sabato 25 aprile 2015

allegati


ALLEGATO N.° 1

Sciascia  dubita del blasone dei Tulumello ancora nel 1982 quando si accinge a chiosare, da par suo, il fragile e giovanile lavoretto storico di Nicolò Tinebra Martorana. Vale un trattato di araldica quell’inciso “una sola famiglia aveva titolo nobiliare, quella dei baroni Tulumello che fu rivale dei Matrona: incerta però resta la legittimità del titolo.”

Sorprende come lo scrittore - noto onnivoro in materia di letture - non abbia mai dato uno sguardo (oppure ha voluto pregiudizialmente prescinderne) ai ponderosi dieci volumi sulla nobiltà siciliana dell’accreditato San Martino-De Spucches. Sui Tulumello avrebbe trovato queste ricerche:

TOLUMELLO O TULUMELLO

FEUDO  GIBELLINI

 

[N.B.: Ma dopo l'Autore sembra cambiare opinione. V. infatti Vol. IX - quadro 1454 pag. 221 - onze 157.14.3.5 annuali di censi feudali - GIBELLINI - Cedolario, vol. 2463, foglio 204.

 

 

Giulio GIARDINA GRIMALDI, Principe di Ficarazzi s'investì di due terzi del feudo di GIBELLINI a 3 dicembre 1787 come figlio primogenito ed indubitato successore di Diego GIARDINA e MASSA (Conservatoria, libro Investiture 1787-89, foglio 25).

1. - Quindi vendette agli atti di Not. Salvatore SCIBONA di Palermo li 22 luglio 1796 a D. Giovanni SCIMONELLI, pro persona nominanda annue onze 157, tarì 14, grana 3 e piccioli 5 di censi sopra salme 57, tumoli 11 e mondelli 2 di terre, dovute sul feudo di Gibellini; e ciò per il prezzo in capitale di onze 3500 pari a lire 44.625. Il detto Scimoncelli dichiarò agli atti di Notar Giuseppe ABBATE di Palermo che il vero compratore fu il Sac. D. Nicolò TOLUMELLO. Per speciale grazia accordata dal Re a 29 aprile 1809 fu confermato lo smembramento di dette onze 157 e rotte dal feudo di GIBELLINI già effettuate senza permesso Reale (Conservatoria, libro Mercedes 1806-1808, n. 3 foglio 77).

 

2. - D. Giuseppe Saverio TOLUMELLO s'investì a 7 giugno 1809 per refuta e donazione a suo favore fatte dal Sac. D. Nicolò sudetto agli atti di Notar Gabriele Cavallaro di Ragalmuto li 22 aprile 1809 (Conservatoria, libro Investiture 1809 in poi, foglio 40). Questo titolo non esce nell'«Elenco ufficiale diffinitivo delle famiglie nobili e titolate di Sicilia» del 1902. L'interessato non ha curato farsi iscrivere e riconoscere.

 

 

Là dove Sciascia potrebbe avere ragione è negli oscuri passaggi della baronia dal Giuseppe Saverio Tulumello a Luigi Tulumello, che contestato barone di Gibillini fu nella parte finale del secolo. E.N. Messana fornisce aneddoti e sapide denigrazioni nel suo lavoro (cfr. specialmente le pagg. 299-307, ma passim.) Impensabile comunque che dopo Garibaldi vi potesse essere più spazio per inezie come le investiture feudali. E Luigi Tulumello, “baruni ranni” lo diventa dopo la morte del padre don Giuseppe Tulumello - sposato plebarmente Messana, anche se Eugenio Napoleone M. sembra minimizzare la cosa nei suoi incessanti osanna alla propria famiglia -, morte avvenuta nel 1869. A dire il vero non troviamo mai indicato Giuseppe Tulumello con il titolo di barone. Forse il plebeo matrimonio con una Messana, nipote di un semplice gabellotto e poco onorevole esattore dell’odiata tassa sul macinato  fu d’ostacolo all’assegnazione del blasone nelle incandescenti concertazioni di famiglia. Barone invece viene detto il padre di Giuseppe, don Luigi Tulumello. Nell’ultimo “rivelo” del 1822 che si conserva in Matrice ecco come viene, emblematicamente, registrato il nucleo familiare del potente don Luigi Tulumello:

              cognome                      nome                  par.la      anni       titolo

TULUMELLO
LUIGI
 
 
BARONE DON
TULUMELLO
MARIA
MOGLIE
 
DONNA
TULUMELLO
VINCENZO
F.O
13 
 
TULUMELLO
ROSA
F.A
11
 
TULUMELLO
CARMELA
F.A
9
 
TULUMELLO
GIUSEPPE
F.O
5
 

 

Ovvia la preminenza del vero barone:

 

TULUMELLO B.NE
GIUSEPPE SAVERIO
 
 
BARONE DON
TULUMELLO B.NE
GRAZIA
MOGLIE
 
DONNA

 

Gli altri ceppi della famiglia, contraddistinti da deferenza con il rispettoso epiteto di “don” o “donna”, sono, frammisti a tanti altri Tulumello, sprezzanemtente segnati come ignobili, quasi che l’origine non fosse stata identica anche per i Tulumello del Ramo Catallo (volgarizzazione del nome Cataldo di un loro antenato):

 

TULUMELLO
SUOR MARIA TERESA
 
SUPERIORA
TULUMELLO
SR. MARIA MADDALENA
 
 
TULUMELLO
D.A MARIA CONCETTA
EDUCANDA
 
 
TULUMELLO
D.A CAROLINA
EDUCANDA
 
 
TULUMELLO
D.A NICOLETTA
EDUCANDA
 
 
TULUMELLO
ROSA
VEDOVA
 
DONNA
TULUMELLO
ROSALIA
VEDOVA
 
DONNA
TULUMELLO
GIOVANNI
 
 
DON
TULUMELLO
CARMINA
MOGLIE
 
DONNA

 

 

La genesi del titolo nobiliare - anche se legittima - è alquanto singolare. Si è visto come sia stato il sacerdote faccendiere don Nicolò Tulumello, quello osannato del Collegio di Maria, ad acquistare l’ormai fatiscente blasone del baronato di Gibillini dalla nobile ma sperperatrice famiglia  Giardina Grimaldi. Il sacerdote era nato a  Racalmuto nel 1759 viene così lumeggiato in un elenco di sacerdoti che si custodisce in Matrice.

«n.° 334. D. Nicolò Tulumello - Colleg., Vicario Foraneo e Direttore del Collegio di Maria e Fondatore del medesimo, pochi mesi prima di morire si ritirò nell’Oratorio dei Filippini in Girgenti dove morì il 5 Marzo 1814, anni 65, e per ordine di Monsignor Granata Vescovo di Girgenti si trasportò il cadavere di Lui nella chiesa di questo Collegio di Maria.»

Pochissimi sono i preti ed i religiosi di casa Tulumello: il primo in assoluto è D. Michelangelo Tulumello, nato nel 1702 e morto il 13 gennaio 1768. La fortuna dei Tulumello, o meglio del ceppo nobiliare, è coeva con il predetto sacerdote. Subentra don Nicolò Tulumello che di fortuna ne fece anche troppa. E’ pressoche suo coetaneo don Giuseppe Tulumello, nato nel 1765 e morto il 21 aprile del 1804. “Economo e fidecommisso della chiesa del Monte”, ce lo indica il solito registro della Matrice. Chiude la piccola schiera don Ignazio Tulumello, nato a Racalmuto nel 1826 e morto il 13 maggio 1897. “Don Ignazio Tulumello fu Luigi, collegiale del collegio dei SS. Agostino e Tommaso, confessore ordinario di questo Collegio di Maria, Arciprete di Castrofilippo”, sendo il noto registro della Matrice.

Don Nicolò Tulumello diventa facoltosissimo - per quali vie non è dato sapere - e compra il titolo nobiliare di Gibillini. Siamo nel 1796, il giorno 22 di luglio: i trambusti della rivoluzione francese, le mattane antifeudale del vicerè Caracciolo (1781-1786), la prammatica sanzione del 1788 dissolvitrice delle antiche leggi feudali del XIII secolo Volentes e Si aliquem,  l’invasione del regno di Napoli da parte delle truppe napoleoniche del 1798 e la fuga in Sicilia di ferdinando di Borbone sulla nave ammiraglio di Nelson, dovevano mettere sull’avviso chi avesse voglia ancora di feudi. Ma il prete Tulumello non se ne preoccupò più di tanto. Con il suo fiuto eccezionale per gli affari, si accaparrò quelle 57 salme con la’ggiunta di 11 tumoli e 2 mondelli di terre nelle ubertose fiancate a sud del Castelluccio. Di più, non trascurò di acquisire anche quel fardello blasonato e di censi impalpabili. Ma lo fa con scaltrezza: egli è prete ed a termine di legge non può divenire feudatario. Allora pensa a mettere in contratto la solita furba clausola “pro persona nominanda”. Come da copione, scoppiano liti per diritti successori tra i nobili alienanti; di mezzo c’è Diego Giardina naselli; alla fine a spuntarla è comunque l’astuto, piccolo prete di Racalmuto. Ma ecco il colpo di scena: non è il prete a dichiararsi padrone del feudo ma la “persona da nominare” è il piccolo Giuseppe Saverio Tulumello, figlio di don Vincenzo e di donna Rosa Alfano. Portava quel nome Saverio - estraneo alla platea onomastica dei Tulumello - sol perché il Vescovo di Girgenti Saverio Granata - amico del prete don Nicolò - lo aveva voluto battezzare di persona nella cappella che ancor oggi può ammirarsi nelle case di Pietro Tulumello. Per piaggeria, il secondo nome è quello vescovo girgentano. 

Perché don Nicolò, fra tanti nipoti, fratelli e parenti, ebbe a scegliere proprio Giuseppe Saverio, non è dato sapere. Ad essere malevoli, chissà cosa si potrebbe sospettare sino alle soglie del dilemma incestuoso.

Quel che troviamo (la malizia agli altri) tra i dati del rivelo del 1808 è tutto qui:

TULUMELLO
NICOLO'
anni 54
REV. DON
 
ROSA MARIA
anni 46
COGNATA

 

Il giovane Giuseppe Saverio non lo troviamo censito a Racalmuto. Fuori per studio? Il padre Vincenzo appare già a questa data defunto.  Ma lasciamo perdere: i nobili meritano ossequio e discrezione specie da parte di chi i nobili lombi non può in alcun modo vantarli.

Giuseppe Saverio ebbe nozze sterili e morì tutto sommato giovane: a soli 61 anni. Anche qui, fra tanti nipote la meglio ce l’ha Luigi Tulumello figlio di Giuseppe e di Maria Angela Messana. Nato il 25 luglio 1850, diverrà il sindaco di Racalmuto e resterà celebre anche per un grave fatto di sangue in cui fu sospettato.

Ma andando a ritroso, si è già detto che il capostite del ceppo Tulumello finito agli onori del blasone fu tal Ignazio Tulumello sposato con una non meglio identificata Rosa nel primo ventennio del ‘Settecento.

 

 

TULUMELLO
LUIGI
 
anni 27
DON
TULUMELLO
MARIA
M.
 anni 22
DONNA
TULUMELLO
MARIA CONCETTA
F.
 anni  9
 
TULUMELLO
VINCENZO
F.
 
DI MESI TRE

 

TULUMELLO
IGNAZIO
 
  anni  41
DON
TULUMELLO
ROSALIA
M.
anni  24
DONNA
TULUMELLO
GIUSEPPE
F.
anni    5
 
TULUMELLO
ALOISIO
F.
 anni   3
 
TULUMELLO
GIOVANNI
F.
 
MESI SETTE

 

La famiglia Tulumello ha antiche origini racalmutesi, ma non nobili. Il primo ceppo si rintraccia nel censimento del 1593. Ci riferiamo al registro:

DELLA NUMERATIONI ET DISCRITTIONI GENERALI FATTA DI SUO ORDINI SU DETTA TERRA IN QUESTO ANNO  VI^ IND. 1593 - PRESENTA BUSCELLUS  - P/NT IN RACALMUTO XI JULII VI IND. 1593. QUINTERNO DELL'ANIME DELLO QUARTERI DI SANTA MARGARITELLA FACTO PER ORDINI DELLO ILL. NATALICIO BUXELLO DELEGATO DI SUA EX.a

 

  Vi appare la vedova Paolina Tulumello con i suoi due figli Fabrizio e Andrea.

 

 

60
1
60
TULUMELLO PAULINA
CAPO DI CASA DONNA VIDUA; FRABICIO SUO FIGLIO ANNI 24; ANDRIO MIO FIGLIO ANNI 6

 

Anche nel Seicento i Tulumello sono di casa a Racalmuto. Ci sovvengono le “numerazioni di anime” custodite in Matrice. Nel 1664, i ceppi era i seguenti:

 

 

TULUMELLO
GIUSEPPE
 
C.
2
5
7
TULUMELLO
ANNA
M.
C.
 
 
 
TULUMELLO
MARIA
 
 
 
 
 
TULUMELLO
GERLANDA
 
 
 
 
 
TULUMELLO
NICOLAU
 
 
 
 
 
TULUMELLO
DOROTEA
 
 
 
 
 
TULUMELLO
URSULA
F.
 
 
 
 

 

 

 

 

TULUMELLO
PAOLO
 
C,
5
2
7
 
TULUMELLO
GIOVANNA
M.
C.
 
 
 
 
TULUMELLO
ANDRIA
 
C.
 
 
 
 
TULUMELLO
ANTONINO
 
C.
 
 
 
 
TULUMELLO
VINCENZO
 
 
 
 
 
 
TULUMELLO
GIUSEPPE
 
 
 
 
 
CLERICO
TULUMELLO
 ANTONINO
 
 
 
 
 
 

 

Del chierico Giuseppe Tulumello del 1664 si perdono le tracce: nel registro degli ecclesiastici della Matrice non v’è cenno alcuno.

Un altro nucleo risale alla numerazione delle anime del 1660:

 

TULUMELLU
LEONARDU C.TO ELISABETTA M. C.TA GIOSEPPE VITA F.

 

Ma i nobili risalgono con certezza ad un tale Ignazio Tulumello di cui si sa essersi sposato con una imprecisata Rosa. Non è nobile Negli sponsali del 1738-1744 l’amanuense della Matrice osa storpiare il riverito cognome in Trumello, alla paesana (Trumeddu), quando deve registrare le pubblicazioni di matrimonio del figlio Giuseppe con Paola Cuva di Canicatti, anche questa segnata senza gli orpelli ed i segni di deferenza, consueti negli atti parrocchiali dei nobili e signorotti locali.

Ma Giuseppe Tulumello fa presto ad affermarsi in paese: nel 1785-86 egli figura tra i giurati dell’Università di Racalmuto, insieme agli ottimati Lo Brutto, Scibetta, e Gambuto. Il sindaco è Antonino Grillo. Il collettore risulta don Giuseppe Amella.

Ma è nel 1791-1792, forte anche dell’ascesa del sacerdote don Nicolò Tulumello, che l’umile figlio dei Tulumello fa il grande salto nella scala dei valori sociali del luogo: ora il tesoriere comunale è lui. A lui la borsa. L’apice del Comune può restare agli altisonanti “magnifico rationale Impellizzieri Santo”, al “magnifico Baldassare Grillo”, al “magnifico Salvatore Lo Brutto”, a “Francesco Amella”, a “Paolo Baeri e Belmonte” - che sono sindaco e giurati -, ma è lui che tiene i cordoni della borsa e così, improssivamente, i fogli ufficiali della Curia panormitana lo designano con il nobilitante appellativo di “don”. Finalmente! Ancora non barone come il nipote Giuseppe Saverio, ma il primo tassello c’è tutto.

L’apice della gloria è rinviato a dopo l’Unità, per merito dell’erudito - e collerico - barone Luigi Tulumello, il figlio della plebea Maria Angela Messana, che non punto ritegno e si umilia dinanzi agli arroganti Matrona, quando in gioco c’è un vago pericolo per lo “sparlettiero” e scervellato figlio-barone.

Poi la miseranda fine, specie a danno di Arcangelo Tulumello, per debiti, per sottrazioni indebite. Dice lo Spucches che i Tulumello, al tempo della riforma sabauda dei titoli nobiliari, fatta ai primi di questo secolo, non ebbero neppure le poche lire per rivendicare il loro non vetusto - ma pur sempre legittimo - blasone. Oggi, gli eredi sono dignitosissimi. Apprezzati. Stimati. Ma ciò ad onta della svanita nobiltà dei loro avi. Tutto per merito loro. Del resto, tanti Tulumello sono Matrona per parte materna: quella che nell’Ottocento sarebbe suonata eresia, oggi è motivo di giustificatissimo vanto.

 

 

 

 

 

Il Falconcini, dopo, in piena irritazione per l’umiliante defenestramento, sui misfatti di Racalmuto torna ed ora con accenti più caustici e più offensivi. Scrive (cfr. il capitolo di pag. 55 intitolato: “Vandalici fatti consumati in Racalmuto”): «Da Canicattì  si appiccò l’incendio as un tempo a sette paesi della provincia; nei quali  sotto colore di provare scontento contro il governo vincitore ad Aspromonte, si dette sfogo a quelle covate ire di famiglie alle quali sogliono le passioni politiche servire di comodo manto in Sicilia: a Racalmuto fu il disordine molto più grabe che altrove. Due casate da lungo tempo in Racalmuto rivaleggiavano per il dominio nella propria terra e per il possesso delle cariche municipali, le quali in provincia, eccettuato le primarie città, si ritengono mirabile mezzo per quello a proprio piacere esercitare nel comune. I Matrona ed i Farrauto rinnovellando in fondo alla Sicilia le lotte cittadine che nel medio evo mandarono fino a noi la memoria dei Donati e dei Bondelmonti, fanno odiernamente rivivere nello sventurato loro paesela inciviltà dei secoli di mezzo, senza trarne neppure il vanto di storica celebrità. Le campagne di quel comune erano piene di renitenti alla leva, frutto questi della retrograda amministrazione tenuta dagli adepti dei Farrauto: la quale gestione delle cose municipali non era valso a togliere ad essi lo scioglimento del consiglio comunale, di recente avvenuto per decreto del re a savia proposta del mio predecessore; l’autorità municipale essendosi ricostituita quale si trovava prima di essere stata disfatta da quel regio decreto, perché il fatto stava nella [pag. 57] formazione delle liste elettorali e queste non possono per legge da un regio commissario venire rivedute. Già da qualche giorno si mormorava che il partito dei Farrauto, il qual sembra che vesta in calzon corto ed in coda per differire da quel dei Matrona che ama indossare la camicia rossa, pensasse a profittare dell’abbattimento che dal fatto d’Aspromonte veniva alla parte sua rivale, per correre alle case dei Matrona ed appiccare con questi una volta di più accanita zuffa, e si diceva che a tal rei fine tenesse quel partito continui e segreti accordi con la banda dei renitenti: si mandavano consigli e minacce dalla prefettura per ritardare, se possibile, tali avvenimenti tanto che la truppa giungesse da Palermo; non avendo senza questa modo di far altra cosa, fuor di consigliare e minacciare. Ma vedendosi a Racalmuto che il disordine di Canicattì non si puniva e deducendosene, secondo la logica dei Siciliani, che il governo non avesse forza per punire, si ridussero ad atto i meditati piani e il di 6 settembre 1862 si facevano entrare in paese i renitenti, si bruciavano gli archivi comunali, mandamentali, [pag. 58]  e si saccheggiava la caserma dei carabinieri, si devastava il casino di conversazione, si svaligiava il corriere e si ardevano le corrispondenze, si poneva l’assedio alle case dei Matrona che validamente si difendevano. Le notizie di queste vandaliche azioni giungevano a me da più parti ...la mattina del 7 settembre fra le undici e le dodici. [...]

«[pag. 60] Mezz’ora dopo mezzogiorno del di 7 settembre l’ordine era dato da me alla poca truppa di marciare tutta con veloce passo verso Racalmuto ... [pag. 64] La truppa partì all’imbrunire, e sul fare del giorno era a Racalmuto. [ ...] Quasi insieme alla truppa partirono per Racalmuto il procuratore del re ed il giudice istruttore, ed io affidai pienamente ad essi l’investigazione dei fatti avvenuti e le misure da prendersi [...], limitandomi a sospendere la guardia nazionale racalmutese che evidentemente aveva mancato al proprio mandato. Ma avendo poi saputo per un espresso, speditomi dall’autorità locale, che per ordine del comandante la colonna militare, i Matrona erano stati posti in carcere, e parendomi che non potessero essere rei poiché erano stati assaliti fino nelle loro case dai ricoltosi, spedii un delegato di Sicurezza da Girgenti ad informarsi della verità di quel rapporto ed a sollecitare in mio nome presso il giudice istruttore l’esame dei Matrona: io non poteva né doveva far di più, e questo bastò allo scopo; perché esaminati subito [pag. 65] i Matrona, furono dal giudice stimati degni di libertà e scarcerati. Essi, infatti, a mia insaputa, lealmente dichiararono tutto questo in un giornale, quando altri fogli si dilettavano di svisare ciò che io disposi in questa circostanza; ma così non fu impedito ad altri onesti diarii ed all’onestissimo Diritto di asserire, quando piacque al partito al quale tali periodici appartengono da Falaride, che io avevo lasciato premeditatamente avvenire i disordini vandalici di Racalmuto, per dare a me stesso il sollazzo d’esercitare severità contro i liberali, precisamente ordinando l’arresto inopportuno dei Matrona.

«[...] [pag. 64] L’ordine fu immediatamente ristabilito a Racalmuto, in grazia della presenza della truppa, la quale arrivata in quei giorni andò a ripristinarlo ovunque era stato manomess; gli arresti fatti nel primo momento dai comandi militari e dai delegati locali furono corretti dall’autorità giudiciaria, e regolare processo fu iniziato onde scoprire e punire i rei di tali odiosi misfatti.»

Il Falconcini aveva premesso tutto un racconto sui prodromi degli eventi racalmutesi. La scintilla scoccò a Canicattì: grande fu lo sgomento per i fatti d’Aspromonte e nel vicino centro canicattinese il “ceto civile il 30 agosto si vestì pubblicamente a lutto con l’animo di fare una dimostrazione puramente garibaldina.”  Il sindaco di Canicattì Giuseppe Caramazza, si premurava di telegrafare al prefetto queste note datate primo settembre 1862: «ieri sera una dimostrazione pacifica popolo tutto, alle grida via Garibaldi, viva Vittorio Emanuele, abbasso Rattazzi, abbasso il ministero. Appresso fornirò dettagli.»

Ma gli eventi presero subito una brutta piega:  “un atroce ferimento di carabinieri fu avvenuto ad una delle barriere della città”; “in conseguenza di un rapporto del regio procuratore - annota nel suo libro, a pag. 54, il Falconcini - io riattivai la guardia nazionale e lasciai riaprire il casino”: il prefetto aveva fatto chiudere il casino di società di Canicattì perché lì  si era organizzata la rivolta; ne scrisse la Gazzetta di Torino del 28 ottobre 1862.

Da Canicattì l’insurrezione si propagò subito a Racalmuto, a quel tempo già ben collegato dalla strada statale che poi raggiungeva Grotte e quindi Aragona; dal bivio di Aragona si poteva andare comodamente ad Agrigento oppure - dall’altro versante - a Comitini, Casteltermini, S. Giovanni, Castronovo fino a Palermo. La tesi del Ganci a dir poco non si attaglia a Racalmuto: secondo questo storico 

“per le cattive di viabilità e la mancanza di strade, scarsi erano i rapporti culturali e commerciali tra i vari comuni.” Ma allo studioso bisogna credere quando analizza la crisi del ’62: «una crisi anche morale - chiosa a pag. 120 - determinata da diffidenza reciproca, dei “continentali”  verso la Sicilia e della popolazione siciliana verso la politica fino allora seguita dal governo luogotenenziale, emanazione di quello di Torino, non senza uno strascico di recriminazioni che non potevano non acuire maggiormente il contrasto tra il Nord e il Sud. Questo provano anche le misure di sicurezza adottate (nomina di un commissario straordinario con poteri civili e militari, stato d’assedio, disarmo generale, fucilazioni eseguite ad Alcamo, a Racalmuto, a Siculiana, a Grotte, a Casteltermini, a Bagheria  ...) misure che non mirarono soltanto a colpire i “ribelli” che si ostinavano a non volere deporre le armi, ma anche e soprattutto ad arrestare, come si era fatto dopo il plebiscito, il movimento rivoluzionario popolare, che per la presenza di Garibaldi, s’era s’era rinnovato con lo stesso ardore che nel ’60. “In presenza di Garibaldi - scriveva a L’Indipendente di Napoli il corrispondente di Sicilia subito dopo i fatti di Aspromonte - egli è che i malumori che covavano da tempo si sono scatenati alla prima occasione; ma lo stendardo di tutti è uno, la guerra civile, la guerra del povero contro il ricco”. Ciò non sfuggiva ai moderati e a tutta la classe dell’alta borghesia terriera, la quale si schierò ancora una volta, come nel ’60, da parte del governo di Torino e tollerò anche di buon grado, pur di vedere rimesso in “ordine” il paese, lo stato eccezionale in cui venne posta la Sicilia, essendole stato applicato anche il blocco di cui fu data comunicazione a tutti i governi delle Potenze estere. Allorché anzi si cominciò a parlare di togliere lo stato d’assedio, da parte dei benestanti si levarono reclami perché fosse ancora conservato, come rimedio fondamentale per “purgare” l’isola di tutti i “tristi” che la infestavano.»

A noi quelle fucilazioni di racalmutesi danno raccapriccio; ed è fuor di dubbio che ci fosse lo zampino di Falconcini. Non riusciamo quindi a capacitarci come Sciascia, preso dalla “amara esperienza” di quel prefetto, lo accrediti di una patita “ingiustizia”. Il prefetto fu, come si disse, un continentale, un burocrate come tanti altri funzionari mandati in Sicilia ad occuparvi gli uffici di maggiore responsabilità; uno come gli altri: «duri e pieni di boria - secondo il profilo tracciato dal Ganci, op. cit. pag. 118 - coscienti di rappresentare una civiltà più progredita», burocrati che «arrivando in Sicilia non sapevano neppure rinunziare a tutte quelle formalità e cerimonie che si solevano praticare, specie dall’alta burocrazia piemontese, nei riguardi di un’alta autorità, nel momento di entrare in carica.» Per noi, vada un’infamia perenne a siffatto Falconcini. Evviva S. Spaventa che l’11 gennaio 1863 gli  inviava una lettera che gli giunse la sera del 16 gennaio ove a “nome del ministro dell’interno gli annunziava avere il re fino dal dì 11 dello stesso mese firmato il decreto che lo dispensava dall’ufficio di prefetto di Girgenti”.

L’argomento Falconcini tenne banco nelle dispute serotine del circolo di compagnia. Ma bisognava stare attenti: non si potevano urtare le suscettibilità delle due contrapposte fazioni, quella dei Matrona e quella dei Farrauto, entrambe massicciamente presente tra le file dei soci. In un punto si era unanimemente concordi: gratitudine al polso di ferro del prefetto, capace di sgominare con arresti e qualche scarica di fucili la masnada sanculotta che aveva osato profanare il rispettabilissimo circolo dei galantuomini racalmutesi.

Il Falconcini è proprio un fanatico del Nord, venuto a Racalmuto ‘a miracol mostrare’ della prepotenza piemontese: attorno all’autunno del 1862 sua altezza prefettizia non  può tollerare che nel piccolo paese dell’Est agrigentino due famiglie continuino a fare sceneggiate da Capuleti e Montecchi. Contatta il sindaco di Agrigento, Giuseppe Mirabile; lo sa amico dei Matrona e dei Farrauto; gli fa sapere che se costoro non mettono la testa a posto, lui all’isola li manda; ne i poteri; ne ha la voglia - forse più verso i Farrauto che verso gli ora prediletti Matrona. Il Nostro grafomane lo dovette essere: prende carta e penna e così indirizza una missiva al  disorientato sinfaco agrigentino: « Al signor avvocato Mirabile sindaco della città di Girgenti ... Il paese di Racalmuto ...   è diviso in due partiti ... l’uno capitanato dai signori Matrona, ed assume l’apparenza di liberali; l’altro è qui dato [da chi? Dall’avv. Picone?, n.d.r] dai signori Ferrauto e Mantione e fa sembianza di rimpiangere il dominio dei borbonici. [...] Io son risoluto far cessare il più presto e per sempre le gare delle famiglie Matrona e Ferrauto. [...] Ella signor sindaco tiene rapporti di amicizia con i membri delle due famiglie Matrona e Ferrauto. [Dato che è bene] non mantengano esagerate passioni politiche, [è bene si sappia che] potranno facilmente essere forzati a vivere lontani dal paese.

«In pari tempo provo il bisogno di notiziare V.S. Ill.ma che l’arresto avvenuto del sacerdote Mantione, e ciò che ad esso terrà dietro, fu cagionato solo da speciali motivi d’ordine pubblico e di superiore gravità, e non derivò per nulla dalla sua inimicizia personale coi Matrona [...] Girgenti 3 ottobre 1862. Il prefetto Falconcini.»

La nota ci svela il connubio tra i Farrauto ed i Mantione: i Mantione erano pur sempre gli eredi di quel bizzarro - ed impropriamente osannato - canonico Mantione. Ancora nell’Ottocento erano potenti e (se crediamo al Falconcini) prepotenti. Certo non era cosa da poco carcerare un sacerdote solo per la prevenzione di un prefetto nordista, all’improvviso convertitosi alla causa dei Matrona. Excusatio non petita, ci pare quella giustificazione della carcerazione del sac. Mantione solo “per speciali motivi d’ordine pubblico e di superiore gravità”; noi siamo certi che alla base c’era solo la vendetta dei Matrona, il loro odio verso chi ritenevano reo di insolente “inimicizia personale”. Alla faccia del perseguitato Falconcini, qui fanatico estimatore dei Matrona così come il suo postumo - oltre un secolo dopo - Sciascia.

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