lunedì 20 aprile 2015

ennesima versione dei fatti di Riesi


            Cap. XLIV

            la grande guerra

            Occupiamoci ora della guerra in relazione al nostro paese della
            Grande guerra, la guerra Europea che cominciò il 1914 e finì il
            1918, trascinando il mondo nel la rovina.
            Scoppiata nel 1914 tra gli Imperi Centrali e la Francia a cagione
            del delitto di Serajevo, l’Italia stiede un’anno neutrale, lasciando
            in lizza la Germania e l’Austria-Ungheria contro la Francia.
            Il fatto da noi fu giustificato per rivendicare i confini naturali
            di Trento e Trieste, di cui l’imperatore Francesco-Giuseppe non ci
            voleva dare “nemmeno una pietra” . Coloro che ci leggeranno appresso
            nei secoli futuri sapranno più dettagliatamente come in un primo
            tempo la Germania, violata la neutralità del Belgio, l’Inghilterra
            scese in campo in difesa del piccolo regno devastato ed ancora la
            Russia, mentre la Turchia si schierò a favore degli Imperi; poi
            scese l’Italia ed infine l’America. Le generazioni che sorgono e
            sorgeranno appresso devono sapere che la detta Grande guerra durò
            cinque lunghi anni senza cessare facendosi per terra, per mare,
            nell’aria. La vita umana non ebbe più valore; nei paesi, nelle città
            la sera si stava allo scuro per paura delle bombe gettate da
            aeroplani, uccidendo vecchi, donne, fanciulli: gli uomini in vigore
            delle loro forze erano alla guerra. Da ciò ne venne la penuria dei
            viveri e di tutte le cose necessarie alla vita.
            Riesi diede il suo contingente con morti, feriti e mutilati.
            Riguardo al caro viveri, si fece di necessità virtù. Istituitosi un
            Comitato di soccorso, si fece a gara per le famiglie dei soldati in
            guerra; la casa della signora Donna Francesca D’Antona, che ci aveva
            un figlio soldato, era frequentata dalle madri e signore per
            allestire gli “scalda panni”.
            Sui campi di battaglia, nelle trincee, accorrevano giornalmente i
            nostri soldati a difendere la patria. In  giorni tristi, si
            piangeva, si soffriva anche la fame, ma ci si rassegnava. Che si
            voleva fare? Di chi la colpa ?
            Finalmente la guerra cessò il 4 Novembre 1918. Cessato il fuoco,
            fatto l’armistizio, ritornarono fra le famiglie i prigionieri, i
            reduci, i mutilati ; solo i morii che non ritornano mai, non si
            videro, ma le famiglie si rassegnavano, sapendoli morti da eroi.
            E’ scritto alle Termopoli,
            In sugli achei stendardi,
            Meglio morir da liberi
            Che vivere da codardi. 
            Fra 500 mila morti italiani, si distinsero da valorosi, seguenti
            nostri Compaesani che noi vogliamo qui ricordare, venerare,
            rimandando i loro nomi ai posteri.
            Il Capitano Salvatore Faraci, già Tenente di Complemento del 22
            Regg. di Fanteria. Ebbe i natali il 24 Aprile 1882 da Vincenzo e
            Gaetano Imbergamo. Operai agiati lo mandarono a Caltanissetta a
            proseguire gli studi all’istituto Tecnico, compiuto il quale,
            Salvatore passò a Catania a frequentare l’istituto nautico, dal
            quale ne usci col grado di macchinista navale in prima; ma il
            giovane Faraci non pago di ciò, volle elevarsi ancora, recandosi a
            Torino per frequentare studi Superiori industriali, mentre era
            impiegato in Officine meccaniche.
            Nel 1909, chiamato alle armi, si affezionò subito alla vita
            militare. Congedatosi col grado di Sottotenente di Complemento, ebbe
            l’idea di salpare per l’America. Nella guerra fu richiamato e venne
            in Italia. Da Messina fu mandato in Carnia e nel Novembre del 1915
            vi tornò di nuovo per istruire le reclute del suo reggimento; ma
            dietro sua domanda fu rimandato alla Frontiera, passando col grado
            di Tenente sul Trentino e in Valsugana. Il 19 Maggio 1916, durante
            un assalto eroico, cadde sul campo della lotta. Medaglia di argento
            con motivazione:
            * Mentre con animo saldo e fermo braccio, alla testa dei suoi
            * prodi soldati, faceva argine all’orda nemica, irrompente, fu
            * colpito a morte da pallottola nemica.
            ”Mirabile esempio di amore per la patria fino al sacrificio della
            sua giovane vita”. (Da: La Rivista eroica).
            Capitano Giuseppe Ferro di Giuseppe e di Rosina Cultrera, maestra
            elementare nato il 7 Ottobre 1904. il padre, R. Ispettore scolastico
            a Catania, vide il figlio iscritto al secondo anno d’Università in
            legge; appena scoppiata la guerra, lo studente universitario, si
            arruolò nei plotone Allievi Ufficiali del 68 Fanteria di stanza a
            Milano. Nel Maggio 1915 era già Sergente. Nominato Sottotenente,
            prese parte con la Brigata Sassari ai fatti d’armi; sul Carso, nel
            18, versò il suo primo sangue: una palla lo colpì alla mano destra
            che gli rimase anchilosata.
            Il Tenente Ferro, guaritosi, fu i mandato in Eritrea. Cola, appreso
            il rovescio di Caporetto volle essere rimandato in Patria. Mandato
            in Francia, fu a Digione; il valoroso Tenente che da un anno era
            stato nominato Capitano, cadde da eroe il 29 Settembre 1918.
            Ecco la motivazione che accompagnabva la Medaglia d’Argento:
            * Mirabile e costante esempio di fermezza e di coraggio,
            * nel passaggio di un ponte fortemente battuto dal’Artiglieria
            * nemica, non d’altro si preoccupò che del proprio reparto.
            * Colpito egli stesso da una scheggia di granata ad un braccio,
            * rimase fermo al proprio posto per regolare il m movimento dei
            * suoi uomini, finchè colpito una seconda volta a morte,
            * lasciò la vita sul campo. (da una monografia del padre)
            Rocco Jannì di Pasquale e di Antonina Giardina, Tenente, nacque nel
            1895. Maestro elementare, compiuti gli anni di servizio, al momento
            della guerra fu aggregato alla Sezione Mitraglieri Fiat, Brigata
            Sassari..
            Ito al fronte da graduato, si trovò dinanzi al nemico; giovane
            ardimentoso, pieno di entusiasmo, volle slanciarsi all’assalto,
            malgrado i reiterati richiami del suo Capitano. Ferito mortalmente
            all’addome, fu trasportato all’ambulanza militare, dove dopo poche
            ore moriva.
            Il Governò gli decretò la Croce di bronzo al merito di guerra.
            (Manca la motivazione).
            Tenente Enrico D’Antona del fu cav. Pietro e Donna Francesca, nato
            nel 1884. Studiando a Napoli e a Torino da avvocato, parti per la
            guerra; fu prigioniero a Val Sugana.
            Cessata la guerra, durante il viaggio di ritorno lo cole una
            polmonite e mori a Trieste il 6 Dicembre 1918.
            Il Sergente Ciulla Gieseppe di Gaetano e di Santina D’Antona
            proprietario borgese, nato nel 1890, aveva prestato regolare
            servizio. Richiamato al fronte col grado di Sergente fu nelle
            trincee. Indi ottenne la licenza per i lavori campestri ma poi,
            ritornato al suo posto di combattimento, fu nel rovescio di
            Caporetto. Nella confusione si seppe che era morto di polmonite
            all’ospedale di Verona.
            I suoi fratelli che si trovavano al fronte, ne appresero la notizia
            senza poter conoscere il Luogo dove fu seppellito. Mancano perciò i
            particolari.
            Tra i soldati figli del popolo, morti sui campi di battaglia. e
            decorati al valore, vi furono, fra i 96:
            Marino Rosario di Francesco e Giuseppa Bellomo, bersagliere, nato
            nel 1895. Fu uno dei primi; durante il combattimento, ferito
            gravemente, cessò di vivere a Pacchiasella il 2  Novembre 1816. il
            Governo gli decretò. la medaglia di bronzo. La stessa sorte del
            Marino subirono:
            Albo Antonio, Angilella Salvatore, Amarù Antonio, Catarinolo
            Francesco, Di Martino Antonio, Di Letizia Calogero, Di Ventra
            Salvatore, La marca Gaetano, Lauria Gaetano, Lo Giudice Angelo,
            Licata Vincenzo, Marotta Cristoforo, Maurici Giuseppe, Marazzotta
            Salvatore, Sciamone Liborio, Sciacchitano Giuseppe, Rizzo Angelo,
            Toscano Giuseppe, Vella Salvatore e Vella Michele.
            Questi nomi formano un quadro, sebbene incompleto, in una sala del
            Municipio, con le loro fotografie, in mezzo alle quali spiccano i
            ritratti dei Capitani Ferro e Faraci.
            Le altre famiglie non diedero le fotografie dei loro cari.
            Per tutti, fu eretto il Parco della Rimembranza, in ricordo dei
            gloriosi caduti, secondo le disposizioni del Ministero
            dell’Educazione Nazionale. Così, il detto Parco sorse alla Spatazza,
            nello stradale Mariano e propriamente di fronte alla Centrale
            Elettrica.
            **  Torna su **


            Cap. XLV

            la “spagnuola”

            Non era ancora cessata la guerra, quando un’altro flagello venne a
            funestare l’umanità: la “spagnuola”.
            Come nella favola classica di Giovanni La Fontaine, degli animali
            colpiti dalla peste che “fuggivano spaventati cercando un riparo”,
            così gli uomini e la scienza non sapevano cosa fare per trovare un
            rimedio al male.
            La “spagnuola” : questa febbre mediterranea venuta dalla Spagna, fu
            un’epidemia molto fulminante che mieteva tante vite umane in un
            momento, senza pietà. Se tutti non morivano, “tutti erano
            spaventati”, al dir dello scrittore francese citato.
            La morte non guardava in faccia a nessuno: grandi e piccoli; uomini
            e donne; ricchi e poveri. Chi era preso da quella malattia
            difficilmente se la scansava e, quando non moriva, restava con
            qualche difetto.
            Le famiglie povere, orbate dai loro cari e immerse nella miseria,
            non sapevano darsi pace, pensando alla morte spaventevole; vi furono
            parecchie famiglie i quali ne mori vano due e tre, il lutto era
            quindi generale, Infuriando il morbo crudele, il seppellimento dei
            cadaveri veniva operato alla confusa, trasportandoli al cimitero
            senza nessun conforto. Anche per quelli che morivano in campagna non
            venivano fatte onorevoli sepolture e si partivano senza nessun
            accompagnamento. Coloro che erano poverissimi bastavano le poche
            masserizie ad addobbare una bara; talune famiglie facevano uso delle
            tavole del letto per la cassa mortuaria.
            Ingordi falegnami,speculatori, approfittando del momento,
            sfruttavano chiunque a loro si presentava.
            Col Municipio del Sindaco, nella requisizione che si faceva, si
            commettevano abusi e soprusi inauditi. Tutto era requisito per dare
            aiuto agli ammalati, ma il popolo soffriva, mancando del necessario.
            Beato chi poteva avere un pò di zucchero, d carne o di pane e pasta.
            Al solito, gli arruffoni ne profittavano. Un quidam, comprata una
            gallina L.20 per conto del Comune, le tirò il collo e la diede al
            figlio per portarla a casa.
            La “spagnuola” durò quattro mesi, dal Settembre al Dicembre 1918.
            Parrà cosa incredibile, eppure è vero. La malattia della
            “spagnuola”, a Riesi,  fece più strage della guerra. Mentre la
            guerra fece un centinaio di vittime; essa “spagnuola” ne fece morire
            seicento.
            Passata questa marea, che ci lasciò il triste ricordo d’una morte
            che non venne dagli uomini ; rimasto il caro viveri della guerra che
            si rimediava con il lavoro ben pagato, si predette di potere andare
            avanti, superando gli ostacoli della vita. Ma non fu cosi!
            Il paese contava circa i6 mila abitanti.
            **  Torna su **


            Cap. XLVI

            il bolscevismo

            Quel tale Giuseppe Butera, che aveva infiammato la mente degli
            operai, specialmente dei contadini, si mise a predicare il
            bolscevismo venuto dalla Russia. Egli, staccatosi dal partito
            popolare trascinandosi dietro la massa, offendeva tutto e tutti; da
            socialista spinto. di facile parola, nelle vie, nelle case,
            dappertutto, predicava coraggiosamente la Rivoluzione.
            Il Governo dell’On. Nitti lasciava il campo libero ai socialisti, di
            modo che nei paesi d’Italia i bambini e le bambine cantavano:
            Avanti popolo
            Alla riscossa
            Bandiera rossa
            Trionferà!...
            Era l’andazzo delle follie rosse. E il Butera si prefisse di volere
            per forza la divisione delle terre a Riesi, dicendo di espropriare i
            feudi ai principi. Naturalmente il popolino, imbevuto di tali
            principi, gli teneva bordone, battendogli le mani, accarezzandolo.
            Cosicché lui, forte del suo partito, teneva in soggezione gli altri.
            Era diventato l’idolo della massa incosciente! Ebbe la tracotanza di
            presentarsi da candidato come deputato socialista al Collegio.
            Perciò, nei paesi vicini andava propagando le sue idee, appoggiato
            dal partito centrale del giornale “l’Avanti”.
            Insomma, diede molto fìl da torcere alla P. Sicurezza.
            Coi partiti sovversivi, il dopo guerra fu peggio di prima. Qui.da
            noi, teneva il paese in continuo movimento, in continua animazione
            di giorno e di sera. I contadini volevano la divisione delle terre,
            erano diventati bolscevichi; il loro capo assecondando le loro
            aspirazioni, tempo permettendo, si armavano e andavano nei feudi a
            prendere possesso.
            I padroni delle terre avevano dato ordine ai Campieri di lasciarli
            fare onde evitare eccidi. Si partiva la mattina per molto tempo con
            gridi e chiasso e bandiere, arrivando alla meta designata della
            campagna. Seguiti da una Compagnia di soldati e CarabinIeri tra il
            chiasso e l’allegria, si facevano la divisione del feudo, cui
            limiti, piantando le bandiere, cantando: “Bandiera rossa trionferà”.
            La giornata trascorreva gozzovigliando, schiamazzando, facendo come
            le galline che schiamazzano prima di far l’uovo.
            Al ritorno rientravano la sera nel paese in fila, soddisfatti delle
            loro operazioni; rincasati, appena preso un boccone, tutti alla Sede
            socialista per la conferenza del Butera. L’indomani punto e da capo,
            le solite agitazioni; il conferenziere (sic) faceva sentire le sue
            minacce, tuonando contro il Governo di allora. E i Carabinieri lì
            presenti non dicevano nulla.
            Impavido, imperterrito, Giuseppe Butera sì credeva padrone. Oltre il
            battimani e gli applausi che riscuoteva dalla folla, egli era
            portato a spalla, alimentando la sua bocca di ciambelle e dolci.
            Chiusi i proprietari nelle loro case ben serrate, non uscivano, non
            potevano dir nulla; scorgendone uno nelle vie, gli davano la baia ed
            era costretto a ritirarsi per tema di qualche brutto tiro.
            Minacce su minacce, chiassi su chiassi, i giorni volavano, sperando
            che migliorassero con quello stato di caos davvero increscioso.
            Tutto era lecito dal Governo deplorevole del l’On. Nitti che aveva
            dato la mano larga ai socialisti, i quali se erano forti, non erano
            neppure d’accordo fra loro.
            **  Torna su **


            Cap. XLVII

            la mitragliatrice (famosa repubblica riesina)

            Come conseguenza di tutto questo mal Governo, di tutto questo
            malessere di questo disordine, abbiamo avuto a Riesi la
            Mitragliatrice. Anche questa brutta pagina di storia dobbiamo
            registrare in pieno secolo XIX. Scriviamo sotto l’impressione del
            triste epilogo della nefasta giornata della Mitragliatrice. Ecco il
            fatto, come avvenne:La Domenica dell’8 Novembre 1919, i soliti
            bolscevichi, decisero di andare a prendere possesso del feudo
            Palladio, di proprietà dei principi Fuentes, dato in gabella. Da qui
            partirono non solo essi, ma chiesero l’aiuto dei loro compagni
            mazzerinesi, i quali, armati ed a cavallo, vennero a Riesi. Essendo
            il feudo vicino per lo stradale di Calamita, uomini, donne e
            ra­gazzi si misero in moto. Il Butera era in prigione. Chi organizzò
            la gita fu un certo Angilella, uno spietato socialista, Piovutoci
            non si sa da dove. Costui, predicando a squarciagola, diceva di
            farla finita coi signori proprietari incitando i cittadini ad
            armarsi, gli operai di tenersi pronti per la rivoluzione. Lungo la
            via, soldati, o Carabinieri non poterono arginare, calmare il
            Popolo. Giunti, al feudo, fecero le dovute operazioni, senza essere
            molestati. Intanto la P. S. si provvide duna Mitragliatrice che fu
            piazzata accanto alla chiesa della Madrice tra la piazza Garibaldi e
            il, Corso Vittorio Emanuele. Gli scalmanati  ritornando
            sull’imbrunire entrarono in paese cantando battendo le mani.
            Trovandosi nella piazza, l’Angilella ordinò al popolo dì andarsi ad
            armare e ritornare. E difatti così fecero. La piazza ed il Corso
            formicolavano di gente. Ad un certo punto il Tenente e il Delegato
            di P. S. premerono la mano del soldato, facendo  funzionare lo
            strumento micidiale. Al crepitio fulminea della Mitragliatrice
            seguirono altri colpi di fucile e revolvers. Il terrore invase tutti
            gli animi. Un momento dopo si vide un campo di morti sia in piazza
            che nel Corso: anche i feriti fecero spavento. Nella confusione gli
            sparatori fuggirono; inseguiti, fu rag­giunto il Tenente al piano
            del Pozzillo per la via di Ravanusa e fu freddato. In quella
            occasione l’ing. Accardi, che si trovava lungo il Corso, trascinato
            nel Cortile Golisano, venne pugnalato da mano ignota e ferito. Il
            pallore, lo sgomento si leggeva in faccia di tutti, vedendo la
            carneficina il sangue che scorreva, raccolti i cadaveri, le famiglie
            ne piansero amaramente i figli, i mariti, i parenti, I morti furono
            8 e dei feriti non si seppe il numero. La prima versione data dei
            giornali fu che:la Rivoluzione era scoppiata a Riesi: laonde un
            Reggimento di fanteria col generale, la notte seguente entrò a Riesi
            in assetto di guerra, con baionetta in canna e i lanternini accesi.
            Entrati allo scuro, nel silenzio, in punta di piedi, mentre gli
            abitanti dormivano, non sapendo dove andare, ne cosa fare; non
            conoscendo nessuno, ne presentandosi anima viva, il generale adagio
            adagio  fece aprire le chiese per far riposare i soldati che avevano
            fatto 48 ore di marcia forzata. Giunti alla Sanguisuga temevano ad
            entrare, credendo il finimondo, che la rivoluzione continuasse.
            informatosi i soldati che il paese era sotto l’incubo del terrore;
            che i cittadini spaventati, piangenti. temevano di riaprire le porte
            sapendo che c’erano i soldati, più tardi, generale e soldati
            rimasero sorpresi. Fattosi giorno, apertesi le prime botteghe, i
            soldati, usciti fuori per le vie per comprare da mangiare, nel volto
            dei cittadini leggevano i segni dello spavento, per timore di essere
            di nuovo massacrati; ma i soldati li rassicuravano, li confortavano
            allora furono fatti segno a delle gentilezze offrendo loro il caffè.
            Rifocillati che furono, la stessa mattina il Reggimento ripartì per
            la Sede di Palermo. Da quel giorno fatale della Mitragliatrice
            ovvero da quell’epoca, il popolo riesino rimase scosso: sembra un
            brutto sogno, eppure è stata una triste realtà che ci fa ripetere
            col proverbio Chi è stato scottato dall’acqua calda, teme dell’acqua
            fredda.
            **  Torna su **


            Cap. XLVIII

            il fascismo

            Gli anni 1919, 20, 21, e quasi tutto il 1922 fino al 28 Ottobre del
            dopo-guerra, furono anni di disordini sociali, di terrore, di timori
            a causa del bolscevismo imperante. Si temeva da un momento all’altro
            la Rivoluzione; il bolscevismo diceva un dotto, si sentiva
            nell’aria; gli animi di tutti, in conseguenza di ciò, erano sospesi.
            Le campagne furono abbandonate a sè stesse; i proprietari non
            potevano dare un passo; furti ed omicidi, ruberie d’ogni genere
            erano all’ordine del giorno; ladri e ladruncoli nelle campagne
            razziavano dappertutto.
            (qui manca un piccola parte, del testo originale)
            aveva preso il suo corso; ne paesi, approfittando dello scuro, si
            commettevano brutti atti: basta dire che ad un barbiere gli levarono
            25 soldi e lo scialle, alla discesa del Carcere vecchio; ad una
            coppia di giovani sposi, dopo l’Avemaria, mentre tenevano il marito,
            alla sposa rubarono lo scialle e l’oro; in pieno giorno, per la via
            detta miniera Tallarita, furono assaltati gli zolfatai che avevano
            ricevuto la paga.
            Ma ciò che maggiormente faceva impressione erano gli omicidi, i
            delitti terrificanti che succedevano nelle campagne e nei paesi; la
            vita umana non era appunto calcolata.
            La cronaca di Riesi di quei tempi registra Purtroppo fra i tanti
            delitti di sangue i seguenti:
            1) Una notte all’Ammiata, feudo nel territorio di Butera, all’epoca
            della raccolta del grano, mentre i mezzadri, trovandosi nell’aia
            dormendo, intesero che i ladri rubavano il frumento, portandolo
            nelle bisaccie sulle bestie come se fosse di loro proprietà.
            Svegliatisi i coloni, poiché gridavano, ne furono freddati due. I
            Carabinieri di pattuglia, messesi in colluttazione coi briganti, ne
            ferirono uno mortalmente;
            2) Ad un Campiere gli levarono tutto quello che aveva e l’uccisero
            per la via di Gallitano ; 
            3) Un povero contadino che si recava al vicino Canale ad abbeverare
            il suo unico somaro, con il quale si guadagnava il pane per la
            famiglia, suonata l’Avemaria, gli levarono l’animale e lui fu
            disteso a terra;
            4) Alla Scalazza, in pieno giorno, un piccolo proprietario, mentre
            spietrava il suo campicello, lo legarono, gli spararono,
             trasportandosi la mula.
            Tutta l’Italia era così!...
            A porre fine ai tanti malanni, a tanto sfacelo, venne un uomo fatto
            apposta per salvare la nostra bella Italia. La marcia su Roma del 8
            Ottobre 1922, fatta da Benito Mussolini, fece terminare tutto ad un
            colpo il malessere, rimettendo l’ordine  dappertutto. Duce del
            Fascismo, l’ex caporale dei Bersaglieri, con un pugno di giovani
            ardimentosi, vestendo la camicia nera, si:oppose al parlamento
            italiano che era in vera anarchia coi numerosi partiti sovversivi.
            Afferrato il potere in nome di S. M. il Re Vittorio Emanuele III.
            col quale avevano fatto la guerra, l’On. Mussolini, mise prima di
            tutto i punti sugli i ai Deputati che trattò da “pecore rognose” ; e
            poi parlando da Roma a tutta l’Italia, disse: “Ora basta coi cattivi
            italiani”. Questo genio ignorato, figlio d’un fabbro ferraio e di
            una Maestra elementare, amico del popolo, nato a Predappio,
            nell’Emilia, col suo colpo di Stato, col suo pugno di ferro,
            istituì, fece sorgere il Fascismo in tutti i paesi del Regno, coi
            Fasci di Combattimento formati dai reduci della guerra, dai buoni
            italiani.
            Dapprima sì impose con la forza, costringendo i riottosi a stare al
            loro posto; cosi a mano, a mano l’ordine cominciò .a ristabilirsi a
            misura che si affermava il Fascismo.
            Un’era nuova si apri nei paesi, cessando lo scompiglio e la
            delinquenza. La Giustizia punendo i ladri rigorosamente, i furti
            cessarono; la P. S., dando la caccia spietatamente agli omicidi, ai
            malfattori, liberò le campagne e i paesi.
            La mafia ebbe un serio colpo alla testa. Venuto in Sicilia .S. E.
            Mussolini, disse queste precise parole a Messina: “Voi, le vostre
            popolazioni, avete bisogno di essere purgate dalla mala vita” . Egli
            giungendo fino a noi alle miniere Trabia Tallarita, come dovunque fu
            acclamato.
            Esponente del Fascio di Riesi da noi fu il Dott. cav. Gabriele
            Lamonica, reduce da Capitano Medico dalla guerra. Con zelo, coraggio
            e fede fascista fondò il Fascio di Combattimento; coadiuvato dalla
            Forza Pubblica; ogni giorno per le vie si andava gridando: “abbasso
            la delinquenza!, Viva il Fascismo!”. In principio i fascisti furono
            pochi, ma dipoi visto i risultati benefici che diede la tranquillità
            al popolo, molti si unirono al Fascio, Creato dal Dott. Laconica che
            fu il Segretario Politico
            Anche i proprietari vestirono la camicia nera, di guisa che la massa
            passò al Fascismo. Le dimostrazioni erano ostili ai potere. Ogni
            giorno la stampa annunziava tutto quello che faceva il nuovo Governo
            dell’Ori. Mussolini, il quale sciolta la Camera dei Deputati volle
            rivestirla di nuovi elementi del suo colore, cioè fascisti.
            Dato l’assesto al la Camera e ai paesi, S. E. il Capo del nuovo
            Governo pensò di sciogliere i Consigli Comunali d’Italia per fare
            entrate i Consiglieri fascisti poco alla volta. Riflettendosi, qui a
            Rìesi, incominciò la lotta politica contro la democrazia al potere.
            I democratici d’altra parte si credevano forti e cercavano di
            resistere all’urto, ma il Dott. Lamonica s’imponeva col suo partito
            del Fascismo che guadagnava terreno giorno per giorno, i delinquenti
            arrestati spazzarono il terreno per le nuove idee le quali seppero
            di ostrica a coloro che non le compresero.
            **  Torna su **


            Cap. XLIX

            sindaco il com. G. c. golisano – il ritiro – giuseppe martorana – la
            luce elettrica – vittoria del fascismo – il com. d’antona sindaco

            Era Sindaco dell’epoca il comm. Giuseppe Carlo Molisano. Cincinnato
            di Riesi, l’Avv. Golisano fu chiamato a quel posto di nuovo, per
            salvare la posizione d Consiglio Comunale in sfacelo nel 1920 e per
            far argine al bolscevismo. Poiché anche nel detto Consiglio era
            penetrato il disordine e si era in piena anarchia fra gli operai, ci
            voleva un uomo ben visto alla Prefettura e al paese, i reggere la
            barca fessa del Municipio. E difatti il Pasqualino si era dimesso
            lasciando il campo libero all’ ing. Accardi col quale non andava
            d’accordo. Questi, non potendo essere d’accordo con gli operai, sì
            dimise pure ed  afferrò brevemente la Sindacatura, l’avvocato Don
            Gaetano Debilio, un pasqualiniano. Il Consiglio in balia di se
            stesso, per forza doveva essere sciolto, ma ad evitare maggiori
            spese, si lasciò stare così com’era.
            La nomina a Sindaco del comm. Golisano fu accolta una unanime
            benevolmente, con simpatia. L’egregio uomo accettò la carica
            volentieri, sperando di fare del bene al paese. Egli si mise
            all’opera, con la Giunta degli operai, scegliendosi a vice Sindaco
            l’operaio Giuseppe Martorana e con lui il Segretario del Comune,
            Francesco Mule Vella, che da maestro della musica, maestro
            elementare, in resosi pratico dell’Ufficio, sbrigava le pratiche
            passabilmente.
            Il Sindaco si pose innanzi i gravi problemi del paese. Cominciò egli
            a lavorare alacremente prima di tutto per la luce elettrica, onde
            levare io scuro, mettendo Riesi alla pari degli altri paesi vicini;
            in secondo luogo si diede attorno all’impellente problema dell’acqua
            potabile e le fognature per dissetare gli abitanti, levando le
            porcherie, le immondizie delle vie ed avere un paese pulito.
            Tali problemi affrontò il comm. Golisano; per quanto difficili a
            risolversi, pure il Sindaco vi lavorò assieme al suo Segretario,
            pensandovi seriamente giorno e notte. Il nostro concittadino, che
            conoscemmo, di già voleva rendersi benemerito alla cittadinanza
            riesina: egli trascurava gli affari suoi, dandosi anima e corpo al
            Municipio.
            Ma dopo il 1922, con l’avvento al potere del Fascismo, ne
            insidiarono il Consiglio. Sebbene egli comprese i tempi nuovi fin da
            principio, tanto vero che pubblicò una scritta a favore del Duce,
            chiamandolo un grande uomo di stato “simile a Cromwell” ed altri
            pure i fascisti, con a capo il Dott. Lamonica, gridavano: “Abbasso
            il Consiglio”. E il Sindaco Golisano, non potendo sopportare i
            tumulti e le grida, si dimise, ritornando ai suoi campi, agli affari
            suoi, ai suoi studi, lasciandoci come ricordo, oltre il bastione e
            la piazza Garibaldi ammattonata, la luce elettrica che illumina
            sfarzosamente il paese. Col censimento, sotto di lui, il paese
            contava 17.248 abitanti.
            Lasciato in carica l’operaio Martorana, questi da Sindaco titolare
            fece di meglio per non cadere.
            Fu Sotto di lui che si portò a compimento la luce elettrica. Il
            paese cominciò a respirare, a gioire; appoggiato questo Sindaco
            dall’ex partito democratico, si credeva forte, ma il Consiglio di
            Riesi doveva essere sciolto. Il Segretario politico col Fascio,
            secondo l’idea dei Duce, erano sicuri del fatto loro.
            E difatti il Consiglio venne sciolto nel 1925. Un R. Commissario ne
            venne a reggere le sorti protempore.
            Essendo un fascista, era ben naturale che doveva mettersi in
            relazione col Segretario del Fascio, dott. Lamonica e la P. S.
            Giusto vi erano qui due bravi funzionari, il Maresciallo Giuseppe
            Scurria e il Commissario di P. S. Belofiori, i quali erano lo
            spauracchio degli uomini di malavita e dovevano fare il loro dovere
            a favore del Governo,
            Fattesi le elezioni a tamburo battente, dopo i tre mesi,
            fascisticamente, la maggioranza fu del Fascio capitanato dal dott.
            Lamonica e i civili di Riesi. Snidata la vecchia democrazia,
            salirono al potere i fascisti. A Sindaco fu eletto il comm. Don
            Luigi D’Antona. Lo stimato banchiere, vestendo la camicia nera, si
            trovò di fronte alle nuove esigenze del Fascismo e del paese.
            Egli però non ebbe il tempo di potere esplicare nemmeno una parte
            del programma fascista, perché vi fu un’altra, riforma mussoliniana.
            **  Torna su **

            Cap. XLIXbis

            dai sindaci al podesta’

            La riforma fatta dall’On. Mussolini fu di togliere dai Municipi i
            Sindaci e mettervi dei Podestà nominati dal Governo del Re. E questa
            riforma la fece attuar prima nelle città e poscia nei paesi. L’anno
            dopo la rese comune a tutti i paesi.
            Scopo delle legge è di concentrare tutta l’Amministrazione Comunale
            nelle mani di un uomo, levando le camarille locali.
            Il Podestà deve durare in carica cinque anni e può essere
            riconfermato.
            Secondo questa legge il comm. D’Antona decadde da Sindaco. Bisognava
            fare il primo Podestà di Riesi. Chi più indicato del cav. dott.
            Lamonica? Chi più fascista di lui? Chi meglio di lui poteva assumere
            tale carica? L’uomo indicato, designato, fu appunto il cav. dott.
            Gabriele Lamonica. Egli si dimise quindi da Segretario politico del
            Fascio di Riesi, accettando la carica di Podestà del nostro Comune.
            Ito a prestare giuramento nelle mani del Prefetto a Caltanissetta,
            venuto il decreto reale, al ritorno gli sì fece una calda ovazione,
            una calorosa dimostrazione di simpatia e di affetto. Al posto di
            Segretario politico, i gerarca di Caltanissetta nominarono il cav.
            Notar Giuseppe Sanfilippo, già vice Pretore negli anni 1915-1926, il
            di cui figlio Avv. Matteo, reduce della guerra, in città era un
            pezzo grosso.
            Le gerarchie fasciste sono formate dalle Federazioni provinciali e
            dai Sindacati a cui fanno capo il Prefetto; nei paesi il Segretario
            politico è il capo del Fascismo e di tutte le organizzazioni che
            sono: Associazione dei Combattenti; Federazione dei Commercianti;
            Società delle madri dei caduti in guerra; del Dopolavoro; dell’O. N.
            B., della Milizia fascista e della Federazione degli Agricoltori.
            Tra Podestà e Segretario politico, deve esservi un reciproco
accordo.
            Il dott. Lamonica Podestà e il Segretario Notar Sanfilippo per un pò
            di tempo si diedero la mano, ma poi non si sa perché, non furono più
            d’accordo. Il Podestà i credeva insormontabile dietro quello che
            aveva fatto e detto, ma egli aveva dei nemici sott’acqua. Sotto di
            lui si acconciarono le vie del Canale è quella che va al Calvario
            col nome di Marconi; la prima impraticabile, fu fatta a ciottoloni e
            prese la via de Littorio; la seconda fu fatta sbassare nella parte
            rocciosa rendendola più. praticabile. Per le dette vie spese una
            bella sommetta.
            Di più, il nostro Podestà si occupava dell’acqua potabile,
            conoscendo i bisogni del paese in quegli anni di. siccità..
            Se dobbiamo essere spassionati il dott. Lamonica, se aveva degli
            ammiratori, aveva anche dei satelliti, e lo rendevano inviso ai suoi
            nemici, come anco a certi suoi amici. Fra gli impiegati municipali
            vi erano quelli che lo subivano.
            Per una cosa da. nulla, per aver detto che un tale era analfabeta,
            per potere ottenere il permesso d’armi, mentre quello non sapeva
            firmare, il primo Podestà cadde nella trappola. Il fatto sta che in
            Questura gli si fece un processo; processo che dinanzi il Tribunale
            sfumò.
            Ed è perciò. che il dott. Lamonica non fu più Podestà. Bravo,
            intelligente professionista, ricco di casa sua, si occupa degli
            ammalati, passando la sua vita anche in campagna con la sua
            famiglia, nella bella casina del Crocifisso.
            Ebbe la jattura di perdere un figlio promettente in una disgrazia, i
            cui funerali riuscirono solenni.
            Se sono cose queste che abbiamo visto e ai nostri giorni, crediamo
            che nessuno potrà accusarci di partigianeria;. la nostra storia
            contemporanea l’abbiamo fatta e la facciamo imparzialmente, narrando
            ciò che abbiamo visto e veduto coi nostri occhi.
            **  Torna su **


            Cap. L

            un commissario prefettizio modello

            Il Governo Centrale dell’On. Benito Mussolini, allargando i poteri
            discrezionali dei Prefetti, dando loro il titolo di Eccellenza,
            diede la facoltà di nominare i Commissari nei Comuni, ed è perciò
            che si chiamano Commissari Prefettizi; come pure furono abolite le
            Sottoprefetture, avendo i Comuni relazione diretta con le Prefetture
            nel Capoluogo della Provincia.
            S. E. il Prefetto di Caltanissetta, tolto il Podestà processato, vi
            mandò a sostituirlo, nel 1928, nella qualità di Commissario
            Prefettizio, il cav. Ugo Rossi consigliere presso la stessa
            Prefettura.
            Il cav. Ugo. Rossi, calabrese, era stato 13 anni Sottoprefetto a
            Noto ed era molto esperto e pratico di amministrazioni comunali.
            Buono, intelligente e giusto, appena giunto fra noi disse: “Questo
            paese non ha avuto buoni amministratori”; e indi rivoltosi agli
            astanti: “Se voi mi aiuterete; vi lascerò Riesi una cittadina”.
            Immedesimandosi della nostra sorte, girando di qua e di la, vide che
            la via del Parroco, ove comincia la via Marconi; era orribile; con
            poca spesa la fece bene accomodare.
            Trasformò la Casa Municipale internamente ed esternamente,
            rendendola un vero Palazzo di Città; la sua bella prospettiva,
            rivestita a nuovo, ne fa un magnifico aspetto. Nell’interno
            trasformò la sala del consiglio in un salone di ricevimento stile
            Luigi XIV; sistemò gli uffici municipali razionalmente. Tutto faceva
            eseguire sotto la di lui direzione. Gli impiegati, ben trattati, gli
            volevano un gran bene; il popolo, specialmente i poveri, trattati
            come si deve, lo amavano.
            Ma queste, non sono le sole opere ed azioni che parlano del cav. Ugo
            Rossi: egli fece ancora di più.
            Con un manifesto al pubblico annunziò che aumentava di cent. 10 al
            Kg. la carne e cent. 10 a litro il vino, per abbellire il Parco
            della Rimembranza, perché “non faceva onore nè ai morti nè ai vivi”,
            e ciò per non aggravare il Bilancio.
            Difatti, raccolta la prima somma, la impiegò subito a fare
            acconciare i due tratti delle vie Cavour e Mazzini che portano a
            Parco. Con ammirevole cura fece recintare la Rimembranza di mura,
            con un’entrata a grata di ferro, vi collocò vasi e vasetti attorno
            agli alberi, un monumento ai caduti al centro, una colonna d granito
            con una piccola aquila in cima, una croce fuori il Parco danno un
            aspetto bellissimo al sacro recinto. Così ne rese una bella,
            attraente passeggiata.
            Il cav. Rossi, visto che a Riesi mancava una pescheria e che il
            pesce si vendeva all’aperto nella piazza del Crocifisso fra le
            mosche e il fango, volle levare quella sconcezza facendo sorgere la
            pescheria nel cortile Riccobene, più in là della piazza. E’ poca
            cosa, ma è meglio di niente.
            Dando un’occhiata al cimitero, vi fece fabbricare una piccola
            cappella di cui era sfornito, fece sistemare i viali e mettere la
            breccia alla stradetta.
            Attorno alla piazza Garibaldi, fece piantare degli alberi come
            all’altra piazza del Crocifisso e allo stradale della Rimembranza.
            Mise un’ordinanza, con la quale imponeva i proprietari nei Corsi
            principali a fare il prospetto delle loro case. Alcuni furono
            solleciti a farle, altri, a causa della Assicurazione agli operai,
            furono riottosi.
            Tutto l’egregio Commissario aveva in animo di fare e rifare.
            Ma dove maggiormente il cav. Rossi lavorò fu per la soluzione del
            grave problema dell’acqua potabile e le fognature. Questo era il suo
            sogno e ci era quasi riuscito. Aveva contratto con una Società
            romana, ma sul più bello, venne trasferito a Catania e ci lasciò.
            il popolo commosso all’atto della partenza, nel salutarlo, gli fece
            una dimostrazione di affetto. Anche lui, il cav. Ugo Rossi, fu
            commosso, spiacente di averci lasciato senza aver terminato ciò che
            aveva nell’animo di fare. Fra tutti i Commissari forestieri che sono
            passati nel Comune di Riesi, nessuno ha lasciato un ricordo conte
            lui.
            Dacché esiste questa legge, in quest’epoca di Fascismo, vi sono
            stati finora tre Podestà e quattro Segretari politici.
            **  Torna su **


            Cap. LI

            la ferrovia - mentre scriviamo, terminando

            Mentre scriviamo terminando la nostra storia, frutto della nostra
            immane fatica, lavoro della nostra povera intelligenza, noi che,
            oltrepassato mezzo secolo di esistenza, abbiamo visto passare uomini
            e cose, ci fermiamo qui.
            Mentre scriviamo i lavori della ferrovia sono a buon punto; già la
            bella Stazione è terminata e la linea è quasi ultimata.
            Questa sospirata linea ferroviaria interna della Sicilia, partendo
            dalla Stazione Centrale di Canicattì, dovrà passare per le stazioni
            e paesi di Delia, Sommatino, Trabia-miniere, Riesi, Mazzarino, San
            Michele di Ganzeria, San Cono e Caltagirone, proseguendo poi per
            Catania,
            Il tronco che dalla Stazione Trabia-miniere viene a Riesi è
            meraviglioso. Scendendo il treno dalla montagna della miniera Grande
            di Sommatino, che costeggia fra le gallerie, arriva al vallone detto
            della Cottonara; passato il ponte fa una curva e dopo 550 metri
            giunge all’altro colossale ponte Imera sul Salso , accanto a quello
            interprovinciale. E’ un’opera d’arte moderna. Esso ponte ha 10 luci
            di 15 metri ciascuna, è lungo m. 190,80, largo m. 5,10, alto m. 25,
            tutto in pietra da taglio. Passato il quale la macchina si ferma
            alla stazione delle due importanti miniere che sembrano, con le
            magnifiche casine che vi sono, un ameno villaggio.
            La locomotiva, messasi in moto nella valle del “Salso” va verso due
            viadotti: il primo, lungo m. 184,50, è ha 10 luci di cui 8 centrali
            di m.15 e le due estreme di m. 10; il secondo lungo m. 86,50, è ha 4
            luci di m. 15 ciascuna. Ed eccoci ora. alla grande, maestosa
            galleria o traforo della Cammarera lunga m. 1091, con l’altezza di
            m. 29,50 dal fondo del vallone. Uscendo la macchina col suo fischio,
            nel guardare il monte Stornello, il treno traversa la contrada detta
            Ficuzza finche, tra ponti e ponticelli, arriva all’ultimo viadotto
            del Bannuto, lungo m. 87, ha 5 luci di m. 10 ognuna. Con una breve
            discesa nella contrada Giarratana, la strada ferrata ci porta al
            simpatico ponte del cavalcavia di San Giuseppuzzo e, passato, il bel
            Casello, entra nella stazione del Lago, vedendo il grazioso villino
            Antonietta del comm. Golisano e la casina del signor R. Jannì.
            Riesi!!... Finalmente!
            Sono lavori esatti, opere d’arte, che hanno onore alla Ditta dei
            signori Ing. e Colonnello De Vecchi di Favara, alla squisita
            cortesia dei quali dobbiamo le informazioni di cui sopra, assunte
            nei loro uffici. In atto, il Colonnello cav. Giuseppe, è Commissario
            Prefettizio.
            La Stazione di Riesi, che sarà di grande utilità per il commercio
            delle merci, è al centro della costruente linea ferroviaria.
            Quando si sentirà il fischio della locomotiva, annunziando
            “Riesi!!...” il paese godrà dei benefici della civiltà.
            Colui che per la prima volta verrà in treno a Riesi, se di
            primavera, affacciandosi allo sportello tra l’olezzo dei  fiori e le
            bellezze naturali, resterà meravigliato, incantato a tanto sorriso
            di Dio e della natura. Il viaggiatore, dopo avere ammirato la
            lavorazione della zolfo nelle miniere presso il fiume Imera, ne
            sentirà il puzzo, e spingendo lo sguardo fino al ponte
            interprovinciale ne riporterà una bella impressione e siamo certi
            che racconterà di’ avere visto cose meravigliose.
            Chi l’avrebbe detto che un giorno queste terre sarebbero state
            allietate dalla ferrovia? Ah se i governi passati fossero stati più
            benefici verso di noi, quanti guai ci avrebbero risparmiato! Ma,
            grazie a Dio, le future generazioni saranno fortunate, sentendo il
            fischio e vedendo arrivare la locomotiva.
            Il traffico della ferrovia farà allargare di molto il paese verso
            quella parte, facendo sperare che sorgeranno bei palazzi, belle
            case, botteghe e alberghi. La. via, che del resto e larga e lunga,
            si presta ad un nuovo quartiere di stile moderno.
            Riesi, messo alla pari degli altri paesi civili del mondo, sarà una
            cittadina. Manca, ancor oggi, l’acqua potabile abbondante e le
            fognature. Chi saprà risolvere questo importante, vitale problema,
            avrà legato il suo nome alla storia e sarà immortalato. I popoli,
            oltre il pane, le vesti e la casa, hanno bisogno d’igiene per vivere
            bene: la pulizia dei paesi è indice di vera civiltà.
            Non è per dare. una lezione a chi ne sa più di noi, ma è per
            spronare gli altri a far meglio. Lo abbiamo detto sin dal principio
            e lo ripetiamo ora terminando: il nostro paese ha sempre progredito.
            Se venissero i nostri primi padri - non diciamo quelli dell’epoca
            primitiva, nè quelli del secolo XVII, nemmeno i vissuti fino al
            1850, ma quei dal Risorgimento in poi - crederebbero di sognare
            vedendo il piano della Madrice, la Piazza Garibaldi mattonata, il
            palazzo della baronia comprato dall’ing. F. Turco, ricostruito di
            nuovo, con la bella, imponente e maestosa prospettiva; la sagrestia
            e la casa d’abitazione del sagrestano Mulè, trasformata in casa
            canonica; l’asciugatoio eretto nel palazzo del duca; più in là, la
            casa della Principessa, e sul carcere vecchio sorta la bella casa
            dell’ing. F. Drogo.
            E i bei prospetti attorno la Piazza Garibaldi circondata di alberi?
            I corsi e le vie principali lastricati?
            Che direbbero al sentire che in due ore si giunge a Caltanissetta, e
            che in una giornata si può andare e.tornare? Che non ci sono più
            quelle carrozze, ma bensì automobili? E che il fiume non è più di
            spavento?
            La vita quindi, da un secolo a questa parte, ha di molto migliorato.
            Lo zolfataio, gli operai, non frequentano tanto le bettole, ma i tre
            caffè-bars, fra i quali primeggia il gran caffè Giannone, e tutti
            vanno vestiti bene.
            Anche le donne vestono all’ultima moda di Parigi, e vanno in giro,
            per le vie, sole.
            Le scuole, sia comunali che evangeliche, sono frequentati da scolari
            d’ambo i sessi, vispi, intelligenti, studiosi, buoni.
            L’istruzione e il lavoro, hanno fatto crescere la gioventù della
            nostra generazione di un’altro tipo.
            Col fascismo poi, in quest’ultima epoca, i delitti sono ,diminuiti:
            i furti del 41 per cento e i delitti di sangue del 67 per cento.
            L’Opera Nazionale Balilla, istituzione scolastica del piccoli educa
            questi agli esercizi ginnici, al canto e al lavoro.
            L’Associazione delle madri e vedove di guerra; l’Opera Nazionale
            Maternità ed Infanzia per i bimbi poveri; l’Istituto Nazionale di
            Previdenza per la pensione in vecchiaia; la Milizia Volontaria
            fascista, ed infine il campo sportivo per il giuoco del calcio che
            attira i tifosi a veder giocare; tutte queste belle istituzioni sono
            sorte ai nostri giorni.
            Per i nostri avi tutto ciò sarebbe come un sogno, ma per noi è una
            realtà vissuta e provata.
            Concludendo ci auguriamo che in avvenire sarà ancora meglio. Coloro
            che verranno appresso di noi, godranno maggiori benefici di questi,
            perché si dice: “L’uno semina e l’altro raccoglie”.
            Riesi, risorta a vita novella, come la favola della Fenice la quale,
            bruciandosi dalle sue ceneri, ottiene vita più rigogliosa, piena di
            vitalità, è un paese di 22 mila abitanti che accenna a diventare
            città.
            Come per il passato. in tre secoli di vita attiva, il lavoro e
            l’ingegno ci hanno portato a questo punto, così nell’avvenire il
            lavoro, sorgente di pace, di prosperità e di felicità, farà il
            resto. Il progresso in tutte le cose non si arresta mai; ma bisogna
            ammettere che si deve progredire anche nella morale, base della
vita.
            In questi ultimi anni di nostra esistenza, abbiamo avuto due
            fattacci specifici che ci hanno degradato molto di fronte agli altri
            paesi della Sicilia; ma essi fatti singolari, che sano passati alla
            storia, speriamo che non si ripeteranno mai più, per la giusta
            Nemesi, cioè il castigo che hanno avuto, per servire di lezione agli
            altri. Del resto ogni regola ha la suaa eccezione: non si può
            condannare un popolo per pochi degenerati.
            Il fatto del brigante Francesco Carlino che da giovane, gettatosi
            alla macchia, dal 1920 al 1922 diede filo da torcere alla Pubblica
            Sicurezza dell’Isola, da additarsi come autore di tanti delitti;
            egli perseguitato ricercato dalla giustizia umana, venne arrestato
            in una casa sul poggio della Croce.
            Inserragliatosi  dietro una bestia, fece fronti ad una compagnia di
            soldati e carabinieri, guidati dal Questore Mori da Trapani, il
            quale, prima di ordinare il fuoco contro la casa mandò a chiamare la
            madre dinanzi la quale il brigante generosamente si arrese. Fu
            condannato ad anni 30 di prigione, ma evadendo, si recò in Francia,
            per potere salpare per l’America. In Francia commise un’altro
            delitto Per il quale fu condannato a 15 anni. Mentre scriviamo, lui
            sconta la pena alla Gajenna. “Godo buona salute, apprendendo il
            mestiere di calzolaio” scrive in francese alla madre.
            L’altro fattaccio orribile, che fa orrore al solo pensando, è il
            delitto avvenuto nella miniera Tallarita il 21 Giugno 1931. E’questo
            delitto passibile della pena di morte, di cui Riesi ebbe il primato
            con la nuova legge, fa spavento.
            Ricostruendo l’orrendo delitto dei nostri giorni ci trema i penna a
            narrarlo succintamente: il ragazzo tredicenne Zuffanti Salvatore,
            lavorava da manovale col muratore Gaspare Calafato, giovane promesso
            sposo  24 anni da qui. Fatta la mezza giornata antipomeridiana
            nell’andare a prendere un boccone con un certo Giuseppe Mignemi da
            Canicatti, vecchio arnese da galera, si trascinarono l’innocente
            fanciullo in fondo ad un corridoio esterno della miniera. Dopo aver
            mangiato lo legarono con una corda e lo violentarono; non contenti
            di ciò, temendo che il ragazzo parlasse, gli stroncarono la nuca e
            lo lasciarono cadavere.
            Terminato il lavoro nel pomeriggio, il Calafato ritornò in paese,
            facendosi vedere. La famiglia del ragazzo si mise a cercare il
            figlio senza poterlo ritrovare. La notte i due delinquenti, al lume
            di una candela, andarono a gettare il cadavere nel fiume, credendo
            che la corrente se lo dovesse trascinare. Ma l’indomani mattina si
             vide il morto galleggiare  nel gorgo. Denunziato il caso alla
             giudiziaria, vi accorse la P. S. e il dott. Giuseppe Celestri.
            Tolto il cadavere, dall’autopsia risultò tutto lo sfregio fatto al
            povero corpo. Subito furono arrestate le due belve umane, che sulle
            prime negarono, ma poi il Mignemi confessò, mentre il Calafato si
            mantenne sulle negative.
            La popolazione messa in movimento, imprecava contro i malfattori; la
            stampa italiana giustamente ne fece chiasso portando ai quattro
            venti il delitto di Riesi.
            La famiglia, i parenti erano inconsolabili. Chi non ha cuore non si
            commuove a tanto sfregio; ma il cuore la abbiamo tutti; crediamo che
            anche  gli animali e le pietre si commuovono.
            Alle Assisi di Caltanisetta, i giudici furono inesorabili,
            condannandoli alla pena di morte. Però nel l’eseguirla solo il
            Mignemi all’alba del Gennaio 1932  fu giustiziato; mediante
            fucilazione alla schiena, da un plotone di Metropolitani  romani
            appositamente inviato, mentre il Calafato, all’ultimo momento la
            pena di morte gli fu commutata in ergastolo, essendosi egli
            mantenuto sempre sulla negativa, e perché era il primo caso.
            Al Cimitero del nostro paese l’effigie del giovanotto Zuffanti
            Salvatore mostra  ai posteri il misfatto orribile di Mignemi e
            Calafato.
            Abbiamo detto e insistiamo che c’è bisogno della morale nella vita
            degli individui per agire bene, onestamente, coscienziosamente ma
            questa morale dev’essere religiosa. Il sentimento religioso tiene
            alto il morale e la dignità della vita; mancando questo, manca la
            base di un popolo.  Giuseppe Mazzini, l’apostolo della libertà
            italiana, scrisse, ed à con queste parole che vogliamo provare il
            nostro assetto:
            “Il  pensiero religioso dorme nel nostro popolo: chi saprà
            suscitarlo, avrà fatto più che non con tante scelte politiche”.
            Infine. dandovi o lettori la nostra storia di Riesi  nelle vostre
            mani, immedesimatevi con noi, leggetela, commentatela divulgatela.
            Chi fummo, chi siamo la storia ce lo insegna: le generazioni
            avvenire sapranno almeno un riassunto del passato del nostro paese.
            FINE
            **  Torna su **

            

Chi indugerà sul capitolo  della MITRAGLIA avrà un sussulto: ecco la dimostrazione che Messana c'era  - avrà voglia di gridare. Calma! Questa microstoria è del 1934. 15 anni dopo gli eventi. L'autore è un pastore valdese alquanto condizionato dalla sua fede e dalla necessità di non contrapporsi troppo all'ormai consolidato regime fascista. Non credo che atti processuali relativi a faccende tanto scabrose potessero venire consultati agevolmente. Già il fatto che si sbaglia la data dei fatti narrati la dice lunga. Quel parlare di un Delegato di Polizia e non farne il nome mette in sospetto. Era proprio un delegato. E chi era codesto delegato? Come si fa a dire che era Ettore Messana;  nelle cronache coeve del Giornale di Sicilia e dell' Ora si pala di delegati di polizia, ma vengono tutti citati e Messana non figura. Aggiungasi che la versione di ben  tre persone che in contemporanea mettono il dito sul grilletto della mitraglia non è per nulla credibile. Guarda caso di tutti e tre codesti operatori non si fa il nome. Ma almeno il graduato dell'esercito che peraltro dopo ci ha rimesso la vita, era ben noto.  Leggendo quindi controluce noi perveniamo alla convinzione che lì a Riesi in quel frangente Messana non c'era. Dopo cercarono di scaricare su di lui responsabilità non sue. Tentativo subito fallito. Messana Non ne ebbe nessuno strascico men che meno giudiziario, nonostante un generale dei carabinieri per sollevare da responsabilità la sua benemerita arma avrebbe fatto le carte false pur di sviare i sospetti dai carabinieri implicati. CERTO I FATTI DI RIESI FURONO GRAVI GRAVISSIMI. VI FU PURE IL TENTATIVO  RIUSCITO PER ALCUNI GIORNI DI ISTITUIRE UNA SORTA DI REPUBBLICA COMUNALE INDI PENDENTE. Eppure  anche in un testo ponderoso e ponderato quale - LE REGIONI-LA SICILIA di Einaudi, uno storico del valore di Salvatore Lupo non vi si sofferma. Vago, elusivo. se un accenno fa ai fatti di Riesi, non va oltre questo asettico passo: "simile fisionomia aveva pure lo schieramento che nel Nisseno sosteneva Ernesto Vassallo nel riuscito tentativo di contrastare il 'prominente' giolittino della zona, Rosario Pasqualino Vassallo" personaggio questo che invero troviamo nelle cronache di quei terribili giorni successivi al famigerato 10 ottobre 1919. Certo invece di volere criminalizzare a tutti i osti un giovane vice commissario ci si fosse in questi anni 'avalutativamente' industriati a svelare i segreti storici di quei tempi ne avremmo guadagnoto tutti, soprattutto quelli come me che amiamo la schietta verità storica.

Nessun commento: