sabato 25 aprile 2015

DA CASINO DI NOBILI A CIRCOLO UNIONE


DA CASINO DI NOBILI A CIRCOLO UNIONE

di Calogero Taverna

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Il circolo Unione l’anno venturo, nel 1999, compie 160 anni: è il più vecchio circolo di Racalmuto, il più glorioso, quello maggiormente emblematico di una classe media con aspirazioni nobiliari. Oggi è di certo meno pretenzioso, più riservato, amante del pettegolezzo d’alto bordo - tra il politico, il sociale, l’irriverente, il caustico, il miscredente. A sera pochi soci ormai cercano di perpetuare il cicaleccio arrogante, impietoso ed ilare dei personaggi passati alla storia (letteraria) per la penna di Leonardo Sciascia. Ma di don Ferdinando Trupia, di Martinez, di Lascuda, di don Carmelo Mormino, del dott. La Ferla, di don Antonio Marino ormai neppure l’ombra. I loro eredi - quasi tutti professionisti affermati in Continente o a Palermo - hanno ritenuto di potere sbeffeggiare il circolo dei loro sbeffeggiati (da Sciascia) antenati facendosi espellere per morosità da una deputazione post-sessantotto, di estrazione non nobile e talora persino proletaria. La fuoriuscita dei virgulti degli antichi galantuomini  vorremmo dire è persino fisiologica.

A sera, ora, tocca alla facondia suadente e beffarda di Guglielmo S. mantenere viva la conversazione al circolo: gli fa eco il tranchant assiomatismo di Calogero S.; sorride con intelligente silenzio Gioacchino F.; fino a qualche anno fa scoppiava l’ira funesta dell’avv. Salvatore C.; al dott. Gioacchino T. il compito del divertito spettatore; Ignazio P. ascolta silente, ma si arrabbia se gli toccano la sua Democrazia; il Presidente non è faceto: se occorre stigmatizza; Salvatore S. arriva tardi, in tempo per un paio di sorrisi se Guglielmo S. è in vena nelle sue sforbicianti allusioni. Quando vado a Racalmuto, partecipo anch’io a tali dibattiti serotini: nessuno ha voglia di prendermi sul serio: provoco, sono provocato, insolentisco, vengo insolentito: la serata passa piacevole: val la pena di pagare quel piccolo contributo quale socio con “dimora precaria”.

Di tanto in tanto arrivano poesie in vernacolo: sono composizioni miserande, cattive, senza gusto: sono intollerabili. I soci però sembrano divertirsi lo stesso.

Leonardo Sciascia trasse motivi ed argomenti per il suo iconoclasto deridere i poveri galantuomini di Racalmuto. Vi era associato; lo eleggevano deputato e persino cassiere. Ma amava stroncare quei figuri nati effettivamente per lasciare “un’affossatura nelle poltrene del circolo”. Ebbe il cattivo gusto di morire lasciando in sospeso il pagamento dei “buoni” associativi: inflessibili i membri della deputazione non mancarono di verbalizzare nel 1992 la circostanza.

Lo scrittore è disinvolto nell’accennare alle gloriose origini del circolo: «Il circolo della concordia - annota quasi con prosa burocratica  - prima denominato dei nobili, poi della concordia poi dopolavoro 3 gennaio, sotto l’AMG sede della Democrazia Sociale (il primo partito apparso in questa zona della Sicilia all’arrivo degli americani e dagli americani protetto) e infine ribattezzato della concordia, pare sia stato fondato prima del 66, se appunto nel 66 la popolazione infuriata contro le sabaude leve, istintivamente trovando un certo rapporto tra la leva che toglieva i figli e i nobili che se ne stavano al circolo molto volenterosamente vi appiccò il fuoco; ma pare ne ricevessero danno soltanto i mobili, le persone si erano squagliate al primo avviso, le sale restarono superficialmente sconciate.»  

Quanto a storia locale ci reputiamo più fortunati di Sciascia e siamo in grado di retrodatare di almeno un trentennio la fondazione dello storico circolo. Se si spulcia l’Archivio di Stato di Palermo, Segreteria di Stato presso il Luogotenente generale, Polizia vol. 412, si rinviene il “Notamento dei Così detti Caffè e luoghi di riunione esistenti nei vari Comuni di questa Provincia ..., Girgenti, 26 agosto 1839.” Sotto tale data abbiamo dunque la consacrazione ufficiale del nostro circolo o se si vuole il riconoscimento giuridico. Scrive Carmelo Vetro   «In provincia i sodalizi si registrano a Licata (due circoli), Palma, Racalmuto, Ravanusa, Bivona, Villafranca, S. Giovanni, Santa Margherita, Montevago, Sciacca, Naro, Canicattì, Alessandria, Campobello, Cammarata, Caltabellotta, Menfi, Sambuca, Burgio ed Aragona: tutti con i loro bravi regolamenti, autorizzati dalle autorità di polizia, ... E’ da dire che molti di questi circoli erano favoriti dall’autorità locale che in tal modo poteva registrare gli umori politici e gli orientamenti prevalenti. Non a caso parecchi sodalizi nascono negli anni Trenta dell’Ottocento dopo la tempesta politica del 1820-21 ed il tentativo borbonico di riavvicinarsi agli intellettuali e borghesi.» Siamo pressoché certi che il circolo sorgesse in piazza su un marciapiede “sopraelevato rispetto al resto della piazza, ove era vietato, per inveterata consuetudine, passeggiare alla ‘gente comune’ ... Si aveva così un effetto quasi grottesco, che sottolineava la gerarchia feudale, essendo i notabili una ‘spanna’ più alti degli altri”. Il Vetro soggiunge: «Un rigido cerimoniale regolava l’ammissione dei nuovi soci ai vari circoli.... si poteva essere ammessi riportando la maggioranza di “voti segreti per bussoli”, nell’assemblea dei soci. Ogni due anni venivano eletti quattro deputati, il più giovane dei quali faceva da segretario. Nelle assemblee avevano diritto di voto i soli contribuenti. Ai deputati erano affidati la “polizia interna” e il “buon ordine della conversazione. Nelle sere di gala la conversazione era illuminata “a cera”. Al circolo erano ammessi solo “gli associati, le loro mogli, i figli e le figlie nubili e fratelli conviventi nella stessa casa”. Infine gli ospiti non si  dovevano “permettere di discorrere e discutere di cose” che si allontanavano “dallo scopo di una onesta conversazione”. Parimenti vietata era la lettura di fogli, giornali, libri o stampe non autorizzati dalla polizia. ... I contribuenti avevano la facoltà di presentare alla conversazione “forestieri distinti e di loro conoscenza, chiesta il permesso ai Deputati, salvo alla deputazione di deliberare in seguito l’esclusione se non li avesse riconosciuti “meritevoli”.  ... Il circolo era provvisto dei “fogli officiali”   di Palermo e di qualche altro giornale letterario. Un cameriere ed un “bigliardiere” si occupavano di servire i soci con un vestito decente e a testa scoperta”. Un puntuale tariffario  stabiliva le quote da versare per i diritti di gioco. Le illuminazioni “a cera” erano ordinariamente previste nella sera di gala ed in talune ricorrenze. ... Leonardo Sciascia ci introduce nello spazio dorato, quasi senza tempo del Circolo della concordia di Regalpetra, dove vecchi e nuovi notabili vengono a celebrare il rito della fedeltà al passato ed alimentare inutili sogni di difesa dei propri privilegi. Il circolo è situato nella parte centrale dei corso: “Consiste di una grande sala di conversazione, con tappezzeria di color pesco e poltrone di cuoio scuto, una sala di lettura, tre sale da gioco”. I soci del circolo non sono, ormai, più i ricchi: “I ricchi si trovano nel circolo del mutuo soccorso, una società operaia che è venuta trasformandosi ...; il più ricco dei “don” non possiede più di dieci salme di terra” ma i soci del circolo della Concordia “continuano ad essere il sale della terra”. Anche qua si discute di politica “scienza di cui molti soci del circolo si sentono al vertice e fanno previsioni che, verificandosi poi fatti esattamente opposti, si possono considerare attendibilissime.” Dopo la politica, le donne. E allora “le mani si muovono a plasmare nell’aria grandi corpi di donne, donne si gonfiano nell’aria come mongolfiere. Non è più uno scherzo ora, tutti ci sono dentro, lo studente ascolta le confidenze del giudice di corte d’appello in pensione”. Nella rappresentazione letteraria la ritualità della “conversazione”, che autogratifica con la sua immobilità l’Olimpo paesano, dà quasi un senso alla stessa esistenza: ci si sente, allora, “lievi e giustificati, d’aver vissuto tutta la giornata soltanto per attendere, come una novità, come una grazia insolita e particolare, quest’ora che compendia le ragioni ideali del mondo, che chiarifica e motiva finalmente l’esistenza, rianima l’immoto flusso dei giorni, riattacca la morta gora dell’abitudine al canale della continuità”. Una continuità che nell’illusione di molti esercita, ancor oggi, come un fossile vivente, esercita il fascinoso richiamo di un’elitaria società che più non esiste.»

 

FONDAZIONE DEL SODALIZIO

 

Il circolo Unione sorge dunque poco prima del 1839 con un nome ben diverso: Casino di Compagnia. Leonardo Sciascia è sapido e sfottente sul termine “casino”: deliziosa la sua verve ironica in Occhio di Capra. «CASINU. Casino. Casino di compagnia. - annota a pag. 43 - Ma non tutti i circoli erano così denominati. Il casino per (non per modo di dire) eccellenza era quello dei ‘galantuomini’ cui il fascismo, impadronendosene, diede nome di “dopolavoro delle forze civili”. Raccoglieva proprietari terrieri, professionisti, funzionari dello Stato, maestri delle scuole elementari; e vi si entrava se approvati, per votazione a palle nere e bianche, dai due terzi dei soci. La non approvazione - piuttosto frequente - era un fatto mortificante e non privo di conseguenze morali, sociali. Una macchia. Paradossalmente, fu il fascismo a democratizzare l’ammissione al casino: bastava appartenere alle “forze civili” (e cioè alla categoria popolarmente detta dei “sucanchiostru”, dei succhia-inchiostro, della burocrazia anche infima) per essere, dietro domanda, ammessi. Ma caduto il fascismo, si tornò al vecchio statuto. [...] In tutti [i circoli] prevalente attività era il gioco di carte: a passatempo durante l’anno, d’azzardo durante il periodo natalizio. Nel frattempo (negli anni Cinquanta) scompariva nell’accezione di circolo la parola casino, ormai d’uso generale nel significato - derivante da casino = casa di prostituzione - di confusione, tumultuazione, chiasso.

«Il casino = casa di prostituzione non esisteva nel paese; e le case di prostituzione dei grossi paesi vicini erano semplicemente bordelli. Qualcosa di simile alla casa di prostituzione pare fosse esistita, non in regola con la legge, alla fine dell’Ottocento in un quartiere chiamato Santa Croce: e ne rimase memoria nel dire “santacruci” come sinonimo di licenziosità, di puttanesimo. Curiosamente, è con l’abolizione delle case di prostituzione che cade l’interdetto sulla parola casino, e per il fatto che ormai tutti sapevano che cosa fosse stato un casino. Per cui casino, incasinare, incasinato, far casino, sono espressioni che soltanto i giovani, fra di loro, usano. La pruderie dei racalmutesi si può senz’altro dire di tipo vittoriano. Ancora oggi c’è chi chiama “biancu” (bianco) il petto di pollo; chi evita di dare precisa denominazione a quella pera cerea e succosa detta “coscia” o - peggio - “coscia di monaca”; chi, azzardandosi a parlare di prostitute, ricorre all’eufemismo di “donne che fanno qualche favore” ...»

Il 1839 seguiva di poco a Racalmuto il temendo cataclisma che era stata la peste del 1837. Un fraticello del Convento di S. Francesco ci ha lasciato questa tremenda testimonianza : «Nell’anno 1837: mese di agosto vi fù il colera e in questa di Racalmuto morirono circa mille persone e furono sepolte nella sepoltura di Santo Alberto al Carmine, all’Anima Santa del Caliato, in Santa Maria di Gesù e porzione in San Francesco; Monte San Giuseppe e in altre chiese, cioè persone perticolari; poi nella nostra sepoltura grande vi è sepolto il paroco don Antonino Grillo, che morì a 25 agosto 1827 ed altre persone riguardevoli.»

In quel torno di tempo si era dunque nella solita euforia esistenziale che segue ai grandi sconvolgimenti demografici: voglia di vivere, di procreare, di lavorare, di arricchirsi, di consociarsi, di amare e di divertirsi. Il Casino nasce per conversare, giocare, ma soprattutto per scambiarsi idee, per saggiare il terreno delle opportunità commerciali. Racalmuto era stato invaso dalla febbre dell’oro giallo, dello zolfo che le viscere delle sterili terre del nord contenevano a profusione. Nel quadriennio 1834-1837 erano state attivate  a Racalmuto 35 solfare su un totale di 332 in Sicilia: il prodotto medio annuo era stato di 34.696 cantari su una produzione intera della Sicilia calcolata in 1.478.254 cantari.  Presso il circolo di conversazione si radunavano quindi i maggiori proprietari di solfare; s’informavano reciprocamente su quelli che erano gli umori del mercato; sulle prospettive, sulla faccenda complicata del monopolio solfifero accordato dai Borboni allaTaix, Aycard e C. (con decreto reale del 5 luglio 1838). La compagnia si obbligava a comprare ogni anno 600 mila cantari di zolfo prodotto in Sicilia “avendo la sperienza comprovata eccedente e di gravi danni produttrice ogni maggior produzione” . La produzione doveva quindi autodisciplinarsi. Non saranno stati grandi ingegni quei nostri proprietari terrieri, trasformatisi all’improvviso in imprenditori minerari, ma il bisogno dovette acuirne l’ingegno; al circolo era possibile, magari sotto forma di feroce dibattito e di reciproche contumelie, avere modo di giungere ad un qualche chiarimento, ad un orientamento delle proprie scelte produttive. Erano i problemi della nuova società borghese ed anche i ‘civili’ racalmutesi ne venivano inghiottiti. Sono aspetti per ora in nessun modo indagati dalla storiografia, ancora anchilosata da ideologismi e prevenzioni intellettualistiche  oscuranti la ricerca del vero evolversi sociale di quel tempo.

Il circolo era tutt’altro che il punto d’incontro di neghittosi nobilotti di paese, alle prese con il problema del molto tempo libero da occupare in qualche modo. V’era spirito imprenditoriale: vi accedevano, se non i gabellotti  arricchiti, freschi di studi universitari. La stampa cominciava a farvi capolino. Il circolo è dunque più di un’occasione per attizzare una certa vivacità culturale. E la cultura cambia in paese: esso non è più la contea alle prese con i problemi del terraggio e del terraggiolo; anche il nuovo barone Tulumello - un prete suo antenato aveva acquistato per due terzi il feudo di Gibillini il cui titolo doveva essere assegnato a persona da nominare - deve ora accontentarsi solo del vacuo trofeo di un blasone nobiliare che deve condividere con il barone Girolamo Grillo. In quel torno di tempo ben 3 personaggi racalmutesi si arrogavano quell’altisonante fregio. Eccoli secondo le annotazioni di un rivelo coevo:

GRILLO
GIROLAMO
BARONE
TULUMELLO
LUIGI
BARONE
TULUMELLO B.NE
GIUSEPPE SAVERIO
BARONE DON

 

Furono sicuramente tra i promotori del circolo quali nobili per eccellenza; dovettero però convivere con gli emergenti, con i nuovi ricchi  e soprattutto con i nuovi notabili ormai senza più cordoni ombelicali con i settecenteschi potentati feudali. Sindaco di Racalmuto è don Nicolò Mattina Calello che “don”  lo è di recente: nel seicento la sua famiglia era notabile solo per qualche prete come don Federico Mattina, nato un ventennio prima di fra Diego La Matina, che però era di diverso ceppo ed era un Randazzo per parte di madre. I La Mattina Calello affiorano qua e la come notabili ma sempre marginalmente sino a tutto il Settecento: poi il salto di qualità nella gerarchia degli ottimati locali, sino ai nostri giorni. Gli eredi sono tuttora i più cospicui elementi dell’attuale Circolo Unione.

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