sabato 26 dicembre 2015


I TEMPI DELL’OCCUPAZIONE BARARICA

 

 

Tinebra Martorana fa un fugace accenno a Genserico ed ai suoi Vandali ed a Totila re dei Goti solo per un richiamo storico dei più generali eventi siciliani dell’epoca, non sapendo che altro dire per quel che ha più stretta attinenza alle vicende locali. Come abbiamo visto, una qualche eco di quelle dominazioni dovette esservi per i coloni abbarbicatisi ai fascinosi costoni snodantisi tra il Caliato, Anime Sante, Grotticelle, Giudeo e Casalvecchio. Eppure di questo sinora non abbiamo alcuna testimonianza né scritta né archeologica. Il tempo a venire non sarà avaro di reperti esplicativi, specie quando ci si deciderà a porre in atto scientifiche campagne di scavi nella zona, invece di ricoprire frettolosamente quello che casualmente affiora.

Nei pressi di Racalmuto sorgono le rovine di Vito Soldano: ne hanno scritto M.R. La Lomia (1961) ed E. De Miro (1966 e 1972-73), ma non può dirsi che per il momento disponiamo di notizie esaurienti, specie sotto il profilo storico. Tombe riccamente corredate sono state rinvenute in contrada Cometi: non è da escludere che lì vi fosse una qualche necropoli riguardante il finitimo centro di Vito Soldano. Purtroppo l’avida ingordigia dei tombaroli ha sinora impedito seri e chiarificatori studi. Per tutto il periodo romano, e per quello successivo delle scorrerie barbariche, sino all’avvento dei Bizantini, i vari coloni sparsi nel territorio di Racalmuto potevano pur bene far capo all’importante insediamento di Vito Soldano, di cui si ignora il nome antico e per il quale le varie ipotesi degli archeologi non reggono al vaglio critico.

Passando alle vicende del rado colonato racalmutese del V e VI secolo d.C., già scarse sono le conoscenze che si hanno per la più generale storia della Sicilia; circa le nostre parti sono disponibili scarsissimi lumi: qualche indizio e talune indicazioni di troppo generica portata.

Se nel 439 la Sicilia fu occupata dai Vandali, a Racalmuto un qualche sentore ebbe ad aversi. Non certo in fatto di religione, giacché l’ostilità di Genserico verso il cattolicesimo e la sua propensione alle conversioni di massa all’arianesimo difficilmente potevano colpire la nostra plaga, per nulla organizzata sotto il profilo civile e, per quello che mostra l’archeologia, men che meno sotto il profilo religioso. Ma se il vescovo cattolico agrigentino  - se vi fosse, chi questi fosse e che rilievo avesse, non si sa - ebbe a subirne una qualche conseguenza, un qualche riverbero dovette esservi sull’eventuale comunità cristiana racalmutese. Di certo, quando Genserico fu sconfitto ad Agrigento da Ricimero, conseguenze di quella guerra ebbero a ricadere sull’economia agricola di Racalmuto. Se crediamo a Sidonio Apollinare , Ricimero con quella vittoria poté ripristinare la coltivazione dei campi, e qui, a Racalmuto, lo sbandamento che le scorrerie di Genserico e dei suoi Vandali ciclicamente determinavano, si diradò per qualche tempo e quindi si ebbe prosperità con regolari raccolti granari e soddisfacenti vendemmie.

I Vandali dopo il 463 riescono, in qualche modo, a prendere possesso della Sicilia e la soggiogano sino all’anno in cui, caduto l’impero romano d’Occidente (476), Genserico la restituisce ad Odoacre: vicende queste riflessesi sulla plaga racalmutese con incidenze e modalità sinora del tutto ignote.

La Sicilia passa quindi, nel 491, ai Goti. Si è certi di un buon governo da parte di Teodorico. Vi sono, però, persecuzioni ariane contro i cattolici. Per i coloni di Racalmuto che cosa potesse significare tutto ciò va affidato a congetture più o meno fantasiose, in mancanza di fonti, non solo documentali, ma neppure archeologiche.

Il risvolto storico dei Goti a Racalmuto persiste sino al 535, allorché Belisario riesce a congiungere l’isola all’Impero d’Oriente: inizia la civiltà bizantina racalmutese che ebbe incidenze ben più rilevanti di quelle arabe, non foss’altro perché durò di più (quasi tre secoli contro i due e mezzo dell’insediamento berbero).

 

IL TEMPO DEI BIZANTINI

 

 

Attorno al VI secolo d.C. a Racalmuto si ebbe un discreto diffondersi della civiltà bizantina: ne è probante testimonianza il tesoretto di monete studiato dal Guillou. Aspetto singolare è il luogo del ritrovamento delle monete, dietro la Stazione Ferroviaria, in contrada Montagna. Ciò fa pensare che la zona fosse tutt’altro che disabitata. E dire che il centro abitativo più intenso era piuttosto lontano, ad un paio di chilometri circa, attorno alle Grotticelle.

Per Biagio Pace le Grotticelle erano un ipogeo cristiano. I Bizantini racalmutesi, ormai decisamente convertitisi al cristanesimo e sicuramente grecofoni (il fondo di lucerne del tempo colà rinvenute portano marchi in greco), curavano la loro cristiana sepoltura ed è un peccato che vandali locali abbiano frugato all’interno di quelle tombe, distruggendo un patrimonio archeologico che avrebbe avuto un’incommensurabile portata storica.  Ma la zona resta pur sempre ricca di reperti e saranno gli scavi futuri a fornire materiale esplicativo di quel periodo storico, oggi affidato solo alle fantasie degli eruditi locali. (Invero neppure il Guillou è esaustivo ed il competente Griffo retrocede la datazione delle monete al V secolo: cosa inverosimile se le effigie degli imperatori bizantini sono di Tiberio II ed Eracleone, di oltre un secolo posteriori)

A seguito di una scoperta archeologica del 1990 in contrada Grotticelli le pubbliche autorità si sono per il momento limitate ad imporre un vincolo sul territorio interessato. Nel decreto della Regione Siciliana del 10 luglio 1991 viene sottolineata «la notevole importanza archeologica della zona denominata Grotticelle nel territorio di Racalmuto interessata da stanziamenti umani di epoca ellenistica-romano-imperiale, costituita da ingrottamenti artificiali ad arcosolio e da strutture murarie abitative affioranti». Non viene precisato altro. Tanto comunque è sufficiente a comprovare un più o meno vasto insediamento in quella zona a partire da un’epoca che per quello che abbiamo detto prima può farsi risalire ai tempi della caduta dell’impero romano.

L “ipogeo cristiano” di Biagio Pace si troverebbe in «quell'abitato prearabo che fa postulare il nome di Racalmuto». Nostre personali ricerche  ci fanno pensare che l’abbaglio del grande archeologo poggerebbe su questo passo del Tinebra Martorana: «..alla contrada Grutticeddi esiste un poggetto di masso scavato in una grotta; da molti mi fu assicurato che in quella grotta furono rinvenuti dei sepolcri scavati nel masso con resti di ossa». Da qui - ad esser franchi - all'ipogeo cristiano ce ne corre. Una ipotesi dunque, ma tutt'altro che inattendibile come i recenti ritrovamenti nei dintorni sembrano comprovare. Di certo sappiamo che le Grotticelle erano una plaga abitata anche al tempo dei bizantini. Grotticelle e dintorni poterono dunque essere fattorie o pertinenze di 'massae'  soggette al papa Gregorio nel VI secolo o alla chiesa di Ravenna oppure costituire beni propri della corte di Bisanzio.  Sulla scia di autorevoli storici è pur congetturabile una sorta di continuità tra l'assetto agrario dell'epoca bizantina e quella della Sicilia post-araba. La frattura saracena a Racalmuto, come altrove, fu profonda ma non invalicabile.

L'ultimo reperto relativo a Racalmuto pre-arabo resta, tuttavia, il cennato ripostiglio di aurei imperiali (oltre duecento) rinvenuto casualmente in contrada Montagna. Sul ritrovamento delle monete a Racalmuto,  ho sentito varie versioni pittoresche sin dalla prima infanzia: lavori di scasso per l'impianto di una vigna; scoperta del tesoro da parte di operai, tra i quali un contadino di non eccelse capacità intellettuali; rapacità del padrone del fondo; imprevista denuncia del minorato; intervento dei carabinieri e sequestro delle monete finite al Museo di Agrigento. A quel ripostiglio si riferisce André Guillou, secondo il quale è da collocare nei secoli VII-VIII il «numero notevole di tesori di monete ... dispersi nell'isola», tra i quali le monete di Racalmuto costituite da «205 pezzi, riferentisi a Tiberio  II - Héracleonas». Quelle monete sono oggi custodite in una sala sempre chiusa del  Museo Agrigento,  quasi a simbolo del pubblico oscuramento della nostra antica storia locale. Se non fosse stato per il francese Guillou, le ultime vicende bizantine di Racalmuto sarebbero finite nell'oblio o inficiate da errori di datazione.

 

RACALMUTO, VILLAGGIO ARABO

 

Caduta Agrigento sotto gli Arabi (829), il più o meno fiorente villaggio bizantino di Casalvecchio fu inglobato dai berberi. Di congetture se ne possono formulare tante, di verità storiche solo flebili barlumi.

Che cosa ne fu di quelle abitazioni? Le attuali conoscenze archeologiche sono insufficienti per teorizzare alcunché. Sembra però probabile che i coloni un tempo colà dimoranti abbiano finito con l’abbandonare le loro case e spostarsi altrove.

E che può dirsi della religione? E’ opinione diffusa che gli Arabi fossero tolleranti, ma noi non sappiamo né di moschee né di chiese cristiane aperte al culto in quel tempo nella zona dell’intero altipiano. Ed in mancanza di documentazione siamo lasciati liberi di credere a quel che vogliamo e propendere per tesi di eclissamento della religione cattolica o di una sua sopravvivenza, come di un fiorire del culto islamico tra l’Est del Castelluccio ed i luoghi del tramonto sul crinale della Montagna, se non addirittura a riparo delle balate di Gargilata.

Siamo, in ogni caso, affascinati dai versi di Ibn HAMDIS e tifiamo per un grande rigoglio della civiltà araba qui da noi.

 Pianse, invero, Ibn con accenti che toccano ancora il cuore dei racalmutesi di sangue arabo:.

 

«Ho riacquietato il mio animo quando ho visto la mia patria assuefarsi alla malattia mortale, fastidiosa.

«Che? Non l'hanno macchiata d'ignominia? Non hanno, mani cristiane, mutate le sue moschee in chiese,

«dove i frati picchiano a loro voglia, e fanno chiacchierare le campane mattina e sera?

«O Sicilia, o nobili città, vi ha tradite la sorte, voi che foste propugnacolo contro popoli possenti.

 «Quanti occhi tra voi vegliano paventando, i quali un dì, sicuri dai Cristiani, traevano dolci sonni?

«Vedo la mia patria vilipesa dai Rùm [cristiani]; essa che in mano dei miei fu sì gloriosa e fiera.

«Aprirono con le loro spade i serrami di quel paese: splendeva esso di luce, e vi lasciarono le tenebre.

«Passeggiano nei paesi i cui cittadini giacciono sotterra: oh no, non hanno più paura di incontrarvi quei pugnaci leoni.»

Consolidatasi la conquista araba, a Racalmuto si stabiliscono i berberi, che per la maggior parte erano contadini venuti in cerca di terra, mentre gli invasori arabi erano soprattutto soldati che preferivano lasciar lavorare i cristiani per loro. Si era, dunque, superato il periodo eroico del gihàd ed il rappresentante dell’emiro in Sicilia assunse anche le funzioni amministrative. La sua autorità si estese su tutti gli abitanti dell’isola e cioè su un vero e proprio mosaico di razze e di religioni. Anche i musulmani erano di origine etnica la più disparata: arabi, berberi, spagnoli, locali convertiti. La restante popolazione, costituita da dhimmi, ossia locali non convertitisi all’Islam i quali, in cambio del pagamento di un tributo annuo fisso, avevano salva la vita  e le proprietà, conservando libertà di religione e di culto.

Quanti erano i berberi e quanti i dhimmi a Racalmuto? E’ quesito per lo stato delle conoscenze senza risposta. Gli infedeli (i dhimmi) che per avventura avessero deciso di restarsene nei territori conquistati dovevano corrispondere la gizya ed il kharàj - imposta personale (o di capitazione) questa, fondiaria quella - inizialmente non distinte; ne erano esclusi gli indigenti, gli schiavi le donne, i vecchi ed i bambini.

Dopo neppure un quarantennio dalla conquista, scoppiò una contestazione che sicuramente coinvolse l’altipiano di Racalmuto. Lasciamo la parola ad un arabista del calibro di Rizzitano per tratteggiare questa congiuntura storica di grande risalto per le vicende arabe racalmutesi.

«In entrambe .. le classi sociali - in cui era divisa orizzontalmente la comunità dei sudditi dell’emiro - erano ben presto insorti malcontenti, rivalità e ribellioni anche violente. Le forti personalità e le doti eccezionali di Ibrahìm ibn Allàh e di Al-Abbàs ibn al-Fadl - ma soprattutto i ricchi bottini che questi due energici condottieri erano riusciti a conquistare - avevano temporaneamente appagato e tenute quiete le truppe. Tuttavia, non si era ancora concluso il quarto decennio della conquista, consolidatasi soprattutto nel settore centro-orientale, che già i musulmani davano qualche segno di cedimento e mostravano di sentirsi meno impegnati nell’ulteriore rafforzamento delle posizioni conquistate e nella partecipazione all’opera di sistemazione amministrativa del paese, più sensibili alle sollevazioni e ai disordini che elementi sobillatori cercavano di fomentare soprattutto nell’agrigentino. Qui prevaleva l’elemento berbero; ed è da ritenere che esso agisse in collusione con i bizantini ai danni degli arabi, per cui si riproponeva anche in Sicilia, e forse si esasperava quell’incompatibilità fra le due razze diverse che, in Ifìqiya, aveva già provocato - e continuava a provocare - non pochi e cruenti scontri. A tale proposito è da osservare che - fra i diversi gruppi etnici venuti in Sicilia con l’esercito di occupazione - i due gruppi più consistenti erano proprio quello arabo e quello berbero. Accomunati dalla fede, ma solo apparentemente fruenti di uguali condizioni sociali, gli arabi si erano sempre sentiti, in ogni circostanza, i padroni dei berberi, e sempre cedettero all’orgoglio di averli dominati fin dall’ormai remoto secolo VII, quando l’Islàm iniziò la conquista del Maghrib. Al tempo stesso i berberi, genti di antichissime tradizioni e ben noti per la loro fierezza, non tolleravano condizioni di subordinazione agli arabi, a cui fra l’altro si sentivano superiori per numero, industriosità e capacità soprattutto nel settore agricolo.

«Per quanto concerneva invece i dhimmi, questi erano soprattutto notabili locali, funzionari, proprietari terrieri, contadini commercianti. Anche fra loro il malcontento era assai vivo. Il carico fiscale che dovevano sostenere in cambio del loro statuto era sempre più pesante; oggetto di continue discriminazioni e vessazioni da parte dei musulmani, essi erano esposti più che mai agli umori del momento, all’opportunismo del principe, alle rappresaglie - spesso sanguinarie - da parte degli elementi musulmani più violenti e turbolenti - venuti in Sicilia immaginando di conquistarvi facili ricchezze. Ora che le campagne militari - rivelatesi più dure di quanto forse inizialmente supposto - fruttavano bottini minori, è chiaro che erano i dhimmi a dovere «pagare» l’irrequietezza di questi elementi musulmani. Tale era il contesto sociale siciliano alla morte di a-Abbàs.

«Pertanto a nuovo governatore - Khafagia ibn Sufyàn (862-869) - che era stato preceduto da altri due reggenti, rimasti in carica complessivamente un anno, s’impose il compito di eliminare, per quanto possibile, ogni motivo di dissidio, onde evitare che si trovasse pregiudicata la ripresa delle operazioni militari, avviate presumibilmente ad un anno di distanza dall’arrivo a Palermo di quel nuovo rappresentante dell’autorità aghlabita d’Ifrìqiya».

Non è questa la sede per dilungarsi sulle imprese militari a Siracusa, Ragusa, Noto e Scicli di Khafagia: ci interessa invece l’episodio narrato dall’Amari che per tanti versi investe la storia locale racalmutese. Siamo nell’anno 867 e «par che seguendo la costiera di mezzogiono - scrive l’Amari nella sua SMS - giugnessero i Musulmani presso Girgenti, avendo costretto a calarsi agli accordi il popolo di Ghirân, che io credo la terra di Grotte: e moltissime altre castella occuparono; finché il capitano infermo di malattia sì grave, che fu mestieri portarlo a Palermo in lettiga. Ma non andò guari che il rividero i Cristiani nel duegento cinquantatrè (10 gennaio a 30 dicembre 867) cavalcare i contadi di Siracusa e di Catania, distruggere le méssi, guastar le ville; mentre le gualdane ch’ei spiccava dal grosso dell’esercito depredavano ogni parte dell’isola. »

Elementi arabi, con intenti vessatori, si spandono nell’867 nelle campagne attorno a Grotte (investendo, quindi, anche il villaggio del nostro Casalvecchio) distruggendo, depredando, violentando. Avranno lasciato dietro di loro morte e desolazione. Se una qualche attendibilità - e noi la neghiamo del tutto - ha l’antica tradizione che vuole attribuire a Racalmuto il significato di «Paese morto», questa andrebbe collegata alla vicenda dell’867 che abbiamo richiamata. Solo se così inquadrata, può avere una qualche validità storica la dissertazione del Tinebra Martorana (v. pag. 33) sul villaggio chiamato dai «Saraceni .... Rahal-Maut, villaggio morto, distrutto [...]»

Amari ritiene che Grotte corrisponda alla fortezza di Ghîran sol perché Ghîran in arabo significa grotta o caverna. Ed allora perché non congetturare che si riferisca alla contrada di Racalmuto chiamata ancor oggi Grotticelle attorno a cui si spandeva un apprezzabile villaggio arabo-bizantino? o alle tante grotte che erano abitate sotto il Carmelo, nell’antico quartiere denominato in epoca post-sveva S. Margaritella? Ma tanto solo per rendere avvertiti della non perspicuità dell’argomento toponomastico dell’Amari.

 Girgenti - dominio dei turbolenti berberi - si sollevò, ancora una volta, nel 937 contro il delegato, accusato di soprusi, che era stato distaccato da Sàlim in quel territorio. La comunità racalmutese dovette essere coinvolta in quei torbidi. I ribelli marciarono su Palermo ma furono sconfitti. Comunque i palermitani preferirono seguire le vie diplomatiche e fecero ricorso al califfo fatimita perché destituisse il governatore. Il nuovo governatore nel marzo del 938 riprese, però, le ostilità e mosse contro i ribelli girgentani, ma venne sconfitto. La rivolta finì con il propagarsi in tutto il Val di Mazara. Khalìl ibn Ishàq (937-941) - che era il nuovo reggente - reagì nella primavera del 939 e nel novembre del 940 riconquistò Girgenti, focolaio della sommossa, facendola capitolare per fame. Coinvolgimenti della comunità musulmana di Racalmuto vi furono senza dubbio, ma anche qui la nostra ignoranza dei fatti è totale.

Nell’estate del 948 viene a Palermo l’emiro al-Hasan ibn Ali (948-953), dell’antica dinastia del Kalbiti.  Con lui ebbe inizio in Sicilia un emirato ereditario - salve sempre le forme dell’investitura califfale - protrattosi per oltre un secolo (dal 948 sino al 1053) che sembra contraddistinto da un più elevato livello di vita. Possiamo congetturare che anche l’insediamento musulmano racalmutese abbia beneficiato di tale favorevole congiuntura.

Ma attorno al 1065 si determina un momento di debolezza per gli arabi di Sicilia: sono diverse le famiglie che cercano di stabilire emirati indipendenti a Mazara, Girgenti e Siracusa. Finì che Ibn at-Tumnah ed altri musulmani di Siracusa e Catania s’indussero ad  appoggiare i contrattacchi cristiani nel 1060-61, Per accordo col Guiscardo, la conquista della Sicilia toccò soprattutto a Ruggero d’Altavilla.

Chamuth fu l'ultimo emiro della dominazione araba del territorio tra Agrigento ed Enna. Egli venne vinto, ma non umiliato, dal conte Ruggero il normanno nel 1087. Si può anche ipotizzare  che a Racalmuto vi fosse una fortezza, se non due, vuoi al Castelluccio, vuoi  'a lu Cannuni'. E 'Rahal' - che non vuol dire in arabo fortezza, castello, stazione, sibbene “comminare”, “percorere” – poteva pur essere una fortezza sotto il dominio di Chamuth, donde l’attuale nome.

Conosciamo le gesta di Chamuth perché un benedettino normanno, che fu al seguito del conterraneo Ruggero, ce ne ha tramandato la memoria. Trattasi della cronaca del secolo XI del monaco Gaufredo Malaterra. Michele Amari non lo ebbe in grande stima, ma nel raccontare quegli eventi nella sua Storia dei Musulmani di Sicilia non fa altro che fargli eco. A nostra volta, trascriviamo quel passo di sapido stile ottocentesco. E' una pagina di storia che, in ogni caso, investe Racalmuto nel frangente della sconfitta araba ad opera dei predoni normanni.

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