costui un’animella, buono a nulla, che per quanto ricco, a quel 
            posto ci teneva. Il Prefetto lo esortava in tutti i modi a 
            dimettersi, ma lui faceva orecchio da mercante. Naturalmente, ciò 
            irritò a tal punto il capo della Provincia che per decreto reale gli 
            ordinò la destituzione.

            Don Salvatorello Giuliana, Segretario Comunale, nel comunicargli a 
            casa il decreto, siccome era un dilettante di v’ersi, gli 
canterellò:

            Tuttu a stu munnu muta e stacca,

            Lu poviru pacchiana e lu sublimi abbunca;

            Lu Re ca lu jornu ammazza e spacca,

            La sira ‘ntra un taguriu si va giucca

            Questi versi il Giuliana li aveva composti per il Re Fraccischello 
            di Borbone, quando fuggì da Napoli; all’occasione li adottò per il 
            Riccobene destituito.

            Ora viene la volta del Sindaco liberale, Cav. Dott. Giuseppe Janni, 
            eccellente chimico farmacista al quale gli dedichiamo li seguente 
            capitolo.

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            Cap. XXIV


            il sindaco janni – colera del 67 – morte del quattrocchi


            Il Sig. Giuseppe Janni nacque nel 1818 da Don Giuseppe e Crocifissa 
            Di Natale.

            I Janni discendono, da semplici agricoltori e da farinai; con il 
            loro ingegno,  lavoro e l’onestà sono arrivati a farsi strada, 
            imponendosi per la loro intelligenza.

            Giuseppe, rimasto orfano di padre, fu mandato a Catania a compiere 
            gli studi; si specializzò in chimica per essere farmacista. 
            Laureatosi, rientrò a Riesi dove apri la piccola farmacia nella Via 
            del Crocifisso che va a Donna Ciucella. Sposatosi con Filippa 
            Martorana, in breve rimase vedovo senza prole. Non volendo più 
            risposarsi, prese a carico i figli e le figlie del defunto suo 
            fratello, il Dott. Rosario, per istruirli ed educarli.

            Nel suo laboratorio, l’eccellente chimico farmacista sperimentò il 
            citrato cristallizzato; che, resolo raffinato, divenne di facile 
            presa. Questa sua invenzione gli fruttò onori e diplomi in Italia e 
            all’estero,e, con gli onori, ebbe anche i guadagni della privativa. 
            La sua sua farmacia, quindi, si allargò.

            Uomo benefattore, di tempia liberale, amico dei poveri, il 
            farmacista Jannni era divenuto non solo l’idolo dei suoi parenti, ma 
            anche del popolo.

            Fu per questi meriti che il Prefetto di Caltanissetta, nel 1865, gli 
            offrì la carica di Sindaco del Comune di Riesi; carica che lui 
            accettò ben volentieri: null’altra ambizione ebbe il bravo 
            chimico-farmacista che quella di fare del bene. Da buon funzionario 
            si attenne a tutto quanto il suo dovere. chiamò a funzionante il 
            giovane Avvocato Don Francesco Trapani, il quale i dedicò alla legge 
            Provinciale e Comunale.

            Vediamo quali furono le opere pubbliche che tuttora ci parlano di 
            quell’uomo la di cui memoria è benedetta, avendoci lasciato il 
            ricordo di un grande nome. Possiamo dire con orgoglio che tutto 
            quello che oggi noi vediamo, lo lasciò in embrione il Sindaco Cav. 
            Giuseppe Janni.

            Tre belle opere furono deliberate ed approvate nel 1866: la Casa 
            Comunale o Municipio, lo stradale Riesi-Sommatino e il Corso 
            Vittorio Emanuele II  lastricato. L’Ing. Musimci, che ne esegui i 
            progetti, non volle essere pagato Per riguardo al Sindaco Janni. Per 
            costruire il Municipio si prese la vecchia Chiesa del Rosario e fu 
            dato in appalto ai caltanisettesi; per lo stradale l’appalto parve 
            esorbitante, ed allora si stabili di farlo eseguire in economia 
            sotto la direzione dello stesso Ingegnere, a condizioni che dalle 
            economie dovevasi lastricare il Corso.

            Si erano iniziati i lavori, quando l’anno dopo, nel ‘67, scoppiò il 
            colera. I  lavori furono sospesi per dare aiuto alla popolazione.

            Quello che fece il Sindaco Janni in quella occasione fu veramente 
            ammirevole, sotto tutti i punti di vista. Anzitutto fece aumentare 
            l’illuminazione di trenta fanali; teneva aperta la sua farmacia di 
            notte e di giorno; ogni mattina correva in Piazza Garibaldi a dare 
            ordini per la disinfezione; correva dalla casa al Municipio, per le 
            vie, visitando e soccorrendo i colerosi. Per la calca dei cadaveri 
            nelle Chiese, fece scavare una fossa comune, fra la roccia, dietro 
            le mura della Chiesa S. Giuseppe.

            Al solito, i ricchi se ne andarono in campagna; ma il Sindaco e i 
            liberali rimasero in paese a soccorrere i colerosi. L’esempio dei 
            due dottori Matera, padre e figlio, che uscivano di casa la mattina 
            e non rientravano che per il pranzo e al calar del sole, 
            consultandosi sul da fare e dividendo i quartieri, vale per tutti,

            La gente moriva anche da spavento; i cadaveri venivano gettati alla 
            rinfusa. Avvenne che una donna ammalata, presa da sincope, fu messa 
            in cataletto e portata di sera nella chiesa di S. Giuseppe. La 
            notte, la poveretta, rinvenuta, ebbe la forza di alzarsi, afferrare 
            la corda delle campane c suonare ma nessuno accorse ; e l’indomani 
            fu trovata esanime, distesa a terra, fuori dal cataletto, con le 
            lenzuola il cuscino rovesciati.

            Nel colera del ‘67 vi trovò la morte in un modo pietoso, il 
            compianto Giuseppe Quattrocchi e la moglie, lasciando i figli in 
            tenera età.

            Egli era sposato con una cugina mazzarinese che si trovava con la 
            famiglia, dai parenti; là, infettatosi di colerina, voleva recarsi 
            al paese natio della moglie, ma arrivato a Maimone, presso le sue 
            terre, non poté andare più avanti e cadde vittima. Avvisata la sua 
            signora, questa corse ad inginocchiarsi dinanzi il marito, e, 
            nell’atto di baciare il cadavere, cadde fulminata. Ivi furono 
            seppelliti entrambi.

            Leopoldo Turco, appresa la notizia, corse lì e in un attimo fu di 
            ritorno a portare la triste nuova: purtroppo era vero …!

            Cosi si distrusse a Riesi la proprietà di quella ricca, rispettabile 
            famiglia, il colera cessò.  Quel benemerito Sindaco, nel ‘68, fu 
            insignito dal Governo italiano della Croce di Cavaliere: la prima, 
            almeno per Riesi. -

            I lavori furono ripresi. Nel ‘69 il Cav. Jannì pensò di far 
            costruire il primo Cimitero del borgo, atto per 8 mila abitanti. 
            Espropriò 600 mq. di terra ai Due Parmente, la fece recintare da 
            muri, vi fece innalzare una chiesetta e scavare una fossa comune, 
            abolendo l’uso di seppellire i morti nelle fosse delle chiese e 
            dando così onorata sepoltura ai defunti.

            A poco a poco il Cimitero fu adornato di viali, di graziose tombe e 
            di fiori.

            Anche questo fu un passo del vivere civile, segno della nuova epoca.

            Ma il Sindaco cav. Jannì diede prova del suo liberalismo in 
            occasione del XX Settembre 1870 La Presa di Roma con la Breccia dì 
            Porta Pia, entusiasmò l’animo degli italiani, inneggiando alla 
            Capitale d’Italia. Riesi, con un simile Sindaco, non poteva restare 
            indifferente. Che fece egli? Chiamata una orchestrina di violinisti, 
            contrabbassi e flauti, iscenò una bella dimostrazione, con bandiere, 
            mettendosi lui a capo. L’avvocato Trapani con la sua fiorita parola, 
            in Piazza Garibaldi fece comprendere il significato del grande 
            avvenimento, il coronamento dell’Italia con Roma Capitale. Così, il 
            popolo abbracciò il liberalismo senza paura, non dando retta ai 
            preti.

            Ratificata, nel ‘70, la legge del 1866 sulla soppressione d beni 
            ecclesiastici, messi all’asta pubblica, molti comprarono delle 
            terre; lo stesso Arciprete D’Antona acquistò una tenuta dei feudo 
            Brigadieci, il Convento e la terra e diversi fondi, fra cui le 
            Schette col Lago di Papardone. Per il suo censo, il Parroco di Riesi 
            poteva fronteggiare col miglior proprietario della Provincia; la sua 
            casa era diventata veramente signorile; quando usciva fuori col suo 
            seguito, tutti gli cedevano il passo e veniva sommamente rispettato: 
            ed ecco perché era pure temuto, lottando anche in nome della Chiesa; 
            ma il Cav. Jannì, nella qualità di Sindaco, seguiva imperterrito la 
            via intrapresa.

            Ed a questo punto, tralasciando per un momento la vita del beneamato 
            Sindaco, per descrivere un’altro avvenimento.

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            Cap. XXV


            il protestantesimo a riesi fin dal 1871


            Per le questioni politiche tra il Sindaco e il Parroco, nel 1871 ne 
            derivò a Riesi il Protestantesimo. Narriamo ciò per conoscenza di 
            causa, perchè siamo stati informati da coloro i quali parteciparono 
            alle lotte.

            Dunque:

            Viveva a Catania, da impiegato Comunale, il concittadino Don 
            Giovanni Giuliana, Fratello del Dottore. Egli frequentava le 
            conferenze evangeliche di quella Città e ne scriveva le i 
            impressioni al fratello al fratello Don Gaetano. Questi faceva 
            leggere le lettere al Sindaco il quale gli fece scrivere di dire al 
            Pastore se poteva recarsi a Riesi, per tenere delle conferenze di 
            propaganda protestantesimo. Il Pastore rispose che occorrevano 
            almeno una dozzina di firme.

            il Sindaco Janni, Capo lista, raccolse 150 firme e mandò la 
            petizione al Pastore. Quando quegli ebbe nelle mani la carta si 
            mosse per venire a Riesi, accompagnato dal Giuliana. Giunti a 
            Barrafranca telegrafarono. Allora, Sindaco, partito liberale, 
            firmatari e curiosi con bandiera, il pomeriggio del 24 Maggio 1871 
            andarono incontro a lu pasturi prutistanti. Arrivati alla Spatazza 
            fecero sosta. Siccome le due guardie Campestri Calogero Bruno 
            Giuseppe Calafato vi andarono a incontrarli fino al paesetto, ed 
            avendoli preceduti apparvero dalla collina di Spamupinato dandone 
            l’avviso, così la folla cominciò a muoversi ; mentre gli aspettati, 
            passato al Vallone fondato di Spampanato, scesero da cavallo per 
            agranchirsi le gambe. Fatta la salita vi furono le debite 
            precauzioni.

            La folla dei dimostranti seguita da altri curiosi, entrò in paese. 
            Nella Piazza Garibaldi, il Pastore evangelico, visto il popolo 
            dinanzi a se disse che occorreva un locale chiuso per la conferenza. 
            Ma dove trovano?... Lì per li l’Avv. Trapani propose la Chiesa di S. 
            Giuseppe. Tutti si riversarono nella Chiesa, ma essa era chiusa, e 
            le chiavi li teneva il Canonico Don Luigi Golisano che trovava si in 
            campagna. La folla sostava lì sull’altura quando il Sindaco, cinta 
            la sciarpa, ordinò ai RR. CC. presenti di fare scassinare le porte. 
            Chiamato il fabbro ferraio mastro Stefano Matera, questi aprì la 
            chiesa e tutto il popolo vi entrò.

            Il Pastore, Sig. Teofilo Malan, valdese, salito sul pulpito, invitò 
            tutti a scoprirsi alla presenza di Dio; indi tenne un conferenza in 
            occasione del XX Settembre. Alla fine volevano applaudirlo, ma il 
            Pastore glielo impedì invitandoli a riunirsi l’indomani alla stessa 
            ora e nel medesimo locale.

            Difatti, a! segnale della campana, suonata dall’Avv. Don Calogero 
            Accardi, la Chiesa fu gremita di uditori d’ogni Ceto.

            Per quattro giorni consecutivi la folla accorse a sentirlo; l’ultimo 
            giorno avvisò che l’indomani sarebbe ripartito per Catania e 
            ritornare la Settimana prossima; ma se non venisse lui avrebbe 
            mandato il fratello da Messina.

            I clericali si quietarono, credendo che si fosse trattato solamente 
            di un pò di chiasso e nient’altro. Ma qua! fu la loro sorpresa 
            allorché videro arrivare l’altro fratello?

            Il Sig. Augusto Malan si presentò al Sindaco, e, la Stessa sera 
            l’Avv. Accardi suonò la campana di S. Giuseppe chiamando il popolo a 
            raccolta.

            I clericali allora si mossero e riferirono l’accaduto al Vescovo di 
            Caltagirone. Questi si rivolse al Prefetto di Caltanissetta, il 
            quale scrisse al Sindaco Janni di eseguire l’immediato rilascio  
            della Chiesa di S. Giuseppe perchè destina al culto cattolico.

            Il Pastore protestante però non si diede per vinto, affittandosi la 
            camera di lu massaru Paolo Mirisola, sita al principio della 
            scalinata della stessa Chiesa. Ivi si tennero le conferenze ogni 
            sera. I due fratelli Malan si alternavano di modo che ne nacquero 
            delle dispute. Fu chiamato dai clericali il filosofo Don Francesco 
            Debilio per confutarli; quegli vi andò e dopo averli ascoltati se ne 
            uscì dicendo: “Sono magazzini di scienza teologica, non si possono 
            confutare”. Poi venne la volta del giovane Sacerdote P. Placido 
            Altovino che appena uscito dai sacri recinti del Seminario, volle 
            spezzare una lancia contro il Protestantesimo.

            Il Sig. T. Malan, rispose alla lettera aperta con un opuscolo 
            intitolato: “UN CANONICO PRESO AL VOLO PER T. MALAN”.

            Sicchè il Protestantesimo fin dal 1871 piantò le sue radici a Riesi; 
            tant’è che in seguito si affittarono i dammusi sotto il palazzo 
            Inglesi, nominarono un pastore a posto fisso e vi impiantarono le 
            scuole evangeliche finché, nel 1897 acquistarono il palazzo Faraci 
            per farne un bel locale proprio, con l’istituto delle scuole 
            elementari d’ambo i sessi che ha sempre furoreggiato.

            Il Prof. Gravina, nel descrivere la storia dei Comuni siciliani, 
            nota a Riesi: “ Una Chiesa evangelica” e ‘”Il Prof. Francesco Paolo 
            Martillaro nella storia e geografia del loco natìo” dice che in 
            Sicilia, Riesi è chiamata: u paisi di li prutistanti.

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            Cap. XXVI


            seguitando la vita del sindaco janni – la causa con la baronia – il 
            processo – condanna - morte

            Ed ora, seguitando le fasi della vita del Sindaco Cav, Giuseppe 
            Jannì, il chimico farmaceutico per eccellenza, vediamo la causa con 
            la Baronia per gli usi civici; il processo contro di lui, la 
            condanna, l’assoluzione, la morte.
            Pria di tutto è bene far conoscere che nel 1872 tutta la proprietà o 
            Stato di Riesi fu divisa a Torino in quattro parti, cioè una parte 
            toccò al Duca di Solferino, una parte agli eredi del Conte Fuentes, 
            e due quote alla Principessa Donna Maria Giron Pignatelli.

            Questo precedente fece sì che vi introdussero qui l’Amministratore 
            generale Don Gaspare Dado da Mazara dal Vallo (Trapani), mentre 
            prima vi era il barone Tumminelli da Caltanissetta.

            Don Gaspare Dado, installatosi qui nella qualità di Arnministratore 
            generale, regnava, si può dire, da compaesano. Egli ci viene 
            descritto da un suo intimo conoscente “uomo dotto, di modi 
            signorili, coi costumi di un angelo” dedito alla botanica, compose 
            un volume interessantissimo su ciò.

            Per questi suoi meriti, e perché Amministratore della Ecc.ma Casa 
            dei Principi Fuentes, sposò la vedova di Don Giovanni Golisano che 
            abitava nel palazzo attiguo alla Baronia. La ricchissima signora, 
            oltre al palazzo, gli portò in dote sei salme di terra tutta 
            bonificata, con ricchi vigneti e casina, sita alla “Contessa”, 
            imparentatosi con i Golisano, il Dado viveva a Riesi una vita molto 
            comoda e signorile, ed era amato e stimato da tutti.

            Non avendo prole, adottarono come figlio certo Michele Di Nolfo di 
            Girolamo, nato da famiglia di poveri contadini, che abitavano nel 
            cortile all’entrata del palazzo.

            Ma il sabato sera della Madonna del 1874 la Signora Golisano, mentre 
            stava affacciata al balcone morì d’un colpo.

            Sicchè il Sig. Dado, rimasto vedovo, fu servito dalla famiglia Di 
            Nolfo. Morto lui nel ‘97 tutta la proprietà passò a Michele, il 
            quale, fuggito con una prima attrice drammatica vendette tutto ed 
            espatriò.

            Venne ad occupare il posto del Dado da Cerignola (Bari) la famiglia 
            dei signori Malleone, che stabilitasi da noi, nel 1880 le figlie 
            apparentarono con la casa del Notaro Giardina, il maschio Peppino 
            sposò pure una loro parente, considerandosi tutti concittadini. 
            Difatti i loro antenati riposano in questi cimiteri, in tombe di 
            famiglia.

            Prima di scomparire dalla scena della vita, Don Gaspare, fu in lotta 
            aspra col Sindaco Cav. Jannì, che ebbe la peggio, a causa degli usi 
            civici.

            Ultimati i lavori della Casa Comunale, nel 1873, nel trasportare le 
            carte dalla Casa Golisano alla nuova sede del Municipio, fu trovata 
            una Carta di memoria per i diritti d’uso civico agli abitanti di 
            Riesi. Sindaco e Giunta, esaminatala intentarono una causa contro la 
            Baronia, autorizzando l’amministratore a stare in giudizio. Il Dado 
            s’impuntò.

            Nell’autunno di quell’anno, alla raccolta delle olive, il Cav. 
            Jannl, avendo un fondo al bosco vicino il paese, vi mandò un o 
            fattore per fare eseguire la raccolta; ma Don Gaspare aveva già dato 
            ordini ai campieri Angelo Lamonaca e il giovane Giuseppe Di Tavi. di 
            non far raccogliere le olive, perché riservate al Barone; e difatti 
            il fattore fu rimandato indietro e minacciato. Allora il Sindaco, 
            cinta la sciarpa, accompagnato dalle guardie si recò sul luogo e 
            fece arrestare i due campieri, i quali condotti in caserma e 
            interrogati dai Carabinieri furono tosto rilasciati.

            In questo caso gli avvocati del Principe, presero la palla in balzo 
            e si querelarono contro il Sindaco di Riesi per abuso di potere. Ciò 
            diede del filo da torcere al Cav. Janni. Difatti nel ‘74, istruito 
            il processo dal Tribunale di Caltanissetta, fu condannato a tre anni 
            di reclusione e alle spese. La Corte di Appello di Palermo gli 
            confermò la sentenza, ma la Cassazione di Roma lo prosciolse 
            dall’accusa cancellandogli la Condanna.

            Durante l’Appello, dopo la condanna, nel 1875, il Sindaco fu 
            destituito, e, ritiratosi a vita privata, continuò a fare del bene. 
            Ma un vespaio, ribelle alla scienza chirurgica, il 9 Gennaio del 
            1879 Io trasse alla tomba all’età di 62 anni.

            Riesi è stata trascurata a non avergli innalzato un monumento 
            davanti il Municipio a ricordo dei meriti e delle virtù dell’uomo 
            insigne che onorò e civilizzò il paese.

            Giacché ci siamo, dobbiamo parlare di un’altro bravo chimico 
            farmacista, contemporaneo al primo, che si fece onore col suo 
            ingegno: egli fu Don Francesco Celestri.

            Nato ne 1833 da Don Giuseppe e Genoveffa Sanfilippo, prosegui gli 
            studi in Palermo, a furia di sacrifici, facendosi distinguere per 
            l’ingegno e la vivacità.

            Laureatosi in chimica farmaceutica, venne ad aprire una piccola, 
            modesta farmacia in un dammuso sito nella Piazza Garibaldi. Per i 
            suo saper fare e l’intelligenza, sposo la ricca Sarina Calafato. 
            Allargando i suoi padiglioni, divenne proprietario oculato, amoroso 
            della casa e della famiglia.

            Nella guerra del 1870, la Francia avendo bisogno d’uno specifico per 
            la polvere, indisse un concorso fra gli scienziati, con un milione 
            di franchi di premio. Il Prof. Blanche vi giunse per il primo e dopo 
            il nostro concittadino farmacista. Egli inventò il solfato 
            Buompensiere servendosi delle materie trovate in quel paesuccio, 
            vicino Caltanissetta.

            Le accademie di Palermo e di Torino, esaminatolo, lo trovarono 
            eccellente. Inviatolo in Francia, la Città di Parigi conferì al 
            cittadino di Riesi una grossa medaglia d’Oro e il Diploma.

            Il farmacista Celestri poteva impiantare uno Stabilimento sul luogo, 
            ma occorreva una grossa somma e spostare la famiglia, cosa che egli 
            non volle fare.

            Nel 1877 fu nominato ispettore delle farmacie provinciali, ma per il 
            troppo lavorio di girare vi rinunziò.

            Il chimico farmacista Don Francesco Celestri, visse fino all’età di 
            anni 71, morendo il 1904, lasciando il bel palazzo fabbricatosi e la 
            famiglia in prospere condizioni.

            Riprendiamo la politica, ora.
             
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            Cap. XXVII


            sindaco l’avv. don pietro d’antona

             

            Subito dopo aver caduto da Sindaco il cav. Giuseppe Janni, il 
            Parroco D’Antona mise avanti il nipote Pietro, figlio del fu Don 
            Luigi e Teresa Debilito, nato nel 1836, il cui genitore morendo 
            raccomandò i suoi tigli al fratello P. Arciprete, che assolvette il 
            suo compito educando ed istruendo i nipoti in casa sua.

            Perciò, Don Pietro D’Antona laureatosi in giurisprudenza, fu 
            proposto a Sindaco. Col  Trapani e il Parroco si recarono a 
            Caltanissetta ove l’Avv. Principe Do Giuseppe Correnti li

            Accompagnò dal Prefetto. Nominato Sindaco D’Antona, tornarono a 
            Riesi col Vice Sindaco Trapani. Da qui ne nacque il partito 
            D’Antona: forte numeroso e ricco.

            Innalzato al potere il nuovo Sindaco, si formò una buona Giunta 
            Amministrativa, chiamando come Assessori -suoi col laboratori – 
            L’Avv. Don Pietro Di Benedetto Manderà, l’Avv. Francesco Rindone, 
            l’Avv. Di Lorenzo e Don Giuseppe Verso.

            Il giovane Avv. Don Pietro Di Benedetto Manderà era tiglio di Don 
            Salvatore e Teresa Manderà una sorella del Giudice Pietro, venuto da 
            Nicosia dopo il ‘60. Il Giudice abitava nelle case del Di Benedetto, 
            attigue alla Pretura, d’onde ne venne l’arco di Menderà.

            Colto, intelligente, il Di Benedetto poteva stare accanto al Trapani 
            e al D’Antona.

            Gli altri nomi li conosciamo. la Giunta era a posto.

             L’Amministrazione D’Antona ossequente a quello che fece e che 
            doveva l l’Amministrazione passata, aggiungendo nuove importanti 
            opere. Però fu lasciato in asso il teatrino, annesso al Municipio e 
            si fece la transazione della causa degli usi civici con la Casa 
            Fuentes. Il Corso V. E. fu subito lastricato, come pure in seguito, 
            furono lastricate la Via del Parroco chiamata Corso Principe 
            Umberto, la Via del Rosario col nome di Principe Garignano e le Vie 
            Debilio e Carlo Alberto.

            A proposito della Via Principe Garignano facciamo rilevare che 
            vicino il Municipio sorse il bel palazzo del massaro Giuseppe 
            Vecchio, il quale servi a dare eleganza e vita a detta Via. E 
            ancora, furono lastricate la Via Cavour e le traverse interne.

            Ora il paesetto contava circa otto mila abitanti ed aveva bisogno di 
            altre opere. Il Sindaco D’Antona fece sbassare le due creste di 
            pietra: quella della discesa della Sagrestia della Madrice e quella 
            della Via o Corso Umberto, in fondo alla di lui casa. Esse, mentre 
            prima si presentavano assai scoscese e intransitabili, divennero poi 
            accessibili e belle, tanto l’una che va laggiù alla Via Timoleonte, 
            quanto l’altra che conduce allo stradale di Ravanusa.

            Lo scannatoio pubblico o Macello al Canale, fu opera deI Sindaco 
            D’Antona, eliminando così lo sconcio di vedere scannare gli animali 
            nelle pubbliche vie, davanti la porta degli stessi macellai, 
            specialmente quelle del Corso, ove le sporcizie si ammassavano. Fece 
            collocare laggiù al Canale, all’angolo del Macello, una pompa a mano 
            per attingere l’acqua dalla sorgente ivi esistente, sorgente che ora 
            non esiste più, essendo stata coperta per maggiore igiene e pulizia, 
            affidando la sorveglianza alle guardie.

            Anco alle campagne pensò il buon Sindaco: aveva fatto costruire al 
            vallone del Figotto un ponticello per il transito dei contadini che 
            si recavano a Figotto e Brigadieci quando le acque erano abbondanti, 
            ingrossando il detto vallone.

            Inoltre fece costruire gli abbeveratoi nelle fontane di Mariano, 
            Sanguisuga e Figotto, facendone spurgare e incanalare l’acqua; al 
            Canale e a Mariano vi fece costruire due lavatoi pubblici di modo 
            che le lavandaie di mestiere tutti i giorni vi andavano a pulire e 
            sciorinare il bucato.

            Lo stradale che va a Mazzarino e il nuovo Carcere Mandamentale al 
            Lago, ritenuto necessario, furono costruiti sotto la reggenza del 
            D’Antona. Esso non arrivò a vedere compiuto quest’ultimo, e il 
            perché lo vediamo dopo.

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            Cap. XXVIII


            la filossera


            Fu sotto la sindacatura del D’Antona che si verificò a Riesi, nel 
            1881, la Filossera che causò la distruzione dei vigneti.

            Ecco come si palesò il male:

            Quel tale Giovanni Calamita, di cui parlammo a proposito del 1848, 
            da fabbro ferraio era diventato un grosso proprietario. Egli 
            acquistò il fondo Cicione vicino al paese, sul margine di sinistra 
            dello stradale di Ravanusa. Vi impiantò un bel vigneto; vi fabbricò 
            una casina, in modo da formare all’intorno una magnifica 
            passeggiata, tanto da conquistarne la denominazione: “allo Stradale 
            di Calamita”. Dall’altro margine comincia il bosco degli oliveti che 
            va fino a Tallarita.

            Quest’uomo, delizioso della sua vigna ove vi trascorreva tutto il 
            tempo, recandosi spesso a Palermo e a Catania, ebbe occasione di 
            comprare alcune magliole d’una qualità speciale che trapiantò fra le 
            sue viti. Le magliole, per caso, erano infette da filossera perché 
            provenienti dalla Francia ed in breve tutto il vigneto fu assalito 
            dal morbo.

            Si palesò il caso in primavera osservando alcuni ceppi  nella 
            fioritura che mostravano le figlie bianche e senza uva. A tale 
            fenomeno il proprietario in parola, ignorando la causa del male, 
            andò a chiedere consiglio al Circolo dei civili ove si trovava anche 
            il Sindaco.

            il Circolo dei civili fu fondato dal partito D’Antona ed era posto 
            nel dammuso della vecchia Caserma, restaurato tale uso a cura del 
            Comune, mettendovi una grata di ferro al principio del marciapiede 
            sull’angolo della piazza e il Corso.

            Ivi dunque, il Sindaco, Trapani ed altri decisero di farsi una 
            passeggiata e constatare il fatto. Ritornati in paese il Sindaco 
            compilò il rapporto per il Ministero dell’Agricoltura, industria e 
            Commercio. li Governo mandò subito sul luogo un Professore di 
            filossera, certo Macagno, il quale constatò che purtroppo c’era il 
            male. 

            Bisognava estirpare le viti e gli alberi dalle radici e bruciarli, 
            circoscrivendo le viti infilosserate. il Calamita non era d’accordo, 
            di modo che, quando arrivarono i filosseristi appositamente mandati, 
            si oppose; ma accorrendo i Carabinieri, lo allontanarono dal fondo 
            minacciandolo di arresto.

            L’uva delle piante non filosserate era matura ed anche essa fu 
            estirpata. Si bruciavano le radici con l’acido solforico; si 
            estirpavano gli alberi senza pietà.

            Don Giovanni si recò a Roma a protestare, ma inutilinente; il 
            Governo pagava solamente L.5 al ceppo e L.25 l’albero. La filossera 
            è un insetto microscopico, invisibile ad occhio

            nudo; attaccandosi alla radice della pianta la corrode facendola 
            diventare colore di tabacco; conseguentemente la vite secca e muore. 
            L’insetto vola e produce migliaia di uova ogni ora, quindi si 
            propaga presto e dappertutto. L’unico rimedio per ucciderlo è di 
            bruciare le piante assieme alle radici.

            Esso insetto ha avuto origine in Francia ed occorrono 50 anni per 
            distruggersi; il terreno infetto da filossera non produce più viti.

            Distrutto il fondo Calamita, si passò ad altri fondi vicini e indi 
            alle altre contrade, lo Stato di Riesi divenne tutto infilosserato.

            Uffici filosseristi; depositi di solfuro; squadre di operai e 
            guardie con casotti si formarono a causa della filossera.

            I proprietari facevano l’ira di Dio. Un reggimento di truppe venne a 
            stabilirsi qui per il mantenimento dell’ordine.

            Però, circolava il denaro, che si guadagnava bene: un contadino 
            aveva L.3, il caporale L.4,50, gli impiegati una buona mesata; oltre 
            una dozzina di professori specializzati comandavano delle squadre 
            che andavano in cerca della filossera, girando per le campagne. 
            Stavano in continuo movimento, passando di campo in campo, e dove 
            trovavano l’insetto vi piantavano bandierine tutt’intorno e il 
            proprietario non poteva più disporre del la terra.

            Il malumore e il malcontento dei proprietari intanto aumentava di 
            giorno in giorno. Finalmente scoppiò la sommossa. .

            Sulla montagna S. Veronica, certo Francesco Di Termine, vi possedeva 
            una ubertosa vigna ; avvisato che l’indomani dovevano esplorare quel 
            campo, lui e i due suoi figli, si armarono di fucile decisi di non 
            fare entrare i filosseristi. E difatti arrivati ivi il Prof. 
            Zerpellone con gli altri, furono puntati; invano cercarono di 
            convincerli, fu inutile Allora mandarono a chiamare la P. S, una 
            compagnia di soldati accasermati a S. Giuseppe e i Carabinieri i 
            quali, incastrata la baionetta partirono in tutta fretta; dietro vi 
            corse il popolo.

            Lo stretto e ripido viottolo, capace appena. di far salire ad uno ad 
            uno, dava l’aspetto che sì andasse a conquistare una fortezza. 
            Arrivati sulla vetta, i Di Termini, con i fucili spianati, non si 
            mossero dal loro posto; il popolo corse in loro aiuto vociando: 
            “Abbasso la filossera!”. Qualche Pietra volò dalla folla ; la cosa 
            man mano diventava più terribile. Ond’ è che per evitare un eccidio, 
            i filosseristi e soldati se ne ritornarono, seguiti dalla folla che 
            continuava a gridare abbasso tirando colpi di pietra all’indirizzo 
            della squadra filosserica che camminava in mezzo ai soldati.

            La folla si fece più grossa e minacciosa. All’imbocco della strada, 
            la sassaiola si fece più fitta e una pietra colpì alla testa lo 
            Zerpellone, producendogli del sangue; qualche soldato fu pure 
            ferito. Le donne si aggiunsero alla sommossa e le grida abbasso la 
            filossera si moltiplicarono. Indi la folla si dileguò nel Corso,

            Quella stradetta poi prese il nome di; “Lo Stretti di Zerbellone”. 
            Lui, rientrato a casa, fu medicato e si curò; i lavori della 
            filossera furono per il momento sospesi sicchè si credette che la 
            cosa dovesse passare liscia. Ma dopo dieci giorni e precisamente la 
            notte del 20 Dicembre di quell’anno, 1882, venuti altri rinforzi di 
            Carabinieri, assediato il paese, circondate le vie e le case, furono 
            arrestati:

            1) I Di Termini, padre e figli; 2) Don Giuseppe Accardi dell’Avv. 
            Calogero; 3) Calogero Riccobene; 4) Calogero Giuliana; 5) Giuseppe 
            Lo Jacona; 6) Rosario Maurici, quali promotori della sommossa. La 
            notte stessa, legati e messi sui carri, furono deportati nel Carcere 
            di Caltanissetta.

            Tra il pianto delle famiglie, l’indomani si aprirono di nuovo i 
            lavori; le viti impregnate di filossera si bruciavano assieme 
            all’uva; la ricerca continuò senza tregua. Fra i campi meravigliosi 
            si distrusse il vigneto dell’ex Sotto Prefetto Francesco Debilio al 
            Lago, il quale, da uomo sennato, non disse nulla.

            Il Sindaco P. D’Antona, per la sua energia dimostrata nel fare 
            eseguire i lavori ordinati, fu nominato Cavaliere della Corona 
            d’Italia. Concentrati i pagamenti nelle sue mani, egli fu imparziale 
            con tutti, dimostrandosi vero uomo politico, specialmente con gli 
            operai.

            La morte dello zio Parroco, nel 1882, fece sì che il Cav. Don Pietro 
            D’Antona, ereditandone la maggiore proprietà, divenne un ricco 
            proprietario di prim’ordine. Il Parroco aveva acquistato il Lago di 
            Patria presso Napoli che gli fruttava una somma considerevole. li 
            Cav. Pietro aveva per sposa la cugina Francesca e quindi.... nel 
            palazzo ereditato c’era la nobile famiglia D’Antona. La prima 
            carrozza a Riesi fu fatta venire da essa famiglia; ma il maggior 
            lusso proveniva dal fratello del Sindaco, Senatore Antonino.

            Conviene a questo Punto lasciare da parte la Chiesa, in balia di se 
            stessa, col suo numeroso e ricco Clero, dato che dopo la morte del 
            Parroco Don Gaetano D’Antona essa perdette il suo prestigio e 
            occupiamoci degli altri avvenimenti.

            Il Cav. P. D’Antona era dunque ben quotato, ben stimato come 
            funzionante.

            Riguardo ai carcerati della sommossa, dopo circa un anno di 
            processura,  comparsi dinanzi il Tribunale di Caltanissetta furono 
            egregiamente difesi dal papà degli Avvocati del Foro nisseno, 
            Giuseppe Correnti, nostro concittadino, essi imputati furono tutti 
            assolti “per insufficienza di prove”.

            Siamo agli ultimi sgoccioli della filossera, i vigneti dello Stato 
            di Riesi furono tutti distrutti ; la terra venne restituita ai 
            proprietari i quali pensarono di sostituire alla vigna il mandorlo; 
            si impiantarono boschi di mandorleti persino sulle serre rocciose. 
            Così lo Stato si arricchì di mandorle per la industria della intrita 
            che ogni anno faceva incassare dei milioni. Il vino veniva importato 
            da Vittoria, facendosi di necessità virtù giaccliè non era più il 
            mosto.

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            Cap. XXIX


            la disgrazia della miniera grande di sommatino


            Sotto la Sindacatura D’Antona, nel 1883, avvenne la disgrazia della 
            Miniera Grande di Sommatino. Questa terribile sciagura colpì Riesi, 
            tanto che per la sua importanza fu d’uopo narrarla.

            Gli zolfatai riesini che lavoravano nella Miniera Grande di 
            Sommatine, il 26 Luglio si recarono al lavoro con lo scopo di fare 
            una doppia giornata. Era giusto l’antivigilia della festa di S. 
            Giuseppe, per cui dovevano riposarsi il sabato. Fatta la prima 
            cacciata la notte, continuarono il giorno a lavorare assieme ai 
            sommatinari. Avendo scavata una profonda mina, accesa la miccia, 
            gridarono di allontanarsi tutti. Caduto lo zolfo gli operai si 
            apprestarono a volere uscire dalla miniera, ma la fiamma della 
            polvere aveva acceso il pulviscolo dello zolfo ivi esistente 
            incendiando tutto il locale di lavorazione mentre il fumo, impedito 
            dal vento a potere uscire, aveva otturato le porte di entrata. I 
            minatori, nel salire le scale, cadevano terra asfissiati, 
            carbonizzati, senza potersi dare aiuto. Fuori, che nulla sapevano 
            dell’accaduto, ne attendevano l’uscita. Dopo lunga e vana attesa 
            impiegato fatto discendere in miniera dentro un vagone l macchina 
            vide il lugubre spettacolo. Subito diede l’allarme, vi fu uno 
            spavento generale fra tutti i presenti, compresi quelli della 
            Miniera Tallarita. Fu telegrafato al Prefetto che rispose subito 
            inviando in aiuto soldati e Carabinieri dai paesi vicini.

            Appena giunta la notizia a Riesi fu un accorrere sul luogo non solo 
            delle famiglie degli zolfatai, ma amiche di cittadini di ogni età e 
            classe. Lo spettacolo si presentò atroce, enorme e commovente… La 
            notizia subito si propagò richiamando sul posto del sinistro gli 
            abitanti di Sommatino e Ravanusa. Chi piangeva il marito, chi il 
            tiglio, chi il padre, chi il fratello, chi il parente o l’amico.... 
            Ad ogni cadavere che si estraeva si rinnovavano le grida di terrore 
            e di dolore! Insomma, le scene di quella memorabile giornata, sono 
            indescrivibili.

            Tutti gli impiegati, operai e militari si distinsero molto nel 
            porgere aiuti e confortare le famiglie dei sinistrati.

            I morti furono 37 di cui 24 riesini. Il buono e generoso Re Umberto 
            I, fu talmente commosso che mandò la somma di L.14.000 da elargire a 
            favore delle famiglie colpite dalla disgrazia.

            Il Sindaco Cav. Don Pietro D’Antona, aggiunse del suo per venire 
            incontro ai bisogni degli orfani, delle vedove e dei genitori dei 
            defunti; inoltre, fece sospendere la festa, rimandando la musica di 
            Delia, che era arrivata la sera precedente, per riguardo al lutto 
            della cittadinanza.

            Il paese, in preda al dolore, si associava a quello di Casamicciola 
            (1883), non sapendosi dar ragione della terribile sciagura toccata a 
            Riesi e i paesi limitrofi.

            Il poeta zolfataio Liborio Ministeri della Miniera Tallarita, che 
            accorse ad incoraggiare ed aiutare i compagni, compose un poemetto 
            in vernacolo, in cui fra l’altro dice:

            A li vintisetti di Luglio,

            Precisi, precisati, senza sbagliu

            Subitu la morti fici trugliu

            E dissi:ala, amara a ccu ‘ncaglia.

            Poeta estemporaneo, Liborio Ministeri, nacque nel 1856 da Vincenzo e 
            Crocifissa Russo. Da bambino all’età di sette anni fu messo al 
            lavoro nelle miniere come caruso presso il di lui padre. Con l’andar 
            degli anni, intelligente com’era, comprese che il saper leggere e 
            scrivere per lui era una necessità, giacchè ideava versi che faceva 
            piacere a sentirti.

            Da giovanetto, Liborio Ministeri, frequentando la scuola serale 
            valdese, allora in voga, ebbe modo di compiere la III classe 
            elementare. Così incominciò a scrivere i suoi versi e pubblicarli, 
            giacchè a quei tempi la stampa costava poco. Affermatosi come poeta, 
            il Ministeri compose e pubblicò diversi poemetti, fra i quali bello: 
            “LU DIALUGU TRA N’A VANGELICU E UN PARRINU” che comincia proprio 
            così:

            Divertitivi genti un mimintinu,

            Ccu sti versi ca fici stu babbunu

            Ca ficiru un terribili baccanu;

            L’avangelicu avia un librittinu

            E spiegava a lu populu l’arcanu.

            Si parti lu preti di superbu chinu

            E cci strappa lu libru di li manu

            In questa guisa continua la zuffa. Il poeta popolare, la domenica 
            vendeva i suoi libretti in piazza. Una volta alcun contadini gli 
            dissero che non compravano i suoi libretti perchè non sapevano 
            leggere, il Ministeri di colpo rispose loro:

            Lamintativi di li vostri patri e matri

            Ca ‘nveci di la scola vi mannavanu a metiri.

            Di simili versi ne compose molti, chec se fossero stati tutti 
            raccolti, se ne avrebbe fatto un bel volunte ; ma bastano i pochi 
            che abbiamo letto per caratterizzare il nostro concittadino. Essendo 
            egli un picconiere alle dipendenze di una ditta francese e dovendo 
            reclamare per la sua partita, scrisse il relativo reclamo per del 
            suo contenuto in versi, tanto che veniva amato e stimato 
            dall’Amministrazione.

            Il suo nome divenuto noto in tutta la Provincia, il Prefetto volle 
            conoscerlo di persona. Il Ministeri, profittando di quella occasione 
            chiese al Prefetto che gli accordasse un posto di cantoniere 
            stradale al fine di togliersi dal faticoso lavoro di minatore. Il 
            Prefetto accolse benevolmente la domanda orale e dopo breve tempo lo 
            fece nominare cantoniere allo stradale di S. Cataldo.

            Disgrazie ne succedono sempre nelle miniere, ma oh... ironia della 
            sorte, essa toccò anche al povero Ministeri: la vigilia della sua 
            partenza, era andato a licenziarsi dall’Amministrazione francese e 
            con i compagni, sceso in miniera, prese gli arnesi per portarseli 
            definitivamente a casa, mentre passava dal cantiere di lavoro, 
            staccatosi un masso improvvisamente dall’alto, gli fracassò il 
            cranio.

            I suoi funerali furono imponenti; L’Amministrazione francese agevolò 
            di molto la famiglia, nonostante ancora non esistesse la legge sugli 
            infortuni.

            Liborio Ministeri fu poeta riesino, bello di gioviale, buono, 
            intelligente e amabile con tutti. Egli lasciò una buona memoria di 
            se.

            Questa ricca Amministrazione di Parigi, di cui abbiamo parlato, fu 
            quella che impiantò le prime macchine per l’estrazione dello zolfo 
            coi vagoni, dall’interno all’esterno, della miniera Tallarita. 
            Venuta essa nel 1887, rinnovando periodicamente l’affitto, vi siede 
            quasi 60 anni, tanto che si consideravano come resini. Uno di essi, 
            certo Emile Bacillon, sposò una ricca riesina della famiglia dei 
            Janni.

            Per ultimate questo capitolo, come coda aggiungiamo il fatto come 
            venne modificata la parola “riesino” da “riisanu” ad opera della 
            chiesa.

            Sdoppiatasi la grande Diocesi di Caltagirone, nel 1885, fu fondata 
            quella di Piazza Armerina. La Chiesa ed il Clero di Riesi 
            conseguentemente furono annesse a questa nuova Diocesi. Il dotto 
            Vescovo Monsignor Gerbino, proveniente da Lipari, corresse la 
            stonatura del nostro aggettivo.

            Così si ebbe il nome di riesino, riesini.

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            Cap. XXX


            il partito liberale dei pasqualino, del poeta Dr. don carmelo 
            lostimolo


            Ritorniamo ancora di alcuni passi indietro, per vedere come si 
            svolse la politica locale dell’Amministrazione D’Antona-Trapani col 
            partito liberale dei Pasqualino-Pasqualino.

            Alternatesi al potete i D‘Antona e Trapani, si trovarono di fronte 
            al nuovo partito liberale dei Pasqualino, dal 1875.

            Sotto il partito liberale dei fratelli Giuseppe e Gaetano 
            Pasqualino-Pasqualino, questi non si perdettero d’animo e 
            cominciarono a lottare da leoni. Essi erano figli dell’Avv. Onofrio, 
            il Giudice che non conosciamo, il quale aveva sposato la figlia del 
            fratello Giuseppe da vedova, dalla quale ebbe quattro maschi e due 
            femmine. I due fratelli Giuseppe e Gaetano si diedero a studiare, 
            mentre  Luigi e Pietro si dedicarono al fondo di Passerello. 
            Intelligenti e studiosi, Giuseppe e Gaetano si diedero alla politica 
            locale, affiancati dai parenti; Giuseppe arrivò a laurearsi, ma 
            Gaetano, ottenuta la licenza liceale, non volle frequentare 
            l’Università accontentandosi di studiare i libri del padre, 
            mettendosi al corrente di tutto lo scibile umano.

            Questi furono i due fratelli Pasqualino-Pasqualino che si imposero 
            all’attenzione dei riesini. Fondato il partito liberale davano del 
            filo da torcere all’Amministrazione D’Antona-Trapani e compagni. 
            L’Avv. Don Giuseppe, sposatosi a Sommatino, lasciò le redini al 
            fratello, il quale da capo partito col suo saper fare, col suo 
            sangue freddo, stava di fronte a quell’Amministrazione Comunale.

            Formatesi le due liste: politica e amministrativa del Comune di 
            Riesi, gli elettori non arrivavano mai a superare il numero di 
            trecento. Erano elettori tutti coloro che pagavano lire cento di 
            tasse e gli ex militari; sicchè il partito popolare Pasqualino 
            doveva presentarsi in lotta con circa cento elettori. Al Consiglio 
            Comunale e al Consiglio Provinciale riportava sempre la disfatta. 
            L’Avv. Don Giuseppe Correnti era diventato Il Presidente del 
            Consiglio Provinciale di Caltanissetta e quindi, come capo della 
            Provincia, teneva tutti i paesi in un pugno. Nella Prefettura, il 
            Correnti, coadiuvato dalla P.S. dominava tutti. Figuratevi perciò 
            con chi aveva da fare il Pasqualino.

            Eppure egli non temeva; nel Consiglio Comunale, alla minoranza, le 
            invettive partivano da sinistra a destra, da una parte all’altra, 
            giungendo alle personalità; e nel rinnovare ogni tre anni il 6 
            percento dei consiglieri, il Pasqualino non arrivava a tirare un 
            ragno dal buco, rimanendo quale era. Alle elezioni generali, poi, la 
            disfatta era completa per cinque anni; ma i suoi cento elettori gli 
            erano fedeli.

            Le elezioni politiche per i Deputati si svolgevano così: Siccome il 
            partito Pasqualino militava con l’estrema sinistra, e appoggiava i 
            Deputati avversi al Governo, così in questo caso la lotta si faceva 
            sempre piu aspra, piu terribile, affrontando la fora e anco il 
            denaro. Col trasformismo di Agostino  Depretis i voti si compravano, 
            di modo che quando il partito liberale credeva di guadagnar terreno 
            otre i cento elettori, la corruzione in ambo i casi lo avvinceva.

            Bisogna quindi far rilevare che, il ponte sul “Salso”, tanto 
            necessario per i zolfatai che con la piena non potevano 
            attraversarlo e quindi impediti di scendere al lavoro o, al 
            contrario, costretti a rimanere in miniera per diversi giorni, era 
            la piattaforma di candidati politici che promettevano e 
            ripromettevano, ma poi, passate le elezioni, il Ponte restava..., 
            nel campo delle promesse da rinnovarsi.

            Se era necessario il ponte sul Salso o fiume Imera, lo dimostra il 
            fatto avvenuto nel 1886, quando, alcuni zolfatai riesini, tornando 
            dal lavoro della miniera Gallitano, si trovarono broccati nel fiume, 
            senza poter passare. Siccome ivi, al passo detto della Caldaia il 
            fiume si bifolca in due rami, così, passato il primo tratto e 
            sopraggiunta all’improvviso la piena restarono sullo scoglio senza 
            potere andare nè avanti nè indietro. Alle grida di aiuto i carusi c
            he avevano passato prima corsero a dare la notizia a Riesi. Molti 
            accorsero sul luogo, e non solo dal paese ma anche dalle due 
miniere.

            Nella notte, la moglie di un zolfataio diede alla luce una bambina. 
            Era il 2 Febbraio, faceva molto freddo, con lo scioglimento delle 
            nevi era venuta la piena.

            L’indomani ai quattro malcapitati gli porsero i cibi con la corda. 
            Nel pomeriggio l’acqua cominciò a scemare e così poterono passare.

            Questo pietoso fatto ci è stato raccontato da uno dei quattro 
            malcapitati di quella terribile, memoranda notte; così possiamo 
            formarcene un’idea della vita fino a quasi tutto il 1800. Come era 
            difficile andare a Caltanissetta. La posta non si aveva che ogni due 
            e magari ogni tre giorni; essa veniva a basto di un mulo che 
            proveniva parte da Mazzarino parte da Ravanusa e si che si era 
            abolito il procaccia che a portava a piedi, partendosi da 
            Caltanissetta, Pietraperzia, Barrafranca, Riesi, Butera, Terranova e 
            viceversa; più tardi poi, si attuò uno sfasciume di carrozza per il 
            servizio postale e sembrò una grande novità; ma anche questo 
            servizio lasciava molto a desiderare, perché, o si sfasciava la 
            carrozza o i cavalli non potevano andare avanti per la via 
            Sommatine-Delia, onde raggiungere Canicatti.

            Altro se non era necessario il ponte sul “Salso”.

            Certamente che il Cav. D’Antona, il cui prestigio aveva aumentato 
            presso il Governo mediante l’appoggio del fratello, Senatore del 
            Regno, lavorò molto per il su menzionato ponte ed arrivò a farlo 
            mettere in deliberazione; ma essendo interprovinciale, bisognava 
            mettere di accordo le due Provincie di Caltanissetta ed Agrigento.

            Ad ogni modo, tanto il partito liberale che il dominante nelle 
            elezioni sia politiche che amministrative facevano assegnamento sul 
            ponte. Il partito Pasqualino che si aveva creato , sperava con ciò 
            di dare un colpo al D’Antona, e, tira e ritira, alla fine si trovava 
            sempre lì.... Laonde il Dottor Don Carmelo Lostimolo, da poeta, 
            riferendosi alle elezioni Pasqualiniane, compose una ottava, tutta 
            di avverbi, dal titolo “Per le elezioni tomaie a vuoto”. La 
            riportiamo perché è una bellezza, una meraviglia, un gioiello:

            Dunque, perciò, sicchè, così, talora,

            Perché, quantunque, nondimeno, intanto,

            Imperocché, giacchè, come talora,

            Qualora, fintantoché, fuori che, frattanto,

            Ciò, conciosiachè, benché, pertanto,

            Di guisa che, anche, per ora,

            Onde, di modo che:dov’è cotanto?

            Il Dott. Lostimolo nacque nel 18i6 da Giuseppe e Agata Janni, 
            agiati, che lo mantennero studiare a Palermo. Lì; oltre la medicina 
            curò il canto e la poesia; dotato d’una bella voce tenorile, calcò 
            le scene assieme alla Carolina Lungher nel Teatro Bellini, 
            riportandosi onore.

            Venuto a Riesi laureato, sposò la ricca Maria Catena Correnti 
            Calafato, per c ui divenne un proprietario; cognato del Cumm. G. 
            Correnti, di conseguenza doveva essere avverso, al

            partito liberale di Pasqualino. Poeta estemporaneo, pubblicò alcune 
            sue poesie in un libretto stampato a Catania nel 1886. Nei suoi 
            versi  il Dott. Lo stimolo si rivela umoristico e faceto.

            Infatti, leggiamolo in quest’altra bella poesia su:

            Oh! Come fugge il tempo e vola e passa!

            Come si spegne sfavillando il lampo!

            Così la vita mia corre e trapassa

            L’ore, i minuti, percorrendo il campo.

            Miete la morte ogni etade e lassa

            Senz’appello, o timore, indugio o scampo.

            Distruggendo il Creato in parte e in massa,

            Mondo malfatto: Ah! Che di rabbia avvampo!! 

            Nel sonetto su Riesi che chiama Altariva, la definisce: “vile e 
            indegna, che Gesù Cristo maledisse, madre di odio e di rancori: 
            senza Religione, ma infamia in usura ”, Terminando: “E non son 
            queste d’Altariva le mura?”.

            Gli altri versi su svariati soggetti, sono tutti in vernacolo cioè 
            in siciliano nostrale. Eccone un saggio di essi: così finisce 
            “lagno” della sua vita:

            Mi putia truvari senza sciatu

            Quannu lassavu lu cantu d’allura.

            Il Dott. Lostimolo mori nel 1893, all’età di 77 anni. Dei suoi figli 
            si distinsero l’Avv. Rosario, valoroso penalista, fecondo parlatore; 
            lo zio voleva farne un avvocato del foro nisseno ma egli preferì 
            star qui con la sua famiglia. Nominato Pretore a Calatafimi 
            (Trapani), vi rinunziò per le stesse ragioni.

            L’Avv. Lostitnolo, nato nel 1848, occupò da noi il posto di Vice 
            Pretore. Pubblicò le sue idee politiche dimostrandosi un liberale. 
            In una  requisitoria contro il Consiglio Comunale di Riesi 
            (D’Antona-Trapani) fece il ritratto del Segretario Don Vincenzo 
            Zagarella, figlio del Dott.. Don Giuseppe che, sedente. da P. M. lo 
            chiamò  sconclusionato, scollacciato, ecc,ecc.

            Se la morte non l’avesse baciato in fronte in eta prematura, l’Avv. 
            Don Rosario Lostimolo, sarebbe stato uno dei tanti. Il fratello 
            Luigi, Notaio, che la spagnuola portò via come una freccia, visse 
            modesto, cultore di scienze notarìli.

            Apprendiamo queste notizie dai superstiti.

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            Cap. XXXI


            l’800 – la nuova vittoria del partito liberale dei pasqualino


            Finalmente, dopo 14 anni di lotte continue, degenerate anche con la 
            stampa di lettere aperte contenenti invettive personali, nel 1889 vi 
            fu la completa vittoria del partito dei Pasqualino.

            A nostro parere due ragioni principali concorsero per la disfatta 
            dell’altro partito dominante. Esse sono state:

            1) La morte del Sindaco titolare Cav Don Pietro D’Antona, avvenuta a 
            Napoli nello stesso anno 1889, per cui ne assunse il potere il ff. 
            Trapani che sperava molto essere nominato titolare, essendo il 
            partito ben compatto; 2)La riforma della nuova legge comunale e 
            provinciale dell’On. Crispi, salito al potere del Governo dopo la 
            morte del Presidente Depretis.Con questa riforma, in base 
            all’art.100, potevano essere elettori tutti gli operai che avevano 
            compiuto il 21esimo anno di età e che si trovavano in possesso del 
            certificato della 4 classe elementare.

            Qui il Pasqualino, cogliendo, come suol dirsi, la palla n balzo, si 
            mosse a far scrivere elettori quanti più ne poté, fra il popolo, che 
            ora contava 11 mila abitanti; la gioventù operaia gli teneva dietro, 
            il modo che lui guadagnava sempre terreno mentre i Cappedda erano 
            scossi. Le liste elettorali, ingrossatesi, arrivarono a 500 
iscritti.

            Aspettavano tutti il tempo del liberalismo, perciò, era naturale che 
            i Pasqualino acquistavano prestigio, nonostante il Correnti mettesse 
            dei bastoni fra le ruote nella politica riesina. Ma ciò, i  Cappedda 
            alla loro volta si agitavano cercando a destra e a sinistra nuovi 
            elettori.

            La lotta politica quindi si era ingaggiata seria. Approssimandosi le 
            elezioni amministrative, nelle domeniche i comizi succedevano a 
            comizi, al fine di fare intendere agli elettori lo scopo della 
            lotta. Come abbiamo detto, il Pasqualino con la sua popolarità, da 
            buon parlatore, lottatore calmo, riscuoteva applausi. Egli era 
            coadiuvato dal giovane avvocato, suo nipote Rosario Pasqualino 
            Vassallo che, intelligente parlatore, iniziava la sua carriera 
            politica, con l’essere candidato al Consiglio Provinciale.

            Anche il Trapani con la sua facondia sapeva ben parlare al pubblico, 
            ma per quanto facesse e dicesse, alcuni dei suoi, vista la cosa mala 
            presa, lo abbandonarono.

            Perciò, con i cento elettori pasqualiniani fermi, uniti ai nuovi di 
            giorno in giorno crescenti, non c’era da dubitare che la vittoria 
            doveva arridere al partito liberale.

            La lista dei 30 consiglieri comunali era composta in maggior parte 
            di buoni operai; i due consiglieri provinciali erano i Pasqualino 
            Gaetano e Rosario e dei partito contrario Correnti e l’Avv. 
            Civilista Gaetano Giardina. Gli elettori d’ambo le parti erano 
            preparati dunque alla battaglia elettorale:l’arma era la scheda.

            La settimana del 28 Ottobre era molto movimentata.

            I galoppini dei due partiti, che aspettavano il giorno delle 
            elezioni come l’acqua nel mese di Maggio, si affaticavano di qua e 
            di la in cerca di voti.

            Bisogna spiegare un pò cos’era il galoppinismo dell’epoca passata, 
            per conoscere come si svolgevano le elezioni politiche ed 
            amministrative. Fra gli elettori e non elettori vi stavano i mezzani 
            di voti che, a seconda del caso, li compravano a caro prezzo; gli 
            elettori deboli si intimorivano; si formavano delle squadre per 
            pattugliare e sorvegliare la sera; i capi se ne stavano a casa dando 
            ordini e denaro, col quale i messeri gozzovigliavano. Incontrandosi 
            i galoppini prò e contro, si baruffavano. Un distaccamento di 
            soldati e rinforzi di Carabinieri venivano per il mantenimento 
            dell’ordine pubblico.

            Faceva parte del partito liberale il giovane a 21 anni Don Carmelo 
            Inglesi di Giuseppe Antonio che, sposata la figlia unica dello zio, 
            era diventato il più ricco proprietario di Riesi ereditando tutta la 
            proprietà del defunto zio e la porzione dei suoi genitori; perciò la 
            di lui casa era il refrigerio dei galoppini.

            La vigilia delle elezioni, essendo di sabato, il lavoro si 
            intensificò, si raddoppiò; la notte specialmente, l’attività di 
            questa specie di bravi — direbbe il Manzoni - fu sorprendente; nei 
            diversi quartieri si sparava, si scambiavano schede, si impauriva: 
            un capoccia del partito dominante, battagliero, ebbe assediata la 
            casa e per tutta la notte non fu fatto uscire.

            Tutto ciò si commetteva in barba alla Forza Pubblica, la quale 
            accorrendo, sbandava la mischia per il momento, ma poi.... le lotte 
            civili ricominciavano.

            Il giorno di quelle elezioni, domenica, dalla mattina si vede il bel 
            tempo, l’animazione era insolita. Nessuno mancava degli elettori. 
            Formatosi il Seggio provvisorio, nelle due Sezioni del Municipio e 
            della Chiesetta del Crocifisso, sotto magistrati della legge, gli 
            elettori affluivano a depositare le schede dentro le urne, il popolo 
            gridava viva e abbasso: viva, per i Pasqualino; abbasso, per gli 
            altri. Nelle sale delle elezioni, voci e proteste echeggiavano a più 
            non posso.

            S prevedeva la completa disfatta dell’altro partito.

            Lo scrutinio risultò a favore dei liberali; allora questi, 
            incoraggiati dalla prima vittoria riportata, organizzarono una 
            grande dimostrazione con bandiere alla testa, percorrendo  le vie 
            del paese. La notte, saputosi il risultato definitivo, le donne, 
            affacciatesi, gridavano pure evviva. L’indomani, con la musica. alla 
            testa e bandiere più numerose, si rinnovò ancor più solenne la 
            dimostrazione. Per più giorni il giubilo non cessò.

            Appena saputasi la notizia a Caltanissetta, anche lì il partito 
            liberale inscenò una calorosa dimostrazione col grido di Viva Riesi!

            Possiamo affermare, senza tema di esagerazione, che tutti gli occhi 
            dei paesi della Provincia si rivolsero con simpatia al partito 
            liberale dei Pasqualino in Riesi.

            La caduta del Correnti provocò del malumore, delle critiche; ma il 
            giovane Avv. Nino Verso Mendola, in proposito, scrisse un articolo 
            di cui fra l’altro diceva: “ Riesi, Signori Sagrestani, è stato in 
            Provincia l’antesignano di ogni nobile fatto che se fosse stato 
            meglio amministrato, oggi sarebbe all’altezza di uno dei Comuni del 
            Settentrione d’Italia

            Insediatosi al Municipio il nuovo Consiglio Comunale, con a capo il 
            Sindaco Avv. Don Gaetano Pasqualino Pasqualino, Consigliere 
            provinciale in Caltanissetta, assieme al nipote, sollecitarono la 
            costruzione del sospirato ponte Imera sul “Salso”. Verificatasi un 
            poco di miseria a cagione della crisi zolfifera nel 1890, si diede 
            lavoro a tutti nella detta costruzione. Quest’opera d’arte fu 
            completata dopo due anni, nel 1892.

            Il primo atto energico del Sindaco liberale fu quello di aver fatto 
            togliere la grata di ferro dal Casino dei civili, rendendo liberi la 
            Piazza Garibaldi e il Corso V. E.

            Il paese però rimase come prima. Il Pasqualino, con le sue idee 
            politiche, incominciò ad essere avversato per le seguenti ragioni:

            1) Perché nel 1890 patrocinò al Parlamento Nazionale la candidatura 
            dell’On. Colajanni, contrariamente alle disposizioni Prefettizie; 

            2) Perché neI 1892, nella candidatura di Tommaso Palamenghi al 
            Collegio di Gela, lui si dichiarò personalmente contrario, lasciando 
            liberi il Consiglio e gli elettori.

            Il partito caduto, profittando di questo, si insinuò presso il 
            Governo a mezzo dell’On. Palamenghi Crispi. E difatti, il Marchese 
            Zuliani venne ad ispezionar il Municipio di Riesi. Si disse che 
            trovò tutto in ordine; ma la verità fu che le sorti del Consiglio 
            Comunale si decisero dopo, in casa del Sotto Prefetto Debilio.

            Intanto il Pasqualino, credendosi forte, continuava impavido la sua 
            via. Nel frattempo le liste elettorali gli si erano accresciute di 
            1200 elettori, quasi tutti da parte del popolo; e quindi fidava su 
            se stesso e sugli altri.

            Don Gaetano commetteva degli errori per non ascoltare i consigli dei 
            suoi amici.

            Durante il suo potere si ultimò il nuovo Carcere; si accomodò la 
            lunga saia, pericolosa, che partendo davanti la casa Accardi e 
            passando per il detto Carcere, va a sboccare al Vallone della 
            Sanguisuga.

            A proposito di detta Saia rammentiamo che una sera di Ottobre d 
            1901, mentre pioveva forte ed era piena, una povera donna del 
            quartiere, volendo passare all’altra sponda, vi cadde e fu 
            trascinata dalla corrente. Alle grida accorsero il marito, i figli, 
            i parenti, i vicini coi lumi; si sparò chiamando soccorso, ma fu 
            inutile. L’indomani fu trovata morta al vallone della Sanguisuga, 
            vicino al Cimitero.

            Sotto la Sindacatura del Pasqualino, il paese cresceva, s allargava 
            di nuove case, formandosi delle nuove vie verso lo stradale di 
            Mariano, al nuovo Carcere, lo stradale di Ravanusa, Calamita ; verso 
            la via Scifano, alla via Larga, dov’è la lunga via che dal punticino 
            della Saia va fino al Canale e che ora è divisa in due nomi: 
            Vittorio Veneto e via del Littorio; l’altra lunga, diritta via 
            Cairoli che dallo stradale scende fino a Schifano. Ivi sono sorte 
            delle belle case con camerette fra le traverse le nuove case  dei 
            contadini, zolfatai, operai e commercianti continuano a sorgere 
            camode, pulite.

            In conseguenza di tutto ciò, il paese coi suoi diversi quartieri, e 
            i rioni, al tempo di Pasqualino contava 12 mila abitanti.

            il popolo quindi si muoveva, si istruiva, migliorava aspettando 
            nuove opere pubbliche, ma... è meglio non parlarne. Narriamo 
            piuttosto il fatto doloroso di un uomo idrofobo, avvenuto nel 1889. 
            ln una pagina triste della storia di Riesi.

            Tal Giuseppe Vinci, zolfataio, fatta la sua giornata di lavoro, se 
            ne veniva con i suoi compagni dalla miniera Tallarita. 
            Tranquillamente discorrendo si mangiava un tozzo di pane ed aveva in 
            mano un coltello. Tutto ad un tratto vedono scendere dal punto 
            denominato dalla Portella, un cane idrofobo. Siccome il Vinci era 
            avanti ed aveva smesso di mangiare, chiuso il coltello, il cane 
            quando gli fu vicino gli si avventò e lo morse alla mano; gli altri 
            si guardarono, si allontanarono, lo cacciarono a colpi di pietra. I 
            contadini dei dintorni si allarmarono e prima che l’animale 
            giungesse alla miniera l’uccisero.

            L’operaio morsicato vistosi un poco di sangue, se lo sugò 
            asciugandosi la ferita col fazzoletto; seguitando a camminare 
            andavano scherzando credendo che fosse una cosa da nulla. Giunto a 
            casa disse ridendo alla moglie e ai figli che era stato morsicato da 
            un cane arrabbiato e che dovevano guardarsi. Non ci si badò e non se 
            ne preoccuparono, tanto piu che la ferita era rimarginata.

            Ebbene, ai 40 giorni precisi, quell’uomo a mezzanotte, svegliatosi, 
            ebbe i primi sintomi dell’idrofobia. La moglie vistolo guaire, 
            saltando giù dal letto in camicia, trascinandosi i bimbi, va a 
            svegliare i suoi genitori, i quali accorsi gli chiusero la porta a 
            chiave. Al rumore, svegliatisi i vicini di via Parroco, accorsero 
            constatando il caso orribile, pietoso: dietro la porta ascoltavano i 
            guaiti come un cane. Fattosi giorno. informate le Autorità, una 
            folla di curiosi si riversò la. Il Sindaco Pasqualino ordinò 
            immediatamente di fare una grata di l’erro e murarla davanti la 
            casa, atterrando la porta. Il povero uomo idrofobo in tutta la sua 
            deformità, pieno di bava alla bocca, non riconosceva i fratelli, gli 
            amici; non voleva nulla,

            Per diversi giorni, il paese rimase in preda al terrore, sotto 
            l’incubo della trepidazione, tanto che una sera un burlone 
            lasciandosi dire che l’uomo idrofobo era scappato, in un momento 
            tutte le porte si chiusero, temendo un malanno. Finalmente la 
            Prefettura ordinò di fucilarlo; laonde per evitare questo triste 
            spettacolo al popolo, decisero di farlo avvelenare dai parenti. In 
            una fetta di mela, a debita distanza, lo indussero . mangiarla: 
            appena messesela alle labbra, Giuseppe Vinci cadde come “corpo morto 
            cadavere”.

            L’Amministrazione Comunale del Pasqualetto allora mise in Bilancio 
            la somma per un accalappiatore.

            Questa Amministrazione Comunale ebbe vita quattro anni.

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            Cap. XXXII


            scioglimento del consiglio comunale – R.commissario l’ex prefetto 
            debilio


            Con Regio Decreto del 5 Aprile 1893 venne sciolto il Consiglio 
            Comunale di Riesi. L’accusa fu trovata nell’aver firmato il Sindaco 
            alcuni espropri all’Esattore, ingiustamente. Gli imbastirono un 
             processo che a dir dell’On. Colajanni (Avvenimenti di Sicilia) fu 
            per esito politico; difatti proseguendosi l’istruzione, l’ex Sindaco 
            Gaetano Pasqualino fu prosciolto poi dall’accusa.

            A R. Commissario fu nominato l’ex Sotto Prefetto Avv. Dott. 
            Francesco Debilio, nostro concittadino.

            Il Cav. F. Debilio, era figlio di Don Rosario e Anna Inglesi. 
            Laureatosi in giurisprudenza nel 1860, andò da giovane a fare gli 
            esami di Pretore Mandamentale a Gela e vi restò. Con un altro esame 
            fu nominato

            Sotto Prefetto col nuovo Governo italiano, Da Catania fu mandato ad 
            Aci Reale,  trasferito a Nicosia, ivi distrusse il brigantaggio; 
            poscia a Caltagirone, e per breve tempo Prefetto a Cosenza.

            Dopo trent’anni di lodevole servizio si ritirò in questa sua patria, 
            curando la sua estesa proprietà e la sua famiglia.

            Durante la sua breve gestione di sei mesi, il Cav. Debilio, diede 
            prova di saper fare; oculato Amministratore, oltre a lasciare 
            l’intero stipendio a beneficio del Comune, con le sue economie, 
            l’onestà, la rettitudine, si dedicò a delle opere pubbliche. La 
            prima cosa ch’egli fece fu di far recintare di muri il nuovo 
            Cimitero, facendo togliere le tavole, perché il sacro luogo sembrava 
            una mandra e i cani vi saltavano dentro, asportando i resti dei 
            cadaveri. Fece in economia riattare le strade del Carcere vecchio, 
            Pietrapiatta e Nocilla. Il bravo funzionario fece fare, in tubi di 
            ghisa, le condutture delle acque al Canale e alla Sanguisuga, per 
            l’igiene.

            Il tempo gli mancò al R. Commissario Debilio, perchè le Elezioni 
            Amministrative furono puntate per la terza Domenica di Ottobre. In 
            questo mentre i Cappedda si riorganizzarono per dare addosso al 
            partito liberale; d’altra parte il Pasqualino, forte del suo 
            partito, contava sui suoi elettori. Ma si ingannò! Il Cav. Don 
            Carmelo Inglesi lo abbandonò, passando alle file dei  signori; egli 
            denaroso prodigo che aveva fatto il banchetto all’On. Palameghi 
            Crispi, ci teneva ad abbattere il Pasqualino.

            Quindi si mise in campo la corruzione elettorale su larga scala. Gli 
            elettori del Pasqualino, poveri operai, si vedevano per le vie e si 
            vendevano il voto per una mangiata di pasta; vi furono di quelli ben 
            pagati. Sembra una esagerazione il dire che un Consigliere della 
            Lista pasqualiniana, si vendette e andò a votare contro se stesso. 
            Eppure vero. Il galoppinismo in questo caso, vedendo che c’era da 
            rodere dalla parte dei signori, raddoppiò di zelo. Pochi, pochissimi 
            furono coloro i quali si mostrarono fedeli al partito liberale.

            Il giorno delle Elezioni i due partiti scesero in lotta. Don Gaetano 
            si accorse del mal tempo, ma pure bisognava lottare, non per 
            vincere, ma per perdere. Nelle sale delle Elezioni le sue proteste 
            erano accolte con urli e fischi. Il risultato fu la completa 
            disfatta. Il ‘93 cancellò l’89. La politica fece restare al suo 
            posto di Consigliere Provinciale il giovane avvocato R. Pasqualino 
            Vassallo, mentre io zio rimase fermo nelle sue idee, continuando a 
            lottare. Egli sapeva star bene all’opposizione. Riguardo all’ex 
            Sotto Prefetto, rimase estraneo alla politica locale. Visse fino ai 
            1894 morendo alla bella età di 74 anni.

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            Cap. XXXIII


            la nuova amministrazione comunale sindaco in cav. carmelo inglesi


             L’Avv. Don Francesco Trapani che reggeva il timone del partito, 
            propose a Sindaco il Cav. Don Carmelo Inglesi, resosi stavolta 
            benemerito al partito dei Cappedda, e Vice Sin lui, nelle cui mani 
            era concentrata l’amministrazione.

            In seguito alla nomina a Sindaco titolare e al prestato giuramento, 
            si formò la Giunta Comunale con l’Avv. Di Benedetto, certo Mario 
            Auci e Don Francesco Rindone. Indi incominciarono le lotte.

            Con i nuovi ordini si doveva fare un po di chiasso. Eccoli pensare 
            alla manutenzione delle strade, allo spurgamento delle sorgenti, ed 
            altro.

             Passato questo primo impeto, si ritornò allo stato Primiero: opere 
            nuove non ne sorsero più; miglioramenti, niente.

            Il Cav. Inglesi, da Sindaco, era accerchiato da tanti satelliti, i 
            quali lo sfruttavano maledettamente. Egli, di carattere debole 
            sebbene onesto, dava retta ai suoi amici che lo traviavano come 
            volevano.

            Ma, e il paese?... Restava lo stesso, senza fare un passo avanti 
            nella via del progresso civile.

            Al Municipio, ritornarono a governare i Cappedda, come una volta, Il 
            Pasqualino vedendo ciò, al Consiglio Comunale faceva l’ira di Dio; 
            ma veniva spesso soffocato dalle voci. La opposizione che aveva 
            sempre ragione.... non aveva ragione. Il popolo cominciò di nuovo ad 
            affiancare il Pasqualino. Questa lottava in nome dei principi 
            estremi. Si erano istituiti in Sicilia i fasci dei lavoratori, con 
            programma spiccatamente socialista, contro il Governo e contro i 
            Signori.

            Don Gaetano fondò il fascio di Riesi, a scopo locale, per avere i 
            voti degli elettori. I Signori, spaventati, si accanirono 
            maggiormente contro di lui; la P.S. guardava di mal occhio non solo 
            il Capo, ma anche i gregari. Eppure il fascio dei lavoratori di 
            Riesi contava 700 uomini. La bandiera rossa, le coccarde, le 
            conferenze; tenevano desta l’attenzione della popolazione.

             Quindi la lotta era diventata aspra quanto mai. I capi del partito 
            socialista andavano predicando per tutta l’isola il finimondo. Lo 
            stesso Governo dell’On. Di Rudini era incapace di frenare, di 
            reprimere il movimento rivoluzionario. E qui a Riesi, il Sindaco 
            Inglesi era furibondo contro i socialisti. Però, ad onor del verità 
            da noi si predicava la calma; ma con tutto ciò si temeva chi sa che 
            cosa!...

             L’Amministrazione Comunale stava all’erta; Sindaco, consiglieri e 
            proprietari non dormivano tranquilli; il Pasqualino, nella qualità 
            di presidente del Fascio, tutte le sere, nel dammuso sotto la casa 
            di Donna Maria La Rutella adunava operai, contadini, e zolfatai, 
            tenendo loro conferenze. Carabinieri e guardie pattugliavano, 
            sorvegliavano continuamente i locali senza che si verificasse il 
            benché minimo incidente; il fracasso prodotto di battimani si 
            sentiva di fuori, ciò che adontava maggiormente il Cav. Inglesi, che 
            ad ogni costo voleva la testa del Pasqualino.

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             Cap. XXXIV


            lo “stato di assedio” - 1894


            La propaganda socialista si degenerò in tumulti, rivolte, saccheggi, 
            incidenti; l’On. De Felice e Compagni andavano predicando che: siamo 
            al principio della fine; i contadini, ai quali si era dato ad 
            intendere la divisione delle terre, si armarono qua e là successero 
            dei disastri e danni. A Monreale atterrarono i casotti daziari e li 
            incendiarono; a Gibellina vi furono delle uccisioni; a Valguarnera 
            appiccarono il fuoco al Municipio, fecero scappare Sindaco e 
            proprietari; a Pietraperzia i contadini si attaccarono con i soldati 
            e vi furono morti e feriti. Il male era contagioso. La Sicilia era 
            in fiamme. Bisognava reprimere, arrestare la rivoluzione.

            Come?

            Ogni giorno se ne sentiva una. Tutti i paesi della Sicilia e della 
            Lunigiana (Toscana) erano in subbuglio.

            Richiamato al potere l’On. Crispi, con mano di ferro strinse i 
            freni, mettendo lo Stato di assedio. Mandò subito il conte generale 
            Morra di Lavriano a  Palermo. L’indomani stesso il Comandante del 
            12” Corpo di Armata, fece arrestare in Palermo l’On. De Felice e 
            Comp. Nelle città i ci furono arrestati; indi proclamò il disarmo. 
            Vi fu il fuggi fuggi.

            A Riesi che non c’era stato niente, che anzi il Fascio fu dichiarato 
            apocrifo, sconfessato dagli stessi socialisti, perché di mire 
            locali; che anzi si predicava la calma, si era tranquilli; lo stesso 
            Pasqualino diceva di non aver paura; ma venuti i soldati per il 
            disarmo, non fu così. La notte del 14 Gennaio .1894 furono 
            arrestati: il giovane Avv. Gaetano Debilito; Don  Salvatore Di 
            Benedetto, sarto; Gaetano Fasula, armaiolo; Francesco Giaquinta, 
            proprietario; Cataldo Girgenti, contadino: Francesco Golino, 
            falegname. L’Avv. Gaetano Pasqualino, il Notaro Giuseppe, Giovanni 
            La Leggia, zolfataio e certi altri, avvisati, scapparono.

            Figuriamoci quindi la costernazione delle famiglie. La nota degli 
            arrestati formata in casa del Sindaco cav. Inglesi, era di 120, 
            anche i sospetti, gli amici del Pasqualino, dovevano essere 
            arrestati. La sera essi prendevano il largo fra le campagne, al lume 
            di giornali accesi: soldati e carabinieri, di giorno e di notte 
            erano in moto: le grette nella notte erano piene di fuggiaschi.

            A poco a poco, fatto il disarmo, le cose si andavano quietando. Il 
            generale Murra informato esattamente delle cose di Riesi, dopo 22 
            giorni fece uscire i carcerati, dando ordine di lasciar liberi i 
            cittadini. Don Gaetano Pasqualino che era stato a Palermo, nascosto, 
            a cercar documenti sulla rivendica degli usi civici, ricomparve a 
            Riesi come se nulla fosse stato per lui; gli amici gli si strinsero 
            di nuovo intorno. Ben presto ricominciarono le lotte dei due 
            partiti. Egli con la solita sua calma, con la sua facile, bella 
            parola, metteva scompiglio all’Amministrazione Comunale dello 
            lnglesi ma non per questo il partito dominante cessava di 
            amministrare il Comune a modo suo. Esso coi cappedda era unito e si 
            credeva forte. Allora il Pasqualino, per attirarsi di più la 
            popolarità, iniziò la causa degli usi civici, fon la Società di 
            Resistenza contro gli ex baroni di Riesj. Con essa si andò prima 
            dinanzi al Prefetto ripartitore e dopo davanti il Tribunale Civile. 
            Gli Amministratori dei principi andavano e venivano da Caltanissetta 
            per le comparse dei loro Avvocati.

            Siccome nel 1886 tutta la proprietà fu divisa in tre rami di 
            Amministrazione così gli Amministratori erano tre: il duca di 
            Solferino che si fece fabbricare il palazzo in piazza Garibaldi; la 
            principessa Giron e i Principi Piguatelli Fuentes. Lo Stato di 
            assedio, come conseguenza, portò la causa degli usi civici.

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            Cap. XXXV


            l’arresto del cav. inlgesi - sindaco l’avv. p. di benedetto – 
            l’acqua potabile – causa degli usi civici – sentenza favorevole


            Il secolo XVIII si chiude con l’arresto del Sindaco Cav. Don Carmelo 
            Inglesi e si apre con altri avvenimenti importanti. Vale la pena 
            narrarli alla generazione presente, acciocché sappia valutare uomini 
            e cose.

            Coinvolto in un processo per Associazione a delinquere il 
            Cav.Inglesi fu arrestato un pomeriggio del mese di Maggio del 1900, 
            mentre veniva .dal Pantano in carrozza assieme alla famiglia. Giunti 
            al bivio di Mariano, il Maresciallo e due Carabinieri, intimato il 
            fermo, lo fecero scendere, conducendolo in Caserma, da dove fu fatto 
            partire per il Carcere di Caltanissetta.

            Per quanto si vociferava in paese egli cercava scansarsela, 
            l’arresto dello Inglesi fu sensazionale. La famiglia i numerosi 
            parenti, gli amici, fecero di tutto per liberarlo, per ottenergli la 
            libertà provvisoria, ma fu inutile,

            Imputato per favoreggiamento ad una banda i falsi monetari catanesi, 
            patì la processura di circa un anno e alla causa fu assolto “per non 
            provata reità”. Uscito di carcere, ritornò a Riesi, dove gli si fece 
            una dimostrazione. 

            Il posto di Sindaco intanto lo aveva occupato il Sig. Pietro Di 
            Benedetto Manderà di cui conosciamo i meriti. Per non sconquassare 
            il partito, il Trapani pensò bene di far nominare il detto signore 
            che oltre all’essere intelligente e colto, era ben censito. Uomo 
            energico, accorto, si fece amico dell’ex Sindaco che gli era 
            favorevole.

            All’opera il Sindaco Di Benedetto si dimostrò perito nel sapere fare 
            e agire. Vide che il paese aveva bisogno dell’acqua, perché quella 
            del Canale non bastava più ed inoltre non era potabile. Allora 
            scelse quella del Pantano, il cui bacino era sufficiente e potabile 
            per i bisogni dei cittadini; d’accordo con Inglesi, si cominciò a 
            lavorare per l’impresa di quella bella e grande opera. Qui il 
            Sindaco si trovò in disaccordo col Trapani, e il Pasqualino capo 
            dell’opposizione, i quali mettevano dei bastoni nelle ruote i non 
            far succedere la venuta a Riesi dell’acqua Pantano perché ci 
            volevano pure le fognature, altrimenti il paese era nel fango e 
            perché ci voleva una grande

            spesa. Ma il Di Benedetto insistendo sosteneva che bisognava 
            dissetare un popolo di 13 mila abitanti per la penuria che c’era 
            d’acqua: difatti al Canale succedevano continue baruffe per questo; 
            l’acqua di Mariano della Sanguisuga si vendeva a caro prezzo, beato 
            chi la poteva avere; gli acquaioli o saccari, erano presi di 
            assalto. Ad ogni modo l’acqua nel 1904 venne, bella, limpida, 
            scorrevole per le. vie con le fontanelle e in tutte le case, i 
            rubinetti.  Parve un sollievo pei il popolo; il Sindaco si rese 
            benemerito.

            Visto così il Trapani, al fatto compiuto si arrese, scrivendo la 
            magnifica dicitura alla vasca ed il Pasqualino per non perdere la 
            popolarità si diede anima e corpo alla rivendicazione degli usi 
            civici, insistendo nella causa. E il bravo Sindaco, fece un passo 
            avanti, mostrandosi liberale con l’unirsi col Pasqualino contro la 
            Baronia. Così la causa fu avocata anche dal Consiglio Comunale.

            L’unione dei due Capi fu accolta con giubila dal popolo. Essi si 
            recarono a Napoli per consultare i due grandi avvocati Gianturco e 
            Salandra in merito ai diritti, mettendo in campo la Carta di 
memoria.

            Ritornati qui, si disse che la vittoria era sicura. E difatti il 
            Tribunale Civile di Caltanissetta, dando ragione ai cittadini del 
            Comune di Riesi nella causa degli usi civici, ne ordinava 
            l’immissione in possesso dei feudi Palladio e Spampinato, salvo a 
            provare, i principi, la falsità della Carta di memoria.

            La Sentenza fu accolta con giubilo. Una grande dimostrazione 
            d’affetto si fece ai due patrocinatori dei diritti del popolo 
            l’entusiasmo giunse al colmo. Il Sindaco Di Benedetto in questo caso 
            aveva rivendicato l’onta dello zio Cav. Janni, poiché aveva la 
            nipote Donna Giovannina.

            Bisognava ora prendere possesso delle terre, ma si mise pane e 
            tempo. I principi mandarono ad offrire al Comune, à mezzo dell’Avv. 
            Gaetano Baglio che allora trovavasi a Caltanissetta quale Segretario 
            dell’Assicurazione zolfifera, la somma di 450 mila lire a patto però 
            di fondare un Ospedale per la popolazione riesina, ma i due uomini 
            rifiutarono, aspettando miglior tempo per il possesso. In questo 
            mentre i principi, a mezzo dei loro avvocati sporsero appello per 
            falso incidente, impugnando la CarIa di memoria presso la Corte di 
            Appello di Palermo, la quale diede ragione ai principi, perché i 
            periti calligrafi trovarono falsa la sopradetta Carta; Municipio e 
            società ricorsero alla Cassazione di Roma.

            Lasciando correre le cose della causa nelle mani della Giustizia, 
            occupiamoci di politica paesana.

            Continuando l’unione del partito liberale col Sindaco,, in seno al 
            Consiglio Comunale erano scoppiati dei dissidi; alcuni consiglieri 
            si erano distaccati dal partito Di Benedetto—Pasqualino, di modo che 
            la barca municipale  tentava di naufragare. Il consigliere 
            provinciale Avv, Pasqualino Vassallo, clic teneva il timone a 
            Caltanissetta, consigliò al Di Benedetto, nominato cavaliere, di 
            formarsi la maggioranza del consiglio e dimet tersi, facendo 
            nominare un’altro al suo posto; anche Don Gaetano approvò tale 
            proposta, occupandosi per la ricerca di un nuovo Sindaco per 
            governare liberalmente il paese.

            Il Cav. Di Benedetto e il Pasqualino Gaetano, di comune accordo, 
            scelsero fra i consiglieri chi poteva essere il miglior quotato, per 
            metterlo al posto di Sindaco.

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            Cap. XXXVI


            l’avv. G. carlo golisano sindaco – il primo centenario di garibaldi 
            solennemente festeggiato


            A succedere al posto di Sindaco, in sostituzione del Cav. Di 
            Benedetto, fu designato l’Avv. Giuseppe Carlo Golisano. Tale nomina 
            fu accolta con soddisfazione dal paese.

            L’Avv. G. C. Golisano, figlio di Don Rosario e di Donna Teresa 
            Pasqualino, si laureò in giurisprudenza, assieme al cugino R. 
            Pasqualino Vassallo. Fu per breve tempo Vice Pretore. Apparentato 
            con l’ex Sotto Prefetto Debilio, ebbe due doti, poiché gli morì la 
            prima moglie. Datosi alla frutticoltura, migliorò il suo fondo di 
            Birrigiuolo dove vi fece nascere una graziosa villa, dedicata alla 
            figlia Rosina. La preziosa acqua, una vasca ed una grotta 
            artificiale, nonchè una bella casina, ne fecero un eccellente 
            ritrovo.

            Fu per queste migliorie che meritò la Croce di Cavaliere. 
            Appassionato del suo fondo, amante della famiglia, di rado si vedeva 
            in paese. Amava la musica, le arti belle, la poesia e la 
letteratura.

            Nominato ed accettata la Sindacatura, si propose di voler fare 
            grandi cose per il suo paese; ma il tempo gli mancò.

            Però fece costruire dei bastioni lungo la Via Vittorio Veneto, già 
             Timoleonte; badò alla pulizia, alla illuminazione, all’Annona.

            Nello stesso anno (1907) il 7 Luglio ricorreva il primo centenario 
            della nascita del leggendario Eroe dei due Monti, del fatidico 
            Condottiero delle camicie rosse.

            Questa data si doveva festeggiare dal partito liberale di Roma, ma 
            si ostacolava seriamente da parte del Governo, di modo che nei paesi 
            si era costretti a tacere.

            Ma qui però, un gruppo di giovani operai liberali, arditi, 
            lanciarono l’idea di far qualche cosa a qualunque costo.

            Essi furono presi per pazzi, ostacolati, minacciati; ma non si 
            scoraggiarono. Formatosi un comitato, andavano raccogliendo fondi 
            per le spese. Presentatisi al Sindaco, questi diede il suo obolo 
            personale, dicendo: “Fate, fate…! Io sarò con voi nello” spirito ». 
            Scesi nelle due miniere, ingegneri e impiegati contribuirono 
            largamente, entusiasticamente. Eppure occorreva ancora della moneta 
            per potere arrivare a far suonare la musica, almeno in quel giorno. 
            Ci si rideva in faccia, ci si minacciava, ma pure si lavorava ogni 
            giorno senza tema.

            Avvicinandosi la data, dopo tanto chiasso dei Deputati estremisti 
            alla Camera, finalmente il Governo italiano decise di festeggiarsi 
            il primo centenario di Garibaldi.

            Una lettera del Prefetto invitava il Sindaco a festeggiare il 
            centenario, largheggiando nelle spèse. E allora il caro funzionario 
            fece chiamare quel comitato, al quale partecipando la notizia, mise 
            a disposizione le somme necessarie e la sala del Consiglio per 
            riunirsi e deliberare sul da farsi.

            Vi erano ancora otto giorni per la ricorrenza e in questo tempo si 
            concertò tutto. Qui sorse una questione, se il Presidente della 
            festa doveva essere il Sindaco, che rimase estraneo al movimento, o 
            il Pasqualino che si prestava in tutto.

            Chi partecipava, per l’uno o chi per l’altro,ma infine si tagliò la 
            testa al toro, eleggendo il presidente della festa il preposto più 
            vecchio garibaldino Sig. Giuseppe Ferro negoziante, Consigliere 
            Comunale, dandosi incarico all’Avv. Gaetano Pasqualino di fare il 
            discorso d’occasione. Tanto l’uno che l’altro accettarono commossi. 
            il Sindaco fu ossequiente alla decisione, accogliendola 
            entusiasticamente purché si riesca alla solennità disse, inneggiando 
            all’Eroe, lodando il Comitato.

            Il giovane pittore pieno d’ingegno, Luigino Patrì di Francesco, di 
            sua iniziativa, aveva modellato in gesso un mezzo busto naturale di 
            Garibaldi, da erigersi nella piazza omonima scoprendolo il giorno 
            della festa. Si pensò adornare la piazza di festini e fiori, ed 
            illuminarla. Per tutto il giorno e la sera si incaparrò la musica 
            cittadina. Di più,  si allestirono una dozzina di camicie russe per 
            i garibaldini superstiti e si decise di offrire un pranzo ai più 
            poveri.

            Il 7 Luglio cadde di Domenica: tutti erano a casa. La mattina 
            all’alba furono sparati 21 colpi di bombe a mano, svegliando gli 
            abitanti dei diversi quartieri; alle ore 8 la musica incominciò a 
            suonare; le bandiere sventolando annunziarono la festa; il movimento 
            era insolito.

            Un lungo corteo si formò al Municipio, con a capo il Sindaco e la 
            Giunta, seguiti da cittadini e popolo; davanti sfilarono i 
            garibaldini in camicia.

            Alle ore io, sotto la sferza del sole, si percorsero le Vie 

            Principe Carignano, Umberto I° e il Corso V. E. per trovarsi in 
            piazza ove si svolse la cerimonia. Nel pomeriggio vi fu il 
            pellegrinaggio delle scolaresche comunali ed evangeliche, recandosi 
            davanti la statua, cantando il fatidico inno:

            Si scopron le tombe, si levano i morti.

            Una lapide di marmo fu posta al cantone della piazza, accanto al 
            casino dei civili. L’epigrafe, dettata dal Sindaco

            G. C. Golisano, dice:

            PERCHÈ SIA AFFERMATO A PERENNE RICORDO

            IL PRIMO CENTENARIO DELLA NASCITA DI

             

            GIUSEPPE GARIBALDI

             

             CUI LA PATRIA NOSTRA DEVE  LA SUA PRECIPUA REDENZIONE

            OGGI 7 LUGLIO 1907 CITTADINANZA E MUNICIPIO

            IN SOLENNE ENTUSIASTICO ACCORDO

            QUESTO MARMO

            POSERO

            La sera si chiuse la bella festa civile, riuscitissima, con concerti 
            musicali, fantastica illuminazione e le passeggiate sotto gli archi 
            trionfali.

            Possiamo dire con orgoglio che in quella occasione Riesi dimostrò di 
            essere un paese liberale e patriottico, superando se stessa.

            Il più soddisfatto di tutti fu il Sindaco, il quale: mostrò il suo 
            liberalismo in fatto di idee politiche; ma egli di poi non fu 
            assecondato dal Consiglio; la compagine Di Benedetto-Pasqualino non 
            poteva andare d’accordo: laonde fu sciolto il Consiglio e un R. 
            Commissario venne a reggere, per .un pò di tempo, le sorti del 
paese.

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            Cap. XXXVII


            dal Cav. Inglesi, di nuovo sindaco a don luigi d’antona


            Ed ecco un’altra volta coalizzarsi i signori Cappedda per dure 
            addosso al partito Pasqualiniano. In questo caso scese in lizza il 
            nobile Don Luigino D’Antona, tiglio del fu Pietro e Francesca 
            D’Antona, la imponente e rispettabile famiglia che noi conosciamo di 
            già.

            Don Luigino D’Autona da giovane, venuto dagli studi da Napoli, dove 
            c’era lo zio, sposata una Di Lorenzo, cugina, ereditò la casa del 
            nonno, al piano, dove fondò la Banca Agraria. Ben quotato quindi e, 
            per la sua tradizione, era un nome a Riesi.

            Le Elezioni Amministrative del 1910 si presentavano triste assai 
            laonde il Pasqualino credette opportuno di non lottare. Egli 
            consigliando i suoi elettori ad essere prudenti, se ne stette a 
casa.

            La vittoria perciò fu tutta del partito avverso.

            L’Amministrazione Comunale potò di nuovo a Sindaco il Cav. Don 
            Carmelo Inglesi; ma la morte del Trapani avvenuta nel 1904, che era 
            il perno di tutte le Amministrazioni, scombussolò i Capi, Sindaco fu 
            nominato il D’Antona; affiancato col Pasqualino Vassallo, 
            Consigliere principale, visto che gli affari della banca gli 
            andavano bene e che per il paese era un sollievo, specialmente agli 
            agricoltori, fu nominato Commendatore.

            Da Sindaco il Comm. D‘Antona era imponente: bene accettò al partito; 
            il rispetto che aveva per lo zio Senatore, le Autorità lo avevano in 
            grande stima. Con la Banca Agraria, la casa del Comm.. Don Luigino 
            D’Antona era ben frequentata di persone amiche personali e clienti.

            L’Amministrazione Comunale del Sindaco D’Antona era tenuta in buon 
            conto, Il suo partito era compatto; i Consiglieri Comunali gli erano 
            tutti favorevoli. La casa e il Comune per Don Luigino erano la sua 
            vita; agli affari di campagna, ci badava pure, ma per lo più c’erano 
            i Campieri; censito com’era con le terre di Brigadieci, Schette, 
            Figotto e Calamuscini aveva molta servitù. Buon padre di famiglia, 
            con le sue aderenze, col suo prestigio, il Sindaco di Riesi, aveva 
            fama di saper stare a quel posto; i suoi amici personali gli erano 
            ammiratori: i suoi parenti ne erano lieti. Dotato di intelligenza, 
            con la sua cultura, era anche un consigliere in materia di diritto 
            penale ed Amministrativo. Non era avaro di consigli; generoso con 
            gli operai che lavoravano sotto di lui, ne parlavano di bene. Di 
            carattere serio, piuttosto chiuso, chi lo avvicinava, riportava 
            l’impressione che un favore, se lo poteva fare lo faceva, ma se non 
            lo poteva fare era irremovibile.

            Nell’Amministrazione Comunale era anche così. Se aveva degli amici, 
            si era creato anche nemici. Succede sempre così nella vita pubblica 
            di un uomo: c’è chi lo porta ai cieli e c’è chi lo sotterra.

            Noi che vediamo il lato buono delle cose, non sappiamo spiegarci il 
            fatto che col poeta:

            Ciascun non piace saper da chi sia amato.

            Quando felice in su la ruota siede.

            Credeva il Comm. D’Antona di restare al suo posto di Sindaco come 
            suo padre, ma... non fu così!  Un caso speciale diede la scalata al 
            suo partito, e fu proprio il partito liberale.

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            Cap. XXXVIII


            il suffraggio universale – caduta del potere d’antona – vittoria 
            strepitosa degli operai con a capo pasqualino


            Si discuteva alla Camera italiana la legge sul suffraggio 
            universale; i Deputati di Estrema sinistra facevano il diavolo a 
            quattro per ottenerla; ma il Governo dell’On Calandra concesse, o 
            meglio fece approvare il voto allargato a tutti i cittadini italiani 
            che ne avevano il diritto.

             Secondo ed in virtù di questa legge erano ammessi a votare anche 
            gli analfabeti che compiuti 21 anni non erano macchiati dalla 
            Giustizia. Così per dirla con una frase tipica dell’Ing. G. Accardi 
            anche li  cardurara erano elettori.

            Il Pasqualino Gaetano allora riapparve sulla scena politica dicendo: 
            “Ci rivedremo alle urne sul suffraggio universale!” E in questa 
            maniera incitava tutti a farsi iscrivere. Un movimento insolito si 
            notava a misura che si avvicinavano le Elezioni Amministrative del 
            1914. Le Liste ammontavano a circa 4.000 elettori. I signori 
            cercavano di far argine a questa marea popolare, ma non poterono. 
            Gli elettori imbevuti di sufiraggio universale fanatici del loro, 
            voto, aspettavano il momento per andare alle Urne e votare; stavolta 
            non si poteva parlare di corruzione ,elettorale, perché il numero 
            era stragrande e poi le follie rosse avevano invaso le menti di 
            tutti gli operai.

            Dato il momento, il Sig. Pasqualino formò una Lista di Consiglieri 
            popolari tra cittadini, zulfatai ed operai; i soli che vi entrarono 
            a far parte furono l’Ing. Giuseppe Accardi e l’Avv. Gaetano Debilio, 
            liberali: il Pasqualino Vassallo da On. Deputato al Parlamento 
            Nazionale se ne stava a Roma disinteressandosi dei fatti nostri o 
            meglio da lontano faceva l’occhio di triglia.

             Concorse a dare maggior furia al Pasqualino il nuovo partito 
            popolare, bolscevico del propagandista Giuseppe Butera, il quale 
            predicando contro tutto e tutti voleva la divisione delle terre.

             Costui era un giovane contadino che essendo stato a Roma come 
            bidello d’una Sezione Socialista, intelligente com’era, apprese le 
            solite frasi del Repertorio del tempo che fu. Venuto a Riesi formò 
            il suo partito, conquistando la massa dei contadini, nonché una 
            buona fazione del popolo. Dapprima era molto spinto, intransigente 
            anche contro il Pasqualino chiamandolo “falso, traditore del popolo 
            ecc…”; nelle vie, sotto la case, fra le famiglie, ovunque la sua 
            parola era bene accetta; ma poi finì con l’unirsi con lui, sicché il 
            partito popolare era forte ed esasperato.

            C’era al potere centrale l’On. Giolitti, il quale non potendo 
            frenare i partiti estremi, lasciava correre tutto alla deriva. La P. 
            S. era impotente in questo caso a reagire: nessun appoggio poteva 
            dare quindi ai signori Cappedda per misura di prudenza.

            Il Butera continuava ad inveire maledettamente contro la proprietà 
            ed i proprietari: la ciurma del popolo lo seguiva schiamazzando per 
            le vie: egli era diventato un idolo, la sua parola tagliente 
            incuteva spavento.

            Gli animi erano preparati alla rivolta. Nelle Elezioni del 4 Agosto 
            i signori si videro perduti. Non solo ebbero il Voto contrario, ma 
            fischi, insulti, e tirandogli delle pietre li accompagnarono a casa, 
            specialmente il Sindaco che dovette ripararsi in una casa onde 
            schermirsi le pietrate. Quelle Elezioni, se da una parte diedero la 
            strepitosa vittoria agli operai, d’altra parte fu una vergogna che 
            la cronaca del nostro paese registra.

             Insediatisi al potere i popolari, si formò una baraonda. Non usi 
            alla vita pubblica, amministrativa, dei Consiglieri comunali, non 
            andavano più a lavorare. Se bisogna essere giusti, niente per il 
            paese facevano; essi si cullavano nella politica ed alcuni vi 
            trovarono al Municipio la greppia. Il Pasqualino che aveva 
            conquistato il popolo, alla sua volta fu conquistato da esso, cioè 
            dai Consiglieri e non sapeva cosa fare.

            La Barca Municipale del popolari navigava senza remi. Visto ciò, il 
            Butera si distaccò dal Pasqualino e seguitò la sua via, 
            trascinandosi di nuovo il popolo.

            In questo caso i signori ritirandosi a vita privata, lasciarono 
            lottare il popolo diviso in due. Le cose andavano così di male in 
            peggio.

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            Cap. XXXIX


            uomini insigni e uomini grandi del secolo XVIII  alcuni dei quali 
            vissero nel nostro secolo XIX 


            Giacchè ci siamo inoltrati nel 1900  è bene ora segnalare, prima dì 
            riprendere la politica, gli uomini insigni e gli uomini gradì che 
            ebbero i natali nel 1800 e che onorarono ed onorano il nostro paese. 
            Oltre quelli che abbiamo mentovati attraverso le pagine di questa 
            storia fin qui, si distinsero come uomini insigni del paese, in 
            medicina Matera e Giuliana: il primo, oltre ad essere un valente 
            medico fu un matematico ed un eccellente linguista; fu il maestro 
            dei suoi figli e di altri professionisti. Il dott. Don Gaetano 
            Giuliana figlio del massaro Giuseppe e di Maria Filippa Giuliana, 
            nacque nel 1811 e morì il 24 Gennaio 1880. Medico valoroso 
            omeopatico, si fece una grande fama, tanto che dai paesi vicini e 
            lontani lo venivano a prendere in lettiga. Nella letteratura 
            classica abbiamo avuto il Notaro Don Luigi Pasqualino, figlio di Don 
            Francesco e Caterina Inglesi, nato nel 1816 i suoi studi furono 
            profondi. Divenuto cieco, il suo diletto era di recitare a memoria i 
            classici in latino ed in greco. Gli amici andavano spesso a trovano 
            per sentirsene ammaestrati e nello stesso tempo tenergli compagnia e 
            confortarlo. Il filosofo Francesco Debilio Palacino, nato nel 1820 
            da Don Pietro (allora Sindaco) e Teresa Palacino, di distinta 
            famiglia mazzarinese, si impose all’attenzione nella Provincia e 
            fuori, merce i suoi scritti, col suo ingegno e il suo sapere, tanto 
            che lo chiamarono il filosofo. Da bambino fu mandato a studiare a 
            Palermo, dove si distinse fra i suoi compagni. Dotato d’una ferrea 
            volontà, di fertilissima memoria, fu detto il secondo Pico della 
            Mirandola. Giovane, giunto alle porte dell’Università,  ramo legge,  
            nei muri scrisse:  

            “Nostro é l’ingegno 

            E l’avvenir siamo noi”. 

             Era amato dai professori, stimato dagli studenti. Scrisse un Saggio 
            critico ad una predica del P. Tommaso d’Acquisto. Rettore dei 
            gesuiti di Morreale, chiamandolo un panteista. Lo stesso D’Acquisto, 
            sapendo chi era, venne a baciarlo alla presenza di tutti dicendogli: 
            “Tu solo, figlio mio, potevi affrontarmi la critica.  Laureatosi in 
            diritto, se ne venne fra i suoi a studiare, a meditare, circondato 
            d’alletto e di libri di tutto lo scibile umano. Qui. pubblicò un 
            Saggio sulla storia del l’incivilimento umano, libro che gli valse 
            l’ammirazione di quanti lo lessero. Sono pagine meravigliose, d’una 
            bellezza e stile che conservano la freschezza senza appassire. Nel 
            1848 scrisse un proclama al popolo degno della sua penna; per questo 
            proclama doveva poi essere arrestato, ma i suoi parenti lo fecero 
            passare per pazzo. Quando andava a Caltanissetta, il filosofo 
            Debilio di Riesi veniva accolto nel Circolo dei civili, con simpatia 
            e rispetto, pendendo dal suo libro. Siccome era trasandato nel 
            vestire, così qualcuno volle criticarlo ma egli saputolo disse 
            questa frase: ‘L’uomo si conosce quando esce da una Società, non mai 
            quando vi entra. In un Congresso di dotti della provincia, non mancò 
            l’invito al nostro concittadino che vi andò! Fra i congressisti un 
            signore lesse un componimento poetico, per la libertà il   Debilio 
            alzatosi disse che lo aveva ratto lui, recitando a me moria i versi. 
            Tutti rimasero stupiti, l’autore protestò Don Francesco  baciandolo 
            aveva fatto  uno scherzo. Il filosofo il pazzo passava la sua vita a 
            Riesi a casa dando lezioni gratuite ai giovani; fra gli amici, nel 
            Circolo dei civili, apprezzato consultato. Coprì la  carica di 
            delegato scolastico fino al 1883. Amò i suoi figli ai quali lasciò 
            il suo ricco patrimonio. Mori  all’età di anni 61 nel 1883. 
            L’insigne Dott.Rosario Vassallo, figlio del vecchio Dottore e di 
            Giuseppa Faraci,nacque nel 1838. Tale padre tale figlio. Studiò 
            medicina a Catania e divenne celebre. Era l’idolo dello zio Don 
            Giuseppe Faraci il quale avendo in casa la sorella della moglie 
            Filomena La Marca, volle sposarlo con lei. La Casa Faraci-Vassallo 
            divenne un via vai di gente venuta da fuori in cerca del giovane 
            Dottore. Fattosi un nome, Concorse alla Cattedra  Universitaria di 
            Palermo; ma le ingerenze lo fecero risultare il secondo. Allora 
            ricorse al Ministero che gli fece giustizia; ma andato là si dimise 
            favore del suo competitore  dicendo che lo aveva fatto per onore. 
            Quest’uomo ricco d’ingegno, di virtù, di meriti, ricco di casato, 
            sul più bello della sua vita,dopo di aver messo al mondo tre figli, 
            due maschi e una femmina, fu preso dal male che non perdona, la 
            tisi. Egli cercò di curarsi con tutti i mezzi della scienza, ma… 

            Negli ultimi tempi, vedendo che perdeva passi, per contentare  la 
            famiglia fu trasportato  in lettiga padronale (Faraci) a Catania . 
            Lo specialista saputo che erano da Riesi Disse: Come !.... A Riesi 
            avete il gran Vassallo e, venite da me?...Scusi Dottore, rispose 
            l’ammalato con un fil di voce: io sono il Vassallo...! la 
            famiglia!.., e incrociò le mani. Dicesi che al Medico gli calò una 
            lagrima e fece segno di ricondurlo a casa presto. Il  bravo, 
            impareggiabile Vassallo si contò le ore e i minuti della sua fine. 
            Difatti giunto a casa, messo sul letto, chiuse gli occhi nel 1886. 
            La mattina annunziatasi  la morte, vi fu un lutto generale a Riesi. 
            L’oculista Prof. Antonino Correnti, era nato nel 1839 da Don 
            Giuseppe e Vincenza Calafato. Quel giovane che straccò il collare di 
            prete, perché voleva vestire la camicia rossa, se ne andò a Palermo 
            a studiare medicina; specializzandosi nella malattia degli occhi, 
            divenne celebre oculista. Mise una clinica per conto suo nella 
            stessa città, ove i professori lo incoraggiarono. In breve si 
            acquistò la celebrità: gli ammalati d’occhi accorrevano dai paesi ed 
            erano guariti; di rado veniva a Riesi per rivedere la famiglia, i 
            parenti, gli amici. Chiamato in caso di professione, veniva quando 
            non poteva dir di no a qualche persona influente o amica della sua 
            famiglia. La sua fama, la sua dimora era nella Capitale dell’isola. 
            Concorse per la cattedra di Firenze, vuota, e vi riuscì. Allora si 
            allontanò totalmente e non si rivide mai più. Nella città dei fiori 
            contrasse molte buone amicizie, fra cui quella del Principe Miele di 
            cui era compare per averle guarita una bambina con una operazione 
            difficile. I coniugi lo amavano e stimavano come un fratello. Avuto 
            il prof. Correnti un accesso alla coscia sinistra, suo compare Io 
            condusse a Parigi per l’operazione. Viaggiò in Olanda, nei paesi 
            bassi, conoscendo le lingue. Guaritosi, ritornato a Firenze, scrisse 
            ai suoi: Vengo da Parigi con mio compare l’operazione è riuscita; il 
            male è sparito, ma temo che si ripercuoterà altrove, ,, ecc. Pare 
            che così fu il germe, si riprodusse agli intestini e questa malattia 
            lo condusse alla tomba nel 1874. Le sue numerose opere e trattati 
            parlano di lui. Del fratello comm. Giuseppe, poco ci resta a dire. 
            La sua brillante carriera forense e politica ne fecero un pezzo 
            grosso a Caltanissetta, lo sappiamo già. Nato nel 1832 visse nella 
            città 40 anni, morendo nel 1900; lasciò una vistosa proprietà ai 
            tigli, abitanti nel gran palazzo Correnti al Corso. In occasione 
            della di lui morte l’Avv. Cascino nel discorso  funebre, pronunciò 
            queste precise parole: è morto il Comm. Giuseppe Correnti da Riesi, 
            terra di fervidi ingegni. Viveva pure in città a quei tempi 
            l’Avv.Gaetano Giardina del Notar Gaetano e Teresa Gueli , civilista 
            esperto. Il fratello dott. Rocco Giardina, fu un insigne medico 
            chirurgo che si fece onore qui ; Rosario Pasqualino Vassallo e Nino 
            Verso Mendola. in tempi più vicini a noi, abbiamo avuto gli avvocati 
            Rosario Pasqualino Vassallo e Nino Verso Mendola. Entusiasti ne 
            facciamo la biografia, poiché ci siamo stati a contatto ne siamo 
            stati ammiratori del loro ingegno fecondo, della facile, eloquente 
            paroia, della vita. Rosario Pasqualino Vassallo o Sarino col suo 
            vezzeggiativo,nacque nel 1861, frutto del medico-chirurgo Don 
            Gaetano e Crocifissa Vassallo, la figlia del compianto dottore. Fin 
            da bambino messo nel collegio-confitto di Gela,vi fece il ginnasio; 
            passato a Caltanissetta si prese la licenza Liceale; apertesi le 
            porte dell’Univerità catanesi, frequentò i corsi legali. Laureatosi 
            venne a Riesi;fu per breve tempo vice pretore, ma poi passò il suo 
            studio a Caltanissetta. Nel foro Nisseno si fece largo come 
            penalista.Ivi lo conosciamo come  Consigliere provinciale per la sua 
            carriera Politica. Di vasta cultura in questa materia, collaborando 
            nella Commedia  Umana di Milano accanto a Bovio Impriani, Cavallotti 
            ed altri, lo resero famoso come liberale. Il  nostro Pasqualino 
            Vassallo aspirava andare alla Camera dei Deputati; ma il nostro 
            Collegio elettorale fu tanto tempo infeudato prima ai Riolo di Naro 
            poi al duca di Monteleone, principe Pignatelli di Terranova. Contro 
            di lui lottò tante volte, il    Pasqualino Vassallo, tanto che i 
            giornali avversi della pro­vincia, lo chiamavano.:  L’eterno 
            Candidato ; ma stanco il duca della vita pubblica, ritiratosi, rese 
            i lettori liberi. Allora nel 1905 tutti gli occhi si rivolsero verso 
            il riesino. E difatti fu eletto a Deputato al Parlamento Nazionale. 
            Andato a Roma d’allora in poi, gli venne riconfermato il mandato, 
            giacché Gela e Riesi erano unanimi per lui. E accedo un altro passo 
            avanti, nel 1916 fu nominato Sottosegretario di Stato col Ministero 
            Boselli, sotto dcll’On. Sacchi alla Giu­stizia. Nel 1920 con 
            Giolitti, occupò il posto di Ministro delle Poste e Telegrafi. 
            Sciolta la Camera, lui venne in Sicilia as­sumendo la direzione 
            delle Elezioni politiche; malgrado l’aspra lotta fattagli dal 
            Giornale  L’Ora , il Pasqualino riportò dappertutto la vittoria. 
            Venuto il Fascismo nella nuova Camera dei Deputati (1924) con 
            Mussolini, fu compreso nel Listone; ma non ci stiede molto, 
            ritirandosi dalla politica. Siccome si era stabilito nella Capitale, 
            ivi esercita la sua professione di grande civilista e penalista. Un 
            suo collega lo definisce: mente qua­drata; che ha tutto: generoso, 
            di cuore, per donatore. benefico. Parlandosi del fratello, il Notaro 
            comm. Giuseppe, morto nel 1928 all’età di anni 77. egli fu un grande 
            letterato ed un psicologo, oltre ad essere un cultore di discipline 
            giuridiche. La sua parola facile, bella, talvolta tagliente, piaceva 
            anche agli avversari. Si può dissentire dalle idee politiche, ma la 
            verità vera non si può negare. Coloro che leggeranno questa nostra 
            storia dovranno per forza convenire con noi che i Pasqualino a Riesi 
            sono stati dei lottatori intelligenti. Viye pure a Roma il poeta 
            Giuseppe Veneziano fu Ca­logero, impiegato in una Banca. Studioso, 
            intelligente; i suoi versi sono stati salutati, apprezzati da tutta 
            la stampa italiana. Rivolgiamo ora uno sguardo, un pensiero alla 
            memoria di Nìno Verso Mendola, l’altro famoso avvocato, collega dei 
            Pasqualino Vassallo. Nacque neI 1862 dal Notaro Giuseppe Calogero e 
            Margherita Mendola da Pietraperzia. Vispo e intelligente, i genitori 
            che erano molto agiati, lo mandarono a  Studiare a Caltagirone. Da 
            Caltagirone andò a proseguire gli studi in Caltanissetta. Giovanetto 
            irrequieto, liberale, fece succedere ivi una sommossa, per la 
            penuria dell ‘acqua aizzando i cittadini in una festa di Carnevale 
            con  la sua facile fiorita parola; e l’acqua venne. Scappato a 
            Catania si mise a frequentare l’Università, studiando legge. Il suo 
            primo componimento poetico, giovanile, fu appunto la rivolta nissena 
            in cui dice che:  

            …..del fatto politico, 

            ne parla il giornale democratico 

            ed ognuno se ne forma un cenno critico.  

             Mentre era a Catania pubblicò “La scuola in Italia,,; libro che gli 
            valse l’ammirazione del Ministro della P. I. Francesco Paolo Perez. 
            Nel 1888 a Caltanissetta, da Avvocato, pubblicò: Gente gentarum , 
            (La gente delle genti, gli italiani) e anche in questo libro si 
            rivela un conoscitore della storia e della vita. Ma il Verso, ne 
            come scrittore, ne come professionista, ne politico fu fortunato. 
            Egli abbracciando i principi del socialismo, con la sua calda, 
            smagliante parola, da oratore travolgente, teneva delle conferenze 
            persino a Palermo. Per queste sue opinioni ebbe delle noie, fu 
            perseguitato. Trasferitosi a Bologna, anche lì non ebbe requie, subì 
            due volte il carcere e una terza volta fu sfrattato da Bologna e di 
            carcere in carcere giunse a Riesi, al tempo del Ministro Pelloux. A 
            Bologna sposò la letterata Giulia Rossi, figlia dell’ex Questore 
            della Città. Sfrattato che fu, ottenne di andarsene a Caltanissetta, 
            ove pubblicò il suo volume di poesie su svariati soggetti letterari, 
            poco parlando della sua vita; detto volume lo dedico al suo compagno 
            di scuola  cav. Gaetano Bartoli Inglesi di Riesi. Fra sonetti e 
            poesie, riveduti dalle sue vecchie carte , scegliamo la prima strofe 
            de I CORIBANDI per gustare i lettori il verso, lo stile e il tema: 

            Salgono dalle fosse i Coribandi 

            Nella pia settimana  del dolore; 

                                    Essi sono gli asceti, sono i santi,  

                                    I prediletti figli del Signore.  

            Cessata la reazione, ritornò a Bologna dalla sua diletta compagna, 
            la quale sopportava con rassegnazione religiosa una terribile 
            malattia. Marito affettuoso, il Verso Mendola le dedicò un suo 
            volume su: “Il Serafico in ardore “ parlando di S. Francesco di 
            Assisi con vera competenza, lo dice in questo libro - che per 
            decenni mi ero fermato alle idee contrarie del santo, ora sono 
            convinto del bene che ha fatto: Durante la grande guerra, l’Avv. 
            Nino Verso Mendola fu un’interventista. I compaesani che passavano e 
            ripassavano da Bologna, esperimentarono la bontà dell’uomo scomparso 
            anzi tempo dalla scena della vita. Anch’egli era ammalato, anch’egli 
            soffriva d’una malattia di stomaco. Venuto l’ultima volta in Sicilia 
            il 26 a posare la sua candidatura, se ne ritornò sconfitto, ma non 
            abbattuto moralmente. Intanto la sua malattia lo trasse alla tomba a 
            58 anni il 1927.

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            Cap. XL


            il senatore antonono d’antona


            Grandeggia su tutti la grande figura dell’illustre Senatore Antonino 
            D’Antona, chirurgo di fama mondiale, al quale gli dedichiamo il 
            presente capitoletto a parte. È con orgoglio che lo facciamo, 
            quantunque crediamo che la nostra povera penna sia insufficiente a 
            trattare la vita di questo grande figlio di Riesi che onorò tutta la 
            Sicilia e l’Italia. L’anno 1842 ebbe i natali Antonino figlio di Don 
            Luigi D’Antona e Concetta Debilio. Morto il padre, prima di chiudere 
            gli occhi1 raccomandò la sua prole al fratello Parroco dicendogli: A 
            voi, P. Arciprete, raccomando i miei figli e le mie figlie pensateci 
            voi.  E Io zio-prete assolvette il suo compito. Ragazzo irrequieto, 
            Antonino fu chiuso nel Collego di Bronte. Terminati gli studi 
            secondari andò a Palermo a frequentare l’Universjtà in medicina, 
            specializzatosi nella chirurgia. I suoi contemporanei ce lo 
            descrivono da giovane molto amante del la caccia; quando andava coi 
            compagni al lago di Papardone,  uccidendo una beccaccia o qualche 
            altro animale, li  scorticava con le dita, facilmente, esaminando 
            minutamente le singole parti. Era nato,  ci dice un suo discepolo,  
            per adoperare il coltello. Laureatosi, brillò nella patologia. Ma 
            qui a Riesi, nel suo paesetto natale, non sapeva cosa fare; non 
            poteva dimostrare la sua abilità: laonde decise di espatriare. Il  
            Dott. D’Antona si recò a Napoli, nella metropoli partenopea c’era 
            posto anche per lui, ma comprese che ci voleva del tempo per farsi 
            il nome ed avere una estesa clientela. Coi mezzi che aveva 
            disponibili, decise di viaggiare. Girando negli ospedali di Parigi, 
            Londra, Berlino, Milano apprese a maneggiar bene il bisturi. 
            Ritornato a Napoli, vi aprì la sua clinica. Ben presto la sua fama 
            s’impose all’attenzione di tutti. Egli in questo caso si acquistò la 
            stima dei professori universitari il rispetto dei cittadini. 
            Nominato libero docente, ancor giovane, all’Università, con la sua 
            clinica di Gesù e Maria, gli studenti da tutte le parti d’Italia 
            accorrevano a Napoli per le operazioni del Dott. Prof. Antonino 
            D’Antona, il cui braccio fermo, sicuro, dava la vita, facendo veri 
            mirali. La sua fama si sparse in Europa ed egli accorreva ovunque 
            era chiamato. Inventò il francipietra, strumento col quale si 
            liberarono i sofferenti di arenella o mal  pietra; mentre prima ne 
            morivano il 50 per cento, col francipietra si salvano il 90 per 
            cento. Nominato Senatore verso il 1881 venne a dar lustro alla casa 
            D’Antona; lo zio Parroco visitandolo spesso, acquistò ivi il lago di 
            Patria presso la Città, lago che costituisce una bella rendita. Gli 
            invidiosi del Prof. D’Antona gli intentarono nel 900 un processo a 
            cagione della morte del conte Buon Martino, pugliese, il quale 
            trovarono un pezzetto di gazza nel fegato. I giornali ne fecero 
            tanto chiasso, ma l’alta Corte di Giustizia, assolse il Senatore 
            D’Antona perchè innocente, estraneo al fatto. La fama non gli fu per 
            nulla oscurata, anzi gli si accrebbe, rifulgendo i meriti del nostro 
            grande concittadino. Nel congresso chirurgico di Berlino fra gli 
            scienziati (1893), egli fu ammirato congratulato, parlando del 
            processo infiammatorio delle ferite. Amante della famiglia, Don 
            Antonino veniva di tanto in tanto a Riesì, dopo la morte del 
            Parroco, per visitare i suoi parenti; il Giornale di Sicilia, 
            sapendolo, lo chiamava l’illustre scienziato siciliano. Sapendolo 
            qui, molti dei paesi vi­cini, venivano ad ossequiarlo, invitarlo. La 
            festa. della Madonna, mentre era affacciato di giorno al balcone del 
            fratello Rosario in piazza, un terribile omicida rese un povero 
            calzolaio Riesino, con le viscere di fuori. L’esperto chirurgo 
            sceso, fattosi largo tra la folla, levatasi la giacca, prese il 
            grave ferito, gli ritirò gli intestini, in un attimo gli cucì la 
            larga ferita di trincetto e lo consegnò ai medici del paese. 
            Quell’uomo riebbe la vita per il pronto intervento della mano 
            chirurgica del Senatore D’Antona. Guarito che fu il calzolaio, 
            vistolo di passaggio  Caltanissetta, gli si buttò ai piedi, 
            baciandogli le mani, offrendogli quel che poteva; ma il carissimo 
            professore non solo non volle nulla, ma andato a casa, vista la 
            disagiata posizione, lo beneficò. Chi passando per Napoli, dei suoi 
            concittadini che lo andavano a trovare, non ebbe accoglienze, onori 
            e soccorsi in caso di bisogno?Chi non protesse egli? Beati coloro 
            che muoiono seguiti dalle loro buone opere; ma gli uomini non durano 
            eterni. Il Senatore D’Antona, a 74 unni, scese nella fossa a Napoli 
            nel 1916. Ad eternare la di lui memoria, per ricordare ai posteri il 
            nome del Prof. Antonino D’Antona, un Comitato nel 1826 si formò 
            Sotto la presidenza del Dott. Mumuli, Direttore dell’Ospedale civico 
            di Mazzarinuo per innalzargli un monumento. Detto rnonumento, in 
            mezzo busto in bronzo con un piedistallo di granito8 venne scoperto 
            in mezzo ai fiori nella piazzetta omonima dinanzi la casa paterna il 
            29 Giugno del 1929, alla presenza di S. E. il Prefetto, di altre 
            Autorità della provincia e di tutto il po­polo riesino. L’epigrafe, 
            dettata dal Cav. Ugo Rossi Commissario Prefettizio del tempo, dice: 
              

            NEL BRONZO SUBLIME 

            RIESI 

            NOME E GLORIA PURISSIMA 

            CONSACRA 

            DEL SUO GRANDE FIGLIO 

            ANTONINO  D’ANTONA

            SENATORE DEL REGNO 

            FARO LUMINOSO 

            DELLA CHIRURGIA ITALIANA 

              Piazzetta e monumento adornano il centro dell’abitato ed è 
            l’ammirazione dei forestieri, i quali, fermandosi a guardare la 
            statua, ne apprendono chi fu colui che lasciò un nome grande.

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            Cap. XLI


            mafia e delinquenza


            Riferendoci a quell’epoca, della quale abbiamo parlato dei nostri 
            uomini, cioè del secolo scorso, dobbiamo dire che fiorirono anche la 
            mafia e la delinquenza fino al primo quarto di questo secolo nuovo. 
            Non possiamo esimerci quindi di non parlarne. Questa è la cronaca 
            nera.

            Dunque:

            La mafia, figlia della camorra napoletana, ci venne importata dalla 
            Spagna. I “mafiosi” somigliavano ai bravi descritti da Alessandro 
            Manzoni nei Promessi Sposi. Ebbe facile presa in Sicilia, 
            specialmente nei paesi interni; nei paesi solfiferi fu peggio 
ancora.

            Molti scrittori si sono occupati del fenomeno della mafia, 
            spiegandola, definendola il terrore della gente dabbene. Chi ha 
            assistito alla rappresentazione della commedia del Rizzotto su: I 
            MAFIOSI DELLA VICARIA DI PALERMO,  sa gia cosa vogliono dire i nomi 
            di “pampina, mezza pampina, rinculutu, spacchiusu, ecc”. L’alta 
            mafia era formata dai signorotti, cioè i proprietari, i quali per 
            non essere danneggiati negli averi, proteggevano la bassa mafia.

            La classe solfifera, a cagione del lavoro brutto, pesante, spesso 
            volte maltrattato, dava il piu contingente alla mafia. Lo zolfataio 
            fin da bambino cresceva mafioso La massima della mamma era: “Fatti 
            mancare il pane, ma il coltello mai”. Vi erano delle donne mafiose, 
            le quali si imponevano con le armi nelle questioni, nelle risse; ad 
            ogni pie sospinto succedevano dei ferimenti; anche per una parola 
            mala detta, le baruffe erano all’ordine del giorno.

            La mafia perciò era rotta ad ogni specie di delitto. Le bettole la 
            Domenica rigurgitavano di mafiosi pronti ad attaccare brighe per un 
            nonnulla, per mezzo bicchier di vino. Il tocco, il famoso tocco, 
            faceva nascere delle questioni; dalle parole si veniva ai fatti; 
            indi c’era la tirata al largo, fuori le porte: ferimenti, omicidi 
            era il resoconto della giornata, armi da fuoco e da taglio non ne 
            mancavano ed erano facilmente adoperate: famiglie rovinate, i morti 
            al Cimitero, i vivi alla prigione, ecco tutto. Il principio 
            dell’omertà era, se non rispettato, imposto.

            I testimoni dei fatti, fattacci e fatterelli, non dovevano dinanzi 
            alla giustizia deporre contro il mafioso, pena la vita: ecco perché 
            i delitti spesse volte erano impuniti. Uscito dalla prigione il 
            mafioso ritornava ad essere tale, anzi maggiormente temuto. Chi 
            soffriva era l’uomo dei fatti suoi “nato senza artigli e senza 
            zanne”,. Non solo nella vita era minacciato, ma nella famiglia, 
            negli averi, appena si arrischiava a fare qualche minima offesa alla 
            mafia.

            Fatto questo quadro abbozzato alla meglio, alla buona, esso ci fa 
            vedere cume la delinquenza da noi era una mala pianta difficile da 
            estirparsi. una sera d’estate del 1887, sabato della festa della 
            Madonna, vicino al Carcere nuovo, due vicino si questionarono a 
            parole per un ferro da stirare. La  comare non volle prestare 
            all’altra il detto ferro per stirare la camicia al marito mafioso, 
            venuto il quale fu riferito il caso. Costui si arma e chiama i suoi. 
            Soddisfazione, conio al marito, ai parenti della comare. Il fatto 
            sta che le fucilate, revolverate, coltellate destarono l’allarme in 
            quel quartiere. Accorsa  la benemerita  Arma dei RR. CC. e la folla, 
            trovarono tre morti e dei feriti, uno dei quali è morto in carcere. 
            Le due famiglie Rizzo e Gueli si rovinarono, si distrussero.

            E’ rimasto come motto a Riesi; “per un ferro, sette casate 
            distrutte”.

            Ora questo,  grazie a Dio, non c’è più, mercé la ferrea volontà 
            dell’UOMO che ci governa, l’On. Benito Mussolini. La delinquenza 
            ebbe una seria stoccata, la mafia non esiste pia, un ricordo dei 
            tempi passati che speriamo non ritorneranno mai più.

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            Cap. XLII


            gravi delitti


            Fra i numerosi, gravi delitti  che succedevano, ne scegliamo alcuni 
            avvenuti sulla fine del secolo scorso, ai nostri giorni; non già per 
            impressionare, ma per narrare dei fatti di sangue. La penna si 
            rifiuta a descriverli, ma nostro dovere di notarli, giacché sono 
            stati di dominio pubblico; essi appartengono alla storia, alla 
            nostra storia: purtroppo, non possiamo negarli ne tacerli, è così!

            Il primo e quello del 1891, delitto avvenuto nella miniera Tallarita 
            la sera d 22 Agosto.

            Tal Giovanni Piantone, borgomastro, dalla Lombardia, era venuto qui 
            con la famiglia come sorvegliante dei lavori interni ed esterni 
            della miniera presso l’Amministrazione francese. Uomo buono, 
            lavoratore, era alla mano di tutti e i superiori lo stimavano. La 
            domenica in Riesi, amava farsi il bicchiere con gli amici zolfatai.

            Col frutto del suo lavoro si aveva fabbricato la casetta di fronte 
            al Carcere vecchio; manteneva la famiglia discretamente, si era 
            affezionato al nostro paese. Pero durante la settimana il più delle 
            volte si restava in miniera, dormendo in una misera casuccia sopra 
            un pagliericcio. Sincero, generoso offriva da bere a questo e a 
            quello degli amici. Tutti lo salutavano e lo rispettavano.

            Or una sera, terminato il suo lavoro, Don Giovanni Piantone sali 
            alla botteguccia ordinando la Cena. Egli si sedette al fresco sulla 
            panca, aspettando di prendere il boccone. Apparecchiata la 
            tavoluccia, messa su la bottiglia, il Piantone cominciò a mangiare. 
            Quando meno se l’aspettava, un colpo di pistola lo prese in pieno 
            petto, facendolo stramazzare a terra senza poter dire: Cristo 
            aiutatemi.  Alla detonazione, nessuno vi fece caso, usi come si è a 
            sparare dentro e fuori la miniera: solo il trattore scese abbasso 
            gridando: “Hanno ammazzato a Piantone!...”. Erano verso le undici, 
            svegliatisi impiegati, Direttore e Ingegneri, videro il cadavere 
            disteso a terra, immerso in una pozza di sangue; in questo mentre 
            salirono gli operai dall’interno, e visitando il freddo cadavere, se 
            ne vennero a casa spaventati, addolorati.

            La triste notizia giunse a Riesi dopo la mezzanotte. Moglie e figli 
            di piangenti, corsero sul luogo. Fattosi giorno, dopo le 
            constatazioni di legge, il cadavere venne trasportato a Riesi, dove 
            fu seppellito nel nostro nuovo Cimitero che trovasi alla passata 
            della miniera. Una croce e il nome ricordano il delitto del povero 
            Giuvanni Piantone che non fu rivendicato dal la giustizia umana.

            Quale il movente del delitto chi sono stati gli autori? Non si seppe 
            nulla!. Si fecero degli arresti ed indizi, ma non si venne a capo di 
            nulla.

            L’altro delitto ancor più efferato avvenne la sera dell’8 Ottobre 
            1901 in persona del cav. Gaetano Bartoli Inglesi, suo figlio e il 
            campiere. Il Bartoli, che aveva sposato la figlia del Sindaco  
            D’Antona, ereditando il palazzo e la estesa proprietà dei genitori e 
            una vistosa dote, era il più ricco del paese. Messa su casa, 
            accudiva alla famiglia e ai suoi averi.

            Ma dei masnadieri – chiamiamoli cosi, con questo nome - i 
            delinquenti nati, ne insidiarono l’esistenza. Essi con lettere 
            minatorie, gli chiedevano del denaro, pena la vita. Il cav. Bartoli 
            a queste minacce fece l’orecchio da mercante, non mandando la moneta 
            al punto segnato, ne dando passo alle Autorità della Giustizia. E i 
            masnadieri giurarono di vendicarsi. Già una volta fu assalito per la 
            via di Spampinato, ma la scampò, lasciando la giumenta e perché 
            sull’imbrunire vi erano delle persone ; gli amici si dileguarono, 
            fingendo di non cercarlo più; ed egli si era un po’ rassicurato, 
            sebbene stava sempre guardingo. Quando andava in campagna, bene 
            armato e col suo Fattore, la mattina partiva tardi e prima della 
            sera ritornava a casa. Ma i masnadieri lo appostavano come il 
            coniglio.

            Dopo circa un anno, lo assaltarono. Era l’epoca della collocazione 
            delle mandorle, il cav. Bartoli aveva un bel fondo alla Contessa, 
            contrada di Mazzarino; con la sua ciurma si restava alla Casina, 
            venendo ogni due o tre giorni per la spesa.

            La sera di. quel giorno fatale 8 Ottobre, ritornava a casa assieme 
            il figlio, al Campiere e le donne coglitrici, un pò più tardi del 
            solito, cacciavano perché c’era lo scuro allo stretto sentiero delle 
            due colline di Santo Isidoro, nelle vicinanze del paese, furono 
            fatti segno al tradizionale “faccia a terra!”  da persone 
            “infacciulate”, dalla collina. Il figlio tredicenne che era avanti 
            sull’asina disse al Campiere: “Via cacciamo, non avete paura” ma un 
            colpo di fucile alla nuca lo stramazzò a terra cadavere; spaventati 
            sì fermarono; indi i masnadieri scesero ed uccisero il Campiere: 
            preso il cav. Bartoli per mano, gli levarono il Weter e glielo 
            scaricarono al fianco. Impaurendo le donne colla faccia a terra, 
            ebbero il tempo di legare le bestie agli alberi, accompagnare le 
            donne atta Casina, farle chiudere in silenzio, minacciandole, 
            trasportando alcuni oggetti, fra cui il Weter in una grotta al 
            vallone di Castellazzo sopra il giardino di Faraci. Vi fu in quella 
            notte una fucileria allo scopo di spaventare la gente dei dintorni.

            Intanto la Stessa sera del misfatto, una scena drammatica, dolorosa, 
            si svolgeva in casa della signor Bartoli D’Autona. Ella, visto 
            venire il cane avanti, mise la pasta, apprestandosi ad apparecchiar 
            la tavola. Affacciatasi al balcone, il marito non veniva; un’altro 
            momento e... nemmeno! Agitata, fece mangiare i figli che lasciò in 
            balia della serva e corse dalla madre.

            Questa la confortò dicendole che a quest’ora sarebbe ritornato, ma 
            che!... Ebbe il triste presentimento, fece coricare i bambini e via 
            di nuovo dalla madre. La signora D’Antona, credendo che si fosse il 
            genero restato in campagna, svegliò il servo e lo mandò alla Casina. 
            Si erano fatte le undici e il massaro Luigi, a malincuore, ma di 
            corsa, prese la via della Contessa; giunto sul sentiero, immerse i 
            piedi su un cadavere, imbrattandoli di sangue, ma con la furia e lo 
            scuro, non ci badò non se ne accorse; affrettando ìl passo, giunse 
            alla Casina. Bussando, sulle prime non risposero, credendo che 
            fossero i briganti, impaurite mute dal dolore, dallo schianto; ma 
            alle grida, alla voce; Aprite!... sono io! la prima ad affacciarsi 
            fu la moglie del Campiere che vociando rotta dal pianto annunzia “ 
            Hanno ammazzato mio marito, il padrone, il figlio!...” Senza por 
            tempo, il massaro Luigi, rivoltati i tacchi, se ne ritornò più morto 
            che vivo! Ripassando dal sentiero vide la strage: sudato, trafelato, 
            la prima notizia la diede ai Carabinieri, passando dalla Caserma.

            Sparsasi la brutta nuova in paese, fu un movimento continuo di 
            andare e venire sul luogo dell’infame orribile delitto; incontratesi 
             le donne, sembravano delle Marìe, delle Maddalene.  Era Sindaco il 
            cugino dell’ucciso, cav. Don Carmelo Inglesi, il quale con le 
            lagrime agli occhi, interessava la Giustizia. Alla vista dei 
            cadaveri distesi  sul ciglione, si commossero anche le pietre; le 
            bestie ancora legate, furono i testimoni dell’orrenda carneficina ma 
            le bestie non parlano. Per tutto il giorno, la folla non cessò il 
            via vai. Verso la sera i morti furono portati al Cimitero.

            La stampa di tutti i paesi, occupandosi giornalmente del delitto, 
            faceva l’ira d Dio per scoprire i rei. C’era di mezzo il Senatore 
            D’Antona, stretto parente della famiglia in lutto, per la Giustizia 
            occuparsene minutamente. Una taglia di 500 lire fu messa per chi 
            scopriva i delinquenti, gli autori dell’assassinio.

            Più di quindici giorni passarono, senza che degli assassini si 
            mostrasse nessuna traccia; ma un caso volle che fossero scoperti, 
            assicurati alla Giustizia, sebbene il capo sia stato ucciso.

            Sentite come, o lettori:

            La guardia Campestre Pietro Debilio Sferrazza, trovandosi in 
            perlustrazione nelle campagne di Castellazzo, per via incontrò un 
            certo Rosario Cammarata, sarto straccione, ubriacone, che aveva un 
            pezzetto di terra di fronte alla grotta, dove si riunivano i 
            masnadieri, e dove costui portava loro i sigari, il formaggio e il 
            vino per banchettare. Nel salutarlo, il Debilio si fece dire dove 
            andasse e quegli sbigottito gli disse che era innocente, ma... 
            che... Allora la guardia, scesa da cavallo, lo costrinse a fagli 
            rivelare il resto e quello abboccò all’amo. Esperto il Debilio lo 
            rimandò indietro imponendogli di non dir nulla e lui, rimontato a 
            cavallo, andò ad appostarsi dietro un albero davanti la grotta col 
            fucile spianato.

            Essendo giorno di Domenica, non vi era nessuno; a mezzogiorno 
            passato i masnadieri aspettavano ancora il Cammarata che non venne.

            La guardia Debilito per più di un’ora stiede lì fermo. Il Capo della 
            masnada, Filippo Terranova, un reduce delle patrie galere che aveva 
            scontato 20 anni di prigione per due omicidi, affacciatosi col Weter 
            in mano, scorta la guardia, si mosse in atto di... ma un colpo di 
            palla lo prese in un occhio, ferendolo mortalmente; gli altri 
            fuggirono dall’altra parte della grotta.Il Debilio, spronando il 
            cavallo, venne a portar la nuova ai Carabinieri che assieme a tutta 
            la F. P. corsero alla grotta di Castellazzo, dove vi fu un accorrere 
            di curiosi. Messo il brigante, ferito grave, su una scala a barella, 
            fu portato al Carcere, ove, dopo alcuni istanti, mori.

            Il primo ad essere arrestato fu Don Rosario Cammarata, il quale 
            confessò chi furono gli autori del delitto, sebbene lui non prese 
            parte al fattaccio. Fra gli arrestati come compagni vi erano il 
            figlio del Fattore di casa Bartoli e un certo Pesce, mazzarinese.

            L’impressione fu enorme!. Il signor Debilio venne Premiato con lire 
            500 e la nomina a Capo delle guardie Campestri a vita: il Prefetto 
            volle conoscerlo di presenza per il brillante servizio.

            Chiudendo la parentesi della cronaca nera del nostro paese, non 
            dobbiamo tanto stupirci, perché Riesi non è stato il solo unico 
            paese, in cui la mafia e la delinquenza abbiano fatto simili gesta.

            Lo abbiamo detto, lo ripetiamo: oggi questo non succede più; quei 
            tempi di triste memoria sono passati. Col Governo di Benito 
            Mussolini, siamo entrati in un’era di pace, di tranquillità, di 
            benessere. Egli stesso lo disse e lo fece; venendo in Sicilia 
            comprese che ci voleva da noi l’assetto per le popolazioni.

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            Cap. XLIII


            gli scioperi


            Accanto alla mafia alla delinquenza c’erano anche gli scioperi che 
            venivano a funestare il paese. Il conflitto tra capitale e lavoro 
            veniva ad aggiustarsi con lo sciopero che fu detto “ un’arma a 
            doppio taglio”; tante le volte erano gli operai che si ferivano; 
            tante le volte che essi scioperi portavano turbamenti e conseguenze 
            gravi: ed è perciò che il Fascismo fece cessare del tutto gli 
            scioperi, talché S. E. Riccardo Ciano nel 1924 tuonò a Livorno con 
            queste parole: “Gli italiani non vedranno più la via degli 
            scioperi!...”. (1)

            Nei paesi zolfiferi era facile ogni momento fare degli scioperi. Gli 
            zolfatai alla minima occasione scioperavano per l’aumento del prezzo 
            giornaliero o per un abuso: allora occorrevano soldati e Carabinieri 
            per il maimteiìinlento dell’ordine pubblico, giacché  si temevano 
            disordini, saccheggi, delitti.

            Due colossali ne ricordiamo noi a Riesi che meritano di essere 
            riferiti per la portata grave che ebbero. Lo facciamo, consapevoli 
            dei fatti avvenuti, per dire cosa erano gli scioperi, perché si 
            facevano e come terminavano.

            Il primo fu quello del 1884 a causa del ribasso dello zolfo. 
            L’Amministrazione francese voleva scemare il prezzo ai picconieri 
            che lavoravano a cottimo; essi non accettarono il ribasso, quindi si 
            misero in sciopero. Da una parte e dall’altra non possibile 
            comporlo, di modo che si prolungava. Subito una Compagnia di soldati 
            e rinforzi di Carabinieri vennero qui.

            Gli operai delle due miniere resistettero il più che poterono senza 
            punto sottomettersi; ma poi si diedero a schiamazzare per le vie, 
            gridando: Pane e lavoro!... La fame spinge il lupo ad uscir dalla 
            tana e darsi a scavar la terra per mangiarsela; a frotte gli 
            zolfatai uscivano in piazza e nelle vie, rubacchiando nelle 
            botteghe, bussando dai proprietari: le Autorità civili e militari 
            invano si misero di mezzo per far cessare lo sciopero, di guisa che 
            gli animi degli zolfatai si inasprirono ancor peggio.

            Un pomeriggio, usciti fuori a dimostrazione, si ridussero in massa a 
            chiassare nella piazza Garibaldi; ad essi si uni buona parte del 
            popolo: Accerchiati dai soldati, tumultuando, presero anche delle 
            pietre, ingrossando le grida. Per farli sciogliere, visto che la 
            dimostrazione era seria, il Delegato di F.S., ricevendo una 
            pietrata, ordinò i primi due squilli di tromba; ma in luogo di 
            calmarsi i dimostranti si accanirono di più: al terzo squillo ordinò 
            il, fuoco, ma il Capitano si oppose all’ordine, intimando i soldati 
            a star fermi, a non sparare, evitando così l’eccidio. Allora il 
            Delegato tolta la sciarpa declinò la responsabilità, lasciandola al 
            Capitano e partendo per Caltanissetta. E il bravo Ufficiale 
            dell’esercito italiano, salito al balcone del Casino dei Civili, 
            arringando la folla disse che non era venuto per uccidere dei 
            fratelli; che la responsabilità ora cadeva su di lui, pregando gli 
            scioperanti a sciogliersi e andarsene alle loro case.

            In un momento la dimostrazione si sciolse; ognuno rincasò in santa 
            pace. L’indomani mattina egli si recò al Municipio e si indisse una 
            riunione del Consiglio Comunale, dove propose di mettere delle somme 
            per aprirsi dei lavori, dando egli l’esempio per il primo col dare 
            lire cento. Gli altri lo seguirono generosamente, i proprietari 
            fecero lo Stesso e si raccolsero 20 mila lire. Con questa somma, 
            fecero acconciare delle vie di campagna agli zolfatai, i quali, per 
            quindici giorni, si sfamarono.

            Era Sindaco il Sig. Di Benedetto Mandera che oculatamente aperti i 
            brevi lavori, finiti i quali si diede a tutt’uomo a far discendere 
            gli operai in miniera, dopo più di un mese. Da una parte e 
            dall’altra, le perdite furono enormi.

            E il Delegato di P. S.? e il Capitano? Si potrà domandare, 
            Rispondiamo: Il primo non si vide più a Riesi ; il secondo fu e 
            encomiato dalla Prefettura.

            L’altro sciopero più terribile, colossale, avvenne nel 1903, il 
            giorno 8 di Giugno. Siccome era il tempo della mietitura, così gli 
            zolfatai, col pane in terra, se ne andarono a cogliere spighe per 
            far fronte allo sciopero ; ma cessata la messe, si videro nello 
            stretto bisogno di reclamare ; l’Amministratore Nuvolari non voleva 
            cedere.

            La mattina del 10 Luglio, in massa con la bandiera della loro 
            Società scesero in miniera, trascinandosi l’Ing. Accardi, loro 
            Direttore e seguiti da una Compagnia di soldati. Per la via altri 
            uomini e ragazzi l’accompagnarono alla miniera, unendo le loro voci. 
            Giunti ivi, il Direttore diede ordine alle guardie minerari di non 
            far scendere nessuno a basso; la folla, guardata dai soldati, rimase 
            sul comigliolo della miniera: qualcuno voleva fare resistenza alle 
            guardie, ma avendo una di queste sparato un colpo in aria, fu il 
            segnale della rivolta; il popolo irruppe, scendendo abbasso e Fece 
            man bassa di tutto e di tutti,

            Vi erano dei pecorai nei dintorni con bastoni, dei contadini con 
            fucili, gli altri con delle pietre e coltelli. Direttore, Ingegneri 
            e impiegati si chiusero dentro le loro belle casine; ma scassate le 
            porte, ferirono gli ingegneri; altri maltrattati fuggirono, le donne 
            spaventate, scapparono oltre il fiume. Ira di popolo, libera me 
            Domine! Resisi padroni, cominciarono a saccheggiare le case. I 
            soldati non spararono, perché chiesero dei rinforzi a Sommatino, 
            rinforzi che vennero tardi, quando tutto era distrutto. Non contenti 
            di avere saccheggiato le case, entrarono nelle macchine devastandole 
            e rompendo tutto ciò che capitava loro; i dimostranti gridavano, 
            minacciavano senza pietà, successe il finimondo!

            Soddisfatti dell’opera compiuta, ritornarono in paese 
            tranquillamente. Però alcuni presero il largo per più giorni.

            Chiamato l’ing. civile Luigi Lamantia per periziare i danni, furono 
            calcolati 100 mila lire. Un processo cominciò a istruirsi contro i 
            presunti rei. Il 15 Luglio furono arrestati l’Avv.Gaetano Pasqualino 
            e l’ing. Giuseppe Accardi, quali istigatori dello sciopero assieme 
            ad una trentina di persone tra zolfatai e contadini.

            Era Sindaco il cav. Inglesi il quale, se da una parte fu contento 
            dell’arresto dei due suoi nemici politici, d’altra parte si adoperò 
            a far scarcerare quei che erano innocenti, le cui famiglie gli 
            andarono a piangere in casa; ad onor del vero, bisogna dire che 
            l’Avv. Pasqualino, trovandosi a casa, sconsiglio gli zolfatai ad 
            andare in miniera, e l’ing. Accardi vi andò per frenare gli impeti: 
            ma i! Delegato di P. S., certo Nicolaci, terranovese, fece come il 
            pesce delfino col suo amico, scrivendo un nero rapporto per tutti e 
            due. Ad ogni modo dopo sei mesi di processo, gli imputati furono 
            assolti.

             (1) Lo scrivente era presente
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            Cap. XLIV


            la grande guerra


            Occupiamoci ora della guerra in relazione al nostro paese della 
            Grande guerra, la guerra Europea che cominciò il 1914 e finì il 
            1918, trascinando il mondo nel la rovina.

            Scoppiata nel 1914 tra gli Imperi Centrali e la Francia a cagione 
            del delitto di Serajevo, l’Italia stiede un’anno neutrale, lasciando 
            in lizza la Germania e l’Austria-Ungheria contro la Francia.

            Il fatto da noi fu giustificato per rivendicare i confini naturali 
            di Trento e Trieste, di cui l’imperatore Francesco-Giuseppe non ci 
            voleva dare “nemmeno una pietra” . Coloro che ci leggeranno appresso 
            nei secoli futuri sapranno più dettagliatamente come in un primo 
            tempo la Germania, violata la neutralità del Belgio, l’Inghilterra 
            scese in campo in difesa del piccolo regno devastato ed ancora la 
            Russia, mentre la Turchia si schierò a favore degli Imperi; poi 
            scese l’Italia ed infine l’America. Le generazioni che sorgono e 
            sorgeranno appresso devono sapere che la detta Grande guerra durò 
            cinque lunghi anni senza cessare facendosi per terra, per mare, 
            nell’aria. La vita umana non ebbe più valore; nei paesi, nelle città 
            la sera si stava allo scuro per paura delle bombe gettate da 
            aeroplani, uccidendo vecchi, donne, fanciulli: gli uomini in vigore 
            delle loro forze erano alla guerra. Da ciò ne venne la penuria dei 
            viveri e di tutte le cose necessarie alla vita.

            Riesi diede il suo contingente con morti, feriti e mutilati. 
            Riguardo al caro viveri, si fece di necessità virtù. Istituitosi un 
            Comitato di soccorso, si fece a gara per le famiglie dei soldati in 
            guerra; la casa della signora Donna Francesca D’Antona, che ci aveva 
            un figlio soldato, era frequentata dalle madri e signore per 
            allestire gli “scalda panni”.

            Sui campi di battaglia, nelle trincee, accorrevano giornalmente i 
            nostri soldati a difendere la patria. In  giorni tristi, si 
            piangeva, si soffriva anche la fame, ma ci si rassegnava. Che si 
            voleva fare? Di chi la colpa ?

            Finalmente la guerra cessò il 4 Novembre 1918. Cessato il fuoco, 
            fatto l’armistizio, ritornarono fra le famiglie i prigionieri, i 
            reduci, i mutilati ; solo i morii che non ritornano mai, non si 
            videro, ma le famiglie si rassegnavano, sapendoli morti da eroi.

            E’ scritto alle Termopoli,

            In sugli achei stendardi,

            Meglio morir da liberi

            Che vivere da codardi.  

            Fra 500 mila morti italiani, si distinsero da valorosi, seguenti 
            nostri Compaesani che noi vogliamo qui ricordare, venerare, 
            rimandando i loro nomi ai posteri.

            Il Capitano Salvatore Faraci, già Tenente di Complemento del 22 
            Regg. di Fanteria. Ebbe i natali il 24 Aprile 1882 da Vincenzo e 
            Gaetano Imbergamo. Operai agiati lo mandarono a Caltanissetta a 
            proseguire gli studi all’istituto Tecnico, compiuto il quale, 
            Salvatore passò a Catania a frequentare l’istituto nautico, dal 
            quale ne usci col grado di macchinista navale in prima; ma il 
            giovane Faraci non pago di ciò, volle elevarsi ancora, recandosi a 
            Torino per frequentare studi Superiori industriali, mentre era 
            impiegato in Officine meccaniche.

            Nel 1909, chiamato alle armi, si affezionò subito alla vita 
            militare. Congedatosi col grado di Sottotenente di Complemento, ebbe 
            l’idea di salpare per l’America. Nella guerra fu richiamato e venne 
            in Italia. Da Messina fu mandato in Carnia e nel Novembre del 1915 
            vi tornò di nuovo per istruire le reclute del suo reggimento; ma 
            dietro sua domanda fu rimandato alla Frontiera, passando col grado 
            di Tenente sul Trentino e in Valsugana. Il 19 Maggio 1916, durante 
            un assalto eroico, cadde sul campo della lotta. Medaglia di argento 
            con motivazione:

            * Mentre con animo saldo e fermo braccio, alla testa dei suoi

            * prodi soldati, faceva argine all’orda nemica, irrompente, fu

            * colpito a morte da pallottola nemica.

            ”Mirabile esempio di amore per la patria fino al sacrificio della 
            sua giovane vita”. (Da: La Rivista eroica).

            Capitano Giuseppe Ferro di Giuseppe e di Rosina Cultrera, maestra 
            elementare nato il 7 Ottobre 1904. il padre, R. Ispettore scolastico 
            a Catania, vide il figlio iscritto al secondo anno d’Università in 
            legge; appena scoppiata la guerra, lo studente universitario, si 
            arruolò nei plotone Allievi Ufficiali del 68 Fanteria di stanza a 
            Milano. Nel Maggio 1915 era già Sergente. Nominato Sottotenente, 
            prese parte con la Brigata Sassari ai fatti d’armi; sul Carso, nel 
            18, versò il suo primo sangue: una palla lo colpì alla mano destra 
            che gli rimase anchilosata.

            Il Tenente Ferro, guaritosi, fu i mandato in Eritrea. Cola, appreso 
            il rovescio di Caporetto volle essere rimandato in Patria. Mandato 
            in Francia, fu a Digione; il valoroso Tenente che da un anno era 
            stato nominato Capitano, cadde da eroe il 29 Settembre 1918.

            Ecco la motivazione che accompagnabva la Medaglia d’Argento:

            * Mirabile e costante esempio di fermezza e di coraggio,

            * nel passaggio di un ponte fortemente battuto dal’Artiglieria

            * nemica, non d’altro si preoccupò che del proprio reparto.

            * Colpito egli stesso da una scheggia di granata ad un braccio,

            * rimase fermo al proprio posto per regolare il m movimento dei

            * suoi uomini, finchè colpito una seconda volta a morte,

            * lasciò la vita sul campo. (da una monografia del padre)

            Rocco Jannì di Pasquale e di Antonina Giardina, Tenente, nacque nel 
            1895. Maestro elementare, compiuti gli anni di servizio, al momento 
            della guerra fu aggregato alla Sezione Mitraglieri Fiat, Brigata 
            Sassari..

            Ito al fronte da graduato, si trovò dinanzi al nemico; giovane 
            ardimentoso, pieno di entusiasmo, volle slanciarsi all’assalto, 
            malgrado i reiterati richiami del suo Capitano. Ferito mortalmente 
            all’addome, fu trasportato all’ambulanza militare, dove dopo poche 
            ore moriva.

            Il Governò gli decretò la Croce di bronzo al merito di guerra. 
            (Manca la motivazione).

            Tenente Enrico D’Antona del fu cav. Pietro e Donna Francesca, nato 
            nel 1884. Studiando a Napoli e a Torino da avvocato, parti per la 
            guerra; fu prigioniero a Val Sugana.

            Cessata la guerra, durante il viaggio di ritorno lo cole una 
            polmonite e mori a Trieste il 6 Dicembre 1918.

            Il Sergente Ciulla Gieseppe di Gaetano e di Santina D’Antona 
            proprietario borgese, nato nel 1890, aveva prestato regolare 
            servizio. Richiamato al fronte col grado di Sergente fu nelle 
            trincee. Indi ottenne la licenza per i lavori campestri ma poi, 
            ritornato al suo posto di combattimento, fu nel rovescio di 
            Caporetto. Nella confusione si seppe che era morto di polmonite 
            all’ospedale di Verona.

            I suoi fratelli che si trovavano al fronte, ne appresero la notizia 
            senza poter conoscere il Luogo dove fu seppellito. Mancano perciò i 
            particolari.

            Tra i soldati figli del popolo, morti sui campi di battaglia. e 
            decorati al valore, vi furono, fra i 96:

            Marino Rosario di Francesco e Giuseppa Bellomo, bersagliere, nato 
            nel 1895. Fu uno dei primi; durante il combattimento, ferito 
            gravemente, cessò di vivere a Pacchiasella il 2  Novembre 1816. il 
            Governo gli decretò. la medaglia di bronzo. La stessa sorte del 
            Marino subirono: 

            Albo Antonio, Angilella Salvatore, Amarù Antonio, Catarinolo 
            Francesco, Di Martino Antonio, Di Letizia Calogero, Di Ventra 
            Salvatore, La marca Gaetano, Lauria Gaetano, Lo Giudice Angelo, 
            Licata Vincenzo, Marotta Cristoforo, Maurici Giuseppe, Marazzotta 
            Salvatore, Sciamone Liborio, Sciacchitano Giuseppe, Rizzo Angelo, 
            Toscano Giuseppe, Vella Salvatore e Vella Michele.

            Questi nomi formano un quadro, sebbene incompleto, in una sala del 
            Municipio, con le loro fotografie, in mezzo alle quali spiccano i 
            ritratti dei Capitani Ferro e Faraci.

            Le altre famiglie non diedero le fotografie dei loro cari.

            Per tutti, fu eretto il Parco della Rimembranza, in ricordo dei 
            gloriosi caduti, secondo le disposizioni del Ministero 
            dell’Educazione Nazionale. Così, il detto Parco sorse alla Spatazza, 
            nello stradale Mariano e propriamente di fronte alla Centrale 
            Elettrica.

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            Cap. XLV


            la “spagnuola”


            Non era ancora cessata la guerra, quando un’altro flagello venne a 
            funestare l’umanità: la “spagnuola”.

            Come nella favola classica di Giovanni La Fontaine, degli animali 
            colpiti dalla peste che “fuggivano spaventati cercando un riparo”, 
            così gli uomini e la scienza non sapevano cosa fare per trovare un 
            rimedio al male.

            La “spagnuola” : questa febbre mediterranea venuta dalla Spagna, fu 
            un’epidemia molto fulminante che mieteva tante vite umane in un 
            momento, senza pietà. Se tutti non morivano, “tutti erano 
            spaventati”, al dir dello scrittore francese citato.

            La morte non guardava in faccia a nessuno: grandi e piccoli; uomini 
            e donne; ricchi e poveri. Chi era preso da quella malattia 
            difficilmente se la scansava e, quando non moriva, restava con 
            qualche difetto.

            Le famiglie povere, orbate dai loro cari e immerse nella miseria, 
            non sapevano darsi pace, pensando alla morte spaventevole; vi furono 
            parecchie famiglie i quali ne mori vano due e tre, il lutto era 
            quindi generale, Infuriando il morbo crudele, il seppellimento dei 
            cadaveri veniva operato alla confusa, trasportandoli al cimitero 
            senza nessun conforto. Anche per quelli che morivano in campagna non 
            venivano fatte onorevoli sepolture e si partivano senza nessun 
            accompagnamento. Coloro che erano poverissimi bastavano le poche 
            masserizie ad addobbare una bara; talune famiglie facevano uso delle 
            tavole del letto per la cassa mortuaria.

            Ingordi falegnami,speculatori, approfittando del momento, 
            sfruttavano chiunque a loro si presentava.

            Col Municipio del Sindaco, nella requisizione che si faceva, si 
            commettevano abusi e soprusi inauditi. Tutto era requisito per dare 
            aiuto agli ammalati, ma il popolo soffriva, mancando del necessario. 
            Beato chi poteva avere un pò di zucchero, d carne o di pane e pasta. 
            Al solito, gli arruffoni ne profittavano. Un quidam, comprata una 
            gallina L.20 per conto del Comune, le tirò il collo e la diede al 
            figlio per portarla a casa.

            La “spagnuola” durò quattro mesi, dal Settembre al Dicembre 1918.

            Parrà cosa incredibile, eppure è vero. La malattia della 
            “spagnuola”, a Riesi,  fece più strage della guerra. Mentre la 
            guerra fece un centinaio di vittime; essa “spagnuola” ne fece morire 
            seicento.

            Passata questa marea, che ci lasciò il triste ricordo d’una morte 
            che non venne dagli uomini ; rimasto il caro viveri della guerra che 
            si rimediava con il lavoro ben pagato, si predette di potere andare 
            avanti, superando gli ostacoli della vita. Ma non fu cosi!

            Il paese contava circa i6 mila abitanti.

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            Cap. XLVI


            il bolscevismo


            Quel tale Giuseppe Butera, che aveva infiammato la mente degli 
            operai, specialmente dei contadini, si mise a predicare il 
            bolscevismo venuto dalla Russia. Egli, staccatosi dal partito 
            popolare trascinandosi dietro la massa, offendeva tutto e tutti; da 
            socialista spinto. di facile parola, nelle vie, nelle case, 
            dappertutto, predicava coraggiosamente la Rivoluzione.

            Il Governo dell’On. Nitti lasciava il campo libero ai socialisti, di 
            modo che nei paesi d’Italia i bambini e le bambine cantavano:

            Avanti popolo

            Alla riscossa

            Bandiera rossa

            Trionferà!...

            Era l’andazzo delle follie rosse. E il Butera si prefisse di volere 
            per forza la divisione delle terre a Riesi, dicendo di espropriare i 
            feudi ai principi. Naturalmente il popolino, imbevuto di tali 
            principi, gli teneva bordone, battendogli le mani, accarezzandolo. 
            Cosicché lui, forte del suo partito, teneva in soggezione gli altri. 
            Era diventato l’idolo della massa incosciente! Ebbe la tracotanza di 
            presentarsi da candidato come deputato socialista al Collegio. 
            Perciò, nei paesi vicini andava propagando le sue idee, appoggiato 
            dal partito centrale del giornale “l’Avanti”.

            Insomma, diede molto fìl da torcere alla P. Sicurezza.

            Coi partiti sovversivi, il dopo guerra fu peggio di prima. Qui.da 
            noi, teneva il paese in continuo movimento, in continua animazione 
            di giorno e di sera. I contadini volevano la divisione delle terre, 
            erano diventati bolscevichi; il loro capo assecondando le loro 
            aspirazioni, tempo permettendo, si armavano e andavano nei feudi a 
            prendere possesso.

            I padroni delle terre avevano dato ordine ai Campieri di lasciarli 
            fare onde evitare eccidi. Si partiva la mattina per molto tempo con 
            gridi e chiasso e bandiere, arrivando alla meta designata della 
            campagna. Seguiti da una Compagnia di soldati e CarabinIeri tra il 
            chiasso e l’allegria, si facevano la divisione del feudo, cui 
            limiti, piantando le bandiere, cantando: “Bandiera rossa trionferà”. 
            La giornata trascorreva gozzovigliando, schiamazzando, facendo come 
            le galline che schiamazzano prima di far l’uovo.

            Al ritorno rientravano la sera nel paese in fila, soddisfatti delle 
            loro operazioni; rincasati, appena preso un boccone, tutti alla Sede 
            socialista per la conferenza del Butera. L’indomani punto e da capo, 
            le solite agitazioni; il conferenziere (sic) faceva sentire le sue 
            minacce, tuonando contro il Governo di allora. E i Carabinieri lì 
            presenti non dicevano nulla.

            Impavido, imperterrito, Giuseppe Butera sì credeva padrone. Oltre il 
            battimani e gli applausi che riscuoteva dalla folla, egli era 
            portato a spalla, alimentando la sua bocca di ciambelle e dolci.

            Chiusi i proprietari nelle loro case ben serrate, non uscivano, non 
            potevano dir nulla; scorgendone uno nelle vie, gli davano la baia ed 
            era costretto a ritirarsi per tema di qualche brutto tiro.

            Minacce su minacce, chiassi su chiassi, i giorni volavano, sperando 
            che migliorassero con quello stato di caos davvero increscioso. 
            Tutto era lecito dal Governo deplorevole del l’On. Nitti che aveva 
            dato la mano larga ai socialisti, i quali se erano forti, non erano 
            neppure d’accordo fra loro.

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            Cap. XLVII


            la mitragliatrice (famosa repubblica riesina)


            Come conseguenza di tutto questo mal Governo, di tutto questo 
            malessere di questo disordine, abbiamo avuto a Riesi la 
            Mitragliatrice. Anche questa brutta pagina di storia dobbiamo 
            registrare in pieno secolo XIX. Scriviamo sotto l’impressione del 
            triste epilogo della nefasta giornata della Mitragliatrice. Ecco il 
            fatto, come avvenne:La Domenica dell’8 Novembre 1919, i soliti 
            bolscevichi, decisero di andare a prendere possesso del feudo 
            Palladio, di proprietà dei principi Fuentes, dato in gabella. Da qui 
            partirono non solo essi, ma chiesero l’aiuto dei loro compagni 
            mazzerinesi, i quali, armati ed a cavallo, vennero a Riesi. Essendo 
            il feudo vicino per lo stradale di Calamita, uomini, donne e 
            ra­gazzi si misero in moto. Il Butera era in prigione. Chi organizzò 
            la gita fu un certo Angilella, uno spietato socialista, Piovutoci 
            non si sa da dove. Costui, predicando a squarciagola, diceva di 
            farla finita coi signori proprietari incitando i cittadini ad 
            armarsi, gli operai di tenersi pronti per la rivoluzione. Lungo la 
            via, soldati, o Carabinieri non poterono arginare, calmare il 
            Popolo. Giunti, al feudo, fecero le dovute operazioni, senza essere 
            molestati. Intanto la P. S. si provvide duna Mitragliatrice che fu 
            piazzata accanto alla chiesa della Madrice tra la piazza Garibaldi e 
            il, Corso Vittorio Emanuele. Gli scalmanati  ritornando 
            sull’imbrunire entrarono in paese cantando battendo le mani. 
            Trovandosi nella piazza, l’Angilella ordinò al popolo dì andarsi ad 
            armare e ritornare. E difatti così fecero. La piazza ed il Corso 
            formicolavano di gente. Ad un certo punto il Tenente e il Delegato 
            di P. S. premerono la mano del soldato, facendo  funzionare lo 
            strumento micidiale. Al crepitio fulminea della Mitragliatrice 
            seguirono altri colpi di fucile e revolvers. Il terrore invase tutti 
            gli animi. Un momento dopo si vide un campo di morti sia in piazza 
            che nel Corso: anche i feriti fecero spavento. Nella confusione gli 
            sparatori fuggirono; inseguiti, fu rag­giunto il Tenente al piano 
            del Pozzillo per la via di Ravanusa e fu freddato. In quella 
            occasione l’ing. Accardi, che si trovava lungo il Corso, trascinato 
            nel Cortile Golisano, venne pugnalato da mano ignota e ferito. Il 
            pallore, lo sgomento si leggeva in faccia di tutti, vedendo la 
            carneficina il sangue che scorreva, raccolti i cadaveri, le famiglie 
            ne piansero amaramente i figli, i mariti, i parenti, I morti furono 
            8 e dei feriti non si seppe il numero. La prima versione data dei 
            giornali fu che:la Rivoluzione era scoppiata a Riesi: laonde un 
            Reggimento di fanteria col generale, la notte seguente entrò a Riesi 
            in assetto di guerra, con baionetta in canna e i lanternini accesi. 
            Entrati allo scuro, nel silenzio, in punta di piedi, mentre gli 
            abitanti dormivano, non sapendo dove andare, ne cosa fare; non 
            conoscendo nessuno, ne presentandosi anima viva, il generale adagio 
            adagio  fece aprire le chiese per far riposare i soldati che avevano 
            fatto 48 ore di marcia forzata. Giunti alla Sanguisuga temevano ad 
            entrare, credendo il finimondo, che la rivoluzione continuasse. 
            informatosi i soldati che il paese era sotto l’incubo del terrore; 
            che i cittadini spaventati, piangenti. temevano di riaprire le porte 
            sapendo che c’erano i soldati, più tardi, generale e soldati 
            rimasero sorpresi. Fattosi giorno, apertesi le prime botteghe, i 
            soldati, usciti fuori per le vie per comprare da mangiare, nel volto 
            dei cittadini leggevano i segni dello spavento, per timore di essere 
            di nuovo massacrati; ma i soldati li rassicuravano, li confortavano 
            allora furono fatti segno a delle gentilezze offrendo loro il caffè. 
            Rifocillati che furono, la stessa mattina il Reggimento ripartì per 
            la Sede di Palermo. Da quel giorno fatale della Mitragliatrice 
            ovvero da quell’epoca, il popolo riesino rimase scosso: sembra un 
            brutto sogno, eppure è stata una triste realtà che ci fa ripetere 
            col proverbio Chi è stato scottato dall’acqua calda, teme dell’acqua 
            fredda.

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            Cap. XLVIII


            il fascismo


            Gli anni 1919, 20, 21, e quasi tutto il 1922 fino al 28 Ottobre del 
            dopo-guerra, furono anni di disordini sociali, di terrore, di timori 
            a causa del bolscevismo imperante. Si temeva da un momento all’altro 
            la Rivoluzione; il bolscevismo diceva un dotto, si sentiva 
            nell’aria; gli animi di tutti, in conseguenza di ciò, erano sospesi. 
            Le campagne furono abbandonate a sè stesse; i proprietari non 
            potevano dare un passo; furti ed omicidi, ruberie d’ogni genere 
            erano all’ordine del giorno; ladri e ladruncoli nelle campagne 
            razziavano dappertutto.

            (qui manca un piccola parte, del testo originale)

            aveva preso il suo corso; ne paesi, approfittando dello scuro, si 
            commettevano brutti atti: basta dire che ad un barbiere gli levarono 
            25 soldi e lo scialle, alla discesa del Carcere vecchio; ad una 
            coppia di giovani sposi, dopo l’Avemaria, mentre tenevano il marito, 
            alla sposa rubarono lo scialle e l’oro; in pieno giorno, per la via 
            detta miniera Tallarita, furono assaltati gli zolfatai che avevano 
            ricevuto la paga.

            Ma ciò che maggiormente faceva impressione erano gli omicidi, i 
            delitti terrificanti che succedevano nelle campagne e nei paesi; la 
            vita umana non era appunto calcolata.

            La cronaca di Riesi di quei tempi registra Purtroppo fra i tanti 
            delitti di sangue i seguenti:

            1) Una notte all’Ammiata, feudo nel territorio di Butera, all’epoca 
            della raccolta del grano, mentre i mezzadri, trovandosi nell’aia 
            dormendo, intesero che i ladri rubavano il frumento, portandolo 
            nelle bisaccie sulle bestie come se fosse di loro proprietà.

            Svegliatisi i coloni, poiché gridavano, ne furono freddati due. I 
            Carabinieri di pattuglia, messesi in colluttazione coi briganti, ne 
            ferirono uno mortalmente;

            2) Ad un Campiere gli levarono tutto quello che aveva e l’uccisero 
            per la via di Gallitano ;  

            3) Un povero contadino che si recava al vicino Canale ad abbeverare 
            il suo unico somaro, con il quale si guadagnava il pane per la 
            famiglia, suonata l’Avemaria, gli levarono l’animale e lui fu 
            disteso a terra; 

            4) Alla Scalazza, in pieno giorno, un piccolo proprietario, mentre 
            spietrava il suo campicello, lo legarono, gli spararono, 
             trasportandosi la mula.

            Tutta l’Italia era così!...

            A porre fine ai tanti malanni, a tanto sfacelo, venne un uomo fatto 
            apposta per salvare la nostra bella Italia. La marcia su Roma del 8 
            Ottobre 1922, fatta da Benito Mussolini, fece terminare tutto ad un 
            colpo il malessere, rimettendo l’ordine  dappertutto. Duce del 
            Fascismo, l’ex caporale dei Bersaglieri, con un pugno di giovani 
            ardimentosi, vestendo la camicia nera, si:oppose al parlamento 
            italiano che era in vera anarchia coi numerosi partiti sovversivi. 
            Afferrato il potere in nome di S. M. il Re Vittorio Emanuele III. 
            col quale avevano fatto la guerra, l’On. Mussolini, mise prima di 
            tutto i punti sugli i ai Deputati che trattò da “pecore rognose” ; e 
            poi parlando da Roma a tutta l’Italia, disse: “Ora basta coi cattivi 
            italiani”. Questo genio ignorato, figlio d’un fabbro ferraio e di 
            una Maestra elementare, amico del popolo, nato a Predappio, 
            nell’Emilia, col suo colpo di Stato, col suo pugno di ferro, 
            istituì, fece sorgere il Fascismo in tutti i paesi del Regno, coi 
            Fasci di Combattimento formati dai reduci della guerra, dai buoni 
            italiani.

            Dapprima sì impose con la forza, costringendo i riottosi a stare al 
            loro posto; cosi a mano, a mano l’ordine cominciò .a ristabilirsi a 
            misura che si affermava il Fascismo.

            Un’era nuova si apri nei paesi, cessando lo scompiglio e la 
            delinquenza. La Giustizia punendo i ladri rigorosamente, i furti 
            cessarono; la P. S., dando la caccia spietatamente agli omicidi, ai 
            malfattori, liberò le campagne e i paesi.

            La mafia ebbe un serio colpo alla testa. Venuto in Sicilia .S. E. 
            Mussolini, disse queste precise parole a Messina: “Voi, le vostre 
            popolazioni, avete bisogno di essere purgate dalla mala vita” . Egli 
            giungendo fino a noi alle miniere Trabia Tallarita, come dovunque fu 
            acclamato.

            Esponente del Fascio di Riesi da noi fu il Dott. cav. Gabriele 
            Lamonica, reduce da Capitano Medico dalla guerra. Con zelo, coraggio 
            e fede fascista fondò il Fascio di Combattimento; coadiuvato dalla 
            Forza Pubblica; ogni giorno per le vie si andava gridando: “abbasso 
            la delinquenza!, Viva il Fascismo!”. In principio i fascisti furono 
            pochi, ma dipoi visto i risultati benefici che diede la tranquillità 
            al popolo, molti si unirono al Fascio, Creato dal Dott. Laconica che 
            fu il Segretario Politico

            Anche i proprietari vestirono la camicia nera, di guisa che la massa 
            passò al Fascismo. Le dimostrazioni erano ostili ai potere. Ogni 
            giorno la stampa annunziava tutto quello che faceva il nuovo Governo 
            dell’Ori. Mussolini, il quale sciolta la Camera dei Deputati volle 
            rivestirla di nuovi elementi del suo colore, cioè fascisti.

            Dato l’assesto al la Camera e ai paesi, S. E. il Capo del nuovo 
            Governo pensò di sciogliere i Consigli Comunali d’Italia per fare 
            entrate i Consiglieri fascisti poco alla volta. Riflettendosi, qui a 
            Rìesi, incominciò la lotta politica contro la democrazia al potere.

            I democratici d’altra parte si credevano forti e cercavano di 
            resistere all’urto, ma il Dott. Lamonica s’imponeva col suo partito 
            del Fascismo che guadagnava terreno giorno per giorno, i delinquenti 
            arrestati spazzarono il terreno per le nuove idee le quali seppero 
            di ostrica a coloro che non le compresero.

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            Cap. XLIX


            sindaco il com. G. c. golisano – il ritiro – giuseppe martorana – la 
            luce elettrica – vittoria del fascismo – il com. d’antona sindaco


            Era Sindaco dell’epoca il comm. Giuseppe Carlo Molisano. Cincinnato 
            di Riesi, l’Avv. Golisano fu chiamato a quel posto di nuovo, per 
            salvare la posizione d Consiglio Comunale in sfacelo nel 1920 e per 
            far argine al bolscevismo. Poiché anche nel detto Consiglio era 
            penetrato il disordine e si era in piena anarchia fra gli operai, ci 
            voleva un uomo ben visto alla Prefettura e al paese, i reggere la 
            barca fessa del Municipio. E difatti il Pasqualino si era dimesso 
            lasciando il campo libero all’ ing. Accardi col quale non andava 
            d’accordo. Questi, non potendo essere d’accordo con gli operai, sì 
            dimise pure ed  afferrò brevemente la Sindacatura, l’avvocato Don 
            Gaetano Debilio, un pasqualiniano. Il Consiglio in balia di se 
            stesso, per forza doveva essere sciolto, ma ad evitare maggiori 
            spese, si lasciò stare così com’era.

            La nomina a Sindaco del comm. Golisano fu accolta una unanime 
            benevolmente, con simpatia. L’egregio uomo accettò la carica 
            volentieri, sperando di fare del bene al paese. Egli si mise 
            all’opera, con la Giunta degli operai, scegliendosi a vice Sindaco 
            l’operaio Giuseppe Martorana e con lui il Segretario del Comune, 
            Francesco Mule Vella, che da maestro della musica, maestro 
            elementare, in resosi pratico dell’Ufficio, sbrigava le pratiche 
            passabilmente.

            Il Sindaco si pose innanzi i gravi problemi del paese. Cominciò egli 
            a lavorare alacremente prima di tutto per la luce elettrica, onde 
            levare io scuro, mettendo Riesi alla pari degli altri paesi vicini; 
            in secondo luogo si diede attorno all’impellente problema dell’acqua 
            potabile e le fognature per dissetare gli abitanti, levando le 
            porcherie, le immondizie delle vie ed avere un paese pulito.

            Tali problemi affrontò il comm. Golisano; per quanto difficili a 
            risolversi, pure il Sindaco vi lavorò assieme al suo Segretario, 
            pensandovi seriamente giorno e notte. Il nostro concittadino, che 
            conoscemmo, di già voleva rendersi benemerito alla cittadinanza 
            riesina: egli trascurava gli affari suoi, dandosi anima e corpo al 
            Municipio.

            Ma dopo il 1922, con l’avvento al potere del Fascismo, ne 
            insidiarono il Consiglio. Sebbene egli comprese i tempi nuovi fin da 
            principio, tanto vero che pubblicò una scritta a favore del Duce, 
            chiamandolo un grande uomo di stato “simile a Cromwell” ed altri 
            pure i fascisti, con a capo il Dott. Lamonica, gridavano: “Abbasso 
            il Consiglio”. E il Sindaco Golisano, non potendo sopportare i 
            tumulti e le grida, si dimise, ritornando ai suoi campi, agli affari 
            suoi, ai suoi studi, lasciandoci come ricordo, oltre il bastione e 
            la piazza Garibaldi ammattonata, la luce elettrica che illumina 
            sfarzosamente il paese. Col censimento, sotto di lui, il paese 
            contava 17.248 abitanti.

            Lasciato in carica l’operaio Martorana, questi da Sindaco titolare 
            fece di meglio per non cadere.

            Fu Sotto di lui che si portò a compimento la luce elettrica. Il 
            paese cominciò a respirare, a gioire; appoggiato questo Sindaco 
            dall’ex partito democratico, si credeva forte, ma il Consiglio di 
            Riesi doveva essere sciolto. Il Segretario politico col Fascio, 
            secondo l’idea dei Duce, erano sicuri del fatto loro.

            E difatti il Consiglio venne sciolto nel 1925. Un R. Commissario ne 
            venne a reggere le sorti protempore.

            Essendo un fascista, era ben naturale che doveva mettersi in 
            relazione col Segretario del Fascio, dott. Lamonica e la P. S. 
            Giusto vi erano qui due bravi funzionari, il Maresciallo Giuseppe 
            Scurria e il Commissario di P. S. Belofiori, i quali erano lo 
            spauracchio degli uomini di malavita e dovevano fare il loro dovere 
            a favore del Governo,

            Fattesi le elezioni a tamburo battente, dopo i tre mesi, 
            fascisticamente, la maggioranza fu del Fascio capitanato dal dott. 
            Lamonica e i civili di Riesi. Snidata la vecchia democrazia, 
            salirono al potere i fascisti. A Sindaco fu eletto il comm. Don 
            Luigi D’Antona. Lo stimato banchiere, vestendo la camicia nera, si 
            trovò di fronte alle nuove esigenze del Fascismo e del paese.

            Egli però non ebbe il tempo di potere esplicare nemmeno una parte 
            del programma fascista, perché vi fu un’altra, riforma mussoliniana.
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            Cap. XLIXbis


            dai sindaci al podesta’


            La riforma fatta dall’On. Mussolini fu di togliere dai Municipi i 
            Sindaci e mettervi dei Podestà nominati dal Governo del Re. E questa 
            riforma la fece attuar prima nelle città e poscia nei paesi. L’anno 
            dopo la rese comune a tutti i paesi.

            Scopo delle legge è di concentrare tutta l’Amministrazione Comunale 
            nelle mani di un uomo, levando le camarille locali.

            Il Podestà deve durare in carica cinque anni e può essere 
            riconfermato.

            Secondo questa legge il comm. D’Antona decadde da Sindaco. Bisognava 
            fare il primo Podestà di Riesi. Chi più indicato del cav. dott. 
            Lamonica? Chi più fascista di lui? Chi meglio di lui poteva assumere 
            tale carica? L’uomo indicato, designato, fu appunto il cav. dott. 
            Gabriele Lamonica. Egli si dimise quindi da Segretario politico del 
            Fascio di Riesi, accettando la carica di Podestà del nostro Comune.

            Ito a prestare giuramento nelle mani del Prefetto a Caltanissetta, 
            venuto il decreto reale, al ritorno gli sì fece una calda ovazione, 
            una calorosa dimostrazione di simpatia e di affetto. Al posto di 
            Segretario politico, i gerarca di Caltanissetta nominarono il cav. 
            Notar Giuseppe Sanfilippo, già vice Pretore negli anni 1915-1926, il 
            di cui figlio Avv. Matteo, reduce della guerra, in città era un 
            pezzo grosso.

            Le gerarchie fasciste sono formate dalle Federazioni provinciali e 
            dai Sindacati a cui fanno capo il Prefetto; nei paesi il Segretario 
            politico è il capo del Fascismo e di tutte le organizzazioni che 
            sono: Associazione dei Combattenti; Federazione dei Commercianti; 
            Società delle madri dei caduti in guerra; del Dopolavoro; dell’O. N. 
            B., della Milizia fascista e della Federazione degli Agricoltori.

            Tra Podestà e Segretario politico, deve esservi un reciproco 
accordo.

            Il dott. Lamonica Podestà e il Segretario Notar Sanfilippo per un pò 
            di tempo si diedero la mano, ma poi non si sa perché, non furono più 
            d’accordo. Il Podestà i credeva insormontabile dietro quello che 
            aveva fatto e detto, ma egli aveva dei nemici sott’acqua. Sotto di 
            lui si acconciarono le vie del Canale è quella che va al Calvario 
            col nome di Marconi; la prima impraticabile, fu fatta a ciottoloni e 
            prese la via de Littorio; la seconda fu fatta sbassare nella parte 
            rocciosa rendendola più. praticabile. Per le dette vie spese una 
            bella sommetta.

            Di più, il nostro Podestà si occupava dell’acqua potabile, 
            conoscendo i bisogni del paese in quegli anni di. siccità..

            Se dobbiamo essere spassionati il dott. Lamonica, se aveva degli 
            ammiratori, aveva anche dei satelliti, e lo rendevano inviso ai suoi 
            nemici, come anco a certi suoi amici. Fra gli impiegati municipali 
            vi erano quelli che lo subivano.

            Per una cosa da. nulla, per aver detto che un tale era analfabeta, 
            per potere ottenere il permesso d’armi, mentre quello non sapeva 
            firmare, il primo Podestà cadde nella trappola. Il fatto sta che in 
            Questura gli si fece un processo; processo che dinanzi il Tribunale 
            sfumò.

            Ed è perciò. che il dott. Lamonica non fu più Podestà. Bravo, 
            intelligente professionista, ricco di casa sua, si occupa degli 
            ammalati, passando la sua vita anche in campagna con la sua 
            famiglia, nella bella casina del Crocifisso.

            Ebbe la jattura di perdere un figlio promettente in una disgrazia, i 
            cui funerali riuscirono solenni.

            Se sono cose queste che abbiamo visto e ai nostri giorni, crediamo 
            che nessuno potrà accusarci di partigianeria;. la nostra storia 
            contemporanea l’abbiamo fatta e la facciamo imparzialmente, narrando 
            ciò che abbiamo visto e veduto coi nostri occhi.

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            Cap. L


            un commissario prefettizio modello


            Il Governo Centrale dell’On. Benito Mussolini, allargando i poteri 
            discrezionali dei Prefetti, dando loro il titolo di Eccellenza, 
            diede la facoltà di nominare i Commissari nei Comuni, ed è perciò 
            che si chiamano Commissari Prefettizi; come pure furono abolite le 
            Sottoprefetture, avendo i Comuni relazione diretta con le Prefetture 
            nel Capoluogo della Provincia.

            S. E. il Prefetto di Caltanissetta, tolto il Podestà processato, vi 
            mandò a sostituirlo, nel 1928, nella qualità di Commissario 
            Prefettizio, il cav. Ugo Rossi consigliere presso la stessa 
            Prefettura.

            Il cav. Ugo. Rossi, calabrese, era stato 13 anni Sottoprefetto a 
            Noto ed era molto esperto e pratico di amministrazioni comunali. 
            Buono, intelligente e giusto, appena giunto fra noi disse: “Questo 
            paese non ha avuto buoni amministratori”; e indi rivoltosi agli 
            astanti: “Se voi mi aiuterete; vi lascerò Riesi una cittadina”.

            Immedesimandosi della nostra sorte, girando di qua e di la, vide che 
            la via del Parroco, ove comincia la via Marconi; era orribile; con 
            poca spesa la fece bene accomodare.

            Trasformò la Casa Municipale internamente ed esternamente, 
            rendendola un vero Palazzo di Città; la sua bella prospettiva, 
            rivestita a nuovo, ne fa un magnifico aspetto. Nell’interno 
            trasformò la sala del consiglio in un salone di ricevimento stile 
            Luigi XIV; sistemò gli uffici municipali razionalmente. Tutto faceva 
            eseguire sotto la di lui direzione. Gli impiegati, ben trattati, gli 
            volevano un gran bene; il popolo, specialmente i poveri, trattati 
            come si deve, lo amavano.

            Ma queste, non sono le sole opere ed azioni che parlano del cav. Ugo 
            Rossi: egli fece ancora di più.

            Con un manifesto al pubblico annunziò che aumentava di cent. 10 al 
            Kg. la carne e cent. 10 a litro il vino, per abbellire il Parco 
            della Rimembranza, perché “non faceva onore nè ai morti nè ai vivi”, 
            e ciò per non aggravare il Bilancio.

            Difatti, raccolta la prima somma, la impiegò subito a fare 
            acconciare i due tratti delle vie Cavour e Mazzini che portano a 
            Parco. Con ammirevole cura fece recintare la Rimembranza di mura, 
            con un’entrata a grata di ferro, vi collocò vasi e vasetti attorno 
            agli alberi, un monumento ai caduti al centro, una colonna d granito 
            con una piccola aquila in cima, una croce fuori il Parco danno un 
            aspetto bellissimo al sacro recinto. Così ne rese una bella, 
            attraente passeggiata.

            Il cav. Rossi, visto che a Riesi mancava una pescheria e che il 
            pesce si vendeva all’aperto nella piazza del Crocifisso fra le 
            mosche e il fango, volle levare quella sconcezza facendo sorgere la 
            pescheria nel cortile Riccobene, più in là della piazza. E’ poca 
            cosa, ma è meglio di niente.

            Dando un’occhiata al cimitero, vi fece fabbricare una piccola 
            cappella di cui era sfornito, fece sistemare i viali e mettere la 
            breccia alla stradetta.

            Attorno alla piazza Garibaldi, fece piantare degli alberi come 
            all’altra piazza del Crocifisso e allo stradale della Rimembranza.

            Mise un’ordinanza, con la quale imponeva i proprietari nei Corsi 
            principali a fare il prospetto delle loro case. Alcuni furono 
            solleciti a farle, altri, a causa della Assicurazione agli operai, 
            furono riottosi.

            Tutto l’egregio Commissario aveva in animo di fare e rifare.

            Ma dove maggiormente il cav. Rossi lavorò fu per la soluzione del 
            grave problema dell’acqua potabile e le fognature. Questo era il suo 
            sogno e ci era quasi riuscito. Aveva contratto con una Società 
            romana, ma sul più bello, venne trasferito a Catania e ci lasciò.

            il popolo commosso all’atto della partenza, nel salutarlo, gli fece 
            una dimostrazione di affetto. Anche lui, il cav. Ugo Rossi, fu 
            commosso, spiacente di averci lasciato senza aver terminato ciò che 
            aveva nell’animo di fare. Fra tutti i Commissari forestieri che sono 
            passati nel Comune di Riesi, nessuno ha lasciato un ricordo conte 
            lui.

            Dacché esiste questa legge, in quest’epoca di Fascismo, vi sono 
            stati finora tre Podestà e quattro Segretari politici.

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            Cap. LI


            la ferrovia - mentre scriviamo, terminando


            Mentre scriviamo terminando la nostra storia, frutto della nostra 
            immane fatica, lavoro della nostra povera intelligenza, noi che, 
            oltrepassato mezzo secolo di esistenza, abbiamo visto passare uomini 
            e cose, ci fermiamo qui.

            Mentre scriviamo i lavori della ferrovia sono a buon punto; già la 
            bella Stazione è terminata e la linea è quasi ultimata.

            Questa sospirata linea ferroviaria interna della Sicilia, partendo 
            dalla Stazione Centrale di Canicattì, dovrà passare per le stazioni 
            e paesi di Delia, Sommatino, Trabia-miniere, Riesi, Mazzarino, San 
            Michele di Ganzeria, San Cono e Caltagirone, proseguendo poi per 
            Catania,

            Il tronco che dalla Stazione Trabia-miniere viene a Riesi è 
            meraviglioso. Scendendo il treno dalla montagna della miniera Grande 
            di Sommatino, che costeggia fra le gallerie, arriva al vallone detto 
            della Cottonara; passato il ponte fa una curva e dopo 550 metri 
            giunge all’altro colossale ponte Imera sul Salso , accanto a quello 
            interprovinciale. E’ un’opera d’arte moderna. Esso ponte ha 10 luci 
            di 15 metri ciascuna, è lungo m. 190,80, largo m. 5,10, alto m. 25, 
            tutto in pietra da taglio. Passato il quale la macchina si ferma 
            alla stazione delle due importanti miniere che sembrano, con le 
            magnifiche casine che vi sono, un ameno villaggio. 

            La locomotiva, messasi in moto nella valle del “Salso” va verso due 
            viadotti: il primo, lungo m. 184,50, è ha 10 luci di cui 8 centrali 
            di m.15 e le due estreme di m. 10; il secondo lungo m. 86,50, è ha 4 
            luci di m. 15 ciascuna. Ed eccoci ora. alla grande, maestosa 
            galleria o traforo della Cammarera lunga m. 1091, con l’altezza di 
            m. 29,50 dal fondo del vallone. Uscendo la macchina col suo fischio, 
            nel guardare il monte Stornello, il treno traversa la contrada detta 
            Ficuzza finche, tra ponti e ponticelli, arriva all’ultimo viadotto 
            del Bannuto, lungo m. 87, ha 5 luci di m. 10 ognuna. Con una breve 
            discesa nella contrada Giarratana, la strada ferrata ci porta al 
            simpatico ponte del cavalcavia di San Giuseppuzzo e, passato, il bel 
            Casello, entra nella stazione del Lago, vedendo il grazioso villino 
            Antonietta del comm. Golisano e la casina del signor R. Jannì. 
            Riesi!!... Finalmente!

            Sono lavori esatti, opere d’arte, che hanno onore alla Ditta dei 
            signori Ing. e Colonnello De Vecchi di Favara, alla squisita 
            cortesia dei quali dobbiamo le informazioni di cui sopra, assunte 
            nei loro uffici. In atto, il Colonnello cav. Giuseppe, è Commissario 
            Prefettizio.

            La Stazione di Riesi, che sarà di grande utilità per il commercio 
            delle merci, è al centro della costruente linea ferroviaria.

            Quando si sentirà il fischio della locomotiva, annunziando 
            “Riesi!!...” il paese godrà dei benefici della civiltà.

            Colui che per la prima volta verrà in treno a Riesi, se di 
            primavera, affacciandosi allo sportello tra l’olezzo dei  fiori e le 
            bellezze naturali, resterà meravigliato, incantato a tanto sorriso 
            di Dio e della natura. Il viaggiatore, dopo avere ammirato la 
            lavorazione della zolfo nelle miniere presso il fiume Imera, ne 
            sentirà il puzzo, e spingendo lo sguardo fino al ponte 
            interprovinciale ne riporterà una bella impressione e siamo certi 
            che racconterà di’ avere visto cose meravigliose.

            Chi l’avrebbe detto che un giorno queste terre sarebbero state 
            allietate dalla ferrovia? Ah se i governi passati fossero stati più 
            benefici verso di noi, quanti guai ci avrebbero risparmiato! Ma, 
            grazie a Dio, le future generazioni saranno fortunate, sentendo il 
            fischio e vedendo arrivare la locomotiva.

            Il traffico della ferrovia farà allargare di molto il paese verso 
            quella parte, facendo sperare che sorgeranno bei palazzi, belle 
            case, botteghe e alberghi. La. via, che del resto e larga e lunga, 
            si presta ad un nuovo quartiere di stile moderno.

            Riesi, messo alla pari degli altri paesi civili del mondo, sarà una 
            cittadina. Manca, ancor oggi, l’acqua potabile abbondante e le 
            fognature. Chi saprà risolvere questo importante, vitale problema, 
            avrà legato il suo nome alla storia e sarà immortalato. I popoli, 
            oltre il pane, le vesti e la casa, hanno bisogno d’igiene per vivere 
            bene: la pulizia dei paesi è indice di vera civiltà.

            Non è per dare. una lezione a chi ne sa più di noi, ma è per 
            spronare gli altri a far meglio. Lo abbiamo detto sin dal principio 
            e lo ripetiamo ora terminando: il nostro paese ha sempre progredito. 
            Se venissero i nostri primi padri - non diciamo quelli dell’epoca 
            primitiva, nè quelli del secolo XVII, nemmeno i vissuti fino al 
            1850, ma quei dal Risorgimento in poi - crederebbero di sognare 
            vedendo il piano della Madrice, la Piazza Garibaldi mattonata, il 
            palazzo della baronia comprato dall’ing. F. Turco, ricostruito di 
            nuovo, con la bella, imponente e maestosa prospettiva; la sagrestia 
            e la casa d’abitazione del sagrestano Mulè, trasformata in casa 
            canonica; l’asciugatoio eretto nel palazzo del duca; più in là, la 
            casa della Principessa, e sul carcere vecchio sorta la bella casa 
            dell’ing. F. Drogo.

            E i bei prospetti attorno la Piazza Garibaldi circondata di alberi? 
            I corsi e le vie principali lastricati?

            Che direbbero al sentire che in due ore si giunge a Caltanissetta, e 
            che in una giornata si può andare e.tornare? Che non ci sono più 
            quelle carrozze, ma bensì automobili? E che il fiume non è più di 
            spavento?

            La vita quindi, da un secolo a questa parte, ha di molto migliorato.

            Lo zolfataio, gli operai, non frequentano tanto le bettole, ma i tre 
            caffè-bars, fra i quali primeggia il gran caffè Giannone, e tutti 
            vanno vestiti bene.

            Anche le donne vestono all’ultima moda di Parigi, e vanno in giro, 
            per le vie, sole.

            Le scuole, sia comunali che evangeliche, sono frequentati da scolari 
            d’ambo i sessi, vispi, intelligenti, studiosi, buoni.

            L’istruzione e il lavoro, hanno fatto crescere la gioventù della 
            nostra generazione di un’altro tipo.

            Col fascismo poi, in quest’ultima epoca, i delitti sono ,diminuiti: 
            i furti del 41 per cento e i delitti di sangue del 67 per cento.

            L’Opera Nazionale Balilla, istituzione scolastica del piccoli educa 
            questi agli esercizi ginnici, al canto e al lavoro.

            L’Associazione delle madri e vedove di guerra; l’Opera Nazionale 
            Maternità ed Infanzia per i bimbi poveri; l’Istituto Nazionale di 
            Previdenza per la pensione in vecchiaia; la Milizia Volontaria 
            fascista, ed infine il campo sportivo per il giuoco del calcio che 
            attira i tifosi a veder giocare; tutte queste belle istituzioni sono 
            sorte ai nostri giorni.

            Per i nostri avi tutto ciò sarebbe come un sogno, ma per noi è una 
            realtà vissuta e provata.

            Concludendo ci auguriamo che in avvenire sarà ancora meglio. Coloro 
            che verranno appresso di noi, godranno maggiori benefici di questi, 
            perché si dice: “L’uno semina e l’altro raccoglie”.

            Riesi, risorta a vita novella, come la favola della Fenice la quale, 
            bruciandosi dalle sue ceneri, ottiene vita più rigogliosa, piena di 
            vitalità, è un paese di 22 mila abitanti che accenna a diventare 
            città.

            Come per il passato. in tre secoli di vita attiva, il lavoro e 
            l’ingegno ci hanno portato a questo punto, così nell’avvenire il 
            lavoro, sorgente di pace, di prosperità e di felicità, farà il 
            resto. Il progresso in tutte le cose non si arresta mai; ma bisogna 
            ammettere che si deve progredire anche nella morale, base della 
vita.

            In questi ultimi anni di nostra esistenza, abbiamo avuto due 
            fattacci specifici che ci hanno degradato molto di fronte agli altri 
            paesi della Sicilia; ma essi fatti singolari, che sano passati alla 
            storia, speriamo che non si ripeteranno mai più, per la giusta 
            Nemesi, cioè il castigo che hanno avuto, per servire di lezione agli 
            altri. Del resto ogni regola ha la suaa eccezione: non si può 
            condannare un popolo per pochi degenerati.

            Il fatto del brigante Francesco Carlino che da giovane, gettatosi 
            alla macchia, dal 1920 al 1922 diede filo da torcere alla Pubblica 
            Sicurezza dell’Isola, da additarsi come autore di tanti delitti; 
            egli perseguitato ricercato dalla giustizia umana, venne arrestato 
            in una casa sul poggio della Croce.

            Inserragliatosi  dietro una bestia, fece fronti ad una compagnia di 
            soldati e carabinieri, guidati dal Questore Mori da Trapani, il 
            quale, prima di ordinare il fuoco contro la casa mandò a chiamare la 
            madre dinanzi la quale il brigante generosamente si arrese. Fu 
            condannato ad anni 30 di prigione, ma evadendo, si recò in Francia, 
            per potere salpare per l’America. In Francia commise un’altro 
            delitto Per il quale fu condannato a 15 anni. Mentre scriviamo, lui 
            sconta la pena alla Gajenna. “Godo buona salute, apprendendo il 
            mestiere di calzolaio” scrive in francese alla madre.

            L’altro fattaccio orribile, che fa orrore al solo pensando, è il 
            delitto avvenuto nella miniera Tallarita il 21 Giugno 1931. E’questo 
            delitto passibile della pena di morte, di cui Riesi ebbe il primato 
            con la nuova legge, fa spavento.

            Ricostruendo l’orrendo delitto dei nostri giorni ci trema i penna a 
            narrarlo succintamente: il ragazzo tredicenne Zuffanti Salvatore, 
            lavorava da manovale col muratore Gaspare Calafato, giovane promesso 
            sposo  24 anni da qui. Fatta la mezza giornata antipomeridiana 
            nell’andare a prendere un boccone con un certo Giuseppe Mignemi da 
            Canicatti, vecchio arnese da galera, si trascinarono l’innocente 
            fanciullo in fondo ad un corridoio esterno della miniera. Dopo aver 
            mangiato lo legarono con una corda e lo violentarono; non contenti 
            di ciò, temendo che il ragazzo parlasse, gli stroncarono la nuca e 
            lo lasciarono cadavere.

            Terminato il lavoro nel pomeriggio, il Calafato ritornò in paese, 
            facendosi vedere. La famiglia del ragazzo si mise a cercare il 
            figlio senza poterlo ritrovare. La notte i due delinquenti, al lume 
            di una candela, andarono a gettare il cadavere nel fiume, credendo 
            che la corrente se lo dovesse trascinare. Ma l’indomani mattina si 
             vide il morto galleggiare  nel gorgo. Denunziato il caso alla 
             giudiziaria, vi accorse la P. S. e il dott. Giuseppe Celestri. 
            Tolto il cadavere, dall’autopsia risultò tutto lo sfregio fatto al 
            povero corpo. Subito furono arrestate le due belve umane, che sulle 
            prime negarono, ma poi il Mignemi confessò, mentre il Calafato si 
            mantenne sulle negative.

            La popolazione messa in movimento, imprecava contro i malfattori; la 
            stampa italiana giustamente ne fece chiasso portando ai quattro 
            venti il delitto di Riesi.

            La famiglia, i parenti erano inconsolabili. Chi non ha cuore non si 
            commuove a tanto sfregio; ma il cuore la abbiamo tutti; crediamo che 
            anche  gli animali e le pietre si commuovono.

            Alle Assisi di Caltanisetta, i giudici furono inesorabili, 
            condannandoli alla pena di morte. Però nel l’eseguirla solo il 
            Mignemi all’alba del Gennaio 1932  fu giustiziato; mediante 
            fucilazione alla schiena, da un plotone di Metropolitani  romani 
            appositamente inviato, mentre il Calafato, all’ultimo momento la 
            pena di morte gli fu commutata in ergastolo, essendosi egli 
            mantenuto sempre sulla negativa, e perché era il primo caso.

            Al Cimitero del nostro paese l’effigie del giovanotto Zuffanti 
            Salvatore mostra  ai posteri il misfatto orribile di Mignemi e 
            Calafato.

            Abbiamo detto e insistiamo che c’è bisogno della morale nella vita 
            degli individui per agire bene, onestamente, coscienziosamente ma 
            questa morale dev’essere religiosa. Il sentimento religioso tiene 
            alto il morale e la dignità della vita; mancando questo, manca la 
            base di un popolo.  Giuseppe Mazzini, l’apostolo della libertà 
            italiana, scrisse, ed à con queste parole che vogliamo provare il 
            nostro assetto:

            “Il  pensiero religioso dorme nel nostro popolo: chi saprà 
            suscitarlo, avrà fatto più che non con tante scelte politiche”.

            Infine. dandovi o lettori la nostra storia di Riesi  nelle vostre 
            mani, immedesimatevi con noi, leggetela, commentatela divulgatela. 
            Chi fummo, chi siamo la storia ce lo insegna: le generazioni 
            avvenire sapranno almeno un riassunto del passato del nostro paese.

            FINE

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Chi indugerà sul capitolo  della MITRAGLIA avrà un sussulto: ecco la dimostrazione che Messana c'era  - avrà voglia di gridare. Calma! Questa microstoria è del 1934. 15 anni dopo gli eventi. L'autore è un pastore valdese alquanto condizionato dalla sua fede e dalla necessità di non contrapporsi troppo all'ormai consolidato regime fascista. Non credo che atti processuali relativi a faccende tanto scabrose potessero venire consultati agevolmente. Già il fatto che si sbaglia la data dei fatti narrati la dice lunga. Quel parlare di un Delegato di Polizia e non farne il nome mette in sospetto. Era proprio un delegato. E chi era codesto delegato? Come si fa a dire che era Ettore Messana;  nelle cronache coeve del Giornale di Sicilia e dell' Ora si pala di delegati di polizia, ma vengono tutti citati e Messana non figura. Aggiungasi che la versione di ben  tre persone che in contemporanea mettono il dito sul grilletto della mitraglia non è per nulla credibile. Guarda caso di tutti e tre codesti operatori non si fa il nome. Ma almeno il graduato dell'esercito che peraltro dopo ci ha rimesso la vita, era ben noto.  Leggendo quindi controluce noi perveniamo alla convinzione che lì a Riesi in quel frangente Messana non c'era. Dopo cercarono di scaricare su di lui responsabilità non sue. Tentativo subito fallito. Messana Non ne ebbe nessuno strascico men che meno giudiziario, nonostante un generale dei carabinieri per sollevare da responsabilità la sua benemerita arma avrebbe fatto le carte false pur di sviare i sospetti dai carabinieri implicati. CERTO I FATTI DI RIESI FURONO GRAVI GRAVISSIMI. VI FU PURE IL TENTATIVO  RIUSCITO PER ALCUNI GIORNI DI ISTITUIRE UNA SORTA DI REPUBBLICA COMUNALE INDI PENDENTE. Eppure  anche in un testo ponderoso e ponderato quale - LE REGIONI-LA SICILIA di Einaudi, uno storico del valore di Salvatore Lupo non vi si sofferma. Vago, elusivo. se un accenno fa ai fatti di Riesi, non va oltre questo asettico passo: "simile fisionomia aveva pure lo schieramento che nel Nisseno sosteneva Ernesto Vassallo nel riuscito tentativo di contrastare il 'prominente' giolittino della zona, Rosario Pasqualino Vassallo" personaggio questo che invero troviamo nelle cronache di quei terribili giorni successivi al famigerato 10 ottobre 1919. Certo invece di volere criminalizzare a tutti i osti un giovane vice commissario ci si fosse in questi anni 'avalutativamente' industriati a svelare i segreti storici di quei tempi ne avremmo guadagnoto tutti, soprattutto quelli come me che amiamo la schietta verità storica.

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