giovedì 6 giugno 2013

In dubio favor rei





12 minuti fa nei pressi di Roma
In quest’ultimo periodo abbiamo continuamente ricordato persone, commemorato, dimenticato, fatto battute sulla morte di qualsiasi personalità avesse, per motivi anche inutili e banali, per questioni di medietà o di altissimo e finissimo intellettualismo, fatto parte del nostro immaginario. Abbiamo, dicevo, ricordato, con epigrafi, con saluti in tutti i canali a nostra disposizione, ricordato, dunq...ue, da Franca Rame a Don Gallo. A Chavez. Abbiamo, giustamente, sorriso e senza ipocrisia accolto con gioia o ilarità la morte di Andreotti e di Videla: perché che non si gioisca della morte di qualcuno è un concetto cattolico di cui ci siamo liberati da tempo.
Oggi, come sempre, questo blog, a parte poesie e commemorazioni, esprime, pubblicamente il suo disgusto per la sentenza sul caso Cucchi. Non staremo a dire “maledetti”. Non staremo a dire “bastardi” o citare De Andrè, come dei liceali impazziti. Non ci metteremo a citare i più profondissimi versi di qualsiasi autore che si sia espresso contro la “legge”. Leggete legge tra virgolette, nel caso in cui le virgolette già scritte non fossero abbastanza chiare. Non staremo a fare pipponi nostalgici sui vinti e i vinti che saranno sempre vinti. Non staremo a dire. E non stando a dire, non diremo nulla. Non diremo nulla della sentenza su Cucchi. Non diremo nulla sulla sentenza su Cucchi. Non diremo nulla sulla sentenza su Cucchi. Non facendo tutto questo, diremo della sentenza su Cucchi. Lo diremo così.

@Luciano Mazziotta

Abbiamo letto questo post. Ci siamo soffermati. Parole nobilissime, concetti condivisibili, Forse solo una stecca. Ridere della morte di Andreotti non lo farei mai. Credo che sia mia la definizione caustica (di cui mi pento): gobbo di stato. In un certo qual modo con la mia sconvolgente ispezione alla banca privata finanziaria (tutti impropriamente la chiamano di Sindona) in un certo qual senso l'ho prseguitato e lui ebbe modo e grandi possibilità di ritorsione, anche se forse concentrò la sua ira funesta contro don Peppino D'Alema, padre di Massimo; e di don Peppino fui pur sempre un censurabile suggeritore occulto in certe faccende bancarie.

Ma per questo o nonostante questo ebbi di fronte un titano della politica, un lungimirante nelle congiunture della peculiare economia italiana, nel sopperire alle carenze della nostra macilenta finanza. E con i comunisti fu prosseneta in certe intricate faccende con l'Unione Sovietica, in taluni intrecci della pesca nei mari del Nord; fu anche così che tanta valuta pregiata - magari estero conro estero - finì col finanziare soprattutto qualche partito d'opposizione.

In una parola Andreotti fu il protagonista del passaggio da una miserevole italietta contadina alla settima potenza del mondo. Contribuì a fare di questa Italia una società opulenta; e in questa opulenza tutti guazziamo e poi tutti ci prendiamo il gusto di stigamatizzarla quasi fosse solo il prodotto del malificio altrui, naturalmente Berlusconi in testa.

La cosa non mi piace: leggo persino di un giudice che debbo amare ed odiare al contempo che improvvidamente afferma Andreotti con Cossiga colpevoli della morte di Moro. Mentre in cuor mio mi dico che tanta colpa c'è l'ha la magistratura di un tempo - di cui quel giudice era toga tra le più prestigiose - che non seppero (e spero che non abbiano voluto) capire che la pista mafiosa era falsa e che l'altra pista dovevano seguire, quella di servizi segreti esteri.

Io ad esempio sono fissato con il Mossad. Per celia (ma mica tanto) intesto un mio racconto: LA DONNA DEL MOSSAD.

Tornando a bomba, oggi l'Italia perbene, specie quella di sinistra è tutta indignata per la sentenza Cucchi.

Lo confesso, non ne so molto. Metto, per disagio culturale e politico, la testa nella sabbia da inveterato struzzo di Sicilia: quel detto: nenti sacciu e nenti vuogliu sapiri. Nun c'eru e si cc'eru durmiva. - è inutile negarlo - mi residua nel mio DNA che ora so essere del tutto specifico di una zona ben precisa, quella nisso-agrigentina, quella che ha dato i natali a tre grandi dell'incerto, del "così è, se vi pare" nonché "tra vestiti che ballano" ed anche "Toto Modo", come dire Pirandello, Rosso di San secondo, Sciascia. Relativismo all'ennesima potenza

Quando ieri sera una dolcissima e rafinata signora che spesso è costretta a provar tedio per le mie cose, mi interpella sul caso Cucchi, con una immagine che solo la sua profondissima cultura artistica poteva reperire, e cioè con Cucchi come il Cristo di Mantegna, non seppi dir nulla e tergiversai. Risposi parlando d'altro. Mi sono così molto autoridimensionato; torno nella mia micro diemnsione esistenziale e mi sento più sollevato, più sereno, più me stesso insomma: piccolo, piccolissimo uomo del Sud.

Mi esonero quindi da ogni giudizio. Ma, per professione, non reputo lo Stato né mafioso né assassino. Quello italiano almeno. Realtà pensata, alla Hegel, intellettuale collettivo secondo le mie opzioni politiche; non riesco mai a condanare magistratura o polizia o Banca d'Italia, o carceri italiane - anche se qualche uomo d'apparato può sempre sbagliare. Non mi andrebbe mai che qualcuno venga condannato "a furor di popolo", manco se si chiama Berlusconi, contro cui nutro una politica avversione viscerale. Non mi piacciono le condanne di piazza, specie se sparate da qualche comico ultra arricchitosi in pochi anni facendo nulla.

In definitiva, la mia esperienza mi dice che tanti colpevoli sono stati assolti, ma mai - dico mai - un innocente, in Italia, condannato. E ciò ha ovviamente un costo, ma trattasi di costo che pago ben volentieri perché è il costo per una società altamente civile. E questo costo contiene un canone che in un latinorum medievale recita: IN DUBIIS PRO REO

 

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