martedì 17 febbraio 2015

seguito


Faccio fede io infrascritto M.stro not. della Corte Giuratoria della terra di Racalmuto a tutti e singoli officiali del Regno e specualmente a chi spetta vedere la presente, qualmente, sendosi promulgato bando pella formazione de novi Riveli dei frumenti esistenti in questa terra e territorio di Racalmuto sotto li dui ottobre 1763, rimesso da S.E. per via del suo supremo tribunale del Real Patrimonio nel termine di giorni quattro in detto bando prefisso, spirato sotto li sei corrente, non hanno comparso in questa corte giuratoria a fare il loro rivelo a tenore del detto bando altre persone ecclesiastiche, secolari, forani ed altri se non l’infrascritte, cioè:

N.°
Denominazione
Salme
Tomoli
1
Grillo don Antonio, s.802 frumento raccolto p.p. XI ind. 1763. Quali frumenti li servino cioè s. 300 vendute ed obligate a questa univ. per il panizzo del popolo; s. 300 frumento per simenze in forte e timilia, per il fego dell'Aquilìa, s. 100 frum. Pello
802
 
 
soccorso de parospolari e tenetieri; s. 30 fr. Per mangia di propria famiglia e salme settantadue per simenza e soccorsi delle proprie chiuse, gabbelloti e societarij
2
Spinola not. Gioachino, s. 10 fr. dal XI ind. 1763, quali ffr. li servino, cioè s. 3 per simenza, s. 1,8 per soccorso, s. 2 per governare le vigne ed il resto per mangia di propria famiglia
10
 
3
Grillo don Gaetano, come procuratore del fego delli Gibbillini, territorio di questa rivela avere nelli magasini di quel fego s. 306ffr. raccolto XI In. 1763, quali li bisognano per semene, soccorsi e copertura di detto fego.
306
 
4
Grillo don Antonino Maria, rivela s. 91 forte e timilia raccolto nel 1763; quali li bisognano cioè per simenze di forte e timilia s. 40 per soccorso di detto seminerio e sem. di legumi s. 15 e s. 24 per mangia ed impiego di casa.
91
 
5
Amella don Antonino, rivela s. 2.. quali li bisognano per mangia
2
 
6
Gambuto don Francesco Antonio. rivela s. 50 .. quali s. 50 forte li servino cioè simenza per forte s. 10, salme 5 soccorsi di d. sem., s. 2 per soccorso sem, d'orzo, salme 4 per provvedere la vigna, e s. 29 per mangia e commodo di propria casa
50
 
7
Alfano m.° Giuseppe del quondam Bartulo, rivela s. 65 forte .. quali li bisognano cioè s. 55 vendute a questa un. di Racalmuto per il pubblico panizzo, s. 2 per simenza, s. 1 per soccorso di d. sem., s. 1 per soccorso di vigne e s. 6 complimento delle s.
65
 
 
65 per mangia di casa
 
 
8
La Matina Alberto, rivela s. 5 fr.forte .. quali li bisognano cioè s. 1.8 simenza, s. 0.12 soccorso per detto seminerio e s. 1 soccorso in f. per sem. d'orzo e s. 1.12 per mangia di mia famiglia
5
 
9
Picone Margarita, rivela s. 3.8 ff.te .. quali li bisognano per mangia di propria casa
3
8
10
Romano m.° Diego di m.° Francesco, rivela s. 105 fr.forte .. quali li bisognano per simenza, s. 3.8 e s. 6.8 per mangia di casa
10
 
11
Grillo don Antonio come Governadore della Segrezia di questa sudetta terra di Racalmuto rivela avere nelli magazini della Segrezia s. 703 .. quali li bisognano cioè s. 200 vendute a questa unoversità per il pubblico panizzo ed il resto che sono s. 503 f.f
703
 
 
per simenza e soccorsi dello Stato di Racalmuto
 
 
12
Salvo (di) Filippa vif.a del quondam Giuseppe, rivela s. 12 fr.forte .. quali li bisognano s.6 per mangia e s.6 per commodarlo a divere persone
12
 
13
Carbone Giovanne, rivela s. 1fr.forte .. quali li bisogna per mangia
1
 
14
Nalbone Giovanne, rivela s. 10 fr.forte .. quali li bisognano  s. 4 per simenza, s. 2 per soccorso e s. 4 per mangia
10
 
15
Macaluso Rosina Giuseppe rivela s. e f.f.te .. quali li bisognano per mangia di casa
2
 
16
Saldì m.° Paolino, rivela s. 9 ff.f. .. delli quali li bisognano s. 2 per simenza e s. 3 per soccorso di detto sem., sem. d'orzo e ligumi e s. 4 per mangia di propria casa
9
 
17
Tulumello Calogero rivela s. 110 f.f.te e timilia, delli quali ff. li bisognano cioè per mangia della mandra s. 35 ff., p. simenza s. 20, per soccorso di seminerio d'orzo e ligumi e colture di vigne s. 12 e s. 43 p. commodo e mangia della propria famiglia
10
 
18
Di Franco m.° Giuseppe, rivela s.4 fr.forte .. quali li bisognano p. simenza s. 1.8 ff., soccorsos. 0.12 ed il resto per mangia di propria famiglia
4
 
19
Di Franco don Giuseppe, rivela s. 0.8 ..f.fte li servino per mangia
 
8
20
Savarino Leonardo, rivela s.1 ..f.fte li servino per mangia
1
 
21
Farrauto Francesco, rivela s. 2.12 ..f.fte li servino per mangia di casa
2
12
22
Picone m.° Pasquale del quondam m.° Calogero rivela s.1.12 ..f.fte li servino per mangia di casa
1
12
23
Castillano Diego, rivela s..4 ..f.fte quali li bisognano s. 1.4 per simenze, s. 0.12 soccorso ed il resto per mangia di sua famiglia
4
 
24
Morreale Antonino di Mara, rivela s.1 ..f.fte quali li bisognano per mangia di casa
1
 
25
Alessi Giuliano, rivela s.1 ..f.fte quali li bisognano per mangia di casa
1
 
26
La Matina m.° Gaspare, rivela s.1.8 ..f.fte quali li bisognano per mangia di casa
1
12
27
Barone Carlo, rivela s.12.6 ..f.fte quali li bisognano cioè s. 4 per simenza, s. 2 per soccorso, per seminerio di s. 2 orzo, s. 1.8 e s. 5 per mangia di casa
12
6
28
Cino Giacomo, rivela s. 5 ..f.fte quali li bisognano per mangia di casa
5
 
29
Castillana Giuseppe, rivela s.2 ..f.fte quali li servino per mangia
2
 
30
Lauricella Laurenzo, rivela s.1 ..f.fte quali li bisognano per mangia di casa
1
 
31
Giglia (di) Liborio e Giuseppe, padre e figlio rivelano s.4 ..f.fte quali li bisognano per mangia
4
 
32
Schicchi don Francesco, rivela s.3 ..f.fte quali li bisognano per mangia
3
 
33
Lo Brutto don Gioachino del quondam don Gaspare, rivela s.6 ..f.fte quali li bisognano per mangia di casa
6
 
34
Pomo m.° Angelo, rivela s.18 ..f.fte quali li bisognano s. 2.8 per simenza, s. 1.12 ff. per soccorso di detto seminerio e colture di vigna, s. 6 a nome della congregazione del Monte per espansioni giornali e s. 7.12 per mangia di casa
18
 
35
Piccione Salvadore, rivela s.3 ..f.fte quali li bisognano s. 1 per simenza, s. 1 per soccorso di detto seminerio e seminerio di ligumi e s. 1 complimento di s. 3 per uso di mangia di casa
4
 
36
Borzellino m.° Raimondo, rivela s.3 ..f.fte quali li bisognano per simenza
3
 
37
Carlino Gaetano, rivela s.0.8 ..f.fte quali li bisognano per simenza
 
8
38
Collura Stefano d'Angelo, rivela s.2 ..f.fte quali li bisognano per mangia
2
 
39
La Matina Gregorio, rivela s.6 ..f.fte quali li bisognano s. 3per simenza, s. 1.8 soccorso di detto sem. e s. 1.8 per mangia di casa
6
 
40
La Matina Giovanne, rivela s.10 ..f.fte quali li bisognano s. 2 per simenza, s. 1 per soccorso per detto sem. e s. 1 per soccorso di legumi e s. 6 per mangia
10
 
41
Tulumello Giuseppe, rivela s.70 ..f.fte quali li bisognano s. 35 per mangia della mandra, s. 16 per simenza, s. 10 per soccorso di detto simenerio, ligumi ed orzo, e s. 9 per mangia di casa e garzoni
70
 
42
La Licata Paulo, rivela s.25 ..f.fte quali li bisognano s. 10 per simenza, s. 8 per soccorso di d.° sem.° in forte, sem.° di legumi ed orzo e s. 7 per mangia
25
 
43
Tulumello Giovanne, rivela s.70 ..f.fte quali li bisognano s. 35 per mangia della mandra, s. 16 per simenza, s. 10 per soccorso di detto simenerio, ligumi ed orzo, e s. 9 per mangia di casa e garzoni
70
 
44
Picone Chiodo Nicolò, rivela s.42..f.fte quali li bisognano s. 12 per simenza, s. 5 per soccorso di d.° sem., s. 3 per soccorso di sem. di legumi ed orzo s. 3 per governare n.° migliari otto di vigna e s. 19 compl. delle dette s. 42 
42
 
 
per mangia ed agiuto del borgesato
 
 
45
La Matina Calogero, rivela s. 15 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. mi bisognano s 2 per simenza, s. 2 per soccorso di d.° sem.° e sem,° di legumi ed orzi e s. 11, compl. dette salme 15 per mangia ed impiego di casa
15
 
46
Busuito Grispino,  rivela s. 26 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. mi bisognano s 6.2 per simenza, s. 5 per soccorso di d.° sem.° e sem,° di legumi ed orzi e s. 5 p. governare le vigne, s. 4.8 per soccorso dell'eredità del q. m.° Diego Marturana, s. 10
26
 
47
Mantione Calogero
1
 
48
Ristivo Matteo,  rivela s. 3 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano  per mangia
3
 
49
Collura Calogero d'Angelo,  rivela s. 5 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano s 2 per simenza, s. 1 per soccorso i e s. 2, per mangia
5
 
50
Licata Reda Giuseppe,  rivela s. 6 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano  per mangia
6
 
51
Mantione Vito,  rivela s. 2 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano  per mangia
2
 
52
Collura Melchiore d'Angelo,  rivela s. 4 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. mi bisognano s. 1 per simenza, s. 1 per soccorso di sem,° di legumi ed orzi e s. 2 per mangia di casa
4
 
53
Vinci don Calogero rivela s.26 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano s 10 per simenza, s. 5 per soccorso di d.° sem.°, s. 3 p. soccorso di sem.° di legumi ed orzi e s. 2 di posessioni bonoficate di vigne e s. 8 p. mangia
26
 
54
Mantione Erasimo,  rivela s. 5 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano s per mangia
5
 
55
Bellavia don Giuseppe,  rivela s. 10 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. mi bisognano s 2 per simenza, s.1 per soccorso di d.° sem.° e s. 10 per mangia
10
 
56
Avarello Agostino,  rivela s. 1o per raccolto f.f per 1763, quali f.f. mi bisognano s 3 per simenza, s. 3 per soccorso di d.° sem.° e sem,° di legumi ed orzi e s. 4, compl. dette salme 10 per mangia
10
 
57
Matina notaro don Niccolò, rivela s. 2 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano per mangia
2
 
58
Burruano Calogero del q. Marcello rivela s. 2 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano per mangia
59
Troisi Pietro, rivela s. 16 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano s. 5.8 f.f. per simenza, s. 3 per soccorso di d.° sem. e s. 6.8 per mangia di casa
16
 
60
Burruano Michel'Angelo del quondam Andrea, rivela s. 2 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano  per mangia
2
 
61
Burruano Giuseppe del quondam Marcello, rivela s. 28 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano s.4 per simenza, s. 4 per soccorso di d.° sem.° e sem,° di legumi ed orzi e governare le vigne e s. 20 per mangia e impiego do casa
28
 
62
Burruano Alberto del quondam Marcello, rivela s. 4 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. mi bisognano s 1 per simenza, s. 1 per soccorso di d.° sem.° e sem,° di legumi ed orzi e il resto per mangia
4
 
63
Tulumello Gioachino, rivela s. 4 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano per mangia di sua casa
4
 
64
Di Rosa m.° Diego, rivela s. 10 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano s 4 per venderli per compra di vestimenti s. 2 p. soccorso delle vigne e s. 4.3. per mangia
10
 
65
Grillo e Poma Dr. Don Barone Niccolò, rivela s. 132 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. mi bisognano s 35 per simenza,  per soccorso di d.° sem.° s. 40 e seminerio di timilia s. 14 f.f. per sem,° di legumi ed orzi e s. 43 per mangia e impiego di casa
132
 
66
Lo Brutto don Bonaventura, rivela s. 3 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano  per mangia
2
 
67
Savatteri don Francesco, rivela s. 4 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano s. 3 per simenza, s. 2 per soccorso di d.° sem.° e s. 3 a comp. di dette s.8 per mangia
8
 
68
Scibetta m.° Stefano, rivela s. 160 per raccolto f.f per 1763, delli quali li bisognano s.150 per averle vendute a questa Un.tà per il pubblico panizzo ed il resto per mangia di propria casa
160
10
69
Di Rosa m.° Gioachino, rivela s. 2.12 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. li servino per mangia
2
 
70
Frachanzillo Tommaso, rivela s. 8 per raccolto f.f per 1763, delli quali f.f.li bisognano s. 4 per simenza, s. 2 per soccorso e s. 2 copml. di dette s. 8  per mangia
8
 
71
Tirone don Niccolò, rivela s. 15 fr.forte e s. 5 timilia per raccolto f.f per 1763, quali f.f. mi bisognano s. 12 per simenza, s.61 per soccorsi e s. 2 compl. di d.e s. 20  per mangia
20
 
72
La Mantia m.° Giuseppe, rivela s. 4 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. mi bisognano s. 0.6 per simenza, s. 0.6 per soccorso e s. 3.4 comp. di d.e s. 4 per mangia di casa
4
 
73
Cacciatore m.° Antonino, rivela s. 4 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano  per mangia
4
 
74
Picone don Ignazio d'Alessandro, rivela s. 3 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano  per mangia di sua casa
3
12
75
Poma m.° Gerlando, rivela s. 1.12 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano  per mangia
1
 
76
Rizzo don Vincenzo, rivela s. 24 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano s. 8 per simenza, s. 6 per soccorso di d.° sem.° e sem,° di legumi ed orzi e s. 10 per mangia di casa e garzone
24
 
77
Picone Chiodo don Antonino, rivela s. 14 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano s.3 per simenza, s. 2 per soccorso di d.° sem.° e sem,° di legumi ed orzi e s. 9 a compl. di d.e s. 14 per mangia e impiego di casa
14
 
78
Lo Brutto Antonino; rivela s. 2.8 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. mi bisognano per venderli per sollennizzare la  festività di S. M.a del Monte come Governadore della Confraternità di detta Chiesa.
2
 
79
Lauricella Antonino, rivela s. 12 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano s 4 per simenza, s. 3 per soccorso di d.° sem.° e sem,° di legumi ed orzi e is. 5 compl. di d.e s. 12 per mangia di casa
12
 
80
Carlino Calogero, rivela s.10 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. mi bisognano s. 1.10 per simenza, s. 1 per soccorso di d.° sem.° e e il resto per mangia
10
 
81
Galeano m.° Francesco, rivela s. 5 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano per mangia
5
 
82
Castillano Michel'Angelo, rivela s. 2 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano per mangia
2
 
83
Lauricella Francesco, rivela s. 8 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. mi bisognano s. 31 per simenza, s. 2 per soccorso di d.° sem.° e sem,° di legumi ed orzi e s. 3 comp. di d.e s. 8 per mangia
8
 
84
Borzellino m.° Ludovico, rivela s. 3 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano  per mangia
3
 
85
Alfano m.° Pietro,  rivela s. 15 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano s 8 per simenza, s. 4 per soccorso  e il resto per mangia
15
 
86
Salvo (di) Andrea, rivela s. 8 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. mi bisognano s. 3 per simenza, s. 1.8 per soccorso  e s. 3.8 comp. delle s. s. 8  per mangia di propria casa
8
 
87
Lo Giudice Pietro, rivela s. 2 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano sper mangia
2
 
88
Lo Giudice Giacomo, rivela s. 0.8 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano  per mangia
8
89
Lo Indelicato Francesco, rivela s. 8 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano pello molino della pasta e mangia di casa
8
 
90
Di Franco m.° Agostino, rivela s. 40 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano s. 6 per simenza, s. 3 per soccorso di d.° sem.° ed altre s. 2.6 per soccorso di  sem,° di legumi ed orzo e per altro il soccorso delle vigne ed il resto per mangia 
40
 
91
Murgante Giuseppe di Filippo rivela s. 3 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano  per mangia
3
 
92
Grillo fra' Antonio Maria, procuratore dello ven. convento di S. Francesco dei minori conventuali, rivela s. 7,8 per raccolto f.f per 1763, quali ff. li bisognano per mangia dello detto convento
7
8
93
Pirrelli fra' Giacomo Priore del ven. convento di S. Giovanni di Dio sotto titolo di S. Sebastiano, rivela s. 3. 13 ff. e timilia per raccolto f.f per 1763, quali li bisognano per mangia di detto convento
3
13,2
94
Pomo fra' Giuseppe Prc.re del venerabile convento del Carmine, rivela s. 23 per raccolto f.f per 1763, delli quali li bisognano s. 10 per simenza, s. 3 soccorso di d. sem. s. 2 per le vigne e s. 8 per mangia convento
23
 
95
Carretto fra Gaspare pr.re del ven. convento di S. Giuliano de Padri Agostiniani della congregazione di Sicilia, rivela s. 8 per raccolto f.f per 1763, delli quali li bisognano s. 2 per governo di un predio di vigna e s. 6 per mangia
8
 
96
Grillo sac. d. Salvadore Maria, rivela s. 160 per raccolto f.f per 1763, delli quali mi bisognano simenze in ff. s. 24, simenza in similia s. 30 per colti scarsi le s.te tim. s. 30, per coltura di vigne s. 20, per serviggio della mia casa e famiglia
 
per mangia s. 16, per due famoli in campagna esistenti di capo d'anno s. 25 ff., per soccorso ed agiuto a coloro che si devono pigliare a società il sud. sem. e legumi ed orzo; s. 15 ff: restano per quelle occorrenze che potranno insorgere
160
 
97
Grillo sac. d. Giuseppe,  rivela s. 20 per raccolto f.f per 1763, delli quali li bisognano per simenze e soccorso di suo patrimonio e mangia di casa
20
 
98
Campanella sac. d. Stefano arciprete,  rivela s. 100 per raccolto f.f per 1763, i quali mi bisognano s. 18 per mangia di famiglia, s. 4 per simenze, s. 3 per soccorso di seminerio di legumi ed orzo e s. 75 quali ho venduto a questa università comp. di
 
salme 100 per uso del publico panizzo sotto nome di Stefano di Salvo
100
 
99
Lauricella sac. d. Elia, rivela s. 8.8 ff. raccolto XI ind. 1763, delle quali mi bisognano s. 7 per simenza e mi bisognano salme 10 per mangia almeno di dieci persone
8
8
100
Pumo cl. Francesco, rivela s. otto ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 2 ff. per simenza, soccorso s. 2, il resto s. 4 comp. di dette s. 8 per mangia di casa
8
 
101
Borzellino sac. d. Mario,  rivela s. 5 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali li bisognano per mangia di casa
5
 
102
Conti sac. d. Gerolamo,  rivela s. 26 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali li bisognano s. 8 ff. per simenza,  s. 7 per soccorso di d.° sem.° e sem.° di legumi ed orzi e governare due possession di vigna proprie, s. 11 p. mangia e commodo proprio
26
 
103
Crinò diacono d. Filippo,  rivela s. 2 ff. raccolto XI ind. 1763,  quali li servino per mangia di casa
2
 
104
La Matina sac. d. Gaspare,  rivela s. 7 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 3 ff. per simenza, e s. 4  per mangia di casa
7
 
105
Farrauto sac. d. Santo,  rivela s. 200 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 100 ff. vendute al publico panizzo di questa, s. 80 obligate al caricatore di Girgenti, s. 20 per mangia  e simenze di proprie chiuse
220
 
106
D'Amico sac. d. Antonino,  rivela s. 8 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali di deducano s. 3 a ragione di processione del SS.mo Sacramento e s. 5.8 per mangia
5
8
107
Savatteri sac. d. Michel'Angelo,  rivela s. 21 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 2.8 ff. per simenza, s. 5 per soccorso di detto sem.° e sem.° di legumi ed orzo, s. 4  dati in accodo e s. 10 per mangia e commodo di casa
21
 
108
Scibetta e Franco sac. d. Giuseppe, rivela s. 30 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 4 ff. per simenza, s. 2 per soccorso di detto sem.° e s. 2 persem.° di legumi, s. 8 per lo soccors  o di un predio di vigne e s. 14 p. mangia e commodo
30
 
109
Picone sac. d. Ignazio, rivela s. 4 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 1 ff. per simenza, s. 1 per soccorso  e s. 2, comp. di d. s. 4 per mangia  di casa
4
 
110
Sferrazza sac. d. Filippo, rivela s. 3 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 1 ff. per simenza, s. 0.8 per soccorso  e s. 1.8 per mangia  propria
3
 
111
Mantione sac. d. Baldassare, rivela s. 2 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano per mangia  di casa
2
 
112
Mantione sac. d. Antonino, rivela s. 27.10 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 7.8 ff. per simenza, s. 5 per soccorso  di detto seminerio e socc. sem. d'orzo e legumi, s. 3 per governare le vigne e s. 12.2. per mangia  di casa
27
10
113
Pitrozzella sac. d. Baldassare, rivela s. 10 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 8 ff. per simenza, s. 4 per coltura di detto seminerio
10
 
114
Montagna diacono d. Onofrio, rivela s. 6 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 3 ff. per simenza, s. 1.8 per soccorso  e s. 1.9. per mangia  di casa
6
 
115
Baeri sac. d. Ignazio, rivela s. 0.8 ff. raccolto XI ind. 1763,  quali li bisognano . per mangia  di casa
8
116
Baeri sac. d. Casimiro, rivela s.2 ff. raccolto XI ind. 1763,  quali li bisognano per mangia
2
 
117
Nalbone sac. d. Benedetto, rivela s. 360 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali li bisognano s. 5 ff. per simenza, s. 2 per soccorso, s. 3 soccorso èer il seminerio di legumi, s. 20 per mangia, s. 2 per soccorso delle vigne e s. 250 obbligate a q. Un. per
360
 
 
Pubblico panizzo e s.78  commodate
 
 
118
Fucà diacono d. Giuliano, rivela s. 1 ff. raccolto XI ind. 1763,  quali li bisognano per mangia
1
 
119
Fucà sac. d. Pasquale, rivela s. 1 ff. raccolto XI ind. 1763,  quali mi bisognano  per mangia 
1
 
120
La Matina sac. d. Pietro, rivela s.13 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali li bisognano s. 5 ff. per simenza, s. 2 per soccorso  e s. 6 per mangia 
13
11,2
121
Avarello sac. d.  Alberto, rivela s. 75.11.2 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali s. 10 ff. per simenza, soccorso si d. sem.° s. 8,  soccorso sem.° di legumi s. 8 e s. 49.11.2 per mangia ed impiego di mia casa
75
 
122
Busuito sac. d. Antonino, rivela s. 6 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 1.4 ff. per simenza, s. 2 per soccorso sem.°  di legumi e s. 1 soccorso di d.° sem.° di forte e per governare le vigne ed il resto. per mangia
6
 
123
Scibetta ed Alfano sac.d . Giuseppe, rivela s. 70 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali 40 vendute a questa un. per publ. panizzo, s. 6 per simenza e il restante per mangia di mia famiglia, soccorso delli metatieri di legumi ed orzo e p.
70
8
 
Migliari dieci di vigna e più per fare l'arbitrio di campagna
 
 
124
Farrauto sac. d. Saverio, rivela s. 0.8 ff. raccolto XI ind. 1763,  quali mi servono  per mangia 
125
Biondi sac. d. Baldassare, rivela s. 4 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali li servono per mangia
4
 
126
Alfano sac. d. Filippo, rivela s. 30 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali li bisognano s. 4 ff. per simenza, s. 7 per soccorso di d.° semin.° e sem,° di legumi e governare la vigna
30
170,4
 
 
4335
1
 
 
4346
 

 

 

quali infrascritti riveli sono in questa nostra Corte firmati dalle persone che sanno scrivere e parte firmati da persone per quelle che non sanno scrivere, ed oltre l’infrascritti riveli che nel sopracitato termine si sono ricevuti di sopra, .. non ve ne sono altri; onde in defe del vero ho fatto la presente sottoscritta di mia propria mano. In Racalmuto li 30  ottobre XII ind. 1763

 

D.n Lucio Amella Mag. Not.

 

Oltre alla composizione delle classi sociali racalmutesi (in vetta, tanti preti), possiamo cogliere tutto un linguaggio estremamente significativo ai fini della raffigurazione del mondo contadino dell’epoca:

1)    panizzo del popolo;

2)    frumento per simenze in forte e timilia [o tumminìa], per il fego dell'Aquilìa;

3)    paraspolari e tenetieri; gabbelloti e societarij;[1]

4)    simenza per soccorso e per governare le vigne e per mangia di propria famiglia;

5)    Grillo don Gaetano, come procuratore del fego delli Gibbillini, territorio di questa, rivela avere nelli magasini di quel fego s. [salme] 306 ffr. [frumento] raccolto nella  XIa In. 1763 [= 1763, undicesima indizione], quali li bisognano per semene, soccorsi e copertura di detto fego;

6)    per simenze di forte e timilia s. [salme] 40 per soccorso di detto seminerio e sem.  [seminerio] di legumi s. 15 e s. 24 per mangia ed impiego di casa;

7)    simenza fumento forte s. 10, salme 5 per soccorsi di d. sem. [semina], s. 2 per soccorso sem, [semina] d'orzo, salme 4 per provvedere la vigna, e s. 29 per mangia e commodo di propria casa;

8)    s. [salme] 55  [di frumento]vendute a questa un. [università]  di Racalmuto per il pubblico panizzo;

9)    Grillo don Antonio come Governadore della Segrezia di questa sudetta terra di Racalmuto rivela avere nelli magazini della Segrezia s. 703 .. quali li bisognano cioè s. 200 vendute a questa unoversità per il pubblico panizzo ed il resto che sono s. 503 f.f per simenza e soccorsi dello Stato di Racalmuto;

10) Di Salvo Filippa vid.a  [vedova] del quondam Giuseppe, rivela s. 12 fr.forte [frumento forte] .. quali li bisognano: s.6 per mangia e s.6 per commodarlo a divere persone;

11) Saldì m.°  [mastro] Paolino, rivela s. 9 ff.f. .. delli quali li bisognano s. 2 per simenza e s. 3 per soccorso di detto sem., sem. d'orzo e ligumi e s. 4 per mangia di propria casa;

12) Tulumello Calogero rivela s. 110 f.f.te e timilia, delli quali ff. li bisognano cioè per mangia della mandra  [Traina, vocabolario: mandra: luogo ov’è rinchiusa la freggia] s. 35 ff., p. simenza s. 20, per soccorso di seminerio d'orzo e ligumi e colture di vigne s. 12 e s. 43 p. commodo e mangia della propria famiglia;

13) Tulumello Giuseppe, rivela s.70 ..f.fte quali li bisognano s. 35 per mangia della mandra, s. 16 per simenza, s. 10 per soccorso di detto simenerio, ligumi ed orzo, e s. 9 per mangia di casa e garzoni;

14) Picone Chiodo Nicolò, rivela s. 42..f .fte [frumento forte] quali li bisognano s. 12 per simenza, s. 5 per soccorso di d.° sem., s. 3 per soccorso di sem. di legumi ed orzo s. 3 per governare n.° migliari otto di vigna e s. 19 compl. delle dette s. 42 per mangia ed agiuto del borgesato;

15) Grillo e Poma Dr. Don Barone Niccolò, rivela s. 132 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. mi bisognano s 35 per simenza,  per soccorso di d.° sem.° s. 40 e seminerio di timilia s. 14 f.f. per sem,° di legumi ed orzi e s. 43 per mangia e impiego di casa;

16) Scibetta m.° Stefano, rivela s. 160 per raccolto f.f per 1763, delli quali li bisognano s.150 per averle vendute a questa Un.tà  [università] per il pubblico panizzo ed il resto per mangia di propria casa;

17) Lo Brutto Antonino; rivela s. 2.8 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. mi bisognano per venderli per sollennizzare la  festività di S. M.a del Monte come Governadore della Confraternità di detta Chiesa;

18) Grillo fra' Antonio Maria, procuratore dello ven. convento di S. Francesco dei minori conventuali, rivela s. 7,8 per raccolto f.f per 1763, quali ff. li bisognano per mangia dello detto convento;

19) Pirrelli fra' Giacomo Priore del ven. convento di S. Giovanni di Dio sotto titolo di S. Sebastiano, rivela s. 3. 13 ff. e timilia per raccolto f.f per 1763, quali li bisognano per mangia di detto convento;

20) Pomo fra' Giuseppe Prc.re del venerabile convento del Carmine, rivela s. 23 per raccolto f.f per 1763, delli quali li bisognano s. 10 per simenza, s. 3 soccorso di d. sem. s. 2 per le vigne e s. 8 per mangia convento;

21) Carretto fra Gaspare pr.re del ven. convento di S. Giuliano de Padri Agostiniani della congregazione di Sicilia, rivela s. 8 per raccolto f.f per 1763, delli quali li bisognano s. 2 per governo di un predio di vigna e s. 6 per mangia.

 

-       i preti, il grano, il pane

 

 

 Ed ecco i dati del folto clero:

 

 

a)     Grillo sac. d. Salvadore Maria, rivela s. 160 per raccolto f.f per 1763, delli quali mi bisognano simenze in ff. s. 24, simenza in similia s. 30 per colti scarsi le s.te tim. s. 30, per coltura di vigne s. 20, per serviggio della mia casa e famiglia per mangia s. 16, per due famoli in campagna esistenti di capo d'anno s. 25 ff., per soccorso ed agiuto a coloro che si devono pigliare a società il sud. sem. e legumi ed orzo; s. 15 ff: restano per quelle occorrenze che potranno insorgere;

b)     Grillo sac. d. Giuseppe,  rivela s. 20 per raccolto f.f per 1763, delli quali li bisognano per simenze e soccorso di suo patrimonio e mangia di casa;

c)      Campanella sac. d. Stefano arciprete,  rivela s. 100 per raccolto f.f per 1763, i quali mi bisognano s. 18 per mangia di famiglia, s. 4 per simenze, s. 3 per soccorso di seminerio di legumi ed orzo e s. 75 quali ho venduto a questa università comp. di salme 100 per uso del publico panizzo sotto nome di Stefano di Salvo;

d)     Lauricella sac. d. Elia, rivela s. 8.8 ff. raccolto XI ind. 1763, delle quali mi bisognano s. 7 per simenza e mi bisognano salme 10 per mangia almeno di dieci persone;

e)     Pumo cl. Francesco, rivela s. otto ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 2 ff. per simenza, soccorso s. 2, il resto s. 4 comp. di dette s. 8 per mangia di casa;

f)     Borzellino sac. d. Mario,  rivela s. 5 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali li bisognano per mangia di casa;

g)     Conti sac. d. Gerolamo,  rivela s. 26 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali li bisognano s. 8 ff. per simenza,  s. 7 per soccorso di d.° sem.° e sem.° di legumi ed orzi e governare due possessioni di vigna proprie, s. 11 p. mangia e commodo proprio;

h)    Crinò diacono d. Filippo,  rivela s. 2 ff. raccolto XI ind. 1763,  quali li servino per mangia di casa;

i)       La Matina sac. d. Gaspare,  rivela s. 7 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 3 ff. per simenza, e s. 4  per mangia di casa;

j)      Farrauto sac. d. Santo,  rivela s. 200 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 100 ff. vendute al publico panizzo di questa, s. 80 obligate al caricatore di Girgenti, s. 20 per mangia  e simenze di proprie chiuse;

k)    D'Amico sac. d. Antonino,  rivela s. 8 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali di deducano s. 3 a ragione di processione del SS.mo Sacramento e s. 5.8 per mangia;

l)      Savatteri sac. d. Michel'Angelo,  rivela s. 21 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 2.8 ff. per simenza, s. 5 per soccorso di detto sem.° e sem.° di legumi ed orzo, s. 4  dati in accodo e s. 10 per mangia e commodo di casa;

m)   Scibetta e Franco sac. d. Giuseppe, rivela s. 30 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 4 ff. per simenza, s. 2 per soccorso di detto sem.° e s. 2 persem.° di legumi, s. 8 per lo soccors  o di un predio di vigne e s. 14 p. mangia e commodo;

n)    Picone sac. d. Ignazio, rivela s. 4 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 1 ff. per simenza, s. 1 per soccorso  e s. 2, comp. di d. s. 4 per mangia  di casa;

o)     Sferrazza sac. d. Filippo, rivela s. 3 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 1 ff. per simenza, s. 0.8 per soccorso  e s. 1.8 per mangia  propria;

p)    Mantione sac. d. Baldassare, rivela s. 2 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano per mangia  di casa;

q)    Mantione sac. d. Antonino, rivela s. 27.10 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 7.8 ff. per simenza, s. 5 per soccorso  di detto seminerio e socc. sem. d'orzo e legumi, s. 3 per governare le vigne e s. 12.2. per mangia  di casa;

r)     Pitrozzella sac. d. Baldassare, rivela s. 10 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 8 ff. per simenza, s. 4 per coltura di detto seminerio;

s)     Montagna diacono d. Onofrio, rivela s. 6 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 3 ff. per simenza, s. 1.8 per soccorso  e s. 1.9. per mangia  di casa;

t)      Baeri sac. d. Ignazio, rivela s. 0.8 ff. raccolto XI ind. 1763,  quali li bisognano . per mangia  di casa;

u)    Baeri sac. d. Casimiro, rivela s.2 ff. raccolto XI ind. 1763,  quali li bisognano per mangia;

v)    Nalbone sac. d. Benedetto, rivela s. 360 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali li bisognano s. 5 ff. per simenza, s. 2 per soccorso, s. 3 soccorso per il seminerio di legumi, s. 20 per mangia, s. 2 per soccorso delle vigne e s. 250 obbligate a q. un. [questa università] per pubblico panizzo e s.78  commodate;

w)   Fucà diacono d. Giuliano, rivela s. 1 ff. raccolto XI ind. 1763,  quali li bisognano per mangia;

x)    Fucà sac. d. Pasquale, rivela s. 1 ff. raccolto XI ind. 1763,  quali mi bisognano  per mangia;

y)    La Matina sac. d. Pietro, rivela s.13 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali li bisognano s. 5 ff. per simenza, s. 2 per soccorso  e s. 6 per mangia;

z)     Avarello sac. d.  Alberto, rivela s. 75.11.2 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali s. 10 ff. per simenza, soccorso si d. sem.° s. 8,  soccorso sem.° di legumi s. 8 e s. 49.11.2 per mangia ed impiego di mia casa;

aa)  Busuito sac. d. Antonino, rivela s. 6 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 1.4 ff. per simenza, s. 2 per soccorso sem.°  di legumi e s. 1 soccorso di d.° sem.° di forte e per governare le vigne ed il resto. per mangia;

bb) Scibetta ed Alfano sac.d . Giuseppe, rivela s. 70 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali 40 vendute a questa un. per publ. panizzo, s. 6 per simenza e il restante per mangia di mia famiglia, soccorso delli metatieri di legumi ed orzo e p. migliari dieci di vigna e più per fare l'arbitrio di campagna;

cc)  Farrauto sac. d. Saverio, rivela s. 0.8 ff. raccolto XI ind. 1763,  quali mi servono  per mangia;

dd) Biondi sac. d. Baldassare, rivela s. 4 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali li servono per mangia;

ee)  Alfano sac. d. Filippo, rivela s. 30 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali li bisognano s. 4 ff. per simenza, s. 7 per soccorso di d.° semin.° e sem,° di legumi e governare la vigna.

 

Nel mezzo del ‘700, a Racalmuto, dunque, occorrevano 4.346 salme di frumento per la “mangia” dell’intera popolazione che, secondo “la numerazione delle anime” del quale si custodisce in quel mirabile scrigno (purtroppo in gran dispitto alle locali autorità) che è l’archivio della Matrice, ascendeva a circa 5.800 anime sotto n. 1537 capi-famiglia. [2] Il panizzo pubblico richiedeva qualcosa come 1.195 salme di frumento, il che significa che oltre l’78% delle famiglie non aveva grano proprio bastevole per sostentare il proprio gruppo familiare e doveva far ricorso al pubblico “panizzo”. Solo 126 possidenti potevano considerarsi autosufficienti, ivi compresi i quattro conventi ancora aperti, ed i 31 ecclesiastici (preti e diaconi) che costituivano il 2% dei “fuochi” racalmutesi del ‘700. Non disponiamo, purtroppo, notizie sul frumento che, finito nei pubblici caricatoi, emigrava per esportazioni o per le cosiddette “tratte” che per secoli avevano foraggiato il “biscotto” degli eserciti spagnoli.

 

-       i vigneti.

 

 

Ma non tutte le terre erano destinate al frumento. da un rollo della Confraternita di Santa Maria (dedita alla buona morte, e si sa che il culto dei trapassati è stato da tempo un buon affare a Racalmuto) abbiamo potuto enucleare qualcosa come 102 vigneti di varia dimensione, con vette di 18.000 viti che i fratelli Taibi vantavano in località Montagna, dislocati pressoché dappertutto, e coltivati in vario modo: “vinea de aratro” (come dire che fra vite e vite si poteva arare e quindi coltivare frumento o legumi o altro); “vinea cum suis arboribus” (la vigna alberata era consueta a Racalmuto, almeno fino a quando non ebbe a prendere piede quella a tettoia, ultimamente coperta con teli di plastica, in modo anche osceno); “vinea arborata com eius clausura” (una bella vigna alberata in mezzo a chiuse di terre da pane);  “vinea cum eius clausuris, arboribus et domo” (una spaziosa “robba” con vigneti, frutteti e campi di grano); “clausura cum domibus, aqua, terris scapulis et arboribus et aliis” (era la “chiusa” che il potente e ricco Giovanni Amella possedeva nel feudo di Gibillini, a confine con il vigneto di suo fratello Giovanni, con quello di Pietro Salvo e con il vigneto di Antonino Gugliata).

Non disponiamo di dati sufficienti a tracciare un valido quadro statistico, ma il seguente speccietto non è poi del tutto trascurabile:

DATA
COGNOME NOME
LOCALITA'
1589
MASTROSIMONE Marianus et Joannella de Mastrosimone
CASALI VECCHIO
1589
BURGIO PIETRO
CASALI VECCHIO
1589
GIANGRECO MARIANO
CASALI VECCHIO
1589
GRACI VINCENZO
CASALI VECCHIO
1578
MONTELEONE NICOLO'
SERRONE
1580
LUPARELLO ANTONINO
NOCE
1580
DE LIO JACOBO
NOCE
1587
SUTTASANTI PIETRO
SCALA
1587
RIZZO MARTINO
SCALA
1587
ALAIMO IACUZZO MARCO
SCALA
1594
MACALUSO GIUSEPPE DI VINCENZO
SERRONE
1594
GUELI ANTONINO
SERRONE
1594
BARBIERI PIETRO
SERRONE
1596
SURCI PAOLO
SERRONE
1596
FRANCO BARTOLO
SERRONE
1596
SFERRAZZA - Gerlandus Sferracza quondam Antonini alias Cannatuni uti tutor Francisci Sferracza eius fratris
ROVETTO FONTE
1596
MESSINA PAOLINO
GARAMOLI CORVO
1596
PALERMO FABIO
GARAMOLI CORVO
1596
RESTIVO DRAGO GIOVANNI
GARAMOLI CORVO
1596
MULE' VILLICO ANTONINA
GARAMOLI CORVO
1596
LUPARELLO LEONARDO
GARAMOLI CORVO
1596
MESSINA PAOLINO
GARAMOLI CORVO
1596
LA LICATA ANTONELLA
CELSO-LOGGIATO-GIBILLINI
1596
AMELLA JO. VITO
CELSO-LOGGIATO-GIBILLINI
1596
ALLETTO ANTONINO
CELSO-LOGGIATO-GIBILLINI
1596
LA LICATA ANTONELLA
PIRO-NOCE-FICOAMARA
1596
LA ROCCA PIETRO
PIRO-NOCE-FICOAMARA
1596
LA LICATA GIURLANDELLA
MALVAGIA
1596
RIZZO MARCO
MALVAGIA
1597
BARBERI GRIXO VINCENZO
SAMBUCHI
1597
RUGGERI LUIGI
SAMBUCHI
1597
LO BRUTTO CARLO
SAMBUCHI
1597
CALCI GIUSEPPE
SAMBUCHI
1597
BARBERI alias MOSSUTO ANTONINO
CULMITELLA
1597
CACCIATORE mastro PIETRO
CULMITELLA
1597
AGRO' VENTO GIOVANNI
CULMITELLA
1597
LA LICATA LOGIA ANGELO
DONNA FALA - PORTELLE
1597
TAIBI CINO LUIGI
DONNA FALA - PORTELLE
1597
LA LATTUCA GIUSEPPE
DONNA FALA - PORTELLE
1597
INGRAO FILIPPO
BOVO
1597
MORREALE mastro MARIANO
BOVO
1598
FIXINA E STAFARACI Filippus de Fixina et Vincentius Stafarachi socer et gener
SANTA DOMENICA
1598
BELLOMO PIETRO
SANTA DOMENICA
1598
ACQUISTA SIMONE
SANTA DOMENICA
1598
GENTILE LUCIANO
BOVO
1598
PARLA VINCENZO
BOVO
1600
MANTEGNIA PASQUALE
GAZZELLE
1600
PIEMONTISI ADDARIO
GAZZELLE
1600
BRUCCULERI SIMONE
GAZZELLE
1600
GARLISI GIROLAMO FU SANTO
GAZZELLE
1600
BARBA ANTONINO FU PAOLO
MANCHI
1600
AMELLA GRAVUSO  PAOLO
MANCHI
1600
BARBERI FILIPPO
MANCHI
1600
PETRUZZELLA  GERLANDO
MANCHI
1600
SIGNORINO VITO
GIBILLINI
1600
AMELLA SEBASTIANO
GIBILLINI
1600
LA LOMIA GIOVANNELLA
GIBILLINI
1600
GRILLO GIOVANNI
BOVO
1600
CARAVELLO FILIPPO
BOVO
1600
PIRNICI GIOVANNINO
BOVO
1600
LA LICATA ANTONELLA
NOCE
1600
LA LICATA ANTONELLA
PIDOCCHIO
1600
LA LICATA ANTONELLA
GAZZELLA
1600
PIEMONTISI ADDARIO
GAZZELLA
1600
GIANDALIA SIMONE
GAZZELLA
1602
TAIBBI VINCENZO ED ALESSANDRO
MONTAGNA
1602
CURTO ANTONINO DI BARTOLO
MONTAGNA
1602
RIZZO PIETRO DI SIMONE
MONTAGNA
1602
SANFILIPPO SANTO
MONTAGNA
1602
TAIBBI VINCENZO ED ALESSANDRO
MONTAGNA
1602
BUSCEMI CORRADO
MONTAGNA
1603
MACALUSO FRANCESCO DI VINCENZO
GRANCI
1603
POMA IACOBO
GRANCI
1603
LAURICELLA ANTONIO
GRANCI
1603
AMELLA GIOVANNI DI FRANCESCO
GIBILLINI
1603
SALVO PIETRO
GIBILLINI
1603
D'ASARO PIETRO, PITTORE
GARAMOLI CORVO
1603
MACALUSO FRANCESCO FU VINCENZO
GARAMOLI CORVO
1603
D'ASARO PIETRO, PITTORE
NOCE
1603
GUADAGNO NOT. GIOVANNI
 
1604
BARBIERI ANTONIA
CULMITELLA
1604
CACCIATORE PAOLO
CULMITELLA
1604
AGRO' VENTO GIOVANNI
CULMITELLA
1604
MONTELEONE not. NICOLO'
MENTA
1604
IANNUZZO SALVATORE FU ANGELO
BIGINI
1604
PACE GERLANDO
BIGINI
1604
XANDRO CATERINA
PIDOCCHIO
1604
TAIBI ALESSANDRO
PIDOCCHIO
1604
GIGLIA ANTONINO
PIDOCCHIO
1606
BORSELLINO PIETRO DI ANTONIO
MONTAGNA
1606
MACALUSO ALESSIO
MONTAGNA
1606
PETRUZZELLA BARTOLO
MONTAGNA
1607
LO NOBILI mastro GIULIO
STALLUNERI
1607
BARONE mastro FRANCESCO
STALLUNERI
1607
LO NOBILE mastro FRANCESCO
STALLUNERI
1607
GUELI GIUSEPPE DI GERLANDO
STALLUNERI
1608
CURCIO ANDREA
GIBILLINI
1608
CAPOBIANCO MICHELE
GIBILLINI
1608
MESSINA ORLANDO
GARAMOLI
1608
PALERMO FABIO
GARAMOLI
1608
LO GIUDICE VINCENZO
GARAMOLI
1608
RESTIVO GIOVANNI
GARAMOLI

 

 


I vigniti, sparsi un po’ ovunque, si palesano però più insensivi a Garamoli, in contrada Montagna, a Bovo, alla Noce, alla Menta, al Rovetto, a casali Vecchio, a Culmitella, al Serrone; in varie località che in quel tempo facevano parte del feudo di Gibillini, come dire i versanti di Monte Castelluccio; in talune contrade oggi di incerta, e talora ormai dimenticata, ubicazione quali: Bigini, Gazzelle,  Granci, Malvagia, Manchi, Pidocchio, Sambuchi, Stalluneri, Santa Domenica; e non mancavano vigneti neppure nella parte Nord, a cavalcioni del vallone oggi così desolato, come ci testimoniano i dati relativi a Donna Fala o a Quattro Finaiti.

Integrando i dati con quelli che appaiono da un altro “rollo” – sempre custodito in Matrice – abbiamo, infatti, vigneti – oltre alle località citate – in contrade quali: Carcarazzo, Pernice, Muscamenti, Cannatone, per non parlare del Ferraro, dei Malati, del Saracino, Sant’Anna, San Giuliano, Rocca Russa, Canalotto, Muccio, Giardinello (feudo di Gibillini), Corbo, Petravella, Cozzo della Pergola, Santa Maria di Gesù, Marcianti (feudo di Gibillini), Vella del Corbo, Arena, Muccio (feudo di Gibillini), Lago (feudo di Gibillini), Scifitello, Castilluzzo (feudo di Gibillini), Carmelo.

 - il sommacco.

 

Una piantagione, che se pur tarda è comunque attestata da documenti del XVII secolo, è quella del sommacco: serviva per la concia delle pelli e quindi, allignando nei costoni rocciosi, ebbe a propagarsi in quelle zone impervie con intensità tale che ancor oggi – seppure ormai quasi inutilizzata – non si riesce ad estirpare. La solita Matrice ci fornisce dati d’archivio: è del 1685 questo documento che attiene ad una ipoteca :

Item in et super salma una et tumulis octo terrarum cum eius vinea et summacio intus et torculare sitis et positis in dicto pheudo et in contrata Bovi secus vineam Francisci de Poma Agostini et secus contrata dello Corbo et alios confines.

 

Apparteneva ad una famiglia ancor oggi in auge: al sacerdote don Pietro Casuccio ed al fratello Nicolò. E certo, di sommacco ebbe bisogno il padre del “nonno del nonno” di Leonardo Sciascia – che, diversamente da quanto asserisce in Occhio di Capra lo Scrittore, era racalmutese puro sangue. Mastro Leonardo Sciascia s’induceva il 22 aprile del 1768 a fare società con mastro Carmelo Bellavia e con mastro Giuseppe Alfano, a suo volta associato con mastro Pietro Picone. I quattro soci «posuerunt et ponunt, ac contelerunt et conferunt … uncias quadraginta et tarenos decem et octo in pretio viginti quatuor coriorum bovuum.» Il Bellavia e lo Sciascia conferivano «operam, artem et peritiam coriariorum , laborem et industriam in vendendis et emendendis coriis praedictis.» L’Alfano ed il Picone si assumevano le spese «coriariorum officinae, vel ut vulgariter dicitur “della conciaria”» e su di loro ricadeva l’onere delle spese «in emptionem calcis, summacci, et aliorum[3]  Mastro Leonardo Sciascia aveva sposato il 7 gennaio 1754 Innocenza Alfano, figlia di mastro Bartolomeo Alfano. Tra gli Sciascia e gli Alfano erano consueti i matrimoni ed i gradi di affinità erano piuttosto stretti.

 

-       gli alberi da frutta

 

 

Gli alberi da frutta, che un tempo dovevano essere molto diffusi, furono drasticamente ridimensionati quando i sabaudi, gli austriaci ed i Borboni ebbero l’infelice idea di tassari in modo capitario.

La rarefazione degli alberi da frutta si coglie benissimo nel rivelo che il convento degli agostiniani fa agli atti del notaio Michelangelo Savatteri, il 10 maggio 1754. [4] Il convento –  ove da giovane divenne diacono fra Diego La Matina - è ancora aperto, ad onta dei divieti papali, ed è davvero prospero. Eppure, si guardi come sono esigue e ristrette le specie di alberi da frutta: 

«Beni stabili rusticani



Possiede questo venerabile convento salma 1 e tumoli 8 di terre, atte a giardino secco, in questo stato, contrata S. Giuliano, confinante con il detto venerabile convento e via pubblica di tutti i lati, che secondo l'estimo dell'esperto di questa terra ragionati ad onze 120 per salma, sono di valore cento ottanta onze, o. 180;

 

Item in dette terre vi esisteno alberi di diverse sorti, cioè mandorle n.° 70 a tt. 6 per uno sono di valore onze 12 che secondo l'estimo dell'esperto d.o, fanno o. 12

Alberi di olive n. 12 a tt. 6 per uno sono di valore onze quattro secondo l'estimo dell' esperto ;

Alberi di pruni   [albero che fa le susine = Prunus domestica culta L., v. Traina] di tutta sorte n.° 200 a tt. 8 per ogn'uno secondo l'estimo dell'esperto;

Alberi di peri  n.° 15 secondo l'estimo dell'esperto ragionati a tt. 6 per uno sono di valore onze;

Alberi di fastuche  [ pistacchio = Pistacium L.)  n. 8 che secondo l'estimo dell'esperto a tt. 15 per uno sono di valore onze 4;

Alberi di noci n. 2 secondo l'estimo dell'esperto unza una per uno sono onze due;

Alberi di pomi [pyrus malus L., probabilmente compresi gli alberi di “cutugna”, cotogno, Pyrus cydonia L.] n.° 6 ragionati secondo l'estimo dell'esperto a tt. tre per uno sono di valore tt. deciotto;

Alberi di granati [melograno, Punica granatum L. Denominato dalla città spagnola, a memoria dell’importazione araba] n.° venti secondo l'estimo dell'esperto a tt. 3 per uno sono di valore onze due;

Alberi di fichi n.° 15 secondo l'estimo dell'esperto a tt. 4 per uno sono di valore onze due

 

Mancano aranci e mandarini ed anche limoni. Mancano: gelsi, sorbi, peschi, nespoli, ciliegi ed altre specie oggi piuttosto ricorrenti nelle campagne di Racalmuto. Notisi la prevalenza dei frutti invernali. Quanto al valore, questa la gerarchia: noce (un’onza ad albero); pistacchio (15 tarì ad albero); pruni (tarì 8 ad albero), nonché mandorli, ulivi e peri (tutti sollo stesso standard di 6 tarì ad albero) e, quindi, gli alberi di fico (4 tarì ad albero), i melograni con i pomi a soli 3 tarì ad albero. Si tace sui fichidindia che dovevano pur esserci.

 

- le risorse agricole degli agostiniani di S. Giuliano.

 

 

Il documento ci pare perspicuo anche per quest’altri rilievi agrari:



«Possiede pure detto venerabile convento, in detto stato contrada Barona, salma una e mondelli due di terre scapoli per uso di seminerio, confinante con Carlo Barone, e via publica, che secondo l'estimo dell'esperto ragionati ad onze 120 salma sono di valore cento trenta cinque onze ...... -/ 135.

 

Possiede più detto venerabile convento tumoli 12 di terre occupate da n.° migliara 8 di vigne nel feudo delli Gibillini Contrata Ferraro confinante con vigne di Santo Diana, Nicolò Curto, ed altri, e via publica, che secondo l'estimo

 

Possiede pure detto venerabile convento in detto stato mcontrada Barona salma una, e mondelli due di terre scapoli per uso di seminerio confinante con Carlo Barone, e via publica, che secondo l'estimo dell'esperto ragionati ad onze 120 salma sono di valore cento trenta cinque onze ...... -/ 135

 

Possiede più detto venerabile convento tumoli 12 di terre occupate da n.° migliara 8 di vigne nel feudo delli Gibillini Contrata Ferraro confinante con vigne di Santo Diana, Nicolò Curto, ed altri, e via publica, che secondo l'estimo dell'esperto ragionate ad onze 12 per migliaro sono di valore onze novantasei e tarì 10 ....................-/ 125.10.

 

In dette vigne esiste il Palmento per commodo della vendemmia e con altre due case di abitazione terrane e cioè una entrata, e l'altra paglialora, e due camere di sopra, che secondo l'estimo dell'esperto di questa sono di valore onze trenta ................................................................... -/ 30

 

In dette vigne vi sono n.° trenta quattro alberi di mandorle, peri, fiche, ed olive, che secondo l'estimo dell'esperto di questa ragionati a tt. 6 per uno sono di valore onze se, e tarì venti quattro ......................................................................................................................... -/ 6.24.

 

Possiede di più detto venerabile convento tumoli 8 di terre atte a seminerio confinanti coll'istesse vigne di sopra ad onze 64. salma secondo l'estimo dell'esperto importa trentadue onze .. -/ 32

 

In dette terre vi esiste fiumara con sua acqua sorgente in n.° 100 alberi di Pioppo che prezzati

secondo l'estimo dell'esperto a tt. 8, grana uno, sono di valore onze quattordici e tarì 20 ..-/14.20»

 

Lo spaccato contadino del mondo racalmutese settecentesco si tinge anche di questo tratto non proprio edificante. I ricchissimi frati di San Giuliano si danno alla questua lungo le campagne ed ottengono dai devoti villici questi tutt’altro che trascurabili “introiti spirituali”:



«Introito Spirituale

In primis salme 10 formenti provenuti per questua ragionati a tt. 40 salma importa ...............-/ 3

E più salmi 6 orzi a tt. 24 salma provenuti per questua importa  ............................................. -/ 4

E più salmi 4 fave provenute per questua ragionati a tt. 24 salma importa .............................. -/ 3

E più salme due lenti[cchie] provenuti per questua a tt. 42 salma importa ....……................... -/ 2

E più salma 1 ceci provenuti per questua ragionati ad -/1.26 salma importa  .................. -/1.26

E più botte sei musto ragionate a onze 1.7 botte .................................................................-/ 6»

 

I frati questuanti portano nelle stive del convento «formenti, orze, fave, lenticchie e ceci». Il Borbone, da Napoli, insensibile a cosiffatte devozioni, tassa.

Il convento di S. Giuliano ha pure il problema della gesione delle vigne site al Ferraro: ecco come denuncia il  «Prodotto delle vigne di Gibillini»: sono vigne «date a società, franche d'ogni spesa, un anno per l'altro, [per un valore di] botte 4 di vino-mosto, ragionate per onze 3,3 per botte.»

Restiamo colpiti da quel pioppeto di 100 albero lungo la “fiumara” del Ferraro. Oggi, nessuna traccia è più lì rinvenibile, né di pioppi, né di acque fluenti.  Il pioppo, come i tanti canneti di cui parlano le fonti, erano indispensabili nelle costruzioni edili. Due grossi volumi contabili denominati “libri della fabrica” sono consultabili in Matrice ai fini dell’inveramento della costruzione della nostra chiesa madre, sempre che si abbia voglia di discostarsi delle letterarie attribuzioni di Sciascia ad un prete in alumbramiento.  Nel Seicento si faceva ricorso al pioppetto di Garamoli. Era difficoltoso ed il trasporto costava. Lo sfruttamento di facchini era comunque possibile: bastava dar loro “salsicce e vino”. A comprova, citiamo: «il 22 dicembre del 1658 si pagavano mastro di Napoli e suo figlio «per havere andato in Garomoli per sbarrare li travetti et n° 3 burduna che mancano al complimento della nave [della Matrice] ed in più per havere fatto portare dui carichi di travetti di Garamoli.» Occorrono 20 tarì «per havere fatto venire dui burduna da Garamoli e più per pani, salzizza e vino a vinti homini che uscirono detti burduna dentro la fiumana e ni portaro uno a 2 dicembre alli detti Gueli et Napoli e suo figlio per intravettare e pulire la travetta.» Le tre attuali navate della Matrice furono dunque intravettate con legname di Garamoli nel dicembre del 1658, quando don Santo d’Agrò – il prete alumbriato da Sciascia  - era morto da 21 anni (risulta, appunto tumulato, nella parte allora esistente della Matrice, sotto l’altare della Maddalena il 22 luglio 1637).

I pioppi degli agostiniani del Ferraro non dovevano essere dissimili da quelli di Garamoli, e del tutto uguali a quelli – radi – che ancora resistono nello zubbio sotto Fra Diego. Questa è almeno la tesi dei grandi naturalisti racalmutesi che abbiamo interpellato.

Rintracciato via E-Mail il mio compagno di liceo prof. Giovanni Liotta, lo apostrofai nel dicembre del 1999 in questi termini:

A Garamoli, dunque, v’era nel 1658 una “fiumana” ove impenetrabilmente prosperava un bosco di alberi ad alto fusto che all’occorrenza venivano utilizzati per fare dei “burdana” per il tetto delle chiese. Qui si tratta della nostra matrice (ovvio che quella di cui parla Sciascia fatta a spese di un prete, l’Agrò, in vena di alumbriamento, non esiste). Di che tipo erano quegli alberi? Ha ragione il dott. Salvo che li vuole della famiglia populus alba? Si potrebbe pensare ad una colonia di pioppi  neri (p. nigra)? O ad altre  specie di alberi ad alto fusto? Perché sono spariti?

 

E prontamente – e tanto simpaticamente, quanto gentilmente – il grande entomologo mi precisava:

 

 

Quanto alle piante che vivevano e ancora vivono ai bordi del canale per lo smaltimento dell'acqua della sorgente, credo, come Salvo, che debbano essere attribuite alla specie Populus alba, (il pioppo più comune della zona).

 

Ma noi continuiamo a sperare che i citati esperti racalmutesi ci forniscano risultati di appositi studi: Racalmuto li merita.

 

h) La fauna

 

 

Così come a Milena, anche a Racalmuto, la fauna che circolava dal Neolitico al periodo tardo romano era sostanzialmente costituita dagli ovicaprini (si calcola sul 46,75%), dai bovini (sul 20,19%) e sui maiali (intorno al 19,57%) [5] Anche a Racalmuto ebbe a pascolare il cervo e seppure rade non mancarono la volpe, la lepre ed il cinghiale.

Ci pare pertinente pure ai nostri siti questo passaggio del lavoro della Wilkens: «Oltre ai resti di mammiferi sono stati identificati anche alcuni molluschi marini (Murex trunculus, Glycymeris sp., Glycymeris violacescens), marini fossili (Dentalium sp.) e terrestri (Rumina decollata, Helix aspersa, Eobania vermiculata, Leucochroa candidissima). Mentre è probabile che le conchiglie marine, compreso il Dentalium fossile, venissero utilizzate a scopo ornamentale, la presenza di molluschi terrestri può essere causale, dato che non sono stati trovati in numero tale da far supporre un loro uso alimentare.»

Nell’Eneolitico, in zona Rocca Aquilia così prossima alla contrada Marchesa di Racalmuto, «la percentuale degli ovicaprini è molto alta, raggiungendo il 71,55%. [..…]La caccia ha un interesse molto limitato con il 3,44% e due sole specie: il cervo e la volpe. […]Tra gli ovicaprini  prevale nettamente la pecora, essendo la capra rappresentata solo da un frontale femminile con cavicchie.»

Risale al Bronzo antico l’utilizzo certo di bovini come animali da lavoro. Non mancava il cane. Nel Bronzo medio, i maiali tra uno e due anni venivano utilizzati per la macellazione. Per le pecore «le macellazioni avvenivano alla nascita, a 3/5 mesi e a 8/9 mesi nei giovani, si hanno resti di subadulti di 18/24 mesi e di adulti di età media ed avanzata. Si aveva quindi uno sfruttamento di tutte le possibilità del gregge: latte, carne e lana.» «I resti di cane sono scarsi e comprendono la mandibola di un giovane compresa tra uno e quattro mesi. Gli altri frammenti appartengono ad adulti di piccola taglia. Tra le specie selvatiche sono stati identificati la volpe, il cinghiale, il cervo e la tartaruga.»

Verso la fine dell’età del Bronzo, la commestione del cane risulta con certezza: «una mandibola di cane con denti regolari denota la presenza di un individuo a muso lungo, mentre un frammento di femore con graffi di scarnificazione sul lato ventrale in prossimità dell’epifisi distale, indica che anche i cani venivano utilizzati nell’alimentazione.»

Estendiamo a Racalmuto queste importanti “interpretazioni e confronti” della Wilkens: «Nell’economia di questa area la caccia ha sempre avuto un’importanza secondaria e solo nel Neolitico di Mandria i resti di animali selvatici raggiungono una percentuale significativa (11,72%). La tendenza verso un allevamento misto con forte importanza della pastorizia affiancata da buone percentuali di bovini e maiali è evidente dall’esame del materiale neolitico. I bovini sembrano in questa fase destinati essenzialmente alla produzione di carne e latte, mentre negli ovicaprini, che in tutti i periodi sono costituiti in massima parte da ovini, sembra prevalere l’interesse per la lana e il latte rispetto a quello per la carne. […] Nell’Eneolitico si accentua la tendenza verso la pastorizia a danno principalmente dell’allevamento dei maiali. […] Negli strati più recenti di Serra del Palco … è presente il cavallo.»

Il cavallo pare che sia giunto tardi in queste zone: «Il cavallo, identificato solo in livelli di età storica, raggiunge a Rocca Amorella un’altezza di mm. 1316. Si tratta quindi di un individuo di taglia media. I resti di asino sembrano invece da attribuire ad animali di piccola taglia.»

In definitiva, «tra gli animali selvatici si nota una certa varietà di specie nel Neolitico (volpe, lepre, cinghiale e cervo). […] Solo il cervo si trova con regolarità in quasi tutte le fasi. E’ da notare il tasso nel Bronzo tardo di Serra del Palco. […] Il daino è presente solo a Rocca Amorella.» Non mancava il gatto.

In millenni di attività venatoria e di braccognaggio, la facies faunistica di Racalmuto è radicalmente cambiata. Naturalmente vi ha contribuito l’antropica modificazione della locale vegetazione. Il degrado degli ambienti per il dissennato utilizzo di fitofarmaci è stato spesso esiziale. Vi si aggiunga la vulnerazione che le tante strade hanno determinato nell’ecosistema del territorio..

Resiste, comunque, nella zona la Volpe (Vulpes vulpes crucigera Bech.), avente pelliccia rossastra sul capo e sul tronco e grigia sulle parti inferiori. Vive in genere tra le sterpaglie dei campi o trale balze rocciose (come nella cava di Fulvio Russo, al Serrone).  Pare che non sia del tutto scomparso il Gatto selvatico (Felis silvestris Schreb.). Tra i roditori sopravvive l’Istrice (Hystrix cristata cristata L.). Pure ancora presente il Riccio (Erinaceus europaeus consolei Barr. – Ham.), un insettivoro dal capo largo e con il muso appuntito. Tutte le parti superiori del corpo sono ricoperte, dalla fronte alla coda, da aculei di due o tre centimetri di lunghezza. Lepri e conigli non mancano, anche se ormai non più indigeni, ma provenienti dai paesi slavi ed immessi nel territorio per ripopolamento, purtroppo senza avvedutezza veterinaria, e quindi, non di rado, infetti e contagiosi. Lepre comune (Lepus europaeus corsicanus De Wint) e coniglio selvatico (Oryctolagus cuniculus huxleyi Haeck.)  sono per ora preda - al Castelluccio, al Serrone, alla Pernice, persino sotto le varie “robbe” di campagna – di quella fosca genia dei cacciatori locali, per fortuna in via di estinzione.

Sembrano tornare a volteggiare sulle lande racalmutesi gli antichi rapaci. Consueti i rapaci notturni quali: il Barbaggianni (Tyto alba Scopp.), dal piumaggio biancastro nella parte inferiore del corpo e rossastro nella parte superiore, con disco facciale a forma di cuore in cui sono inseriti occhi relativamente piccoli di colore oscuro, la Civetta (Athene noctua Scop.) – e pensiamo al Giorno della Civetta di Sciascia – piumaggio grigio marrone, attiva nel crepuscolo e nelle prime ore dell’alba, divoratrice di insetti e predatrice di topi e uccelli di piccole dimensioni. E, poi, il Gufo comune (Asio otus L.) e l’Allocco (Strix aluco L.). A noi fa ancora effetto l’ansimante gridio dello Jacobbu (strix bubo L.), quando, dopo l’estivo imbrunire al Serrone, sfreccia invisibile tra i vigneti. E quasi umano è il richiamo dei piccoli che, sempre al Serrone, la volpe reitera divagando ora qui ora là nella notturna pastura.

Corvi, cornacchie, gazze, storni, cardellini, fringuelli, allodole, capinere, tordi, merli, rondini, pettirossi, sono uccelli passeriformi o ancora non estinti o in fase di piacevole ritorno. L’upupa, ma anche il piccione selvatico, la tortora, la quaglia, la coturnice di Sicilia allietano ancora i nostri campi. Rettili, di solito innocui (i familiari scursuna) continuano, in primavera, a spogliarsi delle loro lunghe squame sui campi, sempreché non uccisi prima dalla superstizioso e biblico ribrezzo dei contadini nostrani. Lucertole a iosa: dalla Podarcis wagleriana (Gist.) alla comunissima Podacis sicula sicula (Raf.). Sui muri delle case e sulle rocce due specie di gechi, grandi divoratori di insetti: la Tarentola mauritanica (L.) e lHemidactylus turcicus (L.)

E che dire delle lumache: a Racarmutu aviemmu li babbaluciara, diceva un’ingenua canzone popolare. Babbalucieddi, babbaluci, iudisca e muntuna, termini familiari a tutti i racalmutesi. Proverbi:

-       Sparaci, babbaluci e fungi/spienni dinari assà e nenti mangi;

-       Quannu la sorti nun ti dici,/jettati nterra e cuogli babbaluci;

-       Cu va a sparaci mangia ligna,/ cu va a babbaluci  mangia corna;

Sciascia, nel suo Occhio di Capra, sapidamente catoneggia sui detti popolari racalmutesi sulle lumache, a proposito dello sfortunato cui non resta altro che buttarsi a terra a raccogliere “babbaluci” (v. pag. 113). E la zoologia sciasciana di Occhio di capra, oltre allo stesso titolo si estende a questi proverbi:

-        a cuda di surci, per gli amori finiti, a coda di sorcio, nella noia; (p. 22);

-        a li piedi di lu cavaddru, ( … «nel mondo contadino che io conobbi non era animale amato: più delicata del mulo e di minor rendimento, bizzoso, imprevedibile, capace di fughe da una campagna all’altra» …) e cioè quando si è «senza rimedio: ad aspettare il colpo dello zoccolo» (p. 26);

-        a piedi d’agnieddru, «si dice del naso alla francese» (p.29);

-        culuri di cani ca curri, «colore indefinibile» (p. 58);

-        e iddu pirchì sceccu si fici? «quasi che l’asino avesse scelto di fare l’asino così come un uomo sceglie un mestiere, una professione.» (p.67);

-        e lu cuccu ci dissi a li cuccuotti/ a lu chiarchiaru nni vidiemmu tutti, «chiarchiaru .. pauroso rifugio di selvaggina, di uccelli notturni, di serpi; e vi si caccia col furetto, che spesso nelle tane resta ‘mpintu, impigliato, quasi il labirinto dei cunicoli fosse matassa che l’aggroviglia. … Come dire agli inferi, a un luogo di morte in cui tutti ci incontreremo. E senza dubbio vi agisce la memoria delle antiche necropoli scavate nelle colline rocciose, come intorno al paese se ne trovano.» (pp-67-68);

-        lu cani di don Miliu – lu cani di Pinu lu crastu di Pasqua – lu curnutu a lu so paisi, lu sceccu unni va va – lu pisci di lu mari/ è distinatu cu si l’havi a mangiari – lu puorcu all’organu – lu sceccu di  Silivestru – lu sceccu zuoppu si godi la via/ la megliu giuvintù a la Vicaria (pp. 83-88);

-        ‘mmucca a un cani, modo scherzoso per non dare risposta a chi vuol sapere ove travasi qualcuno ( 94);

Riportiamio altri proverbi e modi di dire racalmutesi (distici, quartine) a sfondo .. animale:

-       Sutta lu to palazzu c’è un jardinu

ci su chiantati arangi e pumadoru

e ni lu miezzu c’è cunzatu un nidu

ancidduzzi ci sunnu a primu vuolu;

 

-       Ora ancidduzzi calati, calati

a la cima di l’arburi e ci viditi

quannu nni la caggia intrati

comu di la pena nun muriti;

amicuzzi vi priegu ‘n caritati

amicizia cu li donni nun aviti;

iu persi la mia libirtati

    na donna m’ingaglià cu li so ariti;

- Chi hai gadduzzu ca reciti sulu?

 Iu cci arrispunnivu di luntanu:

persi la puddastra e sugnu sulu!

 

 

-       Comu ci finì a lu gaddu di Sciacca/ pizzuliatuddu di la sciocca.

-       Lu gaddu cci dissi a li gaddini/ ca lu tiempu si piglia comu veni

-       Ludia brutta facciazza di mulu/tu va diciennu ca t’ha’ mmaritari,/ nun n’ha né robba nemmenu dinari,/cu è ddu sceccu ca t’havi a pigliari?

-       Si Diu voli la mula camina/ci ammu arrivari a la missa a Ragona.

-       Ti cridi ca era mulu di la rota/ pi pigliarimi a tia disonorata?

-       La sciccaredda cci dissi a lu mulu/ siemmu fatti pi dari lu culu.

-       Cu di lu mulu voli fari un cavaddu/ li primi pidati sili piglia iddu.

-       Aviva un gaddu e lu fici a capuni/ lu sbrigu cci livavu a li gaddini.

-       Ni sta vanedda ci abita ‘na quaglia,/ tutti la vuonnu e nuddu si la piglia.

-       Lu puddicinu dissi ni la nassa/ quannu maggiuri c’è minuri cessa.

-       La tarantula annaca e nun sapi a cui

stenni l’aritu e nun lu cogli mai

passa la musca e ni l’aritu ‘ngaglia

e ci patisci nni ddi eterni guai

la tarantula ngrata siti vui

la musca sugnu iu ca c’ingagliavu

quantu aiu piersu pi amari a vui

sugnu a lu ‘mpiernu e nun nni niesciu mai.

·       lu cacciaturi assicuta  la quaglia/e l’assicuta finu ca la piglia;

·       La turturidda quannu si scumpagna

si parti e si nni va a so virdi luogu

vidi l’acqua e lu pizzu si vagna

e di la pena si nni vivi un puocu

e poi si minti ncapu na muntagna

 jetta suspira e lacrimi di fuocu:

amaru cu perdi la prima cumpagna,

perdi li piacira, lu spassu e lu juocu.

·       All’armi, all’armi: la campana sona

li turchi sunnu junti a la marina.

·       Ah! Quantu è mpami l’arti di lu surfararu

ca notti e jornu travaglia a lu scuru

piglia la lumera e fa un puocu di lustru

quannu scinni jusu cu lu so capumastru

 

·       La schetta si nni prega di li minni

la maritata di li figli ranni

·       Niesciu la sira comu lu nigliu

Viersu la matina m’arricogliu.

·       Si ni pigliamu colari muriemmu

e vincitoria a li mpamuna dammu.

·       Cci vò viniri dda banna Riesi

unni ci su pagliara comu casi;

cci sunnu tri picciotti comu rosi

una di chiddi tri mi dissi trasi;

trasi ca t’aiu a dari li beddi cosi:

puma, pumidda, maremi e cirasi.

Iu ci lu dissi: nun vuogliu sti cosi,

vuogliu la zita, la robba e li casi.

·       Biedda, li tò biddizzi iu li pritiegnu

siddu li duni a l’antri, iu m’allagnu.

·       Ora ca ti criscieru sti lattuchi,

tutta ti gnucculii, tutta t’annachi.

·       Ci pienzi bedda quannu iammu a Naru

ca la muntata ti paria pinninu?

·       Bedda, ci vò viniri a San Bilasi,

 n’addivirtiemmu ca siemmu carusi?

·       Aiu cantatu pi sbariarimi la menti

oppuramenti la malincunia.

·       Comu vo fari fa, si la patruna

basta ca truovu la pignata china.

·       Buttana ca cu mia tu fa la santa,

cu li cani e li gatti tieni munta.

A mezzannotti cu scippa e cu chianta,

la tò matruzza li cuorpi ti cunta.

Quantu grana vusca sta figliuzza santa,

ci voli lu nutaro ca li cunta.

·       Cu scecchi caccia e a fimmini cridi/ faccia di paradisu nun nni vidi.

·       Lu surci cci dissi a lu scravagliu:/ quannu tu fa beni scordatillu.

·       Ficiru paci li cani e li lupi,/ poviri piecuri e svinturati crapi.

·       A vvu commari chiamativi la gatta,/ sannò vi veni cu l’ancuzza torta.

·       Sugnu comu lu cunigliu ni la tana,/ firriatu di sbirri e di ‘mpamuna.

·       Chi avi stu sceccu ca raglia?/ avi la corda longa e s’impiduglia.

 

L’animale domestico, in una società perennemente contadina come è stata sinora quella racalmutese, ha avuto ovviamente ruoli primari nella nutrizione, nell’ausilio nei lavori agricoli, nella caccia, nei trasporti, nello scambio e persino nei passatempi. Gli atti notarili del Cinquecento, del Seicento, del Settecento pullulano di contratti di compravendita di muli e giumente, di ginizze e buoi, di asine e pecore e capre. Un carro trainato dai buoi è quello che portò a Racalmuto la Bedda Matri di lu Munti, secondo l’ingenua iconografia settecentesca che dell’ex voto affisso nella parete destra del Santuario del Monte. E a fine Maggio, in prossimità dei grandi lavori  estivi nelle campagne, c’era la rinomata fiera del bestiame di Racalmuto. Ancora in Matrice – ormai piuttosto defilato – si onora S.Antonio, cui s’intestava nell’antichità la chiesa arcipretale che era particolarmente venerato per la protezione che accordava agli animali. Ancor oggi, il 13 giugno, una messa a S. Antonio, propiziatrice di favori celesti per la salvaguardia del locale bestiame, viene recitata, con devozione e partecipazione del residuale mondo agricolo. Cavalli e muli bardati, salgono tuttora la scalinata del Monte, a portare “prommisioni” in frumento. Prima entravano in chiesa: poi, p. Farrauto ed il vescovo Peruzzo interdissero quella devota tradizione.

Una terminologia sempre più in disuso entrava persino nei rogiti: “un mulu di pilu baiu”; una jnizza; in primis, due muli uno maschio di pilo baio castano et l’altra femina di pilo bajo;  dui muli maschi, di cojo di pilo morello, marcati allo collo e spalla destr; un cavallo di pilo sauro, con merco [contrassegno] tundo alla coscia sinistra con la coruna; un cavallo maurello forzato di bianco con una stilla in fronte bianca; cavallo stornello con l’armi della razza alla coscia sinistra; cavallo stornello, muzzo senza grigni [criniera], e senza merco; cavallo argentino mercato alla coscia sinistra della razza; cavallo bajo,  rotato,  facciolo, con tutti li quattro piedi bianchi mercato alla coscia sinistra della razza; Un maccio [mulo] grande morello mercato allo collo della razza del Re; una fuschetta falba che dona al scuro; un cavallo bajo chiaro causolo di tutti li piedi faciolo con un cerro di capilli bianchi sopra la gregna; dui giumenti di cocchio affrisciunati baj, una delli quali ha lu pedi darreri malato.

 

Certo, nel gran parte, codesti sono termini usati nell’inventario del conte Giovanni del Carretto, trucidato in una giornata di maggio a Palermo nel 1608: erano tempi in cui un cavallo valeva più di uno schiavo. E dopo viene, infatti, la scuderia umana che il conte deteneva per il suo servizio nel suo palazzo palermitano. Il burocratico stile del notaio suona tristo alle nostre orecchie:


Item uno scavo masculo chiamato Mustafà di Scandaria, moro di figlio di Abitelle, di comune statura, brunetto, mustazzi nigri, di età di anni 27 in circa; item un altro scavo nomine Angelo di Zagaro figlio di Fideli turco, al presente battizzato di età di anni 18, sbarbato, pocho mustazzi;  un altro scavo nomine Alì, moro, figlio di Solomina, bono, d’età d’anni quaranta, commune statura, olivastro, barba castagna con alcuni  pili bianchi; item un altro scavo nome Alì, turco figlio di Acudì. di paese di Romania, di età d’anni 35, buona statura, barba e mustazzi castagnoli; uno scavo d’età d’anni  .   .  . in circa nome Odeo Fazz.l di Bona, figlio di Fuit, mor; item una scava nome Aramundi di Zaffi di anni quaranta in circa, bona statura, capilli nigri con alcuni signi al barbarozzo;  un’altra scavotta d’età d’anni dieci nome Naclara figlia di Alburascar di Bona, moro; item un’altra scava nome Fileze di detta Bona, matre di detto Nazar d’età d’anni quaranta in circa, figlia d’Alì capilli nigri, mercata a la frunti e barbarozzo con alcuni stizzi azoli.

 

Presso la Chiesa Madre abbiamo rinvenuto quest’accenno ad una compera di buoi, da servire per il trasposto dal favarese feudo di S. Benedetto di  colonne per l’edificanda Matrice nel 1655:

 

6.1.1655
A Giulio Pisano onze vinti e tt.rì undici, quali si ci hanno pagato per havere andato alla città della Licata con Stefano Garlisi et alli feghi attorno per cumprare altri boi di carrozza per portare le colonne della d.a fabrica…

 

Da un rivelo del 1658 è possibile trarre un quadro dei possessori di bestie da soma in quel di Racalmuto. Molto attendibile per motivi fiscali:

·       il numero dei fuochi era di 1239 per 5.165 ;

·       in paese vi erano 52 cavalli;

·       le giumente, invece, in minor numero, appena 38;

·       i buoi, 218 a testimonianza del fervore dei lavori agricoli;

·       le “vacche di aratro”, n.° 191.

 

Pecore e capre non vennero conteggiate; e crediamo anche gli asini.

Asini e muli s’intensificarono nell’Ottocento con l’esplosione delle miniere di zolfo. Fu il tempo dei “vurdunara”. Scrive Francesco Renda, nel libro di storia che abbiamo citato (p. 118): «Il solo trasporto dello zolfo […] fino alla vigilia dell’unità richiese l’impiego di 3.000 uomini e di 10.000 muli, una vera e propria armata in permanente stato di mobilitazione.» Fino all’entrata degli americani, nel 1943, la teoria di asini con il loro carico di “balate” di zolfo era consueto per le trazzere che da Quattro Finaiti, Cozzo Tondo e dintorni si portavano alla stazione ferroviaria. Noi ne abbiamo ancora vivo il ricordo. E l’afrore delle urine che stagnavano nelle solite pozzanghere è rimasto memorabile: già, l’asino doveva soffermarsi sempre al solito posto per le sue evacuazioni uretrali. Piuttosto recente l’uso del carretto, appena le carrozzabili lo permisero. E dopo, utilizzando  i dissestati Moss degli americani, la meccanizzazione, il trasporto su camion.

La caccia, più che per nutrimento, è stata uno sport, una passione. Il barone Luigi Tulumello, a fine Ottocento, si fece costruire nel feudo lasciatogli dal prozio prete, delle torrette, da cui sparare tranquillamente ai conigli, che si premurava a immettere nelle sue terre a tempo debito. Una guardia campestre – tale Martorelli – amava però fare il bracconiere nei dintorni della tenuta baronale di Bellanova. Il nobile don Luigi Tulumello non tollerava il dispetto che si permetteva una volgare guardia campestre: la fece chiamare, e, in sua presenza la fece inquisire da un suo famiglio. Il Martorelli fu arrogante, anzi mise in dubbio “l’essere omo” di quel manutengolo. Dopo pochi giorni, il Martorelli ci rimise la pelle. In un fascicolo a stampa che trovavasi – chissà perché? – nella sacrestia della Matrice (ma mani pietose l’hanno trafugato) si poteva leggere il racconto del processo penale che ne seguì. Per le autorità inquirenti, due bravacci favaresi si erano acquattati in una macelleria di tal Borsellino, all’inizio di via Fontana. Quando, come al solito, il Martorelli, baldanzoso sulla sua giumenta, passò verso il meriggio per andare ad abbeverare la bestia giù alla fontana, fu da malintenzionati paesani additato dall’interno della macelleria. I bravacci seguirono allora il Martorelli fino alla fontana e là gli scaricarono addosso vari colpi di lupara. Per gli inquirenti, i mandante era stato il barone; l’organizzatore il famoso campiere Bartolotta. Si fecero, costoro, un paio di anni di carcere preventivo, ma poi vennero totalmente assolti. Per qualche coniglio selvatico, ci si rimetteva la pelle a Racalmuto sino al tardo Ottocento. Per gli avversari politici, il barone Tulumello – anche se poi sindaco ed consigliere provinciale  - rimase “un reduce dalle patrie galere”, come può leggersi in  missive anonime che si conservano nell’archivio centrale di stato. E così anche per Sciascia. Va letta in proposito questa pagina di Nero su nero: [6]

«La ragione lontana di questa mia avversione [per i titoli nobiliari, ndr] sta che al mio paese, dove l’ultimo barone era morto una diecina d’anni prima che io nascessi, l’ombra di costui dominava ricordi di soperchieria e violenza, di corruzione e di malversazione amministrativa. A casa mia, poi, ce n’era un ricordo più vicino e diretto, e più tremendo: il barone si diceva avesse fatto ammazzare un cugino di mio nonno, una giovane guardia campestre della cui moglie si era invaghito.

«Nonostante il rapporto di dipendenza (il barone era sindaco, o forse sindaco era suo fratello), la guardia lo aveva ammonito e forse minacciato: che girasse al largo della sua casa, della sua donna. E il barone gli aveva mandato il sicario, a tirargli alle spalle mentre quello abbeverava la giumenta. Dell’agguato, del colpo alle spalle, della terribile condizione della vedova che si era levata, ma inutilmente, ad accusare il barone, mi si faceva un racconto minuzioso:  ma in segreto, quasi col timore che il barone potesse ancora, dalle sue spie, venire a sapere quel che si diceva di lui. E ricordo una particolarità piuttosto orrenda: che il colpo che uccise la guardia era fatto, oltre di lupara, di schegge di canna; e volevano dire atroce irrisione (nel sentire popolare la canna, forse perché data all’ecce homo come scettro, è simbolo di scherno; e si ritengono maligne, cioè inevitabilmente destinate a suppurare, le ferite da canna).»

Parola d’onore: nelle carte processuali, neppure l’ombra del delitto passionale. Per movente, si adduceva la stizza per il bracconaggio dei conigli baronali e l’ira per la tracotante insolenza della guardia campestre. Erano, poi, tempo d’abigeato e la lettera anonima avverso i Tulumello – quando la guardia campestre Martorelli era già morta e sotterrata – ce ne ragguaglia con insinuazioni maligne. Certo, ora la nuova guardia comunale Leonardo Sciascia è tutta per il barone Tulumello: in data 25 maggio 1896 si scriveva anonimamente al Cadronghi:

 «Eccellenza. - Il sindaco Tulumello reduce dalle patrie galere, tutto può ciò che si vuole. Fattosi padrino di un bambino del marasciallo, se ci è fatto lama spezzata; con cui a mantenere le apparenze di un paese tranquillo e di ordine, si occultano reati col qui pro quo. Il vice pretore Alaimo informi. Così la mafia, vestita di carattere pubblico regna e governa. Pertanto, un Michele Scimé, braccio destro del Tulumello, poté essere assolto, sebbene colto in flagranza di abigeato di animali. Così i fratelli Bartolotta - della greppia - non vengono inquisiti di animali, mentre vennero nei loro armenti scovati animali rubati. Così Leonardo Sciascia disciplina l'elemento cattivo che, sotto le parvenze di circolo elettorale, (sic) dove un Tulumello è presidente, soffoca ogni libera manifestazione, come nell'ultima elezione. Così Alfonso Conte, dopo la villeggiatura fattasi col Sindaco, dalle carceri di Girgenti, Catania e Palermo, gode oggi di una pensione assegnatagli dal Tulumello, sì da fare il maestro didattico della malavita. Et similia.»

 

L’abigeato fu piaga che si protrasse sino alla prima metà del XX secolo: se si lasciava la mula oppure l’asino in aperta campagna, spesso non si ritrovava più l’animale, come oggi per la macchina, a meno che non si pagava un riscatto. I manutengoli erano i soliti affiliati alle cosche protette dai soliti galantuomini. Nelle inviolabili tenute di costoro trovavano più o meno provvisoria ricettazione. Mi raccontano della tragedia occorsa al genitore del gesuita padre Scimé (Garibardi), cui fu sequestrata la scecca mentre zappava certe terre della Culma. La riebbe, pagando il riscatto, per l’intermediazione di un potente dell’epoca, un galantuomo di tutto rispetto.

 

i)               Archeologia e preistoria

 

 

In sintonia con Milena, Racalmuto fa risalire le sue ascendenze umane comprovate al Neolitico. La fase neolitica dei dintorni racalmutesi è variamente comprovata. «Frammenti di ceramica impressa [provenienti dalla] contrada Fontanazza presso Milena» [7] comproverebbero insediamenti umani risalenti addirittura al VI-V millennio a.C. La citata contrada non confina con il nostro territorio ma non sta molto discosta e se insediamenti umani vi erano in quella lontana epoca neolitica colà, non è poi azzardato congetturare che incuneamenti abitativi vi dovettero essere a Racalmuto. Futuri scavi archeologici – ne siamo certi – lo comproveranno. A Serra del Palco, sul versante ovest di Monte Campanella in Milena, scavi eseguiti negli anni 1981-82-83 hanno messo in luce «un insediamento del neolitico medio, ripreso attraverso i vari momenti dell’età del rame.» [8] Fu epoca questa – antichissima – in cui i nostri antenati seppero costruirsi le capanne abitative, il La Rosa propende per «introduzione della “cultura del recinto”» e ciò come peculiarità «del processo di neolitizzazione  della fascia sud-occidentale dell’Isola, determinato verosimilmente dall’arrivo di piccoli gruppi transmarini, rapidamente assimilati.» [9] E continuando con l’esimio archeologo, vaggiunto che « … l’episodio si consuma nell’ambito del neolitico medio, magari attardato [attorno al terzo millennio a.C. dunque, ndr] , e certamente in un momento anteriore alla introduzione della tessitura (nessun elemento di fuseruola è stato sinora restituito dallo scavo). […] La documentazione di questa “cultura del recinto”, la sua brevità, l’assenza finora di materiali più tardi di quelli stentinelliani associati a ceramica tricromica, sono dunque i dati di maggior rilevo per uno specifico approccio al fenomeno della neolitizzazione nella media valle del Platani.»

Lo sprofondo di Gargilata -  con le sue acque (ora purtroppo sparite), con monti gessosi (atti alle tombe e validi per la difesa), con la sua stretta contiguità alle zone archeologiche già indagate – fa affiorare ceramiche antichissime, che, quando verranno studiate, non potranno che dar la prova di un fenomeno di neolitizzazione anche in terra racalmutese: e la presenza umana verrà posticipata rispetta alla datazione del Griffo ma risulterà di sicuro presente già da prima del secondo millennio a.C., anche se, a quanto pare in base alle recenti risultanze archeologiche, non di molto.

 Sulla falsa riga di quanto tracciato da Carla Guzzone sul neolitico a Serra del Palco (vicina ed omologa al territorio nostrano di Nord-Est), ipotizziamo presenze umane racalmutesi del tutto analoghe a quelle evolutive del Neolitico (ben 5 momenti) e della successiva età del rame (due momenti). Per abbozzare un quadro di ampia massima, siamo costretti per il momento, in mancanza degli indispensabili e non più rinviabili scavi stratigrafici, a riecheggiare la sintesi della Guzzone [10]:

a)     il primo momento è quello dei fori sul banco roccioso, destinati all’alloggiamento di pali lignei per la perimetrazione e il sostegno della copertura di capanne;

b)    il secondo momento è quello delle capanne con battuti pavimentali;

c)     segue poi la fase monumentale; impianti realizzati con tecnica accurata (grossi blocchi rinzeppati da piccole pietre), con probabili alcove e con probabili contenitori di derrate;

d)    il quarto momentoè quello dei rifacimenti;

e)     un quinto ipotetico episodio edilizio sarebbe rappresentato (se davvero può riferirsi al neolitico) da un bel focolare impostato su di uno strato di giallastro.

 

Per un quadro d’assieme, con particolare riferimento all’età eneolitica, riportiamo queste note di sintesi di Laura Maniscalco: [11]

«L’età del rame … è rappresentata da un gran numero di stazioni. […] I siti individuati, sia attraverso scavi che da semplici ricognizioni sul terreno, sono tutti di carattere domestico, manca una altrettanto ampia documentazione relativa all'aspetto funerario. Alcune tombe a forno presenti nella zona e presumibilmente attribuibili a questo periodo, risultano violate da tempo.»

Discorso questo valido per le tombe a forno di Fra Diego: anche in riferimento alle affermazioni della Maniscalco, può dirsi che la nostra spettacolare necropoli di Gargilata va ricondotta temporalmente all’età del rame, a circa l’inizio del secondo millennio a.C. Vi si attagliano le risultanze archeologiche della vicina Rocca Aquilia la cui similarità e la cui propinquità con Gargilata sono incontestabili. Per quel che ce ne riferisce la Maniscalco, «i saggi eseguiti a Rocca Aquilia hanno restituito sequenze stratigrafiche complete dal tardo neolitico alla fine dell’età del rame.» Come dire sino alle soglie dell’età del bronzo, cioè ad immediato ridosso del secolo XVII. Ovvio che le date sono di mero riferimento, atteso il continuo ripensamento delle datazioni preistoriche.

Scavi recenti a Milena ragguagliano sulle presenze insediative risalenti alle fasi finali del bronzo antico; [12] quelle del bronzo medio sono state comunicate sin dalla loro individuazione nel 1988 dal prof. Vincenzo La Rosa [13]. Il continuum del vivere preistorico nell’hinterland del fiume Gallo d’oro, la cui ampia ansa dal Monte Castelluccio al Platani abbraccia anche i displuvi castellucciani racalmutesi, è ormai ampiamente ed esemplarmente documentato nell’area nissena; solo per risibili barriere circoscrizionali, ciò manca per le nostre ancor più ubertose plaghe.

A mo’ di nota conclusiva, per avere una chiave di lettura, della vicenda preistorica della civiltà sicana racalmutese, valgano questi stralci da uno studio di Fabrizio Nicoletti [14]:

«Non sappiamo se la nostra regione sia stata popolata in un periodo anteriore al neolitico. I reperti della grotta dell’Acqua Fitusa, a monte del fiume, lasciano sperare in future scoperte. Già da ora la nostra attenzione può concentrarsi su un gruppo di manufatti inquadrabili tipologicamente tra i pebble tools. [..] La cronologia dei discoidi è .. incerta, per quanto la loro presenza nel territorio risulti [piuttosto] capillare. Un bifacciale da contrada Cimicia, di forma ovale, sembra potersi confrontare con esemplari analoghi diffusi nella Sicilia centrale. Nella maggior parte dei casi si può pensare ad una datazione compresa tra il neolitico medio e le prime fasi dell’età del bronzo. […] Il neolitico, sin dai livelli più antichi di Serra del Palco-Mandria, vede la comparsa di quel singolare e ricercato vetro vulcanico che è l’ossidiana. La sua origine allogena non lascia dubbi circa la nascita di una rete di scambi che in questo periodo interessò la valle del Platani.[…] L’ossidiana grigia segue l’andamento generale: in ascesa durante la fase delle capanne, in declino durante quella dei recinti, in rapida ascesa alle soglie dell’eneolitico, quando diviene quasi l’unico tipo attestato.[…] Nonostante le consistenti importazioni di ossidiana, la materia prima maggiormente usata in tutti i periodi, almeno a partire dal neolitico medio, è una varietà di selce a grana fine dai colori variabili dal giallo-verde, al rosso, al marrone, spesso mescolati su un unico pezzo a testimonianza della medesima origine. […] L’industria del villaggio sommitale di Serra del Palco è la più tarda tra quelle conosciute nella media valle del Platani. Il progressivo sviluppo culturale dalle forme castellucciane a quelle thapsiane è in questo sito accompagnato dalla presenza di materiali micenei. […] C’è da chiedersi  quale possa essere stato il ruolo delle importazioni micenne in un radicale mutamento che, oltre agli aspetti già noti, sembra coinvolgere la stessa tecnologia litica. …»

Succede così il periodo miceneo con le sue belle tombe a tholos e gli evoluti manufatti metallici [15]. Racalmuto non ha, però fornito sinora alcun dato che attesti la presenza di quella civiltà. Per rarefazione antropica o per effetto di puntuale vandalismo che ha fatto sparire le testimonianze, almeno quelle più evidenti? 

Ma se tombe a tholos dell’età del bronzo  il Tomasello [16] ha individuato in località Furnieddu (c/o Sorgente), così prossima ai confini della Culma, come essere certi che esse non vi fossero più nelle circonvicine terre racalmutesi?

«La tomba di Furnieddu – precisa il Tomasello – ma soprattutto le due camere thoidali costituiscono per le loro caratteristiche una presenza archeologica significativa nella Sicilia centro-meridionale della media e tarda età del bronzo e confermano sempre di più l’importanza di questo comprensorio geografico nel contesto della preistoria siciliana.» Ed aggiunge: «sul piano culturale, significativa per la puntualizzazione del quadro delle relazioni con il mondo miceneo risulta la presenza di questa tipologia architettonica di matrice egea in un territorio così interno della Sicilia; il tradizionale panorama dei rapporti con l’Egeo sembrava, infatti, voler privilegiare i territori costieri dell’Isola e quasi esclusivamente quelli sud-orientali. Inoltre, il materiale funerario attribuito alle due tombe di Monte Campanella e assegnabile quanto meno al XII secolo a.C. ha consentito di antedatare la penetrazione di questa tipologia architettonica nella Sicilia centro-meridionale e di tentarne una periodizzazione.  Infatti la tradizionale datazione delle tholoi in roccia della vicina Sant’Angelo Muxaro, fissata da Paolo Orsi all’VIII secolo a.C., sembra adesso difficilmente ancora sostenibile.»

Risalirebbero addirittura al XV/XIV secolo a. C. i primi rapporti di questi luoghi con i micenei. «Gli indizi di una pregressa serie di contatti – si interroga l’insigne archeologo – con il mondo indigeno, compresi tra il XV ed il XIV secolo a.C. (TE IIIA) e attestati nello stesso sito di Milena, portano a chiedersi se la verosimile sequenza cronologica proposta da Pugliese Carratelli per la famosa “saga” Kokalos e Minosse non risponda ad un quadro storico reale, articolato sulla ubicazione, natura, dinamica ed esiti di questi contatti nel lungo termine.» Ritorna l’ipotesi cara a De Miro secondo la quale «nella zona agrigentino-nissena possano essersi verificati, in concomitanza con l’arrivo dei manufatti egeo-micenei, dei veri e propri stanziamenti di nuclei transmarini, che avrebbero poi continuato, pur con identità culturale progressivamente meno nitida, ad elaborare tipi e motivi del patrimonio originario. Queste popolazioni avrebbero così contribuito direttamente alla formazione del sostrato, determinando anche l’adozione di tipi come la tomba a tholos.» E ciò non poté non riguardare il confinante nostro entroterra.

Una tomba a tholos pare che ci fosse addirittura alla Noce, proprio nel podere vezzeggiato da Sciascia e con lui da Bufalino. Pare che fosse subcircolare, volta a calotta, banchina interna a ferro di cavallo e persino dotata del simbolico incavo cilindrico sommitale, l’invito segnaletico alle anime di trasmigrare da lì nel mondo dei cieli. Lo Scrittore pare l’abbia fatta inglobare quando fabbricò il suo estivo eremo. Sappiamo da Occhio di capra che il vedersi al Chiarchiaro era per Sciascia come un dover trasmigrare fra gli inferi, in un luogo di morte ove tutti ci si incontra. Ed anche su di lui giocava forse il popolare abbrividire  al ricordo «delle antiche necropoli scavate nelle colline rocciose, come intorno al paese se ne trovano». Nel dubbio, quella sua grotta della morte antica venne ascosa in interno ipogeo, risuscitato alla conservazione delle cose della vita.

Confessiamo che quanto a datazione siamo stati spesso frastornati dall’ondivaga periodizzazione dell’antica e nuova scienza archeologica. Meritevolissimo quello che hanno fatto a Milena: hanno rimesso ai vari dipartimenti di fisica e di fisica nucleare dell’università di Catania i reperti ceramici ed hanno così, potuto stabilire età,  sì, presunte ma con approssimazioni di mezzo millennio che per le cose preistoriche sono davvero una bazzecola. Si afferma che sui «campioni ceramici … è stato possibile operare la datazione tramite termoluminescenza (versione coars grain[17] che sono termini per noi davvero ostrogoti. Ne vien fuori questa serie di età presunte in BP e cioè a dire before present (prima del presente):

 

sito strato
età presunta
Serra del Palco recinti
 
Recinto maggiore
NEOLITICO MEDIO
 
7000-6500 BP

 

 

età BP
+
-
ETA' PRESUNTA non BP
Età a.C. MASSIMA
Età a.C. 2 MINIMA
6893
864
864
4893
5757
4029
7445
1068
1068
5445
6513
4377
6852
871
871
4852
5723
3981
7770
981
981
5770
6751
4789
7055
739
739
5055
5794
4316
10148
2292
2292
8148
10440
5856
6773
398
398
4773
5171
4375

 

 

 

MEDIA ETA'
MEDIA ETA' MASSIMA
MEDIA ETA' MINIMA
5361
6278
4443

 

 

RECINTO MINORE
NEOLITICO MEDIO
 
7000-6500 BP

 

 

 

 

età BP
+
-
ETA' PRESUNTA non BP
Età a.C. MASSIMA
Età a.C. 2 MINIMA
6387
447
447
4387
4834
3940
6923
600
600
4923
5523
4323

 

 

MEDIA ETA'
MEDIA ETA' MASSIMA
MEDIA ETA' MINIMA
4655
5179
4032

 

 

FONTANAZZA IV

 
CAVE
RAME
 
5500-600O BP

 

 

 
età BP
+
-
ETA' PRESUNTA non BP
Età a.C. MASSIMA
Età a.C. 2 MINIMA
4759
427
427
2759
3186
2332
 
4773
615
615
2773
3388
2158
 

 

 

MEDIA ETA'
MEDIA ETA' MASSIMA
MEDIA ETA' MINIMA
2766
3287
2245

 

 

 

 

SERRA DEL PALCO – SOMMITA'
SEQUENZA STRATIGRAFICA
BRONZO MEDIO
 
3400-3200 BP

 

 

 

età BP
+
-
ETA' PRESUNTA non BP
Età a.C. MASSIMA
Età a.C. 2 MINIMA
3248
590
590
1248
1838
658
3690
820
820
1690
2510
870

 

 

MEDIA ETA'
MEDIA ETA' MASSIMA
MEDIA ETA' MINIMA
1469
2174
764

 

SERRA DEL PALCO – SOMMITA'
SEQUENZA STRATIGRAFICA
BRONZO ANTICO
 
3800-3600 BP
Età BP
+
-
ETA' PRESUNTA non BP
Età a.C. MASSIMA
Età a.C. 2 MINIMA
3420
367
367
1420
1787
1053
4205
461
461
2205
2666
1744
4303
619
619
2303
2922
1684

 

MEDIA ETA'
MEDIA ETA' MASSIMA
MEDIA ETA' MINIMA
1976
2458
1494

 

 

Ne desumiamo che anche per Racalmuto la più antica presenza umana comprovabile risale al Neolitico medio e cioè attorno a 5361 anni prima di Cristo (al massimo a 8278 anni fa, al minimo 6443 anni addietro). Il neolitico medio racalmutese risale dunque in BP (before present, prima del presente) a 7000-6500 (5000-4500 a.C.). Le datazioni del Griffo relative a materiale conservato nel museo regionale di Agrigento sarebbero quindi confermate.

 Non dovrebbero significare molto le pur cospicue differenze di datazione dei reperti del recinto maggiore e di quelli del recento minore di Serra del Palco: solo uno spostamento nel tempo dell’insediamento umano, ma sempre nell’ambito del Neolitico medio (7000-6500BP). Questo comunque il quadro di raffronto

Denominazione
Età media
Età massima
Età minima

Recinto maggiore Serra del Palco

5361
6278
4443
Recinto minore Serra del Palco
4655
5179
4132
differenza
706
1100
311

 

Forse possiamo congetturare che sino al 4100 a.C. nei dintorni di Milena, e quindi anche a Racalmuto, persisteva il Neolitico medio.

Congetture analoghe per l’età del rame: dal quarto millennio a.C. sino all’esordio del 3° millennio (i reperti archeologici oscillano attorno al  2700 a.C.  in un arco di tempo ipotizzabile tra un massimo (3287 a.C.) ed un minimo (2.245 a.C.). Abbiamo quindi le tre fasi dell’età del bronzo: bronzo antico con ceramica che può pur risalire al 2.303 a.C.; bronzo medio, iniziato probabilmente attorno al 1700 ed il tardo bronzo che si aggancia all’età del ferro per sfociare nel c.d. miceneo.

Certo, in avvenire, quando scavi stratigrafici verranno praticati anche a Racalmuto e potranno utilizzarsi i ritrovati (immancabili) di una tecnologia sempre più sofisticata, le datazioni suesposte risulteranno senza dubbio imprecise, ma allo stato delle nostre conoscenze (o meglio nel buio assoluto oggi lamentabile per la preistoria racalmutese) queste cifre-simbolo una qualche luce, un certo orientamento paiono fornirlo.

Sui Sicani racalmutesi abbiamo solo i ritrovamenti del Mauceri  del 1879 di cui parliamo in vari punti di questa trattazione: ci pare sbagliata persino la località del reperimento dei reperti archeologici, essendo forse improprio il toponimo di Pietralonga (località invero di Castrofilippo). A dieci chilometri di strada ferrata da Canicattì (come scrive lo stesso Mauceri) non ci pare che ci possa essere la contrada di Pietralonga: prescindendo dall’esattezza del chilometraggio, si potrebbe trattare delle cave di pietra ancor oggi visibili a ridosso del cozzo Mendolia, tra la stazione ferroviaria di Castrofilippo e la galleria in territorio racalmutese. Abbiamo già riportato ampi stralci delle note del Mauceri per non doverci qui ripetere. Erano davvero quelle tombe e ceramiche risalenti al secondo millennio a.C. e cioè alla fase terminale del bronzo antico? Non lo sapremo mai, almeno fino a quando scavi nella zona non faranno emergere ceramiche analoghe a quelle dell’ottocentesco ingegnere ferroviario, andate purtroppo irrimediabilmente perdute.

Le tombe a forno della parete del costone roccioso, sparse tutte attorno alla grotta di fra Diego, sono tanto vistose e suggestive, quanto del tutto inesplorate (ad eccezione dei tombaroli che possono violare a loro piacimento in assenza di ogni tutela pubblica). Sicuramente sicane, di certo antiche di svariati millenni, attendono di raccontarci la loro storia archeologica.

Una tomba singolare abbiamo scoperto nell’estate del 1999 in contrada Piano di Botte: con Pietro Tulumello ne abbiamo fatto un servizio fotografico, almeno in tempo non potendosi escludere che vandaliche manomissioni ne stravolgano l’assetto geoantropico. Attorno si è ormai consolidato l’assestamento steppico che abbiamo sopra segnalato: deturpato da un osceno traliccio, abbraccia il notevole masso tombale un prato erboso in inverno-primavera, in giallo per le stoppie in estate-autunno. In fondo, il caratteristico Cozzo Tondo, in linea ideale con la più caratteristica zona archeologica milocchese. Ad est, l’ubertosa collina della Culma, a Nord-Ovest: un minuscolo vigneto ed il melanconico colore degli accumuli dei rosticci di una dismessa miniera di zolfo. Prima  uno dei mulini sul vallone: uno dei cinque mulini cinquecenteschi dei Del Carretto. E, prima ancora, la zolfara di Piano di Corsa, così vicina al cimitero, ove fu rinvenuta la Tegula Sulfuris venduta al Salinas, da far congetturare essere là attorno la località solfifera sfruttata al tempo dell’impero romano. In un raggio di cinquecento metri, ben tre interessantissime testimonianze archeologiche, di ben tre distaccatissime epoche. Lo scisto gessoso sembra essere disceso dall’apice montano, lungo la bisettrice della vallata Nord del Castelluccio, a seguito di fenomeni di distaccamento dovuti agli assetti tellurici del miocene. Piuttosto isolato, fu utilizzato per evidenti fini tumulativi in tempi sicuramente sicani. L’incavo, alto ben oltre la statura di un uomo, ma stretto e poco profondo, è un manufatto antico, posteriore di sicuro ai tempi delle prische tombe a forno di fra Diego, ma antecedente rispetto alle più evolute forme dei tholoi di Monte Campanella. Sotto il profilo archeologico, non possiamo vantare competenza alcuna, neppure dilettantistica, per cimentarci in datazioni o altro specialistici ragguagli. In via di larga massima, saremmo propensi a ritenere l’epigeo funereo databile attorno all’anno mille a.C.  Lungo tutto il pendio di quella vallata sporgono qua e là massi similari. Lungo la stessa direttrice, più in alto, sotto un’ansa della rotabile del Ferraro, un altro analogo masso gessoso, reclinatosi di recente ad opera dell’uomo, mostra due antiche tombe, ma per fattura e caratteristiche ci paiono bizantine. Dovremmo, quindi, essere tra il sesto e l’ottavo secolo d.C., ai tempi cioè del tesoretto di monete bizantine trovate negli anni Quaranta in località Montagna. [18] Anche qui, tutt’intorno fino a fondo valle, steppa. L’interruzione delle piantagioni della Forestale non ci pare perspicua, con quegli estranei, desolati e desolanti, eucalipti. Sotto la strada, recenti sono i vigneti: sopra, il lussureggiare delle coltivazioni e dei frutteti che ancora residuano dall’opera settecentesca degli agostiniani.

E’ la zona dei calanchi, della nudità arborea per il dilavamento piovano. Come in quelle zone potessero stanziarsi e gli antichi sicani, così poveri di mezzi, ed anche le popolazioni bizantine, resta per il momento un mistero. E’ da pensare che allora là vi fossero boschi e l’humus  perdurasse ancora ferace? Quell’abbarbicarsi ad ogni scisto di roccia per tumulare i propri estinti, lo farebbe arguire. Diciamo pure che l’irradiazione dal centro di Gargilata fu nei secoli una costante: ferace il territorio circostante, fervida l’opera dell’uomo nel coltivare dove fosse possibile, anche lungi dalla capanna sicana o dalla frugale dimora coperta di tegole, di canali d’argilla cotta.

In queste desolate contrade, in cima al Castelluccio, tutt’intorno, al Serrone, giù al Rovetto, alla Montagna, alla Noce, al Saraceno, ai Malati, al Pizzo di Don Elia, al Giudeo, ed altrove,  affiorano ancora le sciasciane necropoli, non vistose come quella di Gargilata. Invece di sperperare fondi pubblici in insulsi “musei in piazza”, è da sperare che le future autorità locali recuperino codeste nostre radici dell’ancestrale memoria sicana.

In questa estate, quando abbiamo fatto vedere il manufatto sicano di Piano della Botte al noto G. Palumbo di Milena, costui era piuttosto propenso a valutare il rudere come un tentativo di tholos, lasciato cadere forse per abbandono coatto della località. E’ tesi suggestiva. Resta, allora, da spiegare perché, in una certa fase della loro vicenda racalmutese, i sicani del luogo dovettero fuggire. Le ipotesi tante:  aggressioni belliche; sopraggiunta insalubrità della zona;  alluvioni; dissesti geologici. Chissà se potrà darsi in avvenire una valida risposta. Frattanto, si faccia qualcosa, come nelle zone del vecchio (e per noi, migliore) toponimo di Milocca. Già, Milena docet!

 

 VERSO L’AVVENTO DEI GRECI


 

Non riusciamo a resistere alla forte tentazione di formulare nostre personali congetture sull’evoluzione sociale ed abitativa dei primordi racalmutesi. Se qualche abitante vi fu a Racalmuto durante il Paleolitico Superiore, fu la grotta di Fra Diego ad ospitarlo: quell'antro per esposizione, per capienza e per vicinanza a luoghi fertili ed a valli boschive adatte alla cacciagione, si attaglia all'ospitalità troglodita. Le testimonianze archeologiche più antiche sono però di gran lunga posteriori e ci portano in piena cultura della 'Conca d'Oro' con le caratteristiche «tombe  del tipo a forno» ([19]).

Da quell'era i nostri progenitori - siano sicani o altro - riuscirono a sormontare gli sconvolgimenti epocali dell'Età del Bronzo in condizioni di relativo benessere, piuttosto pacifici ed alquanto prolifici, come il diffondersi delle tombe per tutto il crinale collinare sta a testimoniare. Caccia e risorse minerarie, ma soprattutto cerealicoltura e pastorizia consentirono sopravvivenza ed anche sviluppo. A quanto pare, l’ingresso nell’Età del Ferro fu loro fatale.

A questo punto si ebbe una crisi per ragioni che ci sfuggono: forse per le razzie dei Siculi, forse per difendersi dalle incursioni di popoli stranieri giunti dal mare, i Sicani di Racalmuto sembra abbiano preferito ritirarsi entro le più sicure zone montagnose di Milena.

 

Successivamente, quando, per l'aridità della loro terra, i greci sciamarono per il Mediterraneo e le genti di Rodi e di Creta, via Gela, si insediarono nella valle agrigentina,  per i radi indigeni di Racalmuto fu il definitivo tracollo.

I moderni storici si accapigliano per stabilire tempi, modalità e drammi di quell'esodo geco cui non si attaglierebbe neppure il termine di colonizzazione, trattandosi di un'espulsione senza ritorno. Sono però propensi a ritenere che quei greci subirono la violenza della scacciata dalle loro famiglie contadine e, mancando di mogli, quella violenza la scaricarono sulle donne indigene di Sicilia, violandole con nozze coatte.

Un doppio dramma - si dice - che, ci pare, Racalmuto non subì né nella prima ondata di immigrazione greca, né in quella della seconda generazione. La zona era lungi dal mare e lungi dalle rive sabbiose, preferite dai greci per trarre in secco le loro imbarcazioni, magari come semplice auspicio per un (improbabile) ritorno in patria.  I rodiesi ed i cretesi di Gela fondarono, accrebbero e consolidarono la città akragantina. Allora il nostro Altipiano cessò di essere libero territorio anellenico: erano giunti i tempi della famigerata tirannide di Falaride. Nel sesto secolo a.C., per le locali popolazioni iniziò una devastante denominazione greca. I cadetti greci di Agrigento, privi di terra e di beni per il costume del maggiorascato del loro popolo, cercarono, forse, fortuna e dominio nei dintorni e così anche Racalmuto cadde nelle loro mani. Si attestarono certo nelle feraci contrade tra Grotticelle e Casalvecchio, e, secondo recentissimi ritrovamenti archeologici, anche alle falde del costone di Fra Diego. I radi reperti numismatici con la riconoscibile effigie del granchio akragantino  non attestano  solo l'inclusione di quel territorio nella circolazione monetaria delle varie tirannidi dell'antica Agrigento, ma soprattutto l'insediamento dei nuovi padroni. Da quell'epoca la civiltà sicana indigena non è più testimoniata in alcun modo. I nuovi padroni venuti da Agrigento presero certo la più gagliarda gioventù per trasferirla, schiava, nella titanica costruzione dei templi. La gran parte, se non resa schiava, fu senz'altro assoggettata ad una sorta di servitù della gleba. Taluni, scacciati o fuggitivi, si ritirano con i loro sparuti armenti negli inospitali valloni siti a tramontana. E divennero pastori randagi e rudi, feroci ma liberi, anarchici e misantropi, irriducibili ed incoercibili, simili a quei pastori che ancor oggi sembrano mantenere le prische connotazioni di uomini fieri e  ribelli. In tutto ciò sono da rinvenire le radici della storia sociale racalmutese. La classe agro-pastorale nasce e si evolve lungo millenni con sufficiente continuità e peculiarmente autoctona. Sono i vertici ed i dominatori che vengono da fuori, arroganti ed estranei. Si pensi che un ricambio in senso classista Racalmuto l'ha potuto registrare solo ai nostri giorni. Soltanto gli anni ottanta del XX secolo sono propizi ad un rivoluzionario avvento di amministratori con genuine ascendenze locali e d'autentica estrazione popolare.

 

IL PERIODO GRECO


 

Tra il 570 ed il 555 a. C. Racalmuto non poté che essere pertinenza rurale della polis di Akragas, sotto la tirannide di Falaride: costui assurge al potere cavalcando la tigre dei ribellismi sociali e plebei dell'Agrigento di allora. Fu questo fenomeno tipico dei silicioti greci di quel periodo.

Il piccolo centro abitato vi fu travolto di riflesso, per via dei greci nobili che poterono appropriarsi delle terre dell’Altopiano sito ad Oriente. Frattanto nelle nostre plaghe ebbero a moltiplicarsi i kyllyrioi, i semi schiavi di cui parla Erodoto: gente che doveva lavorare per la vicina polis di Akragas, senza libertà di movimento, senza diritti civili se non quelli di non potere essere venduti o allontanati dalla terra che lavoravano, potendo conservare la propria famiglia e la propria vita comunitaria. I reperti numismatici che talora si sono rinvenuti nel nostro territorio sono i soli indici della loro presenza.

E' certo che sino a quando non si faranno scavi come quelli che gli Adamesteanu e gli Orlandini ebbero a condurre nel circondario di Gela attorno agli anni cinquanta, o più recentemente il La Rosa a Milena, a noi non resta che avventurarci in vagule congetture.

In una campagna di scavi del 1960, furono fatte importanti scoperte presso Vassallaggi, in S. Cataldo, e si attribuì a quella località la nota cittadina di Motyon della Biblioteca di Diodoro Siculo (Kokalos, VIII 1962). Tramontava definitivamente il sogno accarezzato da Serafino Messana nel secolo diciannovesimo di assegnare quel nome greco al nostro paese. La sua teoria della 'metatesi' di Motyon che diventa «Casalmotyo e perciò Casalvecchio» - e dire che Serafino Messana ignorava le teorie linguistiche del Ciaceri che vuole Mothion una grecizzazione del preesistente 'Mutuum' - svanisce irrecuperabilmente. Tinebra Martorana già rifiutava quella teoria con l'elegante 'non liquet'  (non risulta) preso a prestito da Filippo Cluverio. Oggi, liquet (risulta) l'inattribuibilità di Motyon a Racalmuto e dintorni:  la località è dagli studiosi concordemente ubicata attorno a S. Cataldo o comunque nei pressi di Caltanissetta.

Quando vi fu dunque l'attacco di Ducezio all'avamposto di Akragas, Motyon, nel 451 o nel 450 a.C., l'onta dell'invasione non riguardò queste nostre contrade: per quei tempi, S. Cataldo era a distanza ragguardevole: quei nostri antenati dovettero però fornire grano e vettovaglie e vite umane in quella guerra tra Akragas, sostenuta dai siracusani, e l'esercito di Ducezio, il siculo-ellenizzato di Mineo. Per Racalmuto passavano di sicuro gli opliti agrigentini. La rete viaria di allora non doveva essere granché diversa da quella della fine del secolo scorso.

Frattanto Racalmuto, territorio rurale di Akragas, perdeva usi e costumi sicani, dimenticava la madre lingua per storpiare un’aliena lingua dorica, e si dedicava alla coltivazione dell'ulivo, alle vigne, alla vinificazione per i padroni di Agrigento. Insieme naturalmente al grano, merce di scambio per i traffici agrigentini con la madre patria greca o con i vicini cartaginesi. La continuità degli autoctoni - pastori e contadini - persisteva certo, ma in via sotterranea e ovviamente subalterna, priva di ogni esteriorità e senza lasciare alcuna testimonianza ai posteri.

Racalmuto continuava a riflettere sbiaditamente la vicenda storica di Agrigento. Restava pertinenza rurale, piuttosto disabitata, senza monumenti ragguardevoli, con una popolazione sfruttata e vessata. Periferia agricola della Polis, dunque, al tempo degli splendori di Terone, il tiranno agrigentino legato anche con vincoli di parentela con quello di Siracusa, Gelone. Pindaro esaltava, a pagamento, Agrigento come la più bella città dei mortali. Racalmuto doveva fornire grano e tributi per consentire ai tiranni agrigentini di equipaggiare le costosissime corse dei carri a quattro cavalli nei giochi olimpici della lontana Grecia.  Dopo, chi vinceva commissionava le famose odi a Pindaro, statue a scultori greci e profondeva doni ai santuari di Olimpia.

 A Racalmuto, sulla cui economia agricola quegli eventi ebbero a pesare, giunse, sì e no, una flebile eco, se qualche signorotto di Agrigento ebbe a recarsi nelle proprie terre per refrigerarsi in qualche sua villa sulle pendici del Serrone durante la canicola estiva. Alcuni versi delle Olimpiche di Pindaro su quella vittoria col carro di Terone nel 476 a. C. ebbero ad incantare qualche nostro antenato, incolto ma sensibile all'alta poesia.: «certo per i mortali non sta/ fissa una soglia di morte,/ né quando un giorno figlio del sole/ s'acquieterà alla fine in pura felicità:/ flutti diversi, momenti alterni/ di gioia e d'affanno vengono agli uomini» eran poi versi da avvincere anche l'animo del contadino greco, intento a riverire il suo padrone, specie se questi li recita mirando le stelle cadenti del cielo senza fine dell'estate racalmutese. E qui da noi circolavano anche le monete col granchio agrigentino, testimonianza di commerci, esportazioni di grano e presenze greche.

Sfiora la locale società contadina la nebulosa vicenda di Trasideo, figlio di Terone, «violento ed assassino», per Diodoro Siculo.  La sua cacciata da Akragas, per il passaggio ad un regime democratico, fu forse neppure avvertita.  Non sapremo però mai se Racalmuto fu coinvolto nella successiva confusione che venne a determinarsi per lo sconvolgimento nella distribuzione delle terre su nuove basi.

Dopo il 427 a. C., Akragas si acquieta, entra nella riservatezza. Se Siracusa coinvolge Imera, Gela e forse Selinunte nella sua guerra contro Lentini, a sua volta sostenuta da Camerina, Catania e la piccola Nasso, Akragas si mantiene neutrale e fa affari con tutti vendendo il suo grano ad entrambe le parti contendenti e lucrandovi sopra per un benessere economico, di cui dovette goderne anche Racalmuto, sia pure in minima parte. Sono queste, certo, ipotesi, ma ci suonano attendibili.

Atene - con Alcibiade che credeva di potere fagocitare la Sicilia in un guerra lampo ritenendola una terra di imbelli popolazioni bastarde - si avventura, nel 415 a. C., nella guerra contro Siracusa. Subisce, l'esercito ateniese, una disastrosa sconfitta. Atene, con 40.000 uomini agli ordini del suo più esperto generale, Demostene, ritenta l'impresa. Siracusa trova alleati a Sparta, a Gela, Camerina, Selinunte Imera e persino tra i siculi di Kale Akte. Quelle tragiche vicende che portano alla tremenda disfatta degli ateniesi trovano risalto nelle memorabili pagine di Tucidide. Akragas, come al solito, sta a guardare; ancora una volta è neutrale, alla stregua di Cartagine e del settore fenicio della Sicilia. In quel trambusto, Akragas ha modo di prosperare con i profitti di guerra. Racalmuto, come sempre propaggine rurale di quella polis, ne segue sicuramente le sorti, intensificando l'agricoltura e la pastorizia. Ma, attorno al 406 a. C., con l'ascesa di Dionisio I alla tirannide di Siracusa, per Akragas fu l'inizio del declino. Per converso, Racalmuto poteva affrancarsi dal giogo della vicina polis akragantina. 

Nel 406 a.C., fallito il tentativo di Ermocrate di impossessarsi di Siracusa, Akragas iniziò il suo ciclo storico di colonia punica. Un esercito africano numeroso e potente - anche se ben lontano dall'astronomica cifra di 120.000 uomini, come vorrebbe Diodoro - ebbe come primo bersaglio l'opulenta Agrigento. Gli aspri combattimenti tra siracusani e cartaginesi durarono sette mesi, nell'imbelle indifferenza dei greci agrigentini. Nel dicembre del 406, per Akragas fu, però, la fine: fuggirono i cittadini a Leontini e la città fu abbandonata. I cartaginesi si diedero ai saccheggi ed alla spoliazione delle tante opere d'arte, ivi compreso - pare - il toro di bronzo di Falaride. Racalmuto fu per quei tempi terra lontana: niente saccheggi dunque, anzi un afflusso di cittadini agrigentini dovette verificarsi. Le disgrazie agrigentine finirono col dare enfasi ad un risveglio demografico nel vecchio centro sicano sito nel nostro fertile altipiano. Quegli agrigentini che vi avevano fattorie e ville, ebbero di certo a preferire le note località racalmutesi all'angustia dell'esilio in quel di Lentini.

Dionisio il giovane, un ventiquattrenne rampante, si impossessava frattanto di Siracusa. Trattava con i cartaginesi ed Akragas cadeva nella mediocrità dell'epikrateia africana. La popolazione poteva ritornare a casa, ma per una umiliante sudditanza punica. Dal 405 al 264 a.C. la storia di Agrigento emerge solo per qualche barlume che le vicende siracusane vi riflettono.  E' comunque un ruolo subalterno alla politica ed alle fortune di Cartagine: da una parte, commercio, relativo benessere, vivacità economica; dall’altra, sudditanza politica e remissività verso la civiltà africana d'oltremare. Una tassazione gravava sulla popolazione cittadina - ora blanda, ora esosa, a seconda delle esigenze cartaginesi.

Crediamo che in tale contesto Racalmuto ebbe tempi non duri: i nuovi dominatori africani erano gente di mare per penetrare nelle impervie e infide vallate racalmutesi. Per altri versi, si apriva qui un mercato proficuo per quei tempi ed i suoi prodotti agricoli potevano trasformarsi in moneta contante, idonea ad un'economia vivace, se non addirittura prospera. Il male di Akragas si tramutava in buoni affari per Racalmuto.

L'archeologia e la numismatica attestano qualcosa di più delle fonti letterarie: sappiamo che artigiani greci e non greci furono chiamati a coniare le cosiddette monete siculo-puniche. Tinebra Martorana scrive di monete con effigi di improbabili scheletri e potrebbe trattarsi degli oboli di Motya o delle monete con la spiga. Per noi, quei reperti numismatici attestano proprio la presenza dello scambio cartaginese nelle terre racalmutesi di quei secoli.

Sempre il Tinebra Martorana  ci testimonia del rinvenimento di monete «di argento [aventi] da una parte un cavallo alato ed al rovescio il capo armato di un guerriero». Trattasi senza dubbio di pegasi  che ci richiamano le dittature siracusane di Dione o di Timoleonte (357-317 a.C.). In quel periodo, il territorio racalmutese non fu durevolmente assoggettato a Siracusa. I segni monetari palesano dunque un libero scambio: grano, orzo, ma anche vino, olio e prodotti caseari del paese prendevano la via dell'oriente siciliano oltre a quella del mare africano. Ne derivò un tenore di vita evoluto da consentire tumulazioni di lusso ed alla greca. Non possiamo non credere al Tinebra Martorana quando scrive: «In contrada Cometi, ....  si rinvennero sepolcreti d'argilla rossa, resti di ossa, lumiere antiche, cocci di vasi» e le monete di cui abbiamo detto sopra.

 



[1] ) Renda. F., Storia della Sicilia ..,  op. cit. p. 84 «Lo sfruttamento capitalistico del lavoro contadino riuscì ad elaborare varianti ancora più gravose del terraggio, quali il paraspolo, o altri analoghi rapporti, in cui il concessionario fu trasformato in prestatore d’opera senza salario certo e definito (il compenso sarebbe stato una quota parte del prodotto conseguito a fine stagione, generalmente grano, nella misura di un quinto, di un quarto e in casi eccezionali di un terzo).»
[2] ) Per ampi dettagli, v. il ns. Racalmuto in microsoft, c/o Biblioteca comunale di Racalmuto.
[3] ) Archivio di Stato di Agrigento – Fondo 6 Notaio Cavallaro Angelo – anni 1767-68  - vol. 10632, ff. 165-167.
[4] ) ARCHIVIO SI STATO PALERMO - DEPUTAZIONE DEL REGNO - INVENT. N. 5 - riveli Vol. n. 4093 anno 1748 – ff. 250-257-
[5] ) Barbara Wilkens, Resti faunistici provenienti da alcuni siti dell’area di Milena, in “Dalle capanne alle ‘robbe’ …” cit. p. 127 e ss.
[6] ) Leonardo Sciascia, Nero su nero, ed, Einaudi Torino 1979, pp. 161-162.
[7] ) Pietro Griffo, Il museo archeologico regionale di Agrigento, Roma 1987, p. 219; vds. pure Vincenzo La Rosa, L’insediamento preistorico di Serra del Palco in territorio di Milena, in Dalle capanne alle “Robbe”, cit. p. 43.
[8] ) Vincenzo La Rosa, L’insediamento preistorico di Serra del Palco in territorio di Milena, in Dalle capanne alle “Robbe”, cit. p. 43
[9] ) ibidem, p. 52.
[10] ) Carla Guzzone, La ceramica del villaggio di Serra del Palco ed il territorio di Milena in età neolitica, in Dalle capanne alle “robbe”cit. p. 55 e ss.
[11] ) Laura Maniscalco, Le ceramiche dell’età del rame nel territorio di Milena, in Dalle capanne alle “robbe” .., cit., p. 63 e ss.
[12] ) Orazio Palio, La stazione di Serra del Palco e le fasi finali del bronzo antico, in Dalle capanne alle “robbe” … cit. p. 111 e ss.
[13] ) Vincenzo La Rosa – Anna Lucia D’Agata, Uno scarico dell’età del Bronzo sulla Serra del Palco di Milena, in Dalle capanne alle “Robbe”  … cit, p. 93 e ss.
[14] ) Fabrizio Nicoletti, Industrie litiche, materie prime ed economia nella preistoria della media valle del Platani: continuità e cambiamento, in Dalle capanne alle “robbe” … cit. p. 117 e ss.
[15] ) Resta ancora basilare il vecchio studio del 1968 del De Miro, riportato anche nel volume “Dalle capanne alle robbe ..” varie volte qui citato. Molto ha aggiunto Vincenzo La Rosa, come si vede nello studio riportato a p. 141 e ss. Del citato volume.
[16] ) Francesco Tomasello, Le tholoi di monte Campanella a Milena (Cl), in Dalle capanne alle “robbe” .. cit. p. 165 e ss.
[17] ) vds. Dalle capanne alle “robbe” .. cit. p. 241 nota a Tab. 1)
[18] )  v.d.s. André Guillou,  L'Italia bizantina dall'invasione longobarda alla caduta di Ravenna,  Vol. I, Torino 1980, pag. 316., per la datazione e Pietro Griffo, Il museo archeologico regionale di Agrigento, Roma 1987,  p. 192 per la data del ritrovamento.
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[19]) Vincenzo Tusa/Ernesto De Miro: Sicilia Occidentale.  - Roma 1983 - pag. 14.

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