sabato 30 gennaio 2016

la trasuta di li miricani vista da destra (Sciascia) e da sinistra (io).

sabato 30 gennaio 2016


Ci sdraiammo giù, all’ingresso, sopra la paglia antica frammezzata da pruni pungenti. I culetti di noi bambini ebbero dolorose pizzicate. Le anziane per decenza tacquero. Stemmo alquanto in attesa di chissà quale nuova deflagrazione. Per fortuna nulla ebbe a seguire. Allora, mia zia salì sopra, prese coperte e lenzuola. Sotto, tutto aggiustò al fioco lume di una “lumera” ad olio. Risistemati da cristiani, mia zia monaca prese il suo rosario e cominciò a biascicare le solite avemaria. “Ave Maria, piena di grazie, il Signore è teco. Tu sei la benedetta” ….. e noi di seguito: Santa Maria madre di Dio, prega per noi peccatori …Il salmodiare ad un tratto cominciò a venire frammezzato dalla sorella del cadetto che con stridulo pianto istericamente lamentava “mammuzza mia ca un ti viiu cchiu”. Quando poi raccontavano la vicenda, a noi bambini piaceva celiare: “ Santa Maria Madre di Dio  … Mammuzza mia ca un ti viiu chhiu”.
Mia nonna ebbe un moto di stizza. “U cafè vuogliu”. Aveva voglia mia zia monaca a dire: Madre mia, non si può!. Se accendiamo il fuoco, ci bombardano. Mia nonna, perentoria: u cafè vuogliu. Paziente e remissiva mia zia monaca, salì di sopra, prese il caffè scese giù e lo versò nel pentolino di acqua. Ristoratici in qualche modo, la tardissima ora ci portò tutti in un sonno che almeno per noi bambi fu profondo e tranquillo.
Alle prime luci del giorno, giunse il fratello della cuginetta di mia madre e se la portò via. Subito dopo, giunsero mio zio Pietro e mio padre e tutti quanti, nonna e nipoti, ci riportarono in paese. A Sant’Antonino, mio fratello Luigi, il bambino di manco tre anni e lo zio Pietro videro volteggiare sopra di loro gli impazziti aerei americani. Scesero da cavallo, e ripararono sotto un rovo ai bordi della strada. Sopra gli aerei sparavano a vuoto, in continuazione. Quei piloti saranno stati drogati, che non vi era bisogno alcuno di sparare. Non c’erano militari, e lo sapevano, non c’erano tedeschi e lo sapevano.  Vero è che Mussolini, o chi per lui, aveva fatto piazzare sopra il fortilizio del Castelluccio un gran cannone. Non vi erano però artificieri, non vi erano soldati. Anche a lu “Cannuni” avevano piazzato un cannone. Lì, i soldati c’erano, ma neppure un colpo ebbe a sparare. Inettitudini? Ordini segreti? Intesa col nemico? Mah! Un dubbio mi assale. Non c’era alcun bisogno di bruciare tanto carburante, di sprecare tante munizioni, di mettere a repentaglio tante vite umane; tanti loro soldati, anche e far tanto spreco di apparecchi, come a quel tempo li chiamavamo. Ed allora, nessuno mi toglie dalla mente che tutto dipese dagli interessi delle grandi industrie di armi americane. Cui si aggiunse, strategicamente, l’intento di tenere impegnate forze tedesche in Sicilia. Cui dopo seguì la folla sfida tra Patton e Montgomery a chi arrivava prima a Palermo. Tutta roba da tribunale di guerra. Ma gli americani vinsero e furono eroi e liberatori, i tedeschi persero ed ebbero l’ignominia di Norimberga. Poi il fratello piccolo di tre anni andava salmodiando “ bum bum bum … mi spararu ccà (a quel posto) m’acchiapparu”. Erano state, però, le spine del rovo.


 




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Dice Sciascia all’atto dell’entrata degli americani, i siciliani erano “servi che finalmente si liberano da un padrone ed un altro attendono che sperano più largo, più generoso, più stupido”. Noi non abbiamo tanto pessimismo, pensiamo semplicemente che i siciliani a cominciare dai loro “fasci” si scrollarono di dosso questa abitudine a considerarsi servi e furono cittadini dignitosi, magari un po’ accorti nei confronti della giustizia “romana”. Con la democrazia cristiana – bisogna riconoscerlo – Roma non fu più “nemica”, lo Stato non più nemico. Un pizzico di diffidenza, non guasta ma senza mai esagerare. Simile sentire non è perspicuo e la letteratura abbisogna di forti tinte. Ritornare, dopo millenni, alla “servitù della gleba” fa molto scic e fa vendere. Per quel che ricordiamo nella congiuntura dello sbarco americano a Gela, c‘era molto senso della congiuntura, molto prammatico senso del presente, del vivere giorno per giorno. Non si pensava più né a Roma né a Mussolini. Sicuramente non si sapeva di Stevens e neppure più “la voce di Palazzo Venezia manteneva una sua tenue ragnatela d’incanto”. Alla radio non ci si toglieva più il berretto al comunicato di mezzogiorno: c’era il problema del mezzogiorno da risolvere. Accortamente dai Racalmutesi, desolatamente per i tanti “sfollati” venuti soprattutto da Palermo. Suonarono davvero “sirene e campane a martello [per annunciare] l’emergenza”? Noi non ricordiamo, francamente ci pare svolazzo poetico.  Non saremmo tanto propensi a vedere i siciliani celebrare una strana kermesse quella «dei servi che finalmente si liberano da un padrone ed un altro ne attendono che sperano più largo, più generoso, più stupido.» Non si attaglia a Racalmuto. Racalmuto fu sinceramente anche se in modo indolente fascista. La creme dirigenziale era in mano a galantuomini del primo liberalismo giolittiano e facevano più o meno bene i medici o gli insegnanti elementari. Ronzavano un po’ troppo i giovinastri venuti su dal basso, ma velleitari erano, dopo tutto innocui, note folkloristiche. Non abbiamo avuto martiri fascisti (e manco comunisti). Il fascismo a Racalmuto lo introdusse – sì, proprio così – Calogero Vizzini con don Ciccu Burruano, i figli di costui e Agostino Puma. Nacque da esigenze padronali: quelle dei conduttori di miniere associatisi in un sindacatino confindustriale per fronteggiare l’incipiente rivolta dei laboratori delle miniere. Calogero Vizzini non tardò, però, a subire l’onta della repressione del prefetto Mori, la cui sovrastima di sé ebbe a perderlo per diffidenza di Mussolini in persona. In quella caduta fu coinvolto il fascista della prima ora il tenentino Burruano, che per diventare colonnello, a tarda età, dovette aspettare la caduta del regime. Dopo, fu più che altro celebre per le sue suadenti doti di gran cerimoniere nei veglioni (promiscui) del Circolo Unione.
Diviene qui ancor più sapida la prosa mirabile di Sciascia. Dilettiamoci insieme a leggerla: «La mattina del dieci gli americani erano sulla costa tra Gela e Licata. Il paese in cui mi trovavo, e che era il mio, distava da Licata una cinquantina di chilometri: ma era compreso in una zona rimasta alle semplici operazioni di rastrellamento. Così gli americani non giunsero che una settimana dopo. Giungevano alla spicciolata i feriti di un reggimento di bersaglieri che, nel punto più vicino della costa, erano entrati in contatto isolato con gli americani. Non erano siciliani, ma in gran parte veneti. I siciliani non si erano fatti cogliere, sapevano dove andare, si sbandarono al primo urto: che era in realtà urto insostenibile e grottesco, se si pensa che si contava su fossi mal scavati e in gran fretta per arrestare i carri armati; e che soltanto un paio di aerei si videro timidamente sorvolare i margini della zona. Dunque i feriti giungevano: e finivano proprio là dove il regime in vent’anni non aveva speso una lira né sostenuto i muri poco saldi. Finivano nell’inutile e vuoto ospedale del paese dove un medico frettolosamente fasciava le loro ferite, ma in quanto a mangiare, proprio niente da fare.
 Non avevano niente le suore, niente sapeva che fare il podestà, ancor meno il segretario politico. C’era, sì, una colonia della Gil piena di buone cose e dotata di buone somme; ma via, proprio in quel momento, per dei solati che perdevano la guerra – mica si poteva perdere di vista il futuro, che era ben altrimenti nero che l’orbace.
     
 
Allora i giovani cercarono di rimediare alla meglio, quei pochi giovani del paese che ancora erano capaci di sentire qualcosa d buono [ …] Così i feriti poterono mangiare qualcosa, fino all’arrivo delle gallette e del corned beef americano.»
 
Riteniamo autobiografica l’ultima parte del nostro stralcio. Spiega bene come i commilitoni feriti a Racalmuto poterono aspettare, tutto sommato, la loro liberazione ‘americana’. Qualche chiosa: il podestà non c’era perché sotto le armi. Non si poteva destituirlo e così si pensò ad un Vice Podestà. So che fu fatta offerta ad uno zio di Sciascia: questi celestinianamente rifiutò. L’abbiamo scritto e tanto basta. La faccenda della Gioventù italiana del Littorio e soprattutto la faccenda delle buone cose e buone somme, ha purtroppo riscontri sgradevoli. Personaggi squallidi ebbero in mano quei beni e ne locupletarono. Nefasti prima, durante e dopo l’epoca fascista. Furono delatori fiscali e fecero impoverire certa brava gente su cui caddero strali tributari per inesistenti profitti di guerra. Di converso spalleggiarono quelli che i profitti di guerra li avevano davvero conseguiti. Comunque, figli e nipoti, dopo, condussero o conducono vita esemplare e i meriti dei figli ricadano sui loro immeritevoli padri. Cose che comunque potranno venire alla luce solo ad apertura degli archivi per la caduta dell’attuale riserbo settantennale. Quei baldi giovani qualche peso sulla coscienza dovevano sentirlo: parlavano ancora di patria, di onore, di dedizione e se ne stavano caldi e sicuri mente i loro coetanei o poco più che coetanei perdevano sì la guerra ma con tanto onore e ne uscivano anche malconci nel corpo quando non perdevano le loro giovani vite. Io sono tutt’altro che patriottardo ma onore al merito … ed alla verità storica.
Sciascia, quando scriveva, non poteva disporre di informazioni come quelle che qui ritraiamo da WIKIPEDIA. Se avesse saputo, prudente com’era, sarebbe stato più accorto e puntuale. Accordiamogli di  buon grado l’esimente della buonafede. Ma rileggiamo le note oggi disponibili in Internet.
Dopo una serie di bombardamenti dalle navi e di attacchi aerei la settima armata americana, comandata dal Generale Patton, sbarcò la 3ª Divisione fanteria comandata dal generale Truscott. Alle 2,45 della notte tra il 9 e il 10 luglio 1943 iniziò lo sbarco di 20 000 uomini a Licata, Spiaggia o Baia di Mollarella e Poliscia ore 2,57. Gli altri sbarchi avvennero a Gela, dove tremila paracadutisti furono lanciati nell'entroterra, e a Scoglitti, nel ragusano. In 24 ore 160 000 uomini furono sbarcati. Tra il 10 e l'11 luglio la divisione tedesca "Hermann Goering" e quella italiana "Livorno" contrattaccarono gli americani nella piana di Gela, dove fu combattuta una terribile battaglia: i contrattacchi dei "gruppi mobili" italiani, reparti di formazione motocorazzati costituiti ciascuno da circa 1.500-2.000 uomini, una dozzina di carri o semoventi ed una batteria d'artiglieria misero in seria crisi le posizioni alleate; significativa la carica dei circa 20-30 carri Renault R-35 di preda bellica del 131º Reggimento carri, che da soli attraversarono quasi tutta la testa di ponte americana mettendo, insieme ai vigorosi contrattacchi della "Livorno" (l'unica fra le divisioni italiane parzialmente motorizzata) e della "Hermann Goering", a serissimo rischio tutto il piano d'invasione della 5ª Armata USA; tutta l'operazione di sbarco fu salvata solo dall'imprevista efficacia del tiro navale, che si abbatteva inesorabile sugli italotedeschi. Anche gli assalti di un raccogliticcio ma coraggioso CCCCXXIX battaglione costiero, male armato, poco addestrato e addirittura deficiente nelle dotazioni di base (ad esempio, non tutti avevano scarpe, che si passavano a chi doveva fare i turni di guardia) furono così energici da arrestare l'impeto americano.
E qui riprendiamo il bello e puntuale ricordo di Sciascia:
«Gli americani ancora non venivano. Passarono due autocarri carichi di soldati tedeschi, bagnati di sudore e con le armi al piede, seduti per quattro avevano lo sguardo fisso in avanti, stanco ed allucinato. L’indomani a mezzogiorno passarono ancora due tedeschi con una automobile munita di radio. Fecero sentire il bollettino trasmesso da Roma che da più giorni non sentivamo; mangiarono tranquillamente, fumarono i loro sigari. Due ore dopo la loro partenza, cinque soldati col lungo fucile abbassato sbucarono improvvisamente nella piazza, indecisi. Videro, davanti una porta semiaperta, qualche uomo in divisa; e si mossero sicuri. I carabinieri si trovarono puntati addosso i fucili senza capire che gli americani erano finalmente arrivati. Le loro pistole penzolarono nelle mani di uno della pattuglia. Un applauso scoppiò. Una voce chiese sigarette; e il caporale americano tastò le tasche del brigadiere dei carabinieri, ne tirò un pacchetto di Africa e lo lanciò agli spettatori. Come in un salotto quando fiorisce una battuta di spirito, un senso di amenità si diffuse al gesto del caporale.»
Questa singolare sincronia tra due tedeschi, quasi pacifici, che se ne vanno e cinque americani che “sbucano improvvisamente nella piazza”, lascerebbe perplessi se non si sospettasse che tra invasori americani e tedeschi belligeranti intesa c’era. Qualcuno mi dice che per un certo tempo carri armati tedeschi bivaccarono sotto l’arco di Tulumello, mentre fanti in gran numero stazionavano ai bordi del Purgatorio, finché non giunsero autocarri a prelevarli. Subito dopo, come avvisati, arrivò la ronda americana liberatrice.
Soggiunge Sciascia: «La festa era cominciata. Da tutte le strade la popolazione affluiva. Non si sa come cannate di vino passate di mano in ano sorvolarono la folla, bicchieri si arrubinarono, pieni e grondanti venivano offerti con dolce violenza alla pattuglia che li rifiutava. L’inglese degli emigranti sciamava goffo e servile intorno a quei cinque uomini stupefatti: tutti coloro che in America avevano guadagnato quel po’ di denaro che in patria era divenuto casa o podere, erano corsi come ad un appuntamento felice. Una enorme bandiera di seta lacera, la bandiera degli Stati Uniti, fu tolta di mano a quel pover’uomo che l’aveva tirata fuori: passò saldamente nelle mani di un altro che per caso, proprio in quei giorni, aveva lasciato le carceri regie. Fu allora il momento di passare alle insegne della casa del fascio. Tirate giù, furono accompagnate a calci per tutte le strade: e l’indomani si trovarono galleggianti dentro un abbeveratoio. Sembravano di bronzo, ma in realtà erano di latta. »
Aggiunge sempre Sciascia: «La kermesse era al suo vertice. Camionette e carri blindati affluivano tra ali plaudenti di popolo. Alquanto nervoso, e nervosamente sorridendo, un soldato dalla faccia di meticcio puntava dall’alto di un carro, la mitragliatrice sulla folla. In cambio ne riceveva un sorriso cordiale riflesso su centinaia di facce, un ammicco di intesa: ‘vuoi scherzare, lo sappiamo, ma domani mangeremo tutte le buone cose che ti porti dietro, i biscotti salati e gli spaghetti in scatola’. Qualche sigaretta pioveva sulla generale letizia, e alla mischia che ne seguiva la macchina fotografica di qualche soldato scattava. »
«Nel frattempo – soggiunge Sciascia – un contadino che, vedendo in campagna spuntare una pattuglia di americani, tentava chissà perché di fuggire, veniva raggiunto ed ucciso da una scarica di mitra: ma la notizia non incrinò la generale allegria.»
 
A questo punto per Sciascia scatta il represso ricordo di ingiustizie patite. «..la danza di circostanza era in preparazione. Si chiamava il ballo delle spie. Le spie. Mentre il popolo si scatenava nella ebbrezza, il vecchio avvocato C. [e forse doveva dire B.], con mano tremante di gioia intestava una specie di supplica: ‘Onorevole Comando Militare Alleato di  …’ [intendeva dire di Canicattì?], e chiedeva la testa di una cinquantina di fascisti locali [noi pensiamo oltre duecento] che, da ex massone passato al fascismo, mai l’avevano tenuto nella dovuta considerazione. [Diciamo gli avevano fatto torto, o così pensava, lui]. Il segretario politico, il podestà [rectius, il vice podestà che quello era ancora lontano, sotto le armi], il maresciallo dei carabinieri  furono l’indomani prelevati: e loro notizie giunsero alle famiglie qualche mese dopo, da Orano.» Venenum in cauta, una stilettatina a Ballassaru Tinebra. Non molto tempo dopo, finito sotto i colpi di lupara in piena piazza, da Centoeddeci, disse il processo; innocente, invece, per Sciascia e per Tanu Savatteri. Sul debito di Sciascia per questo primo sindaco, imposto dagli americani, abbiamo già detto e non vogliamo ripeterci. Oltretutto potremmo avere torto.
Ci pare che qualche ripensamento Sciascia lo abbia avuto, prossimo alla morte, in Fuoco all’Anima. Parlando con Porzio, taluni ricordi di kermesse sembrano perduti, altri ne affiorano. Qualche rettifica ci pare di coglierla. Al lettore il confronto ed il giudizio.
 
Se ben leggiamo, come si vede la storia è ondivaga; dipende agli umori, dalle idee, dalle convinzioni, dalle età. C’è chi ricorda una ronda di tre americani che scendono dalla guardia, per San Giuliano, svoltando per via Fontana all’insù e chi è certo di una pattuglia di cinque militari che sbucano all’improvviso. E questo è solo un dettaglio. Chi è certo di occhi corruschi e di placidi sguardi di graduati tedeschi e chi presume avieri drogati delle Forze Alleate. Ma tanto collima e tanto basta per varare uno squarcio di storia racalmutese.
Noi licenziamo il nostro rincorrere i nostri ricordi infantili. Valgano per i nostri compaesani senza fisime letterarie, senza voglia di avere la certezza in tasca, senza assumere atteggiamenti censori, senza volere violentare chi la pensa diversamente. Soprattutto senza idolatrie preconcette e senza sarcasmi astiosi.
Per chi la storia la vuole come sta nella carta stampata (a dire il vero, oggi, prevale quella leggibile in Internet) forniamo una raccolta di appunti e contrappunti informatici.
 Chiediamo scusa per la noia che nolenti, ma incapaci, vi abbiamo arrecato.
Calogero Taverna

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