giovedì 30 marzo 2017

martedì 10 dicembre 2013


Una foto, un guizzo: nei miei divertiti ricordi.


Mi colgo la foto e me la conso a mio gusto. Distratto come sempre, finisco in una nobile accolta. Mi dimetto e  rimetto qui le mie solite beffe. Ironizza Sciascia:

“Così il cane sotterra frenetico

L’osso rubato – e all’istante dimentica!»

Ma godo ancor più  a seguire Peppe Bruno quando recita:

 «Nostra madre non ha voglia di tirarci su;  forse si sentirebbe più libera, se noi cadessimo in bocca a questo cagnaccio».

 

E il ‘cagnaccio’ Peppe con altra voce  sibila. Suggerisce: ingordo in un sol boccone ingoia passerotti e passerottine che pipiano  lamenti e rimpianti. La chiesuola della foto crediamo di ben conoscere. Lungi le crepe seicentesche, al limite sarebbero cinquecentesche e anche anteriori.

La chiesuola, quella vetusta, nei miei libri (e di nessun altro) seguii e perseguii. Fu faccenda dei Savatteri quando iniziarono ad arricchire  per spinta di tal Scipione o Saipiuni come i villici storpiavano l’astruso nome.

Un molto postumo virgulto lo vuole divenire d’alto lignaggio e dovizioso  per avere custodita integra una  castissima fanciulletta dei Dei Carretto in un periglioso viaggio da Palermo ai manieri del castello sopra la Fontana; e dopo o perché rimasta immacolata o per l’opposto la ebbe in premio, sull’ara coniugale.

 Quella chiesuola venne chiosata da un pingue vescovo spagnolo in alto lassù a Girgenti, ma credendo forse di essere ancora in Catalogna ne storpiò il titolo in Nostra Signora di Monserrato (se il giornale di Sciascia mi leggesse, sarebbe più erudito e meno faziosamente familiare e di nobil ceppo).

Questa chiesuola qui - tardissimo ottocentesca - potrebbe avere veritiero sillabo qualora risorgessero le signorine Sferrazza e don Lillì dismettesse la sua senile vis lubrica.

Fu chiesuola di vaticaneschi commendatori, per vescovi di imperiosa favella. Il Peruzzo se d’estate qui veniva, nei lindi saloni sferrazzeschi pernottava, e in questa chiesuola officiava maestosa la mitra, ricca la veste, col piviale gemmato, massiccio d’argento il  baculo d’appoggio.  Dopo, signorilmente nelle calde estati, vi scendevano dalle arroganti casine del pizzo di ponente del Serrone, i nuovi nobili, ricchi e ciarlanti, con frotte di fanciulle frementi. Si negavano ocularmente a noi meschinelli plebei, che da allocchi le miravamo. E quegli ignudi omeri opimi ci baluginavano per i memori nostri onanismi notturni.

Ed era da infiggerci penitenze estreme; tradivamo le più corpulente ragazzotte che dimorando nei pagliai di fronte tutto mostrano il petto e ben più appetibile stimolo potevano suggerirci per i nostri usuali impuri atti che pur si richiamavano al  biblico Onan qui semen spargebat in terram.

 La chiesuola del nobile Scipione si disperse nel tempo per spartizioni falso-testamentarie. Questa novella Madonna del Serrone veniva ora officiata ogni estiva domenica ma non da prete dimesso: veniva cavalcando asina mansueta, un  gran monsignore con violacea mantella, alto, aspro, austero, di longilinea snellezza, ammirevole, riverito. Giungeva così l’arciprete Casuccio ed attorno gli si stringevano, civettuole, le eleganti signore e indi i loro consorti, galantuomini espansi per eccessivo indugiare sulle poltrone di cuoio dell’esclusivo Circolo Unione. Casti riguardi, casti sorrisi, niente di quello che pur taluno malignava. Non vorrei però che giunto nella valle di Giosafatte abbia a aver rivelo di intrecci che se vivo ne avrei tratto divertito scandalo.

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