venerdì 3 febbraio 2017

CONTRA HOSTES MEARUM DE CARETHESCA GENTE HISTORIARUM
Racalmuto alla fine del Trecento



L’ultimo quarto di secolo coinvolge la Sicilia in un groviglio di eventi più narrati che spiegati. Sono mutamenti genetici dell’intero tessuto sociale e politico siciliano: sono sconvolgimenti del periferico fluire della vita paesana racalmutese. Storia del paese e storia di Sicilia hano ora un tale contiguità da rasentare la coincidenza. Non è questa la sede per affrontare l’intero ordito storico siciliano di quel torno di tempo, ma un qualche aggancio si rende indispensabile.

Il 27 luglio 1377, a 36 anni, moriva Federico IV, quello della diplomatistica avignonese coinvolgente la tassazione papale di Racalmuto. Per gli storici, quella morte avveniva tra l’indifferenza del ceto nobile. «Come i supoi predecessori - Scrive il D’Alessandro - e certo molto più che Pietro II e Ludovico, aveva avuto coscienza della realtà che affliggeva il regno, degli ostacoli alla Corona; più di quei sovrani aveva desiderato riportare l’isola ad una normalità di vita ormai tanto lontana dalla passata storia. Il suo proponimento, dopo tanti anni di regno, restava solo una aspirazione. Nel suo testamento, dopo la parte dedicata alla successione, egli disponenva anche una revoca di tutte le concessioni sul patrimonio demaniale sin’allora erogate e confermate: un "impeto di giusto dispetto" come poi fu detto, ma che poco prima di morire annullava con un codicillo.»

Il regno passa alla figlia Maria - troppo giovane e troppo inesperta per essere regina sul serio - ma solo pro forma visto che è Artale I Alagona a succedere nella gestione del potere regio come Vicario. Ciò è per volontà testamentaria del defunto re. L’Alagona non si reputa sicuro e chiede subito l’appoggio, in un convegno a Caltanissetta, degli altri maggiori baroni Manfredi III Chiaramonte, Francesco II Ventimiglia e Guglielmo Peralta.

La vita riprendeva apparentemente normale, ma trattavasi di fittizia regolarità. In effetti si aveva una equiparazione dei poteri fra costoro e cioè fra i cosiddetti quattro Vicari: il governo del regno isolano era in mano loro. Per Racalmuto non cambiava alcunché dato che da tempo era assoggettato a Manfredi Chiaramonte. Pensare ad una qualche influenza dei Del Carretto, oltreché storicamente non documentabile, sembra esulare da ogni logica: tutto lascia intendere che costoro se ne stesserro ancora a genova a curare i nuovi loro affarri in seno a compagnie marittime.

Racalmuto scade però in una vera e propria terra feudale «ove tutto era il signore: la legge e la giustizia, l’economia e la vita sociale.» Solo che il signore era Manfredi Chiaramonte e non certo i Del Carretto.

La tregua cessa con l’insorgere di un nuovo personaggio: il conte di Augusta Guglielmo III Moncada: riesce costui a strappare dalla sorveglianza degli alagonesi, dal castello Ursino di Catania, la regina Maria. Il conte ha l’appoggio di Manfredi III Chiaramonte. La regina viene mercanteggiata come un oggetto da baratto. Le trattative sono con Pietro IV d’Aragona, il quale viene messo alle strette, non lasciandogli altra via che quella di una spedizione in Sicilia per riannetterla alla monarchia iberica.

Rientrava in scena la chiesa di Roma: Urbano VI (1378-1389), attraverso gli arcivescovi di Messina e Monreale e il vescovo di Catania, sobillava i nobili siciliani in contrapposizione agli intenti della corte aragonese.

Ribolliva l’intrico di corte spagnola con il dissidio fra re Pietro ed il primogenito Giovanni che ricusava le nozze con la regina Maria per amore di Violante di Bar. Il re pietro finiva allora col pensare all’Infante Martino per dar copo alle pretese sulla Sicilia: un matrimonio fra l’omonimo figlio dell’Infante Martino con la regina Maria avrebbe consentito una sostanziale riappropriazione della Sicilia, anche se formalmente sarebbero rimaste distinzioni ed autonomie. In tale quadro, toccava al vecchio Martino curare gli affari di Sicilia della corte aragonese. Fervono quindi i preparativi per una spedizione militare. Tanti sono i maneggi tra i nobili e Martino il Vecchio. Nel 1382 Filippo Dalmao di Rocaberti riesce senza ostacoli a liberare dall’assedio Maria e portarla in Sardegna, pronta per le nozze con il figlio di Martino.

Nel 1389 moriva Artale I Alagona, considerato il capo della "parzialità" catalana. Per l’Infante Martino quella morte suonava di buon auspicio. Fin qui i rapporti tra l’emissario spagnolo e Manfredi Chiaramonte possono dirsi del tutto amichevoli e consociativi.

Morto anche Pietro IV (gennaio 1387), succedeva Giovanni con il quale si iniziava un periodo di scabrosi movimenti in seno al regno: tra l’altro veniva riconosciuto l’antipapa Clemente VII (1378-1394) e di conseguenza scoccava la scomunica e l’opposizione della Chiesa di Rma e del papa legittimo Urbano VI. L’Infante Martino era però ora tutto dalla parte del fratello asceso al trono.

Nel 1389, allo scoppio di tumulti in Sardegna, il vecchio Martino, nuovo duca di Montblanc, si adoperò subito per iltrasferimento della regina Maria in Aragona. Cresceva frattanto la posizione egemone di Manfredi Chiaramonte. Il duca di Montblanc, anche se scemavano le difficoltà d’Aragona, non trascurava di apprestare un’armata che egli concepiva comunque necessaria all’insediamento del figlio sul trono di Sicilia. Ma le forze della Corona aragonese non sembravano atte a finanziare quel progetto. Nel 1390, ad ogni modo, si potevano celebrare a Barcellona le nozze tra il giovane Martino e Maria, evento nodale della storia di Sicilia.

Si giunge così al 1391 quando nel marzo viene a morire Manfredi III di Chiaramonte, personaggio di grossa statura politica e gran signore di Racalmuto. Sul suo successore e su altri nobili di Sicilia - punta il nuovo pontefice romano Bonifacio IX (1389-1404): si rassoda un movimento isolano tendente a contrastare gli scismatici aragonesi. Le vicende della Chiesa romana si riflettono dunque anche nella periferica terra di Racalmuto. In quell’anno si dava incarico al giurisperito Nicolò Sommariva di Lodi «per frenare le bramosie dei magnati e coagulare attorno agli arcivescovi di Palermo e Monreale un fronte d’opposizione ai Martini.»

Nel frattempo Martino raccolse un esercito promettendo feudi e vitalizi in Sicilia a spagnoli impoveriti e scontenti. Barcellona e Valenza aderiscono con generosità ed entusiasmo al progetto martiniano. Una famiglia avrà poi fortuna a Racalmuto: la denomineranno "Catalano", in evidente collegamento a quel lontano approdo dalla Catalogna. Ai nostri giorni, gli ultimi eredi diverranno personaggi di inobliabile folklore. Chi non ricorda Tanu Bamminu? Pochi rammentano che il cognome era appunto "Catalano". Ai tempi in cui il padre di Marco Antonio Alaimo era apprezzato medico racalmutese (fine del ‘500) i Catalano, ottimati rispettati, abitavano proprio all’incrocio tra l’attuale corso Garibaldi e la strada intestata al celebre medico racalmutese.

Nel 1392 gli spagnoli sbarcarono finalmente in Sicilia, guidati dal loro generale Bernardo Cabrera. Due dei quattro vicari passarono subito dalla parte dei conquistatori: anche in Sicilia ed anche a quel tempo il vizietto tutto italico di correre in soccorso dei vincitori - avrebbe detto Flaiano - era piuttosto diffuso. Ma Andrea Chiaramonte - succeduto a Manfredi Chiaramonte - continuò a credere nel Papa e nella possibilità di resistere ai catalani. Asserragliatosi a Palermo, resistette per un mese agli attacchi spagnoli. Racalmuto venne coinvolto nelle azioni di guerriglia con distruzioni, fughe in massa, ribellismi, violenze, grassazioni, furti e ladronecci. Palermo finì con l’arrendersi ed Andrea Chiaramonte fu decapitato. Le sue vaste proprietà furono arraffate da nuovi nobili. E qui rispunta finalmente la famiglia Del Carretto che, prima a fianco dei Chiaramonte e subito dopo a sostegno del vittorioso Martino, si riappropria di Racalmuto e dà inizio al lungo periodo della sua baronià vera e storicamente documentata.

Si dissolveva così il quadro politico che si era riusciti a stabilire il 10 luglio 1391 quando si era celebrato il convegno di Castronono in cui si era giurata fedeltà alla regina Maria ma in opposizione al giovane Martino non riconosciuto né legittimo sovrano né legittimo marito. Allora i vicari, fautore il Chiramonte, erano ancora uniti. Ma non passò neppure lo spazio di un mattino ed ecco alcuni convenuti inziare intese occulte con il duca di Montblanc, «del quale, evidentemente, si volevano forzare progetti e profferte; e più di prima isolatamente procedevano tali patteggiamenti che rinnegavano i giuramenti. Era del 29 luglio la risposta [stracolma di suasive profferte] ad Antonio Ventimiglia ed a Bartolomeo Aragona che avevano mandato un’ambasceria.» Bartolomeo Aragona di lì a poco riappare nella diplomatistica dei Del Carretto come colui che riesce a riaccrediatare presso i Martino il neo barone di Racalmuto Matteo Del Carretto, che si era lasciato coinvolgere dai soccombenti nemici dei catalani invasori, per "necessità" finge di credere la nuova triade regale di Palermo.

Ancora nell’ottobre del 1391 Manfredi e Andrea II Chiaramonte ritenevano opportuno di mandare propri inviati a Barcellona. Il duca di Montblanc poteva fondatamente ritenere che i nobili di Sicilia erano dopo tutto non alieni dall’accogliere la spedizione militare aragonese.

Gli eventi precitano: il 22 marzo 1392 approdava la spedizione all’isola della Favignana presso Trapani. Il duca, a nome dei sovrani, ingiungeva ai baroni di portarsi entro sei giorni a Mazara per il dovuto omaggio. I due vicari Antonio Ventimiglia e Guglielmo Peralta ed altri nobili quali Enrico I Rosso non mancavano di prestare giuramento e dare l’omaggio ai nuovi sovrani il giorno stesso del loro arrivo. Tripudiava la popolazione di Trapani al passaggio dei giovani regali. Sembrava andare tutto liscio, sennonché la notoria instabilità sicula cominciò ad affacciarsi: Andrea II Chiaramonte mutava atteggiamento. Dopo essersi rivolto favorevolmente a Guerau Queralt, rappresentante della corona, era indi passato ad un attendismo ed a moti di diffidente attesa verso il Montblanc ed al figlio Martino il giovane. Il duca si irritiva a sua volta nei confronti del Chiaramonte. Il 3 aprile 1392 l’altezzoso e crudele duca di Montblanc dichiarava ribelli il Chiaramonte e con lui Manfredi e Artale II Alagona. Venivano confiscati ed ascritti alla Curia tutti i loro beni che passavano di mano venendo assegnati a Guglielmo Raimondo III Moncada. Vi rientrò Racalmuto?

Chiaramonte si asserragliava, come detto, a Palermo. Il 17 maggio 1392 si induceva a prestare omaggio ai sovrani. Il giorno successivo Andrea Chiaramonte, insieme all’arcivescovo di Palermo, l’agrigentino Ludovico Bonit (eletto dal Capitolo palermitano per volontà degli stessi Chiaramonte), chiedeva di conferire con i sovrani per trattare dei suoi beni. Ma Martino il vecchio non indugiava: li faceva prontamente imprigionare. La sorte di Andrea Chiaramonte si concludeva il primo giugno 1392, quando viene decapitato nel piano antistante il suo stesso palazzo di Palermo, il celebre Steri. Il Chiaramonte si sarebbe sporcato anche di una delazione ed avrebbe incolpato, per cercare di avere salva la vita, Manfredi Alagona delle passate vicende. Il 1° giugno 1392, con quella decapitazione, Racalmuto cessava definitivamente di essere un feudo chiaramontano.

I Martino e la regina Maria riescono a divenire gli incontrastati padroni della Sicilia. Ma c’erano da fronteggiare decenni di anarchia. Restaurare la legge e le prerogative regali era impresa ardua ma non impossibile. I registri erano stati smarriti o distrutti e le antiche tradizioni e consuetudini obliate. Martino, con l’aiuto di talune città, può armare un esercito regolare che lo affranca dai nobili. Per le peculiarità siciliane, era indispensabile un registro feudale: la corte si adoperò per una riedizione critica. Vedremo come i Del Carretto devono fornire carte e prove per far valere la loro titolarità del feudo di Racalmuto ... e sobbarcarsi a pesantissimi oneri finanziari. Per di più Martino dichiarò abrogate le clausole del tratto del 1372 e si dichiarò Rex Siciliae. Approfittando di uno scisma del papato, ripudiò la signoria feudale del papa e ribadì il proprio diritto al titolo di legato apostolico, che comportava la potestà di nominare vescovi e di sovrintendere alla chiesa siciliana.

Il re convocò due parlamenti a Catania nel 1397 e a Siracusa nel 1398: riprendeva la peculiare tradizione parlamentare di Sicilia che si era interrotta nel 1350. Le assemblee convocate da Martino testimoniavano che era ritornata un’autorità centrale. Il parlamento presentò una petizione al re perché nominasse meno catalani in posti nevralgini e perché applicasse leggi siciliane e non quelle aliene di Catalogna.

Martino I rimase fortemente sotto l’influenza di suo padre anche quando quest’ultimo divenne re d’Aragona. Martino il vecchio continuava a sorvegliare l’amministrazione della Sicilia fini nei più minuti aspetti. Questa sudditanza attira ancora l’attenzione degli storici che ne danno spiegazioni persino di sapore psicanalitico. Scrive Denis Mack Smith «Martino, perciò, rimase più un infante d’Aragona che un re di Sicilia, e fu in qualità di generale spagnolo che, nel 1409, guidò una spedizione a spese siciliane per domare una insurrezione in Sardegna.» Martino il giovane trovò la morte proprio in Sardegna e la Sicilia finisce in successione insieme ad ogni altra proprietà personale al vecchio Martino: le corone di Aragona e di Sicilia perdono ora ogni distinzione, si ritrovano così nuovamente riunificate. Ancora lo Smith: «Non si verificarono nuovi Vespri per dimostrare che questo era sgradito, né vi furono molti segni di malcontento, sia pure di minore rilievo, poiché una parte sufficiente della classe dirigente era ormai o di origine spagnola o legata da interessi materiali alla dinastia aragonese. Durante l’unico anno in cui Martino II regnò, la Sicilia fu perciò governata direttamente dalla Spagna.»



Note e dettagli sull’avvento dei Del Carretto



Il grandissimo storico spagnolo Surita ha una pagina che ci coinvolge, che attiene proprio ai Del Carretto fiancheggiatori del Duca di Montblanc. Essa recita :

Antes que la armada lle gasse a Sicilia; el Rey dio su senteçia contra el Conde de Agosta, como contra rebelde, è in gratissimo a las mercedes y beneficios que avia recebido del y del Rey fu padre, y se confiscaron a la corona las islas de Malta, y del Gozo, y las vallas de Mineo y Naro, y otros muchos lugares de los varones que se avian rebelado, y el Conde murio luego: y con la llegada de la armada la execucion se hi zo rigorosamente contra ellos, y di se entonces el officio de maestre justicier al Conde Nicolas de Peralta, que vivio pocos meses despues. Murio tambien en este tiempo Ugo de Santapau, y quedo en servicio del Rey de Sicilia Galceran de Santapau su hermano: y por este tiempo embio el Rey a don Artal de Luna, hijo de don Fernan Lopez de Luna a Sicilia, para que se criasse en la casa del Rey su hijo, que era su primo, y sucedio despues en la casa de Peralta, que era un gran estado en aquel reyno.
Sirvio tambien al rey de Sicilia en esta guerra, que duro algunos annos, Gerardo de Carreto Marques de Sahona: y haziendose la guerra muy cruel contra los rebeldes, el Conde de Veyntemilla, que sucedio en el Contado de Golisano al conde Francisco su padre se reduxo a la obediencia del Rey ...

Per il Surita, dunque, fu Gerardo del Carretto, Marchese di Savona, che si mise al servizio del re di Sicilia, Martino, in questa guerra che durò alcuni anni. Lo spagnolo desunse questa notizia dagli archivi aragonesi, senza dubbio, ma abbiamo il dubbio che ad ispirarlo siano state le cronache cinquecentesche, specie quella del Fazello. Se del tutto attendibili, queste note di cronaca ci svelano il fatto che Gerardo del Carretto attorno al 1392 si faceva passare come marchese di Savona, il che non collima proprio con la storia di quella città ligure. Più che il fratello Matteo del Carretto, è Gerardo che si dà da fare in un primo tempo per accattivarsi le simpatie dei Martino. E’ sempre Gerardo che si mette a guerreggiare in difesa dei catalani nella lotta contro la parzialità latina di Sicilia. Quanto credito si possa concedere è questione ardua, non rirolvibile allo stato delle attuali conoscenze.

Una documentazione probante della titolarità su Racalmuto i Del Carretto sono, comunque, costretti a darla alla fine del secolo, quando la cancelleria dei Martino diviene intrensigente e vuole prove certe delle pretese feudali. Alle prese con la corte non è più però Gerardo ma Matteo, il fratello cadetto. Fu vero l’atto transattivo tra i fratelli che fu presentato alla corte in quello che può considerarsi il primo processo per l’investitura della baronia di Racalmuto? Davvero avvenne il riparto dei beni tra i due fratelli? Fu solo formalizzata l’assegnazione delle possidenze genovesi al primogenito Gerardo e l’attribuzione dei beni feudali e burgensatici di Sicilia - in particolare il castro di Racalmuto - al cadetto Matteo Del Carretto? Interrogatvi cui non siamo in grado di dare risposte certe.

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