venerdì 24 aprile 2015

L’erba e le rocce racalmutesi.

Introduzione. L’erba e le rocce racalmutesi.
 
 
 
 
 
 
 
Questa storia di Racalmuto, questa mia microstoria l’ho scritta e riscritta e poi riscritta e quindi di nuovo scritta. Quando un quarto di secolo fa ho trovato tra le carte segrete del Vaticano note e notizie vetuste sul mio paese, ebbi come una folgorazione. Ne nacque una passione direi smodata. Le mie radici che credevo decomposte nelle latebre del mio sotterraneo esistenziale si sono risvegliate come vitigni americani. Da allora ricerche e congetture, vuoti ricolmati con supposizioni magari subito svanite ma anche con scintillii documentari, con transunti, con diplomi con trascrizioni di processi feudali. Di volta in volta una nuova Racalmuto nasceva eppure spesso subito appassiva.
 
Mi accingo a divulgare una microstoria racalmutese evenienziale, alla francese. So che non ci riuscirò. Per Racalmuto non vi sono molti fatti narrabili, secondo i crismi del Castro, come li avrebbe voluti Leonardo Sciascia: Ed anch’io finirei con l’incappare nella sorniona ironia del grande scrittore. Ricordate? 1982: Mulé assessore ai Beni Culturali; non ricordo chi fosse il sindaco (non si firmò); si riuscì a far stilare all’eminente scrittore una sapidissima prefazione alle memorie e tradizioni racalmutesi scritte da un acerbo ventiduenne alla fine del XIX secolo. Sciascia esordisce con una monca bibliografia: sarebbero stati scritti solo tre libri “sulla storia di Racalmuto”. Per uno di questi tre scritti parla di “una storia … voluminosa, fitta di notizie”. Eppure quel libro non fu prescelto per la riedizione commemorativa dei lustri racalmutesi.   Non contraddittoriamente, ma con la solita arguzia ed in definitiva bonomia però non compiacente, questa l’amara conclusione: «limitato è il numero delle notizie che si possono estrarre da libri e manoscritti» E dire che: «moltissime e di sottili e lunghi tentacoli sono quelle che si possono estrarre dalla memoria. Dalla galassia della memoria.»
 
 Già con le Parrocchie di Regalpetra, e poi con  La morte dell’Inquisitore, e poi, qua e là, con il Mare colore del vino, e soprattutto con Occhio di Capra ed infine, per tacer d’altro, con Fuoco all’Anima, il nostro Compaesano munse quei succhi gastrici della memoria racalmutese.  Avvinto da Américo Castro, dalla sua storiografia,  per Sciascia Racalmuto “emerge [solo] nella prima metà del XVII secolo a una vita ‘narrabile’, da ‘descrivibile’ che appena e soltanto era.» Di solito, tutto si racchiude in una vita, pur sempre “tenace e rigogliosa” ma dimessamente “abbarbicata al dolore ed alla fame come erbe alle rocce”. In quella visione desolata, il vivere locale fu «per secoli vita appena “descrivibile” nell’avvicendarsi dei feudatari che, come in ogni altra parte della Sicilia, venivano dal nord predace o dalla non meno predace “avara povertà di Catalogna”; col carico delle speranze deluse e delle rinnovate e a volte accresciute angherie che ogni nuova signoria apportava»
 
E con empiti ancora più disperati il Genio racalmutese sillabò che il senso di quella vita era una lontananza “dalla libertà e dalla giustizia, cioè dalla ragione”. Una Racalmuto né libera né giusta; una Racalmuto nel grembo della follia, dunque. Altro che paese della ragione; sbagliano certi disattenti quando vorrebbero far credere che Sciascia credesse in una Regalpetra dimora di chissà quale dea loica.
 
 
 
 
Né ammaliati da sopraffine galassie delle paesane rimembranze e neppure inceppati da voglie campanilistiche di vicenduole congetturate a maggior gloria del paese del sale e dello zolfo abbiamo voglia di cogliere davvero molti di quegli sprazzi di inconsueta intelligenza di cui (lo affermiamo senza tema di smentita) è ricca Racalmuto e non abbiamo pudori nel far riaffiorare le propensioni al crimine, al delitto, all’omicidio, alle perversioni, all’usura, agli illeciti arricchimenti, alla pravità insomma di un paese solfifero, atto a trasformare quella bionda materia prima in micidiale polvere da sparo; perché ciò si addice ad una comunità di uomini né angeli né demoni, ma un po’ dell’una un po’ dell’altra natura; di un popolo che non avendo mai avuto bisogno di eroi (per non avere guai) di guai ne ha avuti tanti per non avere mai avuto bisogno di eroi.
 
 
 
 
Sciascia, per dirla con Camilleri, non ebbe ‘testa di storico’: celiando con la ‘tentazione alla visionarietà’  dello storico locale Tinebra Martorana (dopo averlo accreditato quale autore di una buona storia del paese) un po’ si assolve ma un po’ si rammarica per non essersi «privato del piacere di riportare [un] documento pur conoscendone la falsità, e precisamente nelle Parrocchie di Regalpetra». E ci pare – ma forse ci sbagliamo sonoramente – che ancora nel 1985 il preteso documento lo sussume al rango di fonte storica quando, nel presentare una mostra di Pietro d’Asaro, ribatte che Racalmuto era «antico paese che esisteva già, un po’ più a valle, quando gli arabi vi arrivarono e, trovandolo desolato da una pestilenza, lo chiamarono Rahal-maut, paese morto. Ma non era per nulla morto, se fu riedificato arrampicandolo verso l’altipiano che dal paese oggi prende nome (l’altipiano di Racalmuto, l’altipiano zolfifero).» Non stiamo qui a sottilizzare sulle licenze poetiche d’indole geologica, visto che di zolfo nell’altipiano vero e proprio non ce n’è, non avendo avuto modo il vibrio desulfurecans di sciamarvi in epoca del primo terziario. Saremmo leziosi e supponenti e chissà a quante rampogne andremmo incontro. Ma almeno non può negarsi l’eco delle statistiche propinate dall’abate Vella all’Airoldi – tutte notoriamente false e bugiarde – e delle varie dicerie degli storici secenteschi e settecenteschi, improvvisatisi arabisti.
 
Purtroppo noi siamo tra quelli piccolissimi di per sé e tutti presi dalle angustie della microstoria che non osiamo indulgere né ai falsi storici né alle fantasiose dicerie.
 
Così, cercheremo di scrivere su una Racalmuto né romantica né angelica e neppure malefica sino ed oltre le soglie dell’inferno. Una Racalmuto umana, speriamo, ove sono vissuti uomini talora liberi e talora servi; spesso vittime della giustizia ma anche artefici di iniquità; in definitiva ragionevoli come è consentito ai consorzi umani cui una più o meno divina provvidenza ha assegnato un territorio a metà insalubre e pieno di calanchi ed a metà ferace come l’humus del Pleistocene sa essere. Ed al di là degli allettanti sofismi di Américo Castro ha tessuto una vicenda umana ‘narrabile’ in misura notevole se si ha l’uzzolo (e l’umiltà) di scovare e sviscerare la sconfinata documentazione che giace (spesso polverosa ed inconsulta) in archivi persino di alto prestigio planetario quali quelli segreti del Vaticano o quelli di Simancas (magari nelle diramazioni di Madrid e Barcellona), per scendere agli altri relativamente meno prestigiosi di Palermo, Vienna, Torino, solo per lata elencazione.
 
 
 
 
 
 
 
Sfogliamo un bel libro: Manuel Vázquez Montalbán, Lo scriba seduto, Frassinelli 1994. Vi baluginano sprazzi di storia paesana, racalmutese, ma attraverso una duplice e forse triplice lente deformante (Sciascia, Domenico Porzio e forse il figlio di questi). Il Vázquez  traduce alcuni passaggi di un volume controverso che accreditato in un primo tempo a Leonardo Sciascia, per opposizione dei familiari, è persino scomparso dai cataloghi di Mondatori e cioè Fuoco all’anima. A pagina 178 ci viene segnalato, senza velami, che Sciascia avrebbe riferito «che dopo la guerra, quando era impiegato al Consorzio agrario di Racalmuto, venne chiamato a testimoniare in una causa per una sottrazione di grano commessa da un arciprete e un contadino. Il contadino aveva frodato meno dell’arciprete, ma lui venne condannato a due anni di galera e l’arciprete assolto.». Noi racalmutesi di una certa età conosciamo bene l’incidente, i protagonisti e la vera genesi del processo. Naturalmente non ci ritroviamo in quella letteraria versione. La magia della memoria, ci pare, abbia portato lontano, di sicuro oltre la banalità dell’accadimento storico. L’arciprete, che dopo certe esecrazioni più di riflesso della impopolarità politica ed amministrativa dei parenti che per iniquità sua - ed oggi è sacerdote sempre più rimpianto - subì maliziose perquisizioni di potenti che risorti, dopo l’incubazione per l’intero periodo fascista, erano ostili al prete per propensione massonica, per tacere del sospetto di una loro propinquità alle locali aree mafiose.
 
Quanto al contadino – che vero contadino non era, ma come si diceva allora burgisi, ed era piuttosto benestante – se la volle per bizzarria di carattere. I suoi figlioli, notevoli professionisti fra gli ottimati di Racalmuto, seppero poi rendere pan per focaccia. E, per la precisione, Sciascia non fu allora impiegato di nessun Consorzio agrario – solo di un precario organismo postbellico, l’UCSEA, se non andiamo errati.
 
 
 
 
Sciascia e la mafia (racalmutese); Sciascia e la liberazione americana di Racalmuto; Sciascia e la locale Democrazia cristiana; Sciascia e comunisti e socialisti; Sciascia che acquista i campi della Noce; Sciascia che vi coltiva viti e ulivi «da cui ricava qualche bottiglia di vino e poche damigiane di olio, in proprio, a guisa di fluidi vitali che lo legano alla patria genetica»; sono noticine del libro, deliziose ma molto incongrue per abbozzi storici o meglio microstorici. Avremmo tanto a che ridire.
 
 
 
 
Nell’agosto del 1990 Domenico Porzio moriva improvvisamente; “stava lavorando alla stesura definitiva del testo delle sue conversazioni con Leonardo Sciascia”, scrive il figlio Michele Porzio nell’introdurre Fuoco all’anima. Soggiunge di essere stato proprio lui ad “impegnarsi nella revisione definitiva del testo”. Non mancò peraltro di «ringraziare la signora Maria, moglie di Leonardo Sciascia, per il suo interessamento a questo lavoro e per i preziosi consigli e chiarimenti profusi durante la realizzazione». Perché poi quel libro – edito da Mondatori – sia stato ritirato dalle librerie e non più ripubblicato, magari con rettifica dell’autore in autori e con Sciascia in veste di semplice intervistato, resta un dilemma.
 
 Il libro è quanto di più bello, semplice, melanconico possa attribuirsi a Sciascia.
 
 Racalmuto ne possiede due copie: una sta in biblioteca; l’altra è in dotazione al Circolo Unione.
 
 
 
 
Da lì traiamo spunti, guizzi e verosimiglianze di una Racalmuto rievocata, nel punto estremo dell’occaso da Sciascia: se quanto Michele Porzio mette in bocca al grande Racalmutese non è vero, è però molto verosimile. E tanto basta al microstorico che qui scrive.

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