Archivio Centrale di Stato - Roma - "Commissione
Parlamentare d'inchiesta - 1875-76"
«Vi
è una lettera di Nalbone Francesco
di Racalmuto - rimessa al Prefetto di Girgenti e quindi non figutante agli atti
- contro il Sindaco di Racalmuto - cfr.
Fascicolo 5 - sf. 3 lettera N - n. 1»
«Fascicolo
11 sott. 8 -
[V. acclusa fotocopia]
[Cfr.
Fascicolo 66 per la trascrizione del resoconto stenografico]
[Archivio Centrale dello Stato - Giunta per l'inchiesta sulle condizioni
sociali ed economiche della Sicilia 1875, SCATOLA 7 FASCICOLO 5 - sf. 2
LETTERA "A" n. 15]
da
Racalmuto, 20 dicembre 1875 (anonimo)
«Illustrissimi Signori
Onorevoli
Componenti la Commissione
d'inchiesta parlamentare
Canicattì
«Illustrissimi
Signori,
«Racalmuto,
che in questi ultimi tempi dà lo spettacolo di un anormale stato, stava ansante
appettando una visita delle Signorie loro ill.mi per dare una forma di esistenza che fosse conforme a giustizia,
alla riparazione ed alla concordia secondo le promesse potenti inaugurate dal
nostro Augusto Sovrano .
«E
però l'allarme si rincrudelisce nel venire a conoscenza che le loro Signorie
hanno preso altra rotta, lasciando Racalmuto. S'addolora dippiù sentendo che ga
chiamato una Commissione scelta dal seno d'un partito che vuole a forza imporsi
con violenze, con prepotenze e con illegalità e ch'è in urto alle ispirazioni
pubbliche. L'ultima cronaca del paese è bastante delineata dalla stampa, che
per ultimo risultato pose al silenzio i nemici pubblici.
«Dei
reclami si sono presentati alle Autorità superiori della Provincia, senza
risultati. Signori Onorevoli! Racalmuto
per più versi non è paese che merita essere abbandonato! ...E' perciò pubblica
anzia [sic] di far sentire i proprii lamenti alla Commissione d'inchiesta Dalle
Signorie loro bene rappresentata; e si è sicuri che si convincerebbero che
sotto la vernice di un lusinghiero quadro, esistono piaghe cancerrose per
Racalmuto che solo la loro sennata Autorità potrebbe sanare.
«Si
chiede quindi che fossero chiamati cittadini di qualunque gradazione; meno fratelli Matrona, Cammillo Picataggi, Alfonso
Farrauto, Giuseppe Grillo Cavallaro, Carlo Lupi, fratelli Salvatore e Michiele
Mantia, Arciprete, Michiele Alaimo, Gioachino Savatteri, ed impiegati tutti
comunali, i quali hanno saputo collidersi e colludersi in più o in meno; e
formano i gaudenti dell'azienda Comunale.
«Con
ogni sicurezza allora le SS.LL.II. si potrebbero fare giusta es adequata [sic]
immagine delle condizioni attuali lacrimevoli del paese, per promuoversi gli
opportuni e giusti provvedimenti.
«Si
spera giustizia.
«Racalmuto
20 Dicembre 1875»
Nella
"Rubricella" contenuta
nella Scatola 7[Renato GRISPO-
L'Archivio della Giunta per l'inchiesta sulle condizioni sociali ed economiche
della Sicilia - Inventario - Cappelli Editore 1969 porta [5] - L'archivio usa questo testo per inventario, ma la
numerazione non corrisponde alle scatole] e che riguarda le
"petizioni", alla lettera N
risulta la seguente annotazione che ci porta se non all'autore, almeno
all'ispiratore delle precedenti lettere non firmate:
«
N.ro ordine
«Nalbone Francesco 1
"al prefetto di Girgenti"
e
nell' «Elenco dei Reclami e petizioni» [Stessa
scatola 7, stesso fascicolo 5, ma sottofascicolo 3, elenco ben diverso dalla
Rubrucella p.c.] vine meglio precisato come così di seguito:
1 Nalbone
Francesco di Racalmuto «Reclamo contro il Sindaco di Racalmuto»
* * * * * *
Archivio di Stato di
Agrigento
Da
Inventario n. 32
Conto di Racalmuto del 1878
presentato da Nalbone Luigi.
-----------------------
Fascicolo n. 403 (Inventario n. 32)
- Conti Racalmuto 1869-1887
«Conto entrata ed uscita
per l'esercizio 1886.
reso
dal Tesoriere Comunale Nalbone Giuseppe.»
-
Anno 1885
reso
dal Tesoriere Comunale Nalbone Giuseppe.
[Archivio Centrale dello Stato - Roma - Ministero Interno - Pubblica
Sicurezza (P.S.) - Busta 80 sf. C
1]
Archivio Centrale dello
Stato - Roma - Ministero Interno - Pubblica
Sicurezza (P.S.) 1925 - Busta 80 sf. C 1]
Espresso
del 30 luglio 1925.
«il
15 andante circa 120 operai della miniera di zolfo Terrana di racalmuto e
Grotte si astennero dal lavoro pretendendo l'aumento del salario in seguito
dell'avvenuto aumento del prezzo dello zolfo. Alle ore 9,30 dello stesso giorno
operai predetti recaronsi quello scalo ferroviario assistere passaggio On.
Farinacci, che fermatosi pochi minuti promise suo intervento favore operai
stessi. Però giorno 20 successivo tutti zolfatai bacino minerario Racalmuto e
Grotte, segno solidarietà e per analogo scopo si astennero pure lavoro. Di
seguito laboriose trattative .... fu raggiunto accordo sulla base ... dell'aumento del 10 % sui salari attuali
a decorrere dal 1° Agosto p.v. ..»
Testo
accordo:
«L'anno
1925 addì 28 luglio nell'Ufficio di P.S. di racalmuto alle ore 12.
«Sono presenti i sigg: Comm. Angelo Nalbone esercente miniera Cozzotondo, Cav. Rosario
Falzone esercente miniera Giona G. e P. Galleria, Mattina Salvatore di Gaetano
in rappresentanza degli esercenti della miniera Giona-Salinella N.°3-6; il cav.
Baldassare Terrana esercente della miniera Dammuso, il Cav. Vassallo Ernesto
esercente miniera Quattrofinaiti
Vassallo, il sig. Ricottone Giuseppe fu Giuseppe in rappresentanza per la
sua parte della miniera Gubellina
... e dall'altra parte il sig. Lo Sardo Giuseppe fu Nicolònella qualità
di presidente del locale Sindacato Fascista Zolfatai, Piazza Salvatore di
Salvatore nella qualità di Vice Presidente, il sig. La Mastra Giuseppe di
Nicolò nella qualità di Segretario, i sigg. Guastella Vincenzo fu Antonino,
Taibi Salvatore fu Giovanni, Mattina Giuseppe di Nicolò, Bartolotta
Michelangelo fu Raffaele, Arturo Gioacchino fu Gioacchino nella qualità di
consiglieri di detto Sindacato, i quali per non prolungare uno stato di cose
nocivo ai reciproci interessi e anche alla Economia Nazionale sono di pieno
accordo addivenenti mercè l'opera del locale funzionario di P.S. con l'ausilio
dell'Avv. Burruano Salvatore membro del Direttorio Provinciale fascista alle
seguenti convenzioni da avere vigore in tutte le forme di legge a datare dal 1°
Agosto 1925.
«Gli
esercenti tenuto conto presente l'ultimo listino del Consorzio zolfifero
siciliano n. 118 ove è segnato un aumento del prezzo di vendita in ragione di
L. 5 a quintale, concedono alle maestranze, che accettano, un aumento del 10%
sul prezzo base pagato sin oggi.
«Tale
aumento unito ai precedenti aumenti dell'8 e del 6 per centosommano un totale
del 24% sul prezzo base.
«[.......]
«I
rappresentanti delle maestranze si impegnano a fare riprendere il lavoro a
cominciare da domani 29 andante.»
Archivio Centrale dello
Stato - Roma - Ministero Interno - Pubblica Sicurezza
(P.S.) 1932 - Busta 41 sf. C 1]
30.6.1932
«29
corrente Racalmuto - Nalbone Luigi
proprietario esercente miniera Cozzotondo - per nota crisi industria zolfifera
- ha sospeso estrazione minerale lasciando disoccupati 74 operai Racalmuto -
Comandante Tenenza Ten. Lo Monaco.»
* * * * * * *
Da
una lista a stampa dell'Archivio di
Stato di Agrigento
«Lista della sezione elettorale di
Racalmuto.
«N.ro
d'ordine - Elettori Cognomi e nomi -
PATERNITA' - data nascita - titolo o qualità che gli
lista
lista conferisce
il diritto
com politica
elettorale commer-
mer comuna
le
ciia le
le
--------------
181 316
- Nalbone Giuseppe di Luigi - 28 marzo 1857 - negoziante di zolfo.
182 317
- Nalbone Angelo di Luigi - 2 giugno 1863
F.M. EMANUELI e
GAETANI - Della Sicilia Nobile - parte IV - Forni Editore
[Copia anastatica
dell'edizione Palermo 1759] - RAGALMUTO - [pag. 199 e ss. Parte II Libro IV]
Il
nome di RAGALMUTO vuol dire in
lingua Araba, cioè DISTRUTTO(i) MASSA - Sic. in Prospett. p. 2 C.E. f.282 -; e questo fa credere essere
stata fabbricata dai Saraceni su le rovine di qualche estinta Città. Ella è
Baronale con mero e misto imperio, luogo ottenendo tralle mediterranee della
Valle di Mazara [a) - ARETII, Liber de situ Sic. ex Bibliot., CARUSII t I f. 22
c. 2], ed ivi fra le piu' belle che abbondino di grano, e di ogni sorte di
biade. Fu di ragione di Ruberto MALCOVANAT Signore di Busacchino, il cui figlio
Guglielmo adorno videsi dell'eccelsa carica di Maestro Giustiziere del Regno
sotto il Conte Ruggieri, come notò Pirri nella sua Cron. de' Rè, f. 38, e nella
SIC.Sac. not. Montisreg. fog. 460 c. 2. e 461 c. 1., e la tenne pur anche la
Famiglia ABGRIGNANO, se diam fede a MINUTOLO - Mem. Prior. lib. 8, f. 273. Credesi
indi concessa dal Rè Ruggieri Normanno figlio del liberatore testé accennato ad
ABBO BARRESE in consuso con quelle Terre, che sotto l'aggettivo di pleraque
oppida per conto di esso Barrese numera FALZELLO nella sua Stor. di Sic. dec.
2. lib. 9. cap. 9 f. 184 avvegnachè sullo spirare del secolo decimoterzo stava
ella in potere di Giovanni BARRESE, il quale al riferire del Padre APRILE Cron.
Sic. f. 144 c. 1 fu il primo tra i Baroni del nostro Regno, che nelle guerre
fatte dall'armi dei Collegati Angioini in quest'Isola passasse al loro partito
col suo vassallaggio consistente nelle Terre di PIETRAPERZIA, NASO, RAGALMUTO, CAPO D'ORLANDO, E
MONTEMAURO, terra oggi disfatta, situata in quel monte, che si alza fra la
Città di Piazza e 'l MAZZARINO presso il fiume Braeme. Sicché dichiarato
fellone esso Giovanni, cadde Tal Baronia nelle mani del Reg. Fisco, da cui
l'ottennero i CHIARAMONTESI, possedendola primieramente Giovanni B. del Comiso, il quale per essa
prestò servigio militare sotto il Rè Federigo II, così costando dalla seguente
nota della Sic. Nob. di MUSCIA f. 23 D.
Joannes de Claramonte pro Casali
Comachi, quod emit a Beringario de LUBERA, PETRAMUSUNICHI, MUSARO, RACHALIANATO, S. JOANNIS, ET FABARIA
Quindi acquistandola successivamente FEDERIGO secondo di quedto nome, terzo genito di Federigo
primo Chiaramonte, e di Marchisia Prefolio, e fratello di Manfredo Conte di
Modica, e del chiarissimo Giovanni il Vecchio, l'accrebbe egli con la fabbrica di
una forte Rocca, o sia Castello, che quivi sin oggi si vede in piedi, siccome
ce 'l conferma Fazello dec. 1. lib. 10. cap. 3. fog. 468. Inveges nella sua Cartagine Siciliana lib. 2 cap. 6. f. 230. e Pirri Sic. Sac. not.
Agrig. fog. 758 c. 1 colle seguenti
parole; Propè Gruttas ad duo hinc p. m. RAYHALMUTUM Sarracenicum oppidum
occurrit: ub arx est a Federico Claramontano olim eius Domino erecta. Fu
sua mugliera Giovanna, siccome si legge nel testamento di esso Barone Federigo,
che vien citato quì sotto: Item eligo
meos fidecommissarios Dominum Bertoldum de Labro Episcopum Agrigentinum,
Dominam Joannam consortem meam etc.
ma di qual famiglia si fosse, a noi non palese. Da questa Dama nacque Costanza unica di lor figliola, che nel
1307, nobilmente si sposò ad Antonio del
Carretto Marchese di Savona, e del Finale [p.201] provieniente dalla Real
Famiglia del Carretto derivata da Aleramo figliolo di Vitichindo Secondo Duca di Sassonia, e
madre feconda di Pontefici di Porporati (a) [Ciacconio Vite de'Papi, e Cardinali ediz. Vaticana del 1630 t.2. f. 1376.], e
Principi Sovrani, come notò Crescenzi par. 1. narraz. 20. cap. I f. 568, Barone nel suo Anfit. Sic. Nob. lib. Proc. f. 5., e Sansovini Case Illustr. d'Italia ediz.
di Venezia del 1670 f. 317 e 319, celebrandosi tal maritaggio nella Città di
Girgenti per gli atti di Notar Bonsignor Tomasio Terrana di Girgenti a dì 11
settembre 1307, ratificato in Finale
l'istesso anno, come riferisce Barone ragionando di quella Casa Carretto nel
suo libro De Maiest. Panorm. lib. 3. c. 11. lit. C.,
l'istesso anche confermando il testamento testè cennato di esso Barone Federigo
fatto nel 1311. a 27. di Dicembre 10
Ind., e poscia pubblicato a 22. di Gennajo del 1313. negli atti di Notar Pietro
di Patti con tali parole: Item
instituo, facio, et ordino haeredem meam universalem in omnibus bonis meis
Contantiam fialiam meam, consortem nobilis Domini Antonini Marchionis Saonae,
et Domini Finari. Cui Dominae Contantiae haeredi meae, eius filios, et filias
in ipsa haereditae substituo; ita tamen, quod si forte, [quod absit] dicta
Domina Constantia absque liberis statim annos impleverit; quod ipsa haereditas
ad Dominum Manfridum Comitem Mohac, et Joannem de Claromonte milites fratres
meos, legitimè, et integrè revertatur. Venne essa Constanza per la
morte di Federigo suo padre ad esser Signora, e Padrona dell'opulenta di lui
eredità; e dal suo matrimonio nascendo Antonio
del CARRETTO primogenito, fece a lui libera, e graziosa donazione del
retaggio di questa Terra, come appare negli atti di Notar Ruggieri d'Anselmo in Finari a 30 . Agosto 12 Ind. 1344.
Rimase però Ella fra breve spazio d'anni Vedova del suo consorte Antonino, morto nella Città del Finale, e per ritrovarsi bella, nel fiore
della sua gioventù , e ricca, passò
quivi alle seconde nozze con Branca, altrimenti detto Brancalione
d'Auria (b) [Ansalone, de sua Fam. digress. ult. f. 256]
[PICONE lo confonde con un personaggio di DANTE - Inferno canto XXXIII] cioè DORIA,
Famiglia nobilissima di Genova, che nell'anno 1335. fu Governatore della
Sardegna. Riuscì cotal matrimonio fecondo di prole, generando essa 1. Manfredo, da cui discese Mazziotta,
2. Matteo, 3. Isabella moglie
di Bonifacio figlio di Federigo ALOGNA; da cui nacquero Ciancone, e Vinciguerra
ALAGONA. Se ne morì finalmente in
Girgenti , avendo prima fatto il suo testamento, pubblicato negli atti di Not. Giorlando di Domenico a 28. Marzo 5
Ind. 1350 [ma il 1350 è 3 e non 5 Ind. - Notizia che sembra tratta da
Inveges, v. Picone p. 480 nota 3], transuntato dopo in Catania ad istanza di Manfredo d'Auria di lui primogenito negli atti di Not. Filippo
Santasofia a 24. di Novembre 1. Indiz. 1361., nominando in quello molti
esecutori di sua volontà, e fidecommissari, cioè il Vescovo di girgenti, allora
Ottaviano di LABRO Palermitano [p. 202]
il suddetto Manfredo d'Auria suo
primogenito, ed il Priore del Convento di S. Domenico della Città di Girgenti.
E quì finalmente sepolta, essa venne nella Cappella di Federigo Chiaramonte suo
genitore, fabbricata nel convento testè cennato di S. Domenico. Fece molti e
pii legati, ordinando che si spedisse la fabbrica del suddetto Convento da suo
padre cominciata, come anche nella Chiesa del Monasterio delle monache di S,
Spirito di Girgenti, che si fabricasse una cappella, e sepoltura per la sua
madre Giovanna (a) [Inveges, Cartag. Sic. lib. 2 cap. 6 f. 228 e segg.]. Ammogliossi il riferito Antonio del CARRETTO e CHIARAMONTE figlio primogenito di essa
Costanza, come sopra accennai, con SALVASIA, di cui non si fa il cognome per
l'antichità dei secoli, e con essa diede i natali a GERARDO, il quale servito avendo il Rè MARTINO nel 1398. contro i
Baroni di lui ribelli in questo Regno, come dice SURITA Ann. Arag. par. 2 lib. 10 cap. 67 f. 429. c. 1 volle ritornare in
Genova a godere gli antichi suoi vassallaggi degl'incliti suoi predecessori, e
gli antichi domini della Città di Savona, e del Finale; sicché per far questo,
quasi obbligato videsi a far rinunzia del presente Stato di RAGALMUTO a MATTEO DEL CARRETTO suo fratello germano, accompagnato co' Feudi di
Sigliana, o sia Siculiana, Garriolo, e Concietto, ricevendo da lui a titolo di
prezzo fiorini 3250 negli atti di Notar
Antonio de ROSATA in Agosto 1399,
come dice INVEGES nel suo Palermo Nob. Famiglia del Carretto fog. 55 c. 1 e SAVASTA Caso di Sciacca
tratt. 2 cap. 14 fog. 42. Ciò non ostante voglio credere essere stato fatto
tale atto tra essi due fratelli in vim actus di divisione de' beni loro
paterni, e materni, e di atto finale di accordo piuttosto, che di vendizione,
avvegnaché esso MATTEO ottenuto avea prima l'invest. dello Stato di RAGALMUTO
per privilegio di Rè MARTINO data in Palermo a dì 4. Giugno 4. Ind. 1392 (b)
[R. CANCELL. lib. an. 1391. fog. 71], e per regie lettere di esso a 5.
Frebbraro di detto anno, nelle queli viene egli chiamato da esso Sovrano col
titolo di B. di RAGALMUTO, e con il trattamento, che più importa, di Marchese
di Savona (c) [PROT. an. 1392. Sign. lit. E. f. 95]. Ed in quest'anno appare altresì aver liberato esso stesso C. MATTEO la
Città di Palermo dalla tirannide de i CHIARAMONTANI, restituendola al real
Demanio coll'opera insieme di Francesco VALGUARNERA
giuniore B. del Godrano, e di Raimondo de Aptilia Pretore di essa città, come
dice BARONE nel suo lib. De Majest. Panorm. lib. 3 cap. 11. Fam. Valguarnera,
e del Carretto. Quindi è, che in
considerazione di tali servigi fu a lui data da esso Sovrano l'eccelsa carica
di Vicario Generale del regno, col'altra insieme di Camerlengo, e Maestro
Razionale, notandosi da Pirri CHRON. REGUM f. 81. tra i personaggi piu' grandi
della Città di Palermo, benemeriti di esso Rè Martino. Fu egli Signore delle
Terre di Siculiana, e Calatabia[203]no, come si legge in BARONE loc. cit., ed
in tutti i predetti Stati ebbe successore il figlio GIOVANNI, che di essi investissi jure haereditario nel 1401,
sotto li 5. Agosto 9. Indiz. per privilegio del summontovato rè Martino (a) [R. CANCELL. an. 1399. f. 177.
- MINUTOLO, Mem. Prior. lib. 9. f. 294 - BARONE, loc. cit.], scorgendosi per
essi ancora arruolato nel s ervizio militare de' Feudatari del regno, così
presso MUSCIA, Sic. Nob. f. 69. «D.
Joannes de CARRETTO pro Casali RAGALMUTI, et Feudis Columbuden, et mediate
Sigliane ..7...Aggiunge egli al retaggio paterno i Feudi di Cabacia, Rjava,
e Salamone, come appare sulla nota del detto real servizio f. 114 «D. Joannes de Carretto tenet feudum
Cabariae, annui redditus unciarum XXXX. Feuda Rayavae, et Salamuni unciarum
LXX». E da esso finalmente respirò vita il Barone FEDERIGO che investissi di questo Stato nell'anno 1453 (b) [R. CANC.
an. 1453. f. 565. - MINUTOLO loc. cit.], genitore rendendosi di GIOVANNI giuniore, da cui venne ERCOLE (c) [Vien rammentato da Don VINCENZO DI GIOVANNI nel suo PALERMO RISTOR.
lib. 4. f. 229. retr. nel famoso caso occorso tra i BONROSI con Paolo del Carretto
fratello del Summenzionato Ercole][v.pagg.296-297] e da questo altro
GIOVANNI, che col nome di terzo nei Baroni di RAGALMUTO prese sua
investitura per essa Baronia nel dì 31 Gennaro 7. Indiz. 1519 (d) [R. CANC. an.
1518. 7. Ind. f. 462 - MINUTOLO, loc, cit.]. Di questo Cavaliere, scrive BARONE
lib. cit, Fam. del Carretto, essere stato egli
onorato dall'Imperadore Carlo quinto quando fu un Palermo nel 1535. Con
atti di distintissima estimazione «hunc Carolus V Imperator, dice egli, cum
Panormum accessit miris affecit
honoribus, ut pote qui tum propria, tum avita nobilitate dignus, qui
susciperetur, quique inter Dynastas omnes precipuo honore habetur». Di esso
fu nobile prole GIROLAMO , che fu lo
stipite della presente investitura, come diremo appresso, e le due femmine MARIA e PORZIA; la prima delle quali si vede sepolta nella Chiesa del
Monastero di Santa Caterina di Palermo dentro un tumolo marmoreo adorno della
seguente iscrizione:
MARIAE de
CARRETTO Joannis Domini RAHALMUTI filiae antiquissina, et
praeclarissima
SAXONIAE Ducum stirpe, et quadam animi probitate
excellenti foeminae, quae annum aetatis agens septimum
se ad Divae
Catharinae
Coenobium religiosissimum aggregavit vixitqie singu-
lari
probitatis exemplo itaque anno 1566 Coenobii Antistita dele-
cta
familiam meliore vitae ratione informandam curavit, eiusdem
deinde
Coenobii Templo, quod condere inceperat absoluto, vitam omni
laude cumulatam explevit D. PORTIA de CARRETO uxor D.
Gasparis
de Barresio illustris vir carissimae sorori hoc amoris,
et doloris
monumentum posuit. Vixit annos 70. Antistita
annos 30. Obiit
anno
1598.
Scorgendosi la seconda cioè PORZIA testè avvisata dentro un altro tumolo, eretto nella
Cappella di Nostra Signora della Grazia della Chiesa de' Padri di S. Cita di Palermo
col seguente epitaffio:
Conditur hoc tumulo BARRESIS PORTIA, paris
CARRETTI illustris, candida progenies.
Vivit nobilitas, vivit post funera
virtus.
Sic moriens Coeli gaudia laeta subit.
Obiit anno 1607 mense Julii die 25.
Accanto di questo tumolo se ne vede un altro
appartanente ad essa casa CARRETTO, ove si legge:
CARRECTI genere et claro jacet orta
Beatrix
virtutum ardenti lumine splendior.
Vixit cara viro moriens, coeloque
recepta est,
Inde Beatricis nomen, et homen habet.
D. ARDENTIA ARCAN D. Betricis
CARRETTOS PHILADELPHI olim Baro-
nissae matri suae suavissemae tumulum
propriis expolitum la-
crymis moestissima
Succedono quindi
GIROLAMO nel retaggio di questo Stato dopo la morte di
Giovanni suo genitore, lo ridusse egli all'onor di Contea per provilegio del
serenissimo Rè Filippo Secondo, dato
nell'Escuriale di S. Lorenzo a dì 27.Giugno 1576 (a) [Pirri, Sic. Sacr. Agrig. f. 758, c. 1], esecutoriato in Palermo a 28
Giugno 1577 (b) [R. Cancell. ann. 1577. f. 476]. Fu pretore di Palermo nell'anno
1559 (a) [DI GIOVANNI, Palermo Ristor. lib. 4. f. 242 retr.], e Don Vincenzo Di
Giovanni nel suo PALERMO RISTORATO lib. 2 f. 138. giustamente l'annovera fra 'l
chiaro stuolo de' Padri della Patria mercé il lodevolissimo governo, ch'egli
fece, procacciato avendone gloria, ed ornamento. Presedette altresì la
Compagnia della Carità di essa Città di Palermo nel 1549., e adorno videsi di
distintissimi elogi fattigli da Rodolfo Imperatore con le sue Imperiali lettere
al Rè Filippo II. negli anni 1580 e 1598., rapportate per extensum da BARONE loc.
cit. lib. 3. c. 11 De Majest. Panormit.
- Da esso fu dato al mondo [p. 205] GIOVANNI
del CARRETTO, quarto di questo
nome. il quale fu il secondo C. di
RAGALMUTO, e Pretore di Palermo nel 1600. (a) [Lapidi Senatorie che si veggono a porta di VICARI, e porta di MACQUEDA]
di non minor merito di quello del genitore come vuole il citato DI GIOVANNI
nell'istesso luogo notato di sopra, avvegnachè fu egli dotato d tanta prudenza,
valore, ed abilità, che nella onorevol carriera di reggere gli affari pubblici
avanzò tutti gli altri cavalieri suoi pari, e magnati suoi contemporanei.
Quindi prevalse appo il detto di Macqueda
Vicerè di Sicilia, a segno tale che lo fece strategoto di Messina, qual
ufficio però non potè egli esercitare, per essere stato provveduto contro la
forma de' Privilegi de' Messinesi, che ammetteano solamente colui, il quale ne avea la real
patente. Trascelto videsi Governatore della Compagnia de' Bianchi di Palermo
negli anni 1597., 1601. e 1605., e fu Diputato del Regno nel 1600. Festeggiò
suo sposalizio con Margherita d'Aragona
Tagliavia e Marinis figlio di Giovanni
D'Aragona, e di Maria Marinis
della Favara, e D. di Terranova jugali (b) [PIRRI
Chron. Regum f. 22]; parto della
quale fu C.
GIROLAMO
del CARRETTO ed Aragona, chiamato
il giuniore (c) [BARONE, loc. cit.], da cui vide la prima luce
GIOVANNI quinto,
che fu il primo P. di VENTIMIGLIA (d) [Notisi, che il succennato GIOVANNI del
CARRETTO non fu Pretor di Palermo, e
Diputato del Regno nel 1600, come si disse per errore par. I lib. 1. f. 24.
tom. 1, ma bensì lo fu il lui avolo, cioè il quarto GIOVANNI secondo C. di
Ragalmuto, come sopra ho notato; percò tal luogo deve correggersi], come narrai
nel capitolo di detto Principato par. 2 lib. I. f. 74], ove si vede il
rimanente della genealogia di detti principi del CARRETTO e Conti di REGALMUTO,
sin tanto che estinti essi in PALERMO colla morte dell'ultimo Principe GIUSEPPE del CARRETTO e LANZA,
passando detta contea nelle mani della di lui vedova BRIGIDA SCHITTINI e GALLETTI, che jure crediti, delle sue doti aggiudicossela investendosene a 10.
Luglio 1716, se ne vede oggi investita sin dal 1747. del dì 16.Marzo la vivente
Principessa di Palagonia GRAVINA Maria
Gioachina GAETANI e BUGLIO, e C. di
Ragalmuto, la di cui invest. per detto Stato cadde a 7. Agosto 1735., e del
titolo di essa a 12. Aprile 1736.
PARTE
II. libro I - DELLA SICILIA NOBILE [VILLA
BIANCA]
VENTIMIGLIA - TERRA
BARONALE
[pag. 74] e vedesi nella Valle di Mazara col mero,
e misto Impero, che le fu concesso pe 'l suo governo a dì 3. Novembre 1632.
BEATRICE
VENTIMIGLIA figlia di Giovanni
Principe di Castelbuono. Prima P. ottenne il titolo dal Serenissimo Rè Filippo
IV, con suo real Privilegio dato a 7. Maggio 1627. esecutoriato a 31. Agosto di
detto anno. Si maritò Ella a GIOVANNI
del CARRETTO C. di Racalmuto, di già eletto Diputato del Regno, e Pretore
di palermo nel 1600, da cui trasse in figlio:
GIROLAMO
del CARRETTO e VENTIMIGLIA (e) [MONG. Bibliot. Sicul. tom. I f.
210] che successe in questo Stato pe 'l diritto della Principessa sua
madre. Questi fu l'infelice Conte di
Racalmuto, che negli ANNALI di
SICILIA del secolo 1649, lasciò di sé mesta memoria (a) [CARUSO, STORIA SICIL. par. 3 Vol. 2. lib. 5. f. 132]. I di lui sposalizi
celebraronsi con Beatrice BRANCIFORTE figlia di Giovanni figlio di Fabrizio P. di
Butera, e da essa ebbe
GIROLAMO
del CARRETTO e BRANCIFORTE,
investito a 15. Agosto 1656, Fu questi Maestro del Campo nella guerra di
Messina (b) [CARUSO, Stor. Sic. par. 3 Vol. 2 l. 5. f. 179] e sostenendo tale carica prese
il Casal di Soccorso, avendo difeso coraggiosamente SAMMICI da' Colli di
Valdina, ed impedì lo sbarco de' Franzesi presso Melazzo (c) [AURIA Cron. f. 211], onde poi insieme fu eletto Vicario Generale nella
Città di Noto, di Girgenti, Licata e Caltagirone (d) [TALAMANCA Enrico f. 171. Mongit.
Biblioteca Sic. Tom. I f. 210]. Fu
Pretore di Palermo nel 1682, Diputato di questo Regno, e gentiluomo di camera
del Ser.mo Rè Carlo II. pubblicato a 10. Agosto 1688 (e) [AURIA Cron. f. 211].
Sposo nelle prime sue nozze MELCHIORRA
LANZA e MONCADA figlia di LORENZO C. di Sommatino, e poscia ebbe in moglie
COSTANZA di AMATO ed AGLIATA, figlia di ANTONIO P. di GALATI. Dal primo suo
letto coniugale venne alla luce
GIUSEPPE
del CARRETTO e LANZA. Videsi
questo nell'onorato impiego di Capitano di Palermo nel 1698, e premorendo al
padre senza figli fece estinguere nella sua persona la Famiglia illustrissima
del CARRETTO de' Signori di SAVONA, che prendendo origine Reale, stimavasi una
delle più cospicue Prosapie di questo Regno (f) [Caso di Sciacca del SAVASTA
cap. 15. f. 43]. Fu sua moglie BRIGIDA
SCHITTINI e GALLETTI figlia di Gio: Battista primo M. di S. ELIA, la quale per il credito della
sua dote avvalorato da una sentenza proferita dalla R. G. Corte nel 1711.
pigliò possesso di questo Stato, e insieme di questo Titolo a 10. luglio 1716.
Venendo essa a morte succedette in questi feudi sua sorella OLIVA SCHITTINI e GALLETTI maritata a
Giacomo P. Lanza, il di cui figlio
ANTONINO LANZA
e SCHITTINI se ne investì a 26.
Agosto 1739. Questi vive attuale P. Ventimiglia, P. Lanza, B. dello Stato di
Calamigna, etc.
Leonardo SCIASCIA Le parrocchie di
Regalpetra - ed.
Laterza 1982 Bari U.L.
[pag. 15] Nella Chiesa del Carmine c'è un massiccio
sarcofago di granito, due pantere rincagnate che lo sostengono. Vi riposa
«l'Ill.mo don Girolamo del Carretto, conte di questa terra di Regalpetra, che
morì ucciso da un servo a casa sua, il 6 maggio 1622». [...] Girolamo, secondo di questo nome nella
famiglia dei conti di Regalpetra, è vestito alla spagnola: mantelletto di
broccato di seta, giubbetto verde a rabeschi d'argento, calzoni sbuffati al
ginocchio; senza calze, senza scarpe; alto quanto un eroe del West, il volto
quadrato in cui il naso piccolo e le labbra spiacevolmente sottili mettono una
nota di gelida perfidia, le mani fini leggermente artigliate, le unghie
perfette. L'imbalsamatore sapeva il suo mestiere. Vicino alla mano sinistra ha
un teschio della grandezza di un'arancia, di un bambino di pochi mesi; tra le
gambe un altro teschio poco più grande, di un suo bambino che le [16] le
cronache dicono morì incornato da una capra, alla quale per giuoco si era
avvicinato. Evidentemente, nel corso di tre secoli, c'è stato qualche parroco che
ha avuto un'idea di più immediato profitto sull'Ill.mo don Girolamo del
Carretto. Un ricercatore di memorie locali ci certifica di uno spadino con
impugnatura d'oro, di bottoni rivacati da pesanti monete d'oro, pure d'oro
l'astuccio che racchiudeva una pergamena. Non ci costa sforzo immaginare la
scena [...] il prete a lavorar di coltello per far
saltare i bottoni, a sfilare lo spadino, a togliere le scarpe a quel morto
[...] Il conte stava affacciato al balcone alto fra le due torri guardando le
povere case ammucchiate ai piedi del castello, quando il servo Antonio di Vita
«facendoglisi da presso, l'assassinò con un colpo d'arma da fuoco». [...] Donna
Beatrice , vedova del conte, perdonò al servo di Vita. [...] Della voracità di
don Girolamo del Carretto una anonima memoria testimoia - «Oltre alle
numerose tasse e donativi e imposizioni
feudali, che gravavano sui poveri vassalli di regalpetra, i suoi signori erano
soliti esigere, sin dal secolo XV, due tasse dette del terraggio e del terraggiolo
dagli abitanti delle campagne e dai borgesi. Questi balzelli i [17] del
Carretto solevano esigere non solo da coloro che seminavano terre nel loro
stato, benhè le possedessero come enfiteuti, e ne pagassero l'annuale censo, ma
anche da coloro che coltivassero terre non appartenenti alla contea, ma che
avessero loro abitazioni in Regalpetra. Ne avveniva dunque, che questi ultimi
ne dovevano pagare il censo, il terraggio e il terraggiolo a quel signore a cui
s'appartenevano le terre, ed inoltre il terraggio e il terraggiolo ai signori
del nostro comune... Già i borgesi di Regalpetra, forti nei loro diritti,
avevano intentata una lite contro quel signore feudale per ottenere
l'abolizione delle tasse arbitrarie. Il conte si adoperò presso alcuni di essi,
e finalmente si venne all'accordo, che i vassalli di regalpetra dovevano
pagargli scudi trentaquattromila, e sarebbero stati in perpetuo liberi da quei
balzelli. Per autorizzazione del regio Tribunale, si riunirono allora in
consiglio i borgesi di regalpetra, con facoltà di imporre al paese tutte le
tasse necessarie alla prelevazione di
quella ingente somma. Le tasse furono imposte, e ogni cosa andava per la buona
via. Ma, allorché i regalpetresi credevano redenta, pretio sanguinis, la loro libertà, ecco don Girolamo del Carretto
getta nella bilancia la spada di Brenno
... e trasgredendo ogni accordo, calpestando ogni promessa e giuramento,
continua ad esigere il terraggio e il
terraggiolo, e s'impadronisce inoltre di quelle nuove tasse». [v.
TINEBRA, p. 125- 126]
Ammazzato, da due sicari del barone di Sommatino,
morì anche il padre di Girolamo, uomo anch'esso vendicativo ed avido. Il primo
Girolamo fu invece, ad opinione del Di Giovanni, uomo di grandi meriti. Per lui
Filippo II datava dall'Escuriale di San Lorenzo, il 27 giugno del 1756, un
privilegio che elevava Regalpetra a contea. Ma sui meriti di Girolamo primo non
sappiamo molto: fu pretore di Palermo, e non credo dovuta a «bizzarra opinione
seu presuntione», come invece afferma il Paruta,[TINEBRA p. 118] la sollevazione
dei palermitani contro la sua autorità. Né mi pare sia da ascrivere a sua
gloria il fatto che per suo ordine, il giorno sedici del mese di marzo
dell'anno milleseicento, trentasette facchini abbiano sibita la pena della
frusta: notizia che senza commento offre il già ricordato erudito
regalpetrese.[TINEBRA, p. 118]
[...] [19] Nel 1645 della peste restava un ricordo
di castigo e di redenzione: Regalpetra contava case milleduecentotrentasei ed abitanti cinquemilacentosei. [RACALMUTO in
T. p. 200] Il terzo Girolamo, che era
andato a cacciarsi in una congiura contro la sovranità di don Filippo IV,
grazie ad un servo di nome Mercurio e al gesuita padre Spucces cui il servi
svelava la trama, moriva giustiziato a Palermo, in buona compagnia di nobili e di
giureconsulti; il figlio, quarto dello stesso nome, veniva investito della
signoria di Regalpetra il 15 agosto 1654; fu maestro di campo in guerra e
gentiluomo di camera di Carlo II. Con lui si estingueva la famiglia,
l'investitura passava ai marchesi di S. Elia, ancor oggi i borgesi di
regalpetra pagano il censo agli Eredi dei Sant'Elia: ma certo che fu grande
riforma quella che i Sant'Elia fecero centocinquantanni addietro, divisero il
feudo in lotti, stabilirono un censo non gravoso, la piccola proprietà nacque,
litigiosa e feroce; una lite per confini o trazzzere fa presto a passare dal
perito catastale a quello balistico, i borgesi hanno fame di terra come di
pane, ciascuno tenta [20] di mangiare la terra del vicino, come una talpa [...]
Da LA MORTE DELL'INQUISITORE [Pubblicato assieme alle Parrocchie di Regalpetra,
prima citato - p. 180]
Era signore di Racalmuto Girolomo II del Carretto,
uomo spietato ed avido: ed appena due mesi dopo, il 6 di maggio, un suo servo,
certo Antonio di Vita, lo avrebbe mandato agli inferi con una scoppettata. Pare
che ad incaricare il di Vita fosse stato il priore del convento degli
agostiniani riformati, in rivalsa di una somma di denaro che il conte era
riuscito a sottrargli. Secondo la tradizione locale il priore era riuscito a
raccogliere un bel mucchio di quattrini: e con la pia intenzione di ampliare il
convento e di abbellire l'annessa chiesa di S. Giuliano. Ma il del Carretto
riuscì a farsi consegnare il denaro. Come prova delle intenzioni del priore e
del rapace intervento del conte, il popolo indica le colonne che a lato del
vecchio convento cominciavano a sorgere, la fornace di calce poco lontana.
Che un fondo di verità sia in questa tradizione,
riteniamo confermato dall'epilogo stesso del racconto popolare, che dice il
servo di Vita averla fatta franca grazie a donna Beatrice, ventitreenne vedova
del conte: la quale non solo perdonò al di Vita, fermamente dicendo a chi
voleva fare vendetta che la morte del
servo non ritorna in vita il padrone, ma lo liberò e nascose. Ora
chiaramente traluce e arride, in questo epilogo, l'allusione a un conte del
Carretto cornuto e scoppettato: ma
questa viene ad essere una specie di causa secondaria della sua fine,
principale restando quella dell'odio del pretore. Insomma: se non ci fossero
stati elementi reali a indicare il priore degli agostiniani come mandante,
volentieri il popolo avrebbe mosso il racconto dalle corna del conte.
Il priore non era certo uno stinco di santo: ma
quel colpo di scoppetta il conte lo riceveva consacrato da un paese intero. Una
memoria della fine del '600 (oggi introvabile, ma trascritta in riassunto da
Nicolò Tinebra Martorana, autore di una buona storia del paese) dice della
vessatoria pressione fiscale esercitata dai del Carretto, e da don Girolamo II
in modo particolarmente crudele e brigantesco. Il terraggio e il terraggiolo, che
erano canoni e tasse enfiteutiche, venivano applicati con pesantezza ed
arbitrio: e non solo si esigevano da coloro che erano effettivamente enfiteuti
nella contea di racalmuto, ma anche da coloro che soltanto avevano
domicilio nella contea e avevano
enfiteusi fuori del territorio; e non dovevano essere pochi in questa
condizione. Per cui la fuga di contadini dai dominî dei del Carretto fu per
secoli continua, e in certi periodi addirittura massiccia: e i ripopolamenti
coatto o di franchigia non riuscivano a colmare dei tutto i vuoti lasciati dai
fuggitivi.
Il documento riassunto dal Tinebra dice che appunto
durante la signoria di Girolamo II i borgesi
di racalmuto, che già avevano mosso ricorso per l'abolizione delle tasse
arbitrarie, subirono gravissimo inganno: ché il conte simulò condiscendenza, si
disse disposto ad abolire quei balzelli per sempre; ma dietro versamento di una
grossa somma, esattamente trentaquattromila scudi. L'entità della somma, però,
a noi fa pensare che non si trattase di un riscatto da certe tasse, ma del
definitivo riscatto del comune dal dominio baronale; del passaggio da terra
baronale a terra demaniale, reale.
Per mettere insieme una tal somma, il Regio
Tribunale autorizzò una straordinaria autoimposizione di tasse: ma appena le
nuove e straordinarie tasse furono applicate, don Girolamo del Carretto
dichiarò che le considerava ordinarie e non in funzione del riscatto. I borgesi, naturalmente, ricorsero: ma la
dolorosa questione fu in un certo modo risolta a loro favore solo nel 1784,
durante il viceregno del Caracciolo.
Il priore degli agostiniani e il loro servo di Vita
fecero dunque vendetta per tutto un paese, quale che sia stato il pasticciaccio di cui, insieme al defunto
e a donna Beatrice, furono protagonisti. (Curiosa è la dicitura di una
pergamena posta, quasi certamente un anno dopo, nel sarcofago di granito in cui
fu trasferita la salma del conte: dà l'età di donna Beatrice, ventiquattro
anni, e tace su quella del conte. Vero è che non disponiamo dell'originale, ma
di una copia del 1705; ma non abbiamo ragione di dubitare della fedeltà della
trascrizione, dovuta al priore dei carmelitani Giuseppe Poma: e l'originale era
stata stilata dal suo predecessore Giovanni Ricci, che forse si permise di
tramandare allusivamente una piccola malignità.) [...]
Dall'anno 1622, in cui fra Diego nacque, al 1658,
in cui salì al rogo, i conti del Carretto passarono in rapida successione: Girolamo
II, Giovanni, V, Girolamo III, Girolamo IV. I del Carretto non avevano vita
lunga. E se il secondo Girolamo era morto per mano di un sicario (come del
resto anche il padre), il terzo moriva per mano del boia: colpevole di una
congiura che tendeva all'indipendenza della Sicilia. E non è da credere che si
fosse invischiato nella congiura per ragioni ideali: cognato del conte di
Mazzarino per averne sposato la sorella (anche questa di nome Beatrice),
vagheggiava di avere in famiglia il re di Sicilia. Ma l'Inquisizione vegliava,
vegliavano i gesuiti; e, a congiura scoperta, il conte ebbe l'ingenuità di
restarsene in Sicilia, fidando forse in amicizie e protezioni a corte e nel
Regno. Una congiura contro la corona di Spagna era però cosa ben più grave dei delittuosi
puntigli, delle inflessibili vendette cui i del carretto erano dediti. Giovanni
IV, per esempio, aveva fatto ammazzare un certo Gaspare La Cannita che,
appunto, temendo del conte, era venuto da Napoli a Palermo sulla parola del
duca d'Alba, viceré, che gli dava guarentigia. E' facile immaginare l'ira del
viceré contro il del Carretto: ma si infranse contro la protezione che il
Sant'Uffizio accordò al conte, suo familiare. (Questo stesso Giovanni IV
troviamo nella cronaca dello scoppio della polveriera del Castello a mare, 19
agosto 1593: stava a colazione con l'inquisitore Paramo, ché allora il
Sant'Uffizio aveva sede nel Castello a mare, quando avvenne lo scoppio. Ne
uscirono salvi, anche se il Paramo [Ludovico Paramo o de Paramo è l'autore di
quel libro che Voltaire infilza, alla voce Inquisizione,
nel Dizionario filosofico. «Luigi
[Ludovico] di Paramo, uno dei più rispettabili scrittori e dei più vivi
splendori del Sant'Uffizio... Questo Paramo era un uomo semplice, esattissimo
nelle date, che non ometteva nessun fatto interessante, e calcolava col massimo
scrupolo, il numero delle vittime umane che il Sant'Uffizio aveva immolato in
tutti i paesi.»] gravemento offeso. Vi perirono invece Antonio Veneziano e
Argisto Giuffredi, due dei più grandi ingegni del cinquecento siciliano, che si
trovavano in prigione.)
Della familiarità
dei del Carreto col Sant'Uffizio abbiamo altri esempi. Ma qui ci basta notare
che a Racalmuto, contro l'eretica pravità
e a strumento dei potenti, l'Inquisizione non doveva essere inattiva. [...] Appunto da documenti pubblicati dal
garufi sappiamo che a Racalmuto c'erano, nel 1575, otto familiari e un
commissario del Sant'Uffizio; e due anni dopo dieci familiari, un commissario e
un mastro notaro: su una popolazione di circa cinquemila (il Maggiore-Perno dà
5.279 abitanti nel 1570, 3.825 nel 1583: per quanto queste cifre siano da
accettare con cautela, si può senz'altro ritenere attendibile la flessione).
Vale a dire che il solo Sant'Uffizio aveva una forza quale oggi, con una popolazione
doppia, non tengono i carabinieri. Se poi aggiungiamo gli sbirri della corte
laicale e quelli della corte vicariale, e le spie, ad immaginare la vita di
questo nostro povero paese alla fine del secolo XVI lo sgomento ci prende.
[190] Di chiese e conventi a Racalmuto ce n'erano in abbondanza: e a Pietro
d'Asaro non mancava il da fare, in esecuzione di devote promissioni di borgesi e di legati testamentarî di
preti e usurai. Lasciando da parte le chiese, ecco un sommario elenco dei
conventi: dei benedettini, dei carmelitani, dei minori osservanti, dei
francescani conventuali, delle clarisse, dei riformati di sant'Agostino. In
quest'ultimo, esattamente denominato degli agostiniani di sant'Adriano o della
riforma centuripina, entrò (giovanissimo, è da presumere) Diego La Matina: non
sappiamo se per circostanze familiari o per calcolo o per vocazione.
L'ordine degli agostiniani di sant'Adriano fu
fondato nel 1579 da Andrea Guasto da Castrogiovanni: il quale, stabilita coi
primi compagni la professione della regola nella chiesa catanese di
Sant'Agostino, si trasferì in Centuripe, in luogo quasi allora deserto, e fabbricate anguste celle, pose i rudimenti di vita
eremitica, e propagolla in progresso per la Sicilia: notizia che dobbiamo a
Vito Amico [Dizionario topografico della
Sicilia di VITO
AMICO, a cura di G. Di Marzo,
Palermo 1859.], e non trova riscontro nelle enciclopedie cattoliche ed
ecclesiastiche che abbiamo consultato. Lo stesso Vito Amico dice che il
convento di Racalmuto fu dal pio monaco
Evodio Poliziense promosso e dal conte Girolamo del Carretto dotato nel 1628.
Evidente errore: ché nel 1628 il conte Girolamo era morto da sei anni. Più
esatto è il Pirro: S. Iuliani Agustiniani
Reformati de S. Adriano ab. an. 1614, rem promovente Hieronymo Comite, opera F.
Fuodij Polistensis [R. Pirro, Sicilia Sacra, libro terzo, Palermo
1641].
In quanto al pio
monaco Evodio Poliziense o Fuodio Polistense, si tratta senza dubbio alcuno
di quel priore cui dalla leggenda popolare è attribuito il mandato per l'assassinio
del conte Girolamo. Infatti il Tinebra Martorana, che non si era preoccupato di
consultare in proposito i testi del pirro e dell'Amico, cade in equivoco quando
dice che al priore di questo convento la
tradizione serba il nome di frate Odio, riferendosi con ogni probabilità
all'azione da lui commessa. Era semplicemente il nome, piuttosto peregrino,
di evodio o Fuodio che nel corso del tempo si era mutato in Odio.
EMANUELI GAETANI VILLABIANCA -
SICILIA NOBILE - LIB. IV - PARTE II - [PAG. 2- E 11]
M
O D I C A
....[PAG.
4] entrati che furono gli Aragonesi nel
governo di questo Regno, appare in tal tempo essere stato signore di questo
Stato Federigo MOSCA, quello stesso
che fu Governatore della Valle di Noto
sotto il Rè Pietro Primo d'Aragona, e con 600 soldati pose a ferro, e fuoco
gran numero di Franzesi nelle vicinanze di Reggio (d) [CARUSO, Storia di Sicilia par.
2. lib. I. f.19],[[I. PERI, La Sicilia
dopo il Vespro ... pag. 31: Federico
Mosca conte di Modica acquistava benemerenze in guerra. Nel novembre del 1282
passò in Calabria e conseguì buoni successi con una comitiva di 500 almogaveri
(le truppe a piedi che nel corso della guerra del Vespro prospettarono la
validità dei reimpiego della fanteria, che sarebbe salita a clamore europeo a
non lunga distanza di tempo sui fronti di Fiandra). A Federico sembra essere
succeduto nel titolo di conte di Modica il genero Manfredo Chiaramonte marito
della figlia Isabella.]] essendo
stato anch'egli uno de' quaranta Cavalieri, che associarono Rè Pietro al
famigerato duello di Bordeaux; così per fede del Dott. Placido CARAFFA nella
sua Modica Illustr. f. 70. «Inter quos - egli dice - Modicae Federicus Musca interfuit, qui Regem
Petrum ad monimachium provocatus est: Manfredus Musca fuit vir strenuus, et in
arte bellica magnus a consiliis, et semel a Petro missus, ut Scalaeam oppidum
reciperet.» Ma se sia stato costui discendente per linea retta da GUALTIERI
testè mentovata, o forse da altro modo comissionario di differente Famiglia io
non ardisco affermarlo. E' certo però, ch'egli fu l'ultimo Barone della
Prosapia Mosca, e da potere di lui, o al certo dalle mani del suo figlio
Manfredo, come scrivono alcuni, passò esso Stato in potere di Manfredo Chiaramonte, e de' suoi
successori, come si dirà appresso, negnendogli conceduto dal Ser.mo Rè
Federigo, con titolo di Contea in considerazione de' suoi segnalati servizi non
meno, che per esser marito d'Isabella Mosca figlia di Federigo, e sorella di
Manfredi sopravvisato, che secondo vogliono i detti Autori, fu dichiarato
ribelle, e spogliato di essa Contea dal succennato Sovrano, per avere egli
seguitato le parti del Rè Giacomo di Aragona di lui fratello (a) [Vedensi le Allegazioni del Dottor don Emanuele lo Giudice fog. 8. e 96. fatte
a favore del Principe della Riccia
per l'esecuzione della Chiaramontana reintegrazione stampate in Palermo 1755.
f. 96]
Biblioteca del MONGITORE
pag.
211 - Vol I -
Fridericus
de CARRETTO Agrigentinus historicus, qui circa annum 1516. claruit.
Scrpsit historicam narrationem inscriptam : Expulsio Ugonis de Moncada Siciliae
Proregis. Plurimorum manibus tuitur m. s. Panormi, cuius exemplar extat apud
me: et ne eius memoria temporis lapsu pereat, hic adnotate opere pretium duxi.
Storia di Sicilia di Gio.
Battista CARUSO
PUBBLICATA
CON LA CONTINUAZIONE SINO AL PRESENTE SECOLO PER CURA DI Gioacchino di MARZO Palermo 1878 - Vol. IV
Memorie istoriche di quanto è accaduto
in Sicilia dal tempo dei suoi primi abitatori sino alla coronazione del Re
Vittorio Amedeo raccolte dai più celebri scrittori antichi e moderni da G. B.
CARUSO.
.....parte
terza - libro XIII - p. 72 ... Poco abbondante era stato nell'anno 1646 il
raccolto de' grani in Sicilia....
[p.
78] In Girgenti ancora si rivoltò la plebe contro il proprio prelato incolpato
d'avarizia e di voler profittare della penuria comune per vendere a carissimo
prezzo il grano conservato ne' suoi magazzini. Fu appiccato il fuoco alla
poprta del palazzo vescovile; vi fu dato il sacco con perdita di circa 40.000
scudi, e fu obbligato finalmente il vescovo a ritirarsi fuggitivo fuor della
sua cattadrale nella città di Termini.
[p.
107] ... Ridotta così alla pristina quiete la capitale del regno, commise il
cardinale vicerè al marchese D. Giuseppe Montaperto la cura di sedare i torbidi,
che regnavano nella città fi Girgenti. Onde portatosi colà il marchese,
assistito da grosso numero di vassalli delle vicine sue terre di raffadali e di
Monteaperto, si assicurò di Barcellino, di Filippo Micciché e de' due fratelli
Migliorini, ch'erano i più facinorosi ed i capi de' tumultuanti, e condannatili
alle forche, ridusse in breve con molta sua lode quella città e la vicina
comarca a perfetta quiete.
LIBRO
XIV [p. 116] - Rappresentava il Giudice a costoro, che l'accennato conte del
Mazzarino (il quale avea nome D. Giuseppe Branciforte), essendo indibitato
successore del principato di Butera, che godeva la prerogativa di primo titolo
del regno e di capo del braccio
militare, potea con l'appoggio de' suoi parenti e de' suoi amici aspirare ad
essere riconosciuto per principe di tutto il regno, e così li persuase
facilmente a scuoter dal collo il giogo straniero in tempo, che, mancata la
legittima successione degli Austriaci di Spagna, e minorata di forza e di
autorità la monarchia spagnuola, poteano i Siciliani ristabilire l'antica
gloria della nazione, e godere come prima un re proprio ed interessato al
comune vantaggio.
Di
tali false lusinghe ingannati gli accennati nobili, e più di ogni altro il
conte di Mazzarino, si unirono al consiglio degli avvocati e pensarono davvero
all'elezione di un nuovo principe nazionale [tutto ciò per la falsa notizia
della morte di re Filippo IV]. Al contempo di due avvocati Giudice e Pesce
tramavano [p. 117] in favore del duca di Montalto, personaggio di maggiore importanza
e che con più simulazione aspirava al
principato. Seppe gli da D. Pietro Opezzinghi, suo confidente, i dubbi promossi
per la successione al regno di Sicilia
... Introdottone dunque col mezzo dell'istesso Opezzinghi il trattato co' due
avvocati e con gli altri lor confidenti, e molto cooperandosi a tal disegno il
celebre D. Simone Rao e Requesens, cavaliere, che alla nobiltà della nascita
accoppiava una sopraffina politica e grandissima destrezza nel maneggiare gli
affari, avvalorossi una tal pratica a segno tale, che si vide in breve
accresciuto il numero de' congiurarti con persone di prima qualità, fra le
quali il conte di RAGALMUTO, cognato
di quel del Mazzarino, D. Giuseppe Ventimiglia, fratello del principe di
Geraci, l'abbate D. Giovanni Gaetani, fratello del principe del Cassaro, D.
Giuseppe Requesens, fratello del Principe del Cassaro, D. Giuseppe Requesens,
fratello del principe di Pantelleria. D. Ferdinando Afflitto, de' principi di
Belmonte, D. Pietro Filingeri, fratello del marchese di Lucca, e molti altri.
[p.118]
Certo però si è, che, ito egli [il conte di Mazzarino] a trovare il padre
SPUCCES, uomo de' più stimati allora fra' Gesuiti, e confidatogli tutto il
trattato, lo richiese di consiglio e di aiuto.
[p.
118] rispedito il MERELLI [genovese e spia] in Palermo con un ordine [da parte
del vicerè Don Giovanni] al capitano di giustizia, che era allora don Mariano
Leofante, ed al pretore della città D. Vincenzo Landolina, di assicurarsi prima
di ogni altro degli avvocati. Il che riuscito ... servì ai congiurati di porsi
in salvo [e cioè] l'Opezzinghi, l'Afflitto, il Filingeri ed il Requesens ...
prima che don Giovanni d'Austria colà venisse; il che fu a' 12 di novembre
dell'intero anno 1649. Uscì ancor fuori dell'isola il conte di Mazzarino per
sua maggior sicurezza.... e ben potea fare l'istesso il conte di RAGALMUTO suo cognato. temendo però egli d'incolparsi
maggiormente con la fuga, lusingossi di non venir nominato come complice da'
due avvocati e dall'abbate Gaetano, caduti nelle mani de' regi. Mentre però il
Vicerè era ancora a Messina, confessarono il Gaetani ed il Giudice tutto ciò,
che sapevano dell'accennata consulta; ed ancorché il Pesce ed insieme il
procurator Potomia negassero costantemente avervi avuto parte, furono tutti condannati
alla morte. Allora il Giudice, che di tanto male si conosceva la prima cagione,
dettò in difesa de' compagni una sì eloquente orazione, che dal Ronchiglio
consultore del vicerè venne onorato l'infelice suo autore col titolo di Tullio
Siciliano.
Né meno
dell'eloquenza del Giudice fu ammirata l'intrepidezza e la costanza del Pesce, il quale pria di morire scrisse alla
madre una moralissima lettera. Giustiziati costoro, fu ancor maggiore la
discussione del processo del conte di
Ragalmuto, e nella corte la compassione. Corse anche voce, che fosse a lui
facilitata dal vicerè stesso la fuga, per non macchiarsi le mani nel sangue di
un s^ nobile e principalissimo barone: ma non ostando a ciò il segretario
Leiva, gli fu concessa almeno la scelta della morte. Contentatosi intanto il
vicerè D. Giovanni del castigo di costoro, fu imposto silenzio alle accuse
contro gli altri, de' quali il numero era assai grande, e principalmente contro
il duca di Montalto, a cui la grandezza della casa, la quantità de' parenti, il
numero de' vassalli ed il pericolo di suscitare nuovi torbidi servirono, per
così dire, di scudo.
[p.
112] feste a Palermo. terminò fra queste allegrezze l'anno 1652, nel quale
pubblicò il pontefice innocenzo allora regnante una bolla in cui sopprimeva in
Italia e nella Sicilia i conventi, che alimentar non potessero più di sei regolari, rimettendo
la disposizione delle lor rendite all'arbitrio de' vescovi per impiegarle ad
altre opere pie.
[p.
123] ... Consideravano però altri tale soppressione, giacché stimando
necessario all'istruzione de' popoli e degli esercizi di pietà il mantenere
queste picciole comunità nelle terre, ov'erano state fondate, ed opponendosi
all'accennata soppressione i baroni, con il cui aiuto e per di essi fondazione
erano stati eretti i conventi nelle lor terre, ne fu a loro istanza sospesa dal
vicerè l'esecuzione della bolla Innocenziana, lasciando le cose nell'antico
stato e nel piede di prima.
Eugenio Napoleone Messana - Racalmuto nella storia della Sicilia - Atec -
Canicattì - Giugno 1969
I Del
Carretto fino al ritorno in fedeltà alla corona[pag. 77]
A Racalmuto
le cose andavano bene, la popolazione cresceva, sempre attorno al castello.
Vista insufficiente la cappella del Palazzo che nei primi tempi dopo il 1355 fu
aperta al culto dei pochi superstiti alla calamità, si costruì la chiesa
dedicata a S. Antonio Abate, eletto patrono del paese, alla periferia del nuovo
centro abitato, verso l'odierno cortile Manzoni. Intanto gli anni passavano, e
al barone Antonio Del Carretto erano succeduti i figli Gerardo e Matteo. La
baronia di Racalmuto con altri possedimenti era toccata a Matteo, a
Gerardo invece Siculiana col resto dei
feudi. I due germani non rimasero estranei agli avvenimenti politico militari
del regno. Essi seguirono, come aveva fatto il padre, i loro parenti, i
Chiaramonti, anche perché questi avanzavano rivendicazioni sulla baronia, tutte
le volte che non vedevano i Del Carretto al loro fianco con entusiasmo e
dedizione. Negli anni di grazia tra il 1374 ed il 1377 in più luoghi storici
infatti Racalmuto è annoverata fra i beni chiaramontani [Ad esempio si riporta:
V. D'Alessandro op. cit. «Nel 1377 nelle mani di Manfredi Chiaramonti si
accumularono i beni dell'antico casato e precisamente; Caccamo, Modica, Ragusa,
Scicli, Spaccaforno, Adogrillo, Terranova, Licata, Montechiaro, Misilmeri,
Mussomeli, Naro, Delia, Camastra, Castronovo, Bivona, S. Stefano, Gibellina,
Favara, Sutera, Racalmuto, Guastanella, Muxaro, Prizzi, Adrano, Cefalù,
Calatrasi, Capobianco, Misilindini, Pietra D'Amico, Camerana, Pietra Rossa».] E' chiaro che i Del Carretto erano i signori di
racalmuto negli affari interni, ma tanto legati e dipendenti dai Chiaramonti
che all'esterno apparivano come valvassori dei potentissimi parenti. Gerardo e
Matteo, alla caduta di andrea Chiaramonti, che avevano seguito nell'assedio di
Palermo, riuscirono a sfuggire all'ira di Martino e ricoverarono all'interno. L'11 luglio 1393 Enrico
Chiaramonte, successo ad Andrea, da Gaeta sbarcò in Sicilia ed occupò Palermo.
I Martini, non potendo da soli continuare la guerra contro i siciliani
ribelli ed ostili, chiesero ed ottennero aiuto al re Giovanni di aragona. I
rinforzi giunti, invece di puntare su Palermo, si diressero a Catania marciando
verso Enna. I due Del Carretto fecero parte dei resistenti, ma quando videro
che i nobili facilmente si piegavano a Martino accettando donazioni di terre,
sdegnati rientrarono a Palermo. Enrico li accolse a braccia aperte. Intanto lo
stato delle cose della capitale era alquanto critico. Il Chiaramonti, tutto
preso ad organizzare la vendetta, vessava il popolo. La società palermitana,
per i motivi che innanzi vedremo, si era cambiata. L'artigianato e le
maestranze numerosissime erano sempre più riottose alla forza del nobile.
I Del Carretto intuirono l'impossibilità di
riuscita di Enrico Chiaramonti e si associarono a Francesco Valguarnera junior,
barone di Godrano e Raimondo de Aptilia, pretore di Palermo, i quali tentavano
di organizzare la riscossa della città dal gioco chiaramontano per venire a
patti onorati con la corona. Re Martino, avuto sentore di ciò il 18 marzo del
1395, fece grazia a Matteo Del Carretto [B.C.P. Diplomi ms. F. 234 doc. del 18
marzo 1395]
La pressione popolare capitanata dai Del Carretto,
dal Valguarnera e dallo Aptilia riuscì ad isolare il Chiaramonti,
costringendolo a ritirarsi nel suo palazzo, lo Steri, sotto presidio. Un
consiglio di reggenza prese le redini della città e mirava a proclamare il
libero comune. La corona che aveva incoraggiato l'azione dei palermitani, si
rifiutò di venire a patti per non compromettere impegni di concessione, di
compensi ai nobili passati in fedeltà e per evitare che prendesse piede il
potere oligarchico e borghese. I Del Carretto ritornarono all'opposizione e
furono di nuovo dichiarati ribelli.
Intanto i Martini avevano avuto ragione, la Sicilia
poco a poco era stata ridotta all'obbedienza. I baroni ad uno ad uno si erano
arresi, i Del Carretto resistevano offesi per il mancato impegno della corona.
Matteo, intanto, vistosi isolato, ritornò in fedelta e martino il 15 novembre
1396 da Siracusa emise i Capitoli [A.S. P. Protonotaro 4, f, 30 V.: «Item peti,
chi a Messer Matteu di lu Carrettu sia fatta plinaria rimissioni, et de novu
confirmationi assè et suoi eredi, di tuttu lu sou, tantu castelli quanta feghi,
quanto burginsatici, li quali foru e sù di raciuni, et chi li sia cunfirmatu lo
uffiziu di lu mastru raziunali, lu quali per serenissun dictu re li fu donatu
et concessu, et lu iustiziariato di lu valli di Girgenti». Poiché questo
ufficio in Girgenti non era stato ancora istituito nel documento c'è aggiunto:
«Placet providere de ufficio iustitiariatus, cum fuerit ordinatus».
[[Pedissequa copia dal Tinebra, p. 95, meno dati del documento: in Tinebra si
cita GREGORIO - op. cit. pag. 413. Diploma anni 1396 in archivio proton. regest. annorum 1394 e 1396, f.
34. ]] ] , coi quali gli confermava la signoria di Racalmuto e tutti i beni e
gli uffici che aveva goduto.
Matteo del Carretto fu l'ultomo barone siciliano ad
arrendersi appena 18 giorni prima della partenza di martino il vecchio per la
Spagna, avvenuta il 3 dicembre 1396. gerardo non si sentì di arrendersi, nè di
vivere più in Sicilia considerato sempre ribelle, nel 1399 cedette tutti i suoi
averi al fratello, fra cui i fondi di Siculiana, Garriolo e Concetti per 3250
fiorini e si ritirò a Genova.
MUGNOS
FILADELFIO - Teatro Genologico delle famiglie de Regni di Sicilia ultra e
citra.
Ristampa
dell'edizione di Palermo 1747 - 1670 - Arnaldo Forni editore.
pag. 14 libro
I (v. pagg. 14. 52. 142. 155. 237)
Alfonso
Accascina ... fu giurato nel 1560 insieme con Francesco Maria Perdicaro,
gerardo d'Afflitto, Luca Cagio, e Francesco di Gioganni, ed Andreotta Abbate, e
remediò egli con molta destrezza le revolte di Notar Cataldo nelle quali era
restato ferito D. Girolamo del Carretto Baron di Ragalmuto ch'era all'hora
Pretore.
pag.
142 - Lauria Bologna Beccadelli che fu prima moglie di Giovanni di Bologna, e
dopo di Pietro del carretto Baron di Racalmuto.
pag.
237-240 - CARRETTO
La
famiglia ... prese ella origine da
Victechindo Rè di Sassonia, che fiorì nel 785, colui fu fatto christiano
dall'imperador Carlo Magno.
.. a
ad Antonio il consorzio del Finale.
Dalla
quale paterna divisione poco contenti Corrado ed Henrico ricorsero
aal'Imperador Carli IV contra Antonio loro fratello, e si fecero investire del
Finale, peroche il predetto Antonio renuntiò le sue ragioni alla Signoria di
Genova che per forza d0arme s'occupò quel Stato, dando ad Antonio grossa somma
di moneta contro delle ragioni cesse, ciò la quale egli se ne passò in Sicilia,
ove si casò con Costanza Chiaramonte con la dote di Calatabiano, e Siculiana,
ed hebbe per dotazione il Contado di Ragalmuto; costei fu figlia di Federico,
Signor di Ragalmuto, fratello del Conte Manfredo di Modica.
Successe
ad Antonio suo figlio Antonino, e a costui Matteo figlio primogenito, e
Gerardo, che renu8nziò la sua attione, c'haveva ... lo Stato di Ragalmuto con
fratello Matteo, ed egli n'hebbe tutti i beni, che possedevano in Genova, per
lo che lui se ne passò, e piantò insieme la sua famiglia.
Matteo
restò solamente con lo Stato di Ragalmuto; perchè in quei di Calatabiano, e
Siculiana, successero i primi fligli8, che ella haveva avuto dal primo
matrimonio. Procreò Matteo, Federico, e Giovanni, al predetto Giovanni successe
don Hercole primogenito e don Paulo figlio anche del predetto Giovanni seguì in
altro beni.
Ne
nacque da don Hercole don Giovanni, che procreò il II don Girolamo, dal quale
anche ne nacquero don Giovanni, don Aleramo, e don Gioseffo.
Don
Giovanni successe nel contado di Ragalmuto, e don Aleramo acquistò la contea di
Gagliano, per il matrimonio ch'ei fece con la famiglia Galletti.
Dal
predetto don Giovanni ne nacqu8e don Girolamo, padre del vivente [1647 ? data
del primo volume dl Mugnos, n.d.r.]
don Givanni conte di Ragalmuto.
Furono
promossi i Signori di questa famiglia nei maggiori carichi del Regno, e
particolar5mente in quello di Pretpre della città di Palermo, peroche don
Girolamo Baron di Ragalmuto fu pretore nel 15560, similmente don Aleramo conte
di Gagliano nel 1596, e 1604, don Giovanni conte di Ragalmuto nel 1600.
[Richiami
bibliografici su Racalmuto:
-
GRAVINA F. - Suppl. al Blasone in Sicilia.
-
AMICO - Lessico topografico siculo, tomo
2° presso la Lucchesiana di Girgenti;
- DI
BLASI - STORIA DI SICILIA
-
MINUTOLO - CRONACA DEI RE - [Per Martorana, pag. 56, «il gram re Ruggiero,
concesse la baronia di Racalmuto alla nobilissima famiglia degli Abrignano e da
questa passò ai Barresi. Degli Abrignano però non è sicura notizia e di certo,
se essi governarono Racalmuto, fu per breve tempo, perchè molti cronisti non ne
fanno alcun cenno. I Malconvenant dunque tennero la signoria di Racalmuto
dall'anno 1087 al 1130.]
-
GREGORIO - OP. CIT. DIPLOMA ANNI 1396 IN ARCHIVIO PROTON. REGEST. ANNORUM 1394 e 1396. F, 34.
-
SCIASCIA ANTONINO - Cenno critico su un
progetto di riforme del cavaliere Neighebaur nel sistema ipotecario francese.
Palermo, stamperia Francesco Lao, 1846.
-
SAMPOLO - Contributo alla Storia della R. Università di Palermo.
-
MINUTOLO - Memor. Prior. Messan. - lib. 8
- [da
Amico - Dalle quali cose si avverte non procedere quel che Francesco Emanuele
notò da Muscia, avere cioè posseduto Racalmuto Giovanni di Chiaramonte, essendo
che soggetti nello stesso tempo giusta lo stesso Muscia gli eredi di
Brancaleone per Racalmuto, leggesi Giovanni tenuto alla curia per Racalianoto.
Il regesto del re Federico rammenta gli eredi del fu Brancaleone de Aurea, e
venne compilato, come altrove mostrai, dopo l'anno 1320.
- Pirri,
CARAFA, MAUROLICO, FAZELLO, AREZIO, BRIEZIO,
- GUGLIELMO CAVALLO - VERA VON
FALKENHAUSEN - RAFFAELLA FARIOLI CAMPANATI - MARCELLO GIGANTE - VALENTINO PACE
- FRANCO PANVINI ROSATI
I
BIZANTINI IN ITALIA
GARZANTI - SCHEIWILLER 1982
L'Esarcato in Italia (VI - VIII secolo)
Limpero romano
d'occidente cadde senza rumore nel 476. Allora Odoacre, condottiero barbaro
d'origine scira, depose il giovane ed insignificante imperatore Romolo
Augustolo.
La riconquista
dell'impero romano [da parte di Bisanzio] annenne nel 535 con lo sbarco di
Belisario in Sicilia.
Finita la guerra [539], la restaurazione del
dominio bizantino in Italia fi affidata a Narsete. Soltanto la Sicilia,
considerata proprietà privata dellimperatore, ersa esclusa dalla sua
competenza. Ancora nel 537 l'isola era sotto posta per quanto riguardava la
giurisdizione civile e le competenze fiscali a un praetor responsabile non di
fronte al praefectus praetorio d'Italia, ma al quaestor sacri palatii di
Costantinopoli, mentre il comando militare era affidato ad un dux sottoposto
anch'egli a un superiore costantinopolitano, il magister militum per Orientem.
[pag. 6/7 - v. anche L. CRACCO RUGGINI,
La Sicilia fra Roma e Bisanzio, in Storia della Sicilia III, Napoli 1980, pp.22.23]
Dalla caduta dell'esarcato [751 da parte di
Astolfo], l'impero bizantino fu rappresentato in italia dallo stratego di
Sicilia.... fino alla conquista araba.
R.
SPAHR, Le monete siciliane dai Bizantini a Carlo d'ANGIò (582.1282, zURICH-
gRAZ 1976, PP.102 SS.
A.
GUILLOU, L'habitat nell'Italia bizantina: esarcato Sicilia, catepanato (VI-IX
secolo), in ACIAM [ATTI DEL CONGRESSO
NAZIONALE DI ARCHEOLOGIA MEDIEVALE] 1974, Palermorist. in Guillou, Culture et
société
I CONVENTI DI RACALMUTO NEL ‘500
CENNI INTRODUTTIVI
Non crediamo che vi siano stati conventi a Racalmuto nei primi
quarant’anni del ‘500: solo attorno al 1545 è di sicuro operante il convento di
S. Francesco, ove erano insediati i padri francescani dell’Ordine dei Minori
Conventuali. In certi documenti vescovili che riguardano il sac. don Lisi
Provenzano abbiamo rinvenuto elementi tali da suffragare questa antica
datazione del convento. L’altro cenobio che appare alla fine del secolo, quello
dei carmelitani, sorge all’incirca verso il 1575 se diamo credito alla lapide
dell’avello del primo priore padre Paolo Fanara, quale ancora si legge nella
chiesa del Carmelo (la chiesa sembra invece essere esistita già dal tempo della
visita del Tagliavia nel 1540 ed è citata nel testamento del barone Giovanni
del Carretto).
Giovan Luca Barberi parla di un convento benedettino
presso Racalmuto, ma gli ereduti locali negli ultimi tempi sono propensi a
ritenere che il chiostro fosse quello di S. Benedetto, in territorio di Favara.
Quanto all’altro convento francescano, quello dei Minori
di Regolare Osservanza, esso, seppure se ne parla già nel 1598, inizia la sua
attività nei primi anni del ‘600.
Per tutto il Cinquecento non vi sono conventi
femminili a Racalmuto. Il primo - quello di S. Chiara - comincerà ad operare
verso il 1645.
Convento di S. Francesco.
Sappiamo con certezza che il 21 novembre 1545 il
convento di S. Francesco era operante. Noi pensiamo che sin dagli esordi furono
i padri minori conventuali ad occupare il convento, sotto l’egida di Giovanni
del Carretto. Pietro Rodolfo Tossiniano, vescovo di Senigallia, accenna a
questo convento racalmutese nel libro 2° della sua Historia Serafica. Il
maltese Filippo Cagliola nel 1644, fa un discorso un poco più articolato e,
descrivendo le “Almae sicilienses Provinciae ordinis Minorum Conventualium S.
Francisci”, prende in considerazione anche Racalmuto in questi termini:
LOCUS RACALMUTI [custodia agrigentina].
suae fondationis certam non habet notam, cum scripturas omnes grassantis pestis insumpserit lues. Quam ob rem annus
1576 a THOSSINIANO inscriptus, ad reparationem Ecclesiae, post eliminatum
languorem, non ad fundationem referendus; pugnaret siquidem secum Auctor, qui a
Comite Ioanne, certam pecuniam pro Ecclesia reparatione, legatam asserit, anno
1560. Ecclesia denuo excitata, imperfecta iacet, locus iuxta arcem a Friderico
Claramontano constructa, situs amoenus, qui fabricis non spernendis incrementa
suscepit. Ecclesia Divo Francisco dicata.[1]
Dunque non era nota la data di fondazione, per la
distruzione dell’archivio nel tempo della grande peste del 1576. Questo stesso
anno viene indicato dal Tossiniano come data di fondazione, subito dopo la
cessazione del flagello. Ma questi cade in contraddizione con se stesso, dato
che afferma che il conte Giovanni [invero era barone] ebbe a lasciare una certa
somma nel 1560 per riparare la chiesa. La chiesa, invero, di nuovo eretta,
giace ora incompleta vicino al castello edificato da Federico Chiaramonte, in
un luogo ameno e con un notevole chiostro. Essa è dedicata a S. Francesco.
Il barone Giovanni del Carretto, a dire il vero non
aveva tanto pensato alla chiesa ma alla sua tomba. Egli lasciò cento onze per
la sua cappella tombale. Ed altri mezzi per la celebrazione di messe in Conventu Sancti Francisci dictae Terrae,
che dunque nel 1560 era attivo.
Francescani conventuali nel 1593
Da una ricerca del prof. Giuseppe Nalbone risulta che
nel 1593 stanziassero a S. Francesco i seguenti religiosi:
1
|
1593
|
COLA
ANDREA
|
GAITANO
|
PADRE PRIORE
|
2
|
1593
|
GIOVANNIANTONIO
|
TODISCO
|
FRA
|
3
|
1593
|
SEBASTIANO
|
D ' ALAIMO
|
FRA
|
4
|
1593
|
FRANCESCO
|
BARBERIO
|
FRA
|
5
|
1593
|
GIO
|
BARBA
|
FRA
|
6
|
1593
|
LODOVICO
|
DI
SALVO
|
FRA
|
7
|
1593
|
GIUSEPPE
|
LA MATINA
|
FRA
|
Francamente non conosciamo granché di tutti questi
francescani: abbiamo, ad esempio, alcuni accenni nell’atto di donazione di quel
singolare personaggio che fu Antonella Morreale, rimasta vedova piuttosto
giovane di Leonardo La Licata. Il rogito è datato 9 gennaio 1596 e ad un certo
punto stabilisce:
Et voluit et mandavit ditta donatrix quod
dittus Jacobus donatarius ...debeat ac teneatur supra dicto ut supra donato
solvere uncias decem po: ge: in pecunia fratri Lodovico de Salvo ordinis Sancti
Francisci, filio magistri Rogerij consanguineo dittae donatricis infra annos
duos cursuros et numerandos a die mortis dittae donatricis in antea hoc est
anno quolibet in fine unc. unam in pacem
pro vestito ispius Lodovici pro Deo et eius anima ipsius donatricis et solutis
dictis unc. 10 ut supra dictus Jacobus de Poma donatarius per se et successores
teneatur et debat pro dittis unc. decem anno quolibet in perpetuum solvere
unciam unam redditus supra dicto loco de
supra donato dicto ven.li conventui Sancti Francisci dictae Terrae Racalmuti
eiusque guardiano mentionato pro eo et successoribus in ipso conventu in
perpetuum legitime stipulante in quolibet ultimo die mensis augusti cuiuslibet
anni incipiendo solvere anno quolibet in perpetuum pro Deo et eius anima ipsius
donatricis pro celebratione tot missarum celebrandarum per fratres dicti ven.
conventus
Fra Ludovico de Salvo era dunque un consanguineo della
Morreale. Nella donazione si parla di sussidi per il suo vestiario. Per le
messe v’è un altro legato di un’oncia annua in favore del padre guardiano.
Il guardiano padre Cola Andrea Gaitano
La Morreale si ricorda di questo priore anche a
proposito della sistemazione della non
chiara vicenda del lascito da parte del marito di un vestito appartenente a don Cesare del
Carretto. In dialetto, ella dispone piuttosto prolissamente che:
Item ipsa
donatrix pro Deo et eius anima ac pro anima ditti condam Leonardi olim eius
viri titulo donationis preditte post mortem ipsius donatricis ... donavit et
donat ditto ven. conventui Sancti Francisci
ditte terre uti dicitur: una robba
di donna di villuto russo chiaro con li soi passamanu di oro, quali robba ditta
donatrichi teni in potiri suo in pegno del sig. don Cesaro il Carretto, la
somma dello quali pignorationi ipsa donatrici non si recorda, per tanto essa
donatrici voli chè si il detto del Carretto paghira ditto conventu seu suo
guardiano la reali summa per la quali robba fui inpignorata, chè in tali casu
lu guardiano di detto convento chè tunc forte serra sia tenuto restituiri ditta
robba a ditto del Carretto et casu chè il detto del Carretto non si recapitassi
detta robba oyvero non declarira la summa per la quali detta robba sta
pignorata voli la detta donatrichi chè lu guardiano di detto convento habbia di
obtenere lettere di executione et per quella somma chè serra revelato il detto
guardiano debbea detta robba per detta somma ad altri personi inpignorarla et
quelli denari convertirli et expenderli in
subsidio et bisogno di detto conventi et fari diri tanti missi per
l’anima di detta donatrici et il ditto condam Leonardo per li frati di detto
convento et quoniam sic voluit ditta donatrix et non aliter nec alio modo.
Il nome del padre guardiano doveva essere padre Cola Andrea Gaitano: non
è certamente racalmutese, mentre originari del paese appaiono tutti gli altri
sei fraticelli.
Fra Ludovico de Salvo
La famiglia cui apparteneva fra
Ludovico Salvo è così censita nel rivelo del 1593:
36
|
360
|
Salvo (de) Mg. Ruggero, soldato anni 45
|
Nora de Salvo moglie; Santo anni 14; Ludovico
11; Francesco 7; Ivella; Caterina; Vincenza
|
confina con
La Lattuca Paulino
|
abita al Monte
|
Nel 1602 consegue i quattro ordini minori e pare che non sia andato
oltre. Un’annotazione del vescovo Bonincontro del 1608 farebbe pensare che fra
Ludovico abbia lasciato il convento e si sia secolarizzato. Lo troviamo infatti
fra i chierici sottoposti alla giurisdizione dell’ordinario diocesano:
Ludovico di Salvo an 26 cons. ad 4 m. ord. die 23 martii 1602 ... S. Francisci
Fra Ludovico era nato a Racalmuto nel 1581 come da questo atto di
battesimo:
19
|
7
|
1581
|
Lodovico
|
Rogieri m.o
|
Salvo
|
Nora
|
Fra Sebastiano d’Alaimo
Semplice frate nel 1593 ricevette sicuramente gli ordini sacerdotali.
Nella visita del 1608 viene autorizzato alle confessioni per sei mesi:
Frater Sebastianus de Alaimo ordinis S.ti Francisci Convent. ad sex
menses
Risulta dai Rolli di S. Maria quale teste in un atto del 28 ottobre 1597.
Null’altro ci è dato di sapere su questo francescano, sicuramente racalmutese.
Il Convento del Carmine.
Per il Pirro questo convento è nobile ed antico ed ai suoi tempi (1540)
contava 10 religiosi con 108 onze di reddito. Ne era stato solerte priore per
46 anni il racalmutese fra Paolo Fanara. La lapide del suo sepolcro fornisce
questi dati biografici:
Paolo Fanara innalzò, accrebbe e decorò, dotandolo d’immagini, questo
tempio; curò l’edificazione del convento con somma operosità. Visse 71 anni e
nell’anno della salvezza 1621, dopo 41 anni di priorato, morì nella pace sel
Signore.
Fra Paolo Fanara nacque dunque nel 1550; nel 1575 diviene priore del
cenobio carmelitano di cui è fondatore a Racalmuto. Il convento viene edificato
accanto alla chiesa periferica del Carmelo, che stando ai documenti disponibili
sorgeva invero da tempo, a dir poco dal 1540.
La chiesa,
invero, sembra in costruzione al tempo della morte del barone Giovanni del
Carretto che così ne accenna nel suo testamento:
Item
praefatus Dominus Testator dixit expendisse unceas centum triginta in emptione
lignaminum et tabularum facta per
Magistrum Paulum Monreale, et per Magistrum Jacobum de Valenti, de quibus
dominus Testator consequutus fuit nonnullas tabulas, et lignamina; voluit
propterea, et mandavit quod debeat fieri computum per dictum spectabilem D.
Hieronymum heredem particularem, et faciendo bonas uncias viginti septem
solutas Ecclesiae Sanctae Mariae de Jesu,
et uncias undecim solutas pro raubis; de residuo tabularum et lignaminum compleri debeat tectum Ecclesiae Sanctae
Mariae di lu Carminu dictae Terrae Racalmuti, et voluit quod debeat expendere unceas quindecim in
pecunia in dicto tecto, et ita voluit, et mandavit, et hoc infra terminum
annorum trium.
Nel 1560, dunque, la chiesa di Santa Maria del Carmelo era a buon punto e
doveva soltanto completarsi il tetto, cosa che andava fatta entro tre anni. Non
è attendibile quindi quel che dice l’avello del p. Fanara, quanto alla chiesa. Certo
dopo il 1575 fra Paolo non mancò di farvi fare opere murarie e migliorie ed a
ciò è da pensare che si riferisca l’iscrizione della lapide.
I carmelitani racalmutesi del secolo XVI
Nel rivelo del 1593, questo era l’orrganico del cenobio carmelitano racalmutese:
1
|
1593
|
PAULO
|
FANARA
|
PADRE PRIORE
|
2
|
1593
|
RUBERTO
|
COSTA
|
PADRE
|
3
|
1593
|
SALVATORE
|
RICCIO
|
FRA
|
4
|
1593
|
FRANCESCO
|
SFERRAZZA
|
FRA
|
5
|
1593
|
ANGELO
|
CASUCHIO
|
FRA
|
6
|
1593
|
GEREMIA
|
RUSSO
|
FRA
|
7
|
1593
|
GIUSEPPI
|
RAGUSA
|
FRA
|
8
|
1593
|
ZACCARIA
|
RICCIO
|
FRA
|
Fra Paolo Fanara
Nella visita del Bonincontro del 1608 il priore del carmelo è ricardato
fugacemente come confessore approvatoed indicato semplicemente come “fra Paulo di Racalmuto padre giardiano del
Carmine”.
Fra Paolo fu molto attivo anche nelle faccende sociali. Lo incontriamo in
un documento del 1614[2] in cui si briga per consentire una “fera
franca” in occasione della festività della Madonna del Carmine.
«Ill.mo Signor Conte di questa terra. Fra Paulo
Fanara priore del Convento del Carmine di questa terra, dice a V.S. Ill.ma che
per devotione et decoro della festività della Madonna del Carmine quali viene
alla terza domenica di giugnetto [luglio] resti servita V.S. Ill.ma concedere
ché ogn’anno per otto giorni cioe quattro inanti detta festa et quattro poi, si
possa inanti detto convento farci la fera franca di quella di Santa Margarita
la quale si transportao in lo conventu di Santa Maria di Giesu per lo decoro
della detta festa et della terra di V.S. Ill.ma ché li sarà gratia particolare
ultra il merito che per tal causa haverà ut altissimus etc. - Racalmuti Die XX°
octobris XIII^ ind. 1614.»[3]
Nel 1596 lo incontriamo come teste in un paio di atti della confraternita
di S. Maria di Gesù. Non spesso, ma qualche volta assiste pure alla
celebrazione del matrimonio di qualche racalmutese in vista.
Fra Salvatore Riccio di Racalmuto
Dalla solita visita del 1608 sappiamo che èsacerdote ed è autorizzato
alle confessioni per sei mesi:
Frater Salvator Riccius Carmelitanus ad sex menses.
A dire la verità abbiamo dubbi sulla correttezza della grafia del
cognome. Se Racalmutese, ebbe forse a chiamarsi fra Salvatore Rizzo.
Fra Zaccaria Riccio
Anche in questo caso, il cognome è forse da correggere in Rizzo. Un
chierico a nome Zaccaria Rizzo è presente in vari atti di battesimo ed in atti
di trascrizione matrimoniali della
Matrice dal 1598 in poi. Costui è anche citato nella nota visita del 1608:
cl: Zaccaria Rizzo an. 25 cons. ad p. t. die 19 decembris 1597 alias
vocatus Leonardus
Tratterebbesi di un racalmutese nato nel 1581 come da seguente atto di
battesimo:
5
|
9
|
1581
|
Rizzo
|
Leonardo
|
Martino
|
Norella
|
Ma resta pur sempre da appurare se v’è identità fra il fraticello
carmelitano ed il chierico che s’incontra negli atti della matrice e della
curia vescovile di Agrigento.
Fra Angelo Casuccio
Nel 1608 lo ritroviamo fra i confessori:
P. Angelo Casuchia
Stando al Liber in quo .. sarebbe
morto il 4 febbraio 1636 (c. 2 n.° 45). Certo sorge il dubbio che tra il frate
carmelitano del 1593 ed il sacerdote che del 1608 vi sia identità di persona. Noi siamo per la
tesi affermativa e pensiamo ad una secolarizzazione del giovane fraticello del
Carmine. Il Casuccio che s’incontra in Matrice è chierico tra il 1598 ed il
1600 e figura come diacono in un atto di battesimo del 30 agosto 1600. Il 12
gennaio 1601 è già stato, comunque, ordinato sacerdote.
Fra Francesco Sferrazza
Analogo dubbio sorge per questo fraticello, visto che negli atti della
Matrice figura un omonimo che però viene indicato nel Liber (c. 2 n.° 38) come
don Francesco Sferrazza Fasciotta (ma rectius Falciotta).
A quest’ultimo di certo si riferiscono gli atti della visita del 1608,
ove è reiteramente citato. Vengono forniti alcuni dati anagrafici:
D. Franciscus Sferrazza an. 27 cons. ad sacerd. die 17 decembris 1605 Panorm
... quas dixit amisisse
Costui era già protagonista a quell’epoca, come emerge dai seguenti passi
di quella relazione episcopale a proposito di S. Giuliano:
Sequitur Cappella transfigurationis S.mi Dni Nostri
Iesu Xristi, quae fuit constructa a Don Francisco Sferrazza propriis expensis.
et adhuc non est completa. Altare d.e Cappellae est decenter ornatum super quo
est Scena trasfigurationis praedictae cum multis imaginibus aliorum sanctorum,
est bene depicta et pulchra, est dotata uncias duas redditus relictus a q.
Antonino praedicti de Sferrazza pro celebratione unius missae qualibet
hebdomada quae celebratur a Cappellano Ecclesiae
Habet etiam dicta Cappella incias X pro maritaggio
inius orfanae consanguineae, pariter relictus iure legati a d.o Antonino
Sferrazza.
Da altri elementi risulta che trattasi di un membro dell’importante
famiglia degli Sferrazza Falciotta. Sembrerebbe quindi che si debba escludere
l’identità con l’umile fraticello del Carmelo. D. Francesco Sferrazza Falciotta
fu peraltro anche Commissario del Tribunale del S. Officio e morì il 7 maggio
1630.
Se fra Francesco Sferrazza, carmelitano nel 1593, fu persona diversa,
come sembra, nulla sappiamo all’infuori di quella citazione del rivelo.
Fra Giuseppe d’Antinoro
Dalle brume documentali dell’archivio parrocchiale dell’ultimo scorcio
del ‘500 affiorano alcune figure di religiosi racalmutesi o, comunque, operanti
a Racalmuto: uno di questi è fra Giuseppe d’Antinoro, sicuramente un
carmelitano, che l’11 settembre 1584 è presente nel matrimonio insolitamente
celebrato nella chiesa del Carmine. Per questa inusuale celebrazione era
occorso il benestare del vescovo agrigentino. Il matrimonio era avvenuto tra
certo La Licata Paolo di Paolo e La Matina Antonella di Pietro e di Vincenza. Benedisse
le nozze l’arc. Romano. Ne furono testimoni il noto fra Paolo Fanara ed il
citato fra Giuseppe d’Antinoro. Ne trascriviamo qui l’atto che si conserva
nella matrice.
11
9 1584 La Licata Paolo di Paolo e di Angela con La Matina Antonella di Petro
e di Vincenza.= Sacerdote benedicente:Romano Michele arciprete. Testi: Fanara
r. fra Paolo ed D'Antinoro frate Gioseppe. Nota: foro benedetti nella chiesa
del Carmine ex concessione Ill.mi et rev.mi n. Epi. Agrigentini
Due religiosi di fine secolo:
fra Antonino Amato;
fra Pasquale Di Liberto
gli atti di matrimonio di fine secolo restituiscono alla memoria questi
due monaci, di cui però s’ignora tutto: dall’ordine d’appartenenza ad un
qualsiasi altro dato biografico. Quel che conosciamo è tutto contenuto in
queste annotazioni d’archivio:
1 9 1588 Gibbardo Berto Vincenzo con Savarino Francesca di
Joanne Benedice le nozze: Amato frati
Antonino. Testi: Todisco Pietro e Rotulo Pietro
30 9 1596 Mendola (la) Leonardo di Angilo e Paolina con
Aucello Antonella di Paolo e Minichella. Benedice le nozze: Spalletta don
Nardo. Testi: Mulioto Giuseppe e Di
Liberto frati Pasquali.
Nella visita del 1608 è invero ricordato un francescano a none fra
Antonino Amato: che si tratti dello stesso monaco del 1588, non abbiamo elementi
per affermarlo. Questi comunque non figura nel rivelo del 1593. Nella relazione
episcopale del 1608 è indicato in questo stringato modo:
Notamento di confessori di S.to Francisci: il p.re guardiano - fra. Antonio di Amato.
PARTE PRIMA
RICERCHE PER UNA MICROSTORIA DELL’AVVENTO DEL FASCISMO A RACALMUTO
Verso il periodo podestarile
* * *
Criteri periodizzanti
L’oggetto della presente ricerca si racchiude nell’evoluzione politica,
sociale, organizzatoria di una comunità civica di media dimensione
dell’entroterra agrigentino quale è Racalmuto in concomitanza di quella che è
stata una profonda riforma di struttura negli esordi dello Stato fascista e che
riguarda l’istituto podestarile.
Per convenzione, il periodo di ricerca viene limitato al quinquennio
1926-1931. Non è, peraltro, agevole invocare un criterio priodizzante per
meglio inquadrare la vicenda storica che qui interessa. Tante sono le
ripartizioni temporali che in coincidenza - ma più spesso in prossimità - di
quella riforma amministrativa sogliono invocarsi nelle varie sedi o dalle
diverse scuole della storiografia, ormai sterminata, sul fascismo.
Sono criteri che variano a seconda delle ideologie sottese, delle opzioni
cultirali e persino della estrazione territoriale o nazionale degli studiosi.
Se il Croce è sbrigativo nel rigettare indistintamente l’intera esperienza
fascista definendola «funesto regime che
è stato una triste parentesi nella .. storia» d’Italia ([4]), non è
neppure univoca la contemporanea cultura fascista nel datare le coeve svolte di
quella che all’epoca veniva assiomaticamente dichiarata la “rivoluzione
fascista”.
Per l’Ercole ([5]), ad
esempio, è da parlare di due “tempi della rivoluzione fascista”: A) dalla
“marcia su Roma” al discorso del 3
gennaio 1925; B) da predetto “discorso” alla legge 5 febbraio 1934 sulle
“corporazioni”. Vi era stata prima “la vigilia della Rivoluzione Fascista -
dalla fondazione del primo Fascio di Combattimento alla Marcia su Roma: 23
marzo-28 ottobre 1922.
Ma nella stessa pubblicista fascista del tempo si indulgeva, talora, ad
un succedersi di due “ondate” prima della marcia su Roma e dopo la “sosta d’autunno” imposta a seguito
del delitto Matteotti. Il ricorso ad “una seconda ondata” era stato a dire il
vero minacciato dallo stesso Mussolini e Farinacci pensava nel dicenbre del 1924 che era giunto il
momento di darvi esecuzione. Non avvenne o non ce ne fu bisogno, almeno nella
valutazione fascista del tempo. Il riferimento era ad una seconda ondata
“insurrezionale”, ‘violenta’, che non è
da escludere poteva scoppiare se il re avesse “dimesso” Mussolino a conclusione della crisi aventiniana. Per
l’Ercole (op. cit. pag. 232) «la
reiterata minaccia della cosiddetta seconda
ondata» sarebbe stata fatta «non tanto dal Duce, quanto da qualcuno dei
gerarchi del Partito, specialmente da Farinacci». Nella valutazione
Mussoliniana quella seconda ondata sarebbe
stata di ridotti effetti, avrebbe colpito soltanto «bersagli fuggenti ed
effimeri» ([6]). Tale suprema stroncatura
espluse dalla cultura fascista questa classificazione periodizzante, la quale
invero tornò in auge presso certa letteratura antifascista del dopo guerra. ([7])
In campo cattolico, Gabriele De Rosa ([8]) adotta la data del 3 gennaio 1925 per una
svolta di rilievo nella evoluzione del partito fascista: le successive date
caratterizzanti sono, per l’insigne storico, il 21-22 aprile 1927 (carta del
lavoro); il 1932 (saggio sulla «dottrina del fascismo» elaborato da Mussolini
per l’Enciclopedia Italiana); 17
settembre 1943 (appello di Mussolini agli italiani da Monaco di Baviera).
Quanto allo storico moderno, per tanti aspetti acuto crtitico di tanti
luoghi comuni sul fascismo, Renzo De Felice, il discorso del 3 gennaio 1925
«non costituì per il regime liberale italiano una rottura vera e propria; il regime fascista sarebbe nato sul piano
costituzionale solo tra il dicembre 1925 ed
il gennaio 1926 e si sarebbe perfezionato alla fine del 1926». ([9])
In campo marxista, imperando per assioma ideologico l’antifascismo è
arduo cogliere un obiettivo inquadramento di questa tutto sommato è una pagina
ultraventennale della storia d’Italia. Per Ragionieri (cfr. Op. Cit.) trattasi
del “fascio della borghesia” giunto al potere il 28 ottobre 1922 (op. cit. pag.
2120) e cacciatone l’8 settembre 1943 (pag. 2357), sia pure con qualche tragico
epigono. Una disamina, la sua, di 237 fitte pagine per dar ragione a Palmiro
Togliatti che nelle sue Lezioni sul fascismo del 1935 lo aveva definito “regime
reazionario di massa”. Nessuna mutazione culturale né evoluzione politica né
conversione sociale avrebbero contraddistinto il fascismo. Solo «un muoversi a tentoni .. nella
persistente fedeltà all’obiettivo di fondo.» Intorno alla svolta del 1924-26 -
cesura periodicizzante di risalto ai fini della nostra ricerca - Ragionieri è
persino, insolitamente, sferzante. «Si può dire - scrive a pag. 2147 - che lo
sbocco dittatoriale era nella logica delle cose, nella logica cioè di una
ristrutturazione autoritaria della società italiana messa in opera dai centri decisivi
del potere economico, finanziario e politico». ([10])
Quanto alla storiografia siciliana sul fascismo regionale, le
periodizzazioni del Renda sono molto articolate. A proposito della storia
siciliana scrive: «il diciottennio 1925-1943, oltre che storia di un regime, fu
anche storia della società che quel regime si era scelto o forse aveva subito.
[...] Nell’ambito del diciottennio, per un’analisi più puntuale e precisa,
appare utile distinguere quattro fasi, ciascuna comprendente gli anni 1925-29,
1929-36, 1936-39, 1939-43.» ([11]) Il
1929 viene preso come anno di demarcazione vuoi per il rinnovo del parlamento (piuttosto punitivo
nei confronti dei siciliani), vuoi per il concordato, punto di agglutamento
intorno al fascismo di consensi episcopali della chiesa siciliana. L’anno 1936
viene ritenuto quello in cui «il fascismo era apparentemente al suo massimo
fulgore» (pag. 378). Il 2 gennaio 1940 viene varata la legge contro il
latifondo «accompagnata da gran clamore propagandistico [non senza] scoperte intenzioni
di demagogia sociale] (pag. 401).
Il Lupo, ([12]) un affermato esponente della scuola
storica catanese, vuole la vicenda del fascismo siciliano come “utopia
totalitaria”. Teorizza un’iniziale «(breve) trionfo della borghesia»
coagulantesi attorno, ma non solo, a Gabriele Carnazza, l’industriale catanese
divenuto ministro dei Lavori pubblici nel primo governo Mussolini. Sottolinea
che «con la traumatica liquidazione di Cucco, Carnazza e Crisafulli-Mondio, tra
il 1927 e il 1929, il regime entra nella sua fase matura. [ ...] Il regime
totalitario a lungo vagheggiato si definiva come uno Stato amministrativo che
inglobava le istanze del partito, in periferia ancor più che al centro,
all’interno di un meccanismo integrato e verticale dove le autonomie e i conflitti del politico venivano
considerati quali inammissibili residui del passato, delegittimati come
beghismi, personalismi, espressione di interessi incoffessabili» (v. pag. 429).
Un “totalitarismo”, dunque che a partire dal 1927-1929 viene messo “alla prova”
fino al 1939, quando esplode «l’ultima impennata del radicalismo fascista»,
«popolare la campagna» con «un esperimento di ‘ingegneria sociale», cioè a dire
«assalto al latifondo».
* * *
Il segmento temporale (1926-1931) che a noi interessa per la nostra
ricerca di microstoria comunale esula, ad evidenza, dalle precedenti cesure
periodizzanti. Non è però in frizione; anzi, sotto vari aspetti, vi si inquadra
piuttosto significativamente, soprattuto sotto l’aspetto dell’aggancio alla
dinamica storica nazionale che delitto Matteotti (10 giugno 1924), «aventino»,
“sosta estiva-autunnale”, discorso del 3 gennaio 1925 e tutta la legislazione
istauratrice dello Stato fascista del 1925 scandiscono in termini di salto
qualitativo e di cambiamento per tanti versi irreversibile. Si attaglia al 1926
il motto “incipit novus ordo” che poteva leggersi sotto una statua di Mussolini
sita nell’androne del palazzo comunale di Racalmuto. Il 1926 è, invero, l’anno
della radiazione dal parlamento degli «aventiniani»; dell’ulteriore dilatazione
dei poteri del governo a scapito del
parlamento (legge 31 gennaio 1926 sulle «attribuzioni e prerogative del capo
del governo primo ministro segretario di Stato»); del varo della legge del 3 aprile 1926 e del
regolamento del 1° luglio 1926 che vietarono lo sciopero e la serrata,
istituirono la magistratura del lavoro ed elevarono ed elevarono i sindacati
dei datori di lavoro e dei lavoratori ad
organi indiretti della pubblica
amministrazione, di quella riforma, cioè, che - ad usare il linguaggio del
tempo “seppellisce lo Stato demoliberale, agnostico di fronte al fenomeno
sindacale e crea lo Stato sindacale-corporativo” ([13]) L’anno
1926 è soprattutto l’anno del Regio decreto-legge 3 settembre 1926, n. 1919,
«concernente l’estensione dell’ordinamento podestarile a tutti i comuni del
Regno». Racalmuto, il paese dei notabili ottocenteschi in lotta fra loro per la
conquista del Comune, il centro zolfataro con l’influente ‘lega’ che
consentiva ad un proprio capo-popolo uno
scanno al Consiglio comunale, il luogo di ambigue affinità elettorali tra
conventicole agrarie e clericali a sfondo vagamente mafioso, il fertile
territtorio per clientelari votazioni ‘trasformistiche’ ma anche - bisogna
dirlo - l’agone per affinamenti sociali, per prese di coscienza politica, per
lotte di redenzione civica, quella Racalmuto, dunque, finiva con un suggello legale da Gazzetta
Ufficiale. Non si sarebbbe votato più (fino al 1946) neppure nei circoli, per
le elezioni di cariche sociali. Solo un paio di “referendum” (solo sì oppure
no) - e Racalmuto dirà sì al 100% - nel 1929
e nel 1934.
* * *
Il 1931 viene assunto come dies ad
quem scadendo il quinquennio della carica podestarile ai sensi dell’art. 2
della legge 4 febbraio 1926, n.° 237. Sul piano politico, va registrato che
sino al 1931 vi era una certa discrezionalità quanto ad adesione dei ceti
impiegatizi e dirigenti al P.N.F. Con una serie di dereti del 1932-33 stabilì
l’obbligo dell’iscrizione al P.N.F. per chiunque volesse partecipare ai concorsi
per impieghi pubblici di qualsiasi
genere o per impieghi nelle amministrazioni locali e in istituti parastatali.
Anche per le libere professioni o per la magistratura l’iscrizione al partito
divenne di fatto necessario. Nel 1931 scoppiò
- ma subito si esaurì - la nota controversia tra chiesa e fascismo
sull’autonomia dell’Azione cattolica, che a Racalmuto aveva una sua
significativa presenza. Il contrasto si concluse con piena soddisfazione del
Vaticano. Qualche storico (Ragionieri,
op. cit. pag. 2223) reputa responsabile dell’incidente Giovanni Giuriati,
nominato segretario del PNF l’8ottobre 1930.
Egli, in effetti, cercò di rintuzzare la crescente forza organizzativa e
politica dell’Azione cattolica. Pare che abbia esagerato e da qui la sua breve
permanenza alla segreteria del PNF. Nel dicembre del 1931 veniva sostituito con
l’ancor oggi notorio Achille Starace. Con Starace la fisionomia del PNF cambia
vistosamente. Gli effetti si registreranno anche nella lontana e periferica
Racalmuto. Se prima, non si poteva essere antifascisti, ma essere ‘indifferenti
al Regime’ - come recitavano le carte degli schedari della polizia - era in
definitiva tollerato, ora occerreva anche un ‘consenso’ come dire, ope legis. Ciò vale a livello nazionale;
ciò vale anche sul piano locale. Chiudere il segmento nel 1931 per la storia
del fascismo racalmutese ha dunque una sua validità, anche sotto questo
aspetto. Si pensi che il vecchio arciprete di Racalmuto amava negli anni ‘50
raffigurarsi come un eroe per avere
vissuto - ed a suo dire ‘combattuto’ - la persecuzione fascista contro l’Azione
cattolica. ([14]).
Le cadenze temporali della microstoria racalmutese sono invero alquanto
sfasate rispetto al corso politico nazionale di quel periodo.
Il 24 gennaio 1924 ([15]), con
lo scioglimento del consiglio comunale eletto nel 1920, si chiude l’era dei
sindaci del vecchio stato democratico. Subentra, un periodo di transizione con un rapido
succedersi di commissari straordinari (ben tre: Ernrico Sindico; avv. Salvatore
Burruano e Salvatore Curatola). Nel 1926 inzia l’epoca fascista vera e propria,
quanto all’ammonistrazione comunale),
che s’impersona nella figura del farmacista dott. Enrico Macaluso per un
decennio.
Per un scandalo a carattere sessuale, il dott. Macaluso è costretto a
dimettersi il 18 maggio 1936 ([16]). Gli
succede un suo fedelissimo, il prof. Giuseppe Mattina fu Gaetano che dura,
praticamente, fino all’inizio della guerra. I tempi del fascismo racalmutese
sono in effetti cinque:
1°) la vigilia fascista che si chiude con l’estromissione governativa
degli amministratori demo-liberali del 1924;
2°) il periodo di transizione che cessa, nel marzo del 1927, con la
nomina a primo podestà del dott. Enrico Macaluso;
3°) il decennio del podestà Macaluso che si conclude nel 1936;
4°) la successione del prof. Mattina, che di fatto tiene la carica sino
all’entrata in guerra nel 1940;
5°) il periodo della guerra sino al 17 luglio 1943, giorno dell’entrata a
Racalmuto dell’esercito americano.([17])
Racalmuto prefascista
Dal 1860 al 1923, Racalmuto è un centro minerario ed agricolo totalmente
dominato da alcune famiglie medio-borghesi qualcuna delle quali cerca di
accreditare titoli persino nobiliari. I Tulumello, ad esempio, vantavano il
fregio baronale, ma si era trattato dell’astuta acquisizione di due terzi del
feudo di Gibillini da parte di un prete loro antenato, piuttosto traffichino,
tra il Settecento e l’Ottocento, in piena soppressione dei diritti feudali. I
Tulumello, già ricchi per il possesso di vaste terre a Villanova, tra Racalmuto
e Montedoro, locupletarono molto con le miniere di zolfo nello scorcio finale
del secolo scorso. Soppiantarono i concorrenti ottimati dei Matrona e dei
Savatteri e si insediarono nella sindacatura locale praticamente per un
ventennio, dal 1889 al 1909. Intorno al 1909 ebbero rovesci finanziari,
decaddero economicamente e sparirarono dalla scena politica locale.
Subentrarono nella gestione della cosa pubblica avvocati e medici appartenenti
a famiglie borghesi che avevano fatto fortuna con lo zolfo. Per un settantennio
erano stati dunque gli ottimati locali, i cosiddetti “galantuomini”, con la
loro boria di nuovi ricchi a dominare lo scenario politico racalmutese, con le
loro beghe, le loro risse, le loro clientele. Col 1924 tutto ciò scompare e può
dirsi definitivamente, visto che dopo il 1943 la storia dei locali sindaci ha
altre peculiarità, profondamente intrisa degli umori delle masse, in termini,
cioè a dire, di moderna domocrazia popolare. Con 1926, si affaccia e - come si
dirà - trova consensi di massa la figura del podestà della riforma fascista.
Racalmuto si consegna alla gestione podestarile con una fisionomia
economica e sociale segnata da turbolenza sociali, specie tra gli zolfatai.
Sono gli zolfatai che hanno una più avvertita coscienza sociale ed è appunto
fra loro che sorge a Racalmuto il primo nucleo fascista. Ne sono animatori gli
avvocati Agostino Puma e Salvatore Burruano. L’11 dicembre 1922 il prefetto di
Girgenti (poi Agrigento) il dott. Raffaele Rocco ([18])
partecipa al Ministro degli Interni che l’associazione «Racalmuto - Lega di
miglioramento fra zolfatai» aveva pochi giorni prima cambiato titolo in
«Sindacato Nazionale Zolfatai» aderendo al fascismo. ([19]) Siamo,
come si vede, a pochi giorni dalla “marcia su Roma”: avvedutezza degli zolfatai
(la cui loro lega risaliva ai Fasci ed era stata dominata dal socialista Vella)
o opportunismo di due giovani avvocati appartenenti alle famiglie emergenti di
Racalmuto? Non è facile rispondere, ma entrambe le cose sono plausibili. Una
sezione fascista - la prima - risulta costituita a Racalmuto il 26 dicembre
1926. ([20])
Racalmuto si affacia al secolo XX con connotati che possiamo cogliere dall’Annuario d’Italia - Calendario generale
del Regno” del 1896 pag. 318 e segg. «Mandamento di Racalmuto - Comuni 2 - Popolazione 22.648,
Tribunale, Conservatorie delle ipoteche e Ufficio metrico in Girgenti, Ufficio
di P.S. e Uff. Reg. In Racalmuto. Magazzino Privative e Agenzia delle imposte a
Canicattì - Racalmuto -
Collegio elettorale di Canicattì, diocesi di Girgenti. Ab. 13.434 Sup. Ett. 4.237 - Alt. Su
livello del mare m. 460 - Grosso borgo, fabbricato sulla sinistra di un
affluente del Platani. Corsi d’acqua: un affluente del Platani. Prodotti:
cereali, viti, olivi, frutta. Miniere: Miniere di zolfo greggio e varie
miniere di salgemma. Fiere: ultima Domenica di maggio (bestiame e
merci). Sindaco: Tulumello barone Luigi. Segret. Comunale: Rao
Liborio. - Agenti di assicurazione: Macaluso Vincenzo (Venezia), Rao
Liborio. Albergatori: Martorana Alfonso - Valenti Giuseppe. Bestiame:
(negoz.) Borsellino Calogero - Borselino Giovanni - Pavia Giulio - Piazza Gio.
E Giuseppe. Caffettieri: Esposto Pio; Farrauto Gioacchino; ved. Licata. Cappelli
(negoz.): Conigliaro Francesco - Martorana Nicolò. Cereali: (negoz.)
Bartolotta Giuseppe - Bartolotta Salvatore - Bartolotta Nicolò - Scimè
Salvatore - Nalbone F.lli. Cordami: (fabbric.) Greco Salvatore - Scimè
Salvatore. Farine: (negoz.) Falcone Gioacchino - Geraci Calogero - Scimè
Gregorio - Scimè Alfonso - Scimè Pasquale - Schillaci Ventura - Taibbi
Gioacchino. Ferro: (negoz.) Cutaia Luigi - Macaluso Salvatore. Formaggi:
(negoz.) Denaro Calogero - Denaro F.lli - Giuffrida Gaetana - Iovane Antonio. Legnami:
(negoz.) Macaluso Francesco - Macaluso Salvatore - Napoli Carmelo - Cutaia
Luigi. Merciai: Alessi Salvatore - Di Rosa Giuseppe. Miniere di
salgemma: (eserc.) Bartolotta Giuseppe - Denaro Giovanni - Lauricella
Nicolò - Licata Salvatore. Miniere di zolfo: (eserc.) Argento
Michelangelo - Argento Santo - Bartolotta Diego - Bonomo Giuseppe e Figli -
Brucculeri Michelangelo - Buscarino Pietro - Cavallaro Giuseppe - Cavallaro
Luigi - Cino Calogero - Cutaia Salvatore - Farrauto cav. Alfonso - Farrauto
Francesco - Franco Gaspare - La Rocca Salvatore - Liotta Calogero - Lo Jacono Vincenzo
- Macaluso Stefano di Calogero - Macaluso Stefano di Francesco - Mantia
Giuseppe - Mantia Michele - Mantia Salvatore - Martorana Salvatore - Martorana
Vincenzo - Matrona comm. Gaspare - Matrona cav. Paolino - Matrona cav. Michele
- Matrona Napoleone - Messana Calogero - Morreale Carmelo - Munisteri Pinò
Nicolò - Picone Salvatore - Puma Carmelo - Romano Calogero fu Luigi - Romano
Giuseppe - Romano dott. Salvatore - Salvo Giuseppe - Schillaci Diego -
Schillaci Giuseppe - Schillaci Pietro - Schillaci Ventura F.lli - Sciascia
Leonardo - Scibetta Diego - Scibetta avv. Giuseppe e F.lli - Scimè Pasquale -
Sferlazza Salvatore e Figli - Tinebra Luigi - Tinebra Salvatore; Serafino;
Vincenzo - Tulumello Arcangelo - Tulumello b.ni Luigi - Tulumello Nicolò - Tulumello
Salvatore - Vella Antonio e Volpe Calogero. Mode: (negoz.) Conigliaro F.
- Molini: (eserc.) Burruano Giuseppe - Falcone Gioacchino - Farrauto
Salvatore - Palermo Nicolò - Scimè Pasquale - Scimè Sferlazza Salvatore. Molini
(a vapore) : (eserc.) Alfano Giuseppe - Farruggia Gerlando - Grillo e
Picataggi - Scimè Arnone Giuseppe. Olio d’oliva: Cinquemani Alfonso -
Cinquemani Dom. - Cinquemani Salvatore - Leone Diego - Licata Salvatore -
Liotta Pietro e Patti Leonardo. Panettieri: Genova Pietro - Rizzo Nicolò
- Romano Ignazio. Paste alimentari: (fabbric.) Franco Vincenzo - Giudice
Nicolò - La Rocca Francesco - La Rocca ved. Carmela - Mattina Salvatore -
Mattina Vincenzo - Picataggi Federico (a vapore) - Pitruzzella Angelo; Diego. Pellami:
(neg.) Alessi Salvatore. Pizzicagnoli: Denaro Salvatore - Iovane
Antonio. Sommacco :(negoz.) Denaro Giovanni - Flavia Giuseppe - Grillo
Raffaele - Mantia Giuseppe - Martorana Luigi - Mendola Calogero - Pantalone
Giosafatte. Tessuti: (negoz.) Collura Salvatore - Franco Gaspare -
Petruzzella G.B. - Puma Gerlando - Romano Calogero - Scibetta Giuseppe. Vini:
(negoz. Ingrosso) Mazttina Carmelo - Mendola Santo - Puma Giov. - Puma Michelangelo - Salvo Giuseppe - Taverna
Carmelo - Zaffuto Angelo. Professioni: Agrimensori: Amato Calogero. Agronomi:
Busuito Alfonso Falletta Luigi - Grisafi Calogero - Terrana Giuseppe. Farmacisti:
Baeri Angelo - Cavallaro Giuseppe - Scibetta Luigi - Presti Cesare - Romano
Giuseppe - Tulumello Salvatore. Medici-chirurghi:
Bartolotta Giuseppe - Burruano Francesco - Busuito Luigi - Busuito Giuseppe -
Busuito Salvatore - Cavallaro Erminio - Falletta Gaetano - Romano Salvatore -
Scibetta-Troisi Alfonso - Scibetta-Troisi Diego - Macaluso Luigi. Notai: Alaimo Michelangelo - Gaglio Ferdinando -
Vassallo Giuseppe Antonio.
Il quadro economiche che se ne trae è molto variegato ed esplicativo.
Oltre 63 esercenti di miniere di zolfo
(per converso solo 4 esercenti di
miniere di salgemma) attestano l’importanza del settore. L’agricoltura è
piuttosto fiorente: 5 grossisti in cereali; 7 spacci di farine; 6 molini e 4 a
vapore; paste alimentari e pane vengono smerciati in vari punti di vendita;
opera anche un pastificio a vapore; 7 commercianti all’ingrosso in vino; 7
grossisti di sommacco; 7 grossisti di olio di oliva. Il secondario, in un
centro effervescente per occupazione industriale e per sviluppo agricolo, è
congruo: negozi di ferro, di pellami, di legname, di cordami non mancano; e poi
merciai ed empori di mode, di tessuti, di cappelli; quindi trovano lavoro i caffettieri
(ben tre). La pastorizia è discreta: negozi di formaggio e quattro macelleria lo comprovano. Nutrita la
serie dei professionisti: diversi agrimensori ed agronomi, segno della
rilevanza della proprietà terriera; tre notai (di cui solo uno veramente
racalmutese); stranamente i tanti avvocati del tempo non ci vengono segnalati;
e poi tanti (troppi) medici (ma molti
sono fra loro strettisimi parenti ed è da pensare che la laurea fosse più un
orpello che lo studio propedeutico ad una effettiva professione medica). Il
quadro ‘borghese’, “agrario” ed il profilo degli esercenti di miniere di zolfo
- che un ruolo avranno nell’avvento del fascismo a Racalmuto - sono ben
delineati a decifrare fra i cognomi delle famiglie che figurano le arti ed i
mestieri. Destinati ad uno squallido tramonto le tre famiglie in qualche modo
titolate: i Tulumello, i Matrona ed i Farrauto; presenti nell’agone politico
prefascista i vari Cavallaro, Bartolotta, Scimé, Baeri, Mantia, Vella, etc. E’ arduo rinvenirvi i ceppi d’origine
di quelle che saranno le figure dominanti del fascismo: Giovanni Agrò, il dott. Enrico Macaluso, il prof.
Giuseppe Mattina di Gaetano, il maestro Macaluso, Antonio Restivo: una
rotazione dirigenziale, in senso popolare, il fascismo a Racalmuto senza dubbio
finì col determinarla, una sorta di redenzione sociale delle classi meno
abbienti, una retrocessione dalle funzioni pubbliche dei ‘galantuomini’
racalmutesi dell’Ottocento.
Luigi Pirandello ne I vecchi e i
giovani ([21] accenna alle condizioni -
avvilentissime - dei ceti infimi racalmutesi. Vi include ovviamente gli
zolfatai. Triste la sorte dei ‘mafiosi’ incastrati dalla giustizia: miseranda
la vita delle loro donne.
«..s’affollavano storditi i paesani zotici di
Grotte o di Favara, di Racalmuto o di Raffadali
o di Montaperto, solfaraj e contadini, la maggior parte, dalle facce
terrigne e arsicce, dagli occhi lupigni, vestiti dei grevi abiti di festa di
panno turchino con berrette di strana foggia: a cono, di velluto; a calza, di
cotone; o padavovane; con cerchietti o cateneccetti d’oro agli orecchi; venuti
per testimoniare o per assistere i parenti carcerati. Parlavano tutti con cupi
suoni gutturali o con aperte pretratte interjezioni. Il lastricato della strada
schizzava faville al cupo fracasso dei loro scarponi imbullettati, di cuojo
grezzo, erti, massicci e scivolosi. E avevan seco le loro donne, madri e mogli
e figlie e sorelle, dagli occhi spauriti o lampeggianti d’un’ansietà torbida e
schiva, vestite di baracane, avvolte nelle brevi mantelline di panno, bianche o
nere, col fazzoletto dai vivaci colori in capo, annodato sotto il mento, alcune
coi lobi degli orecchi strappati dal peso degli orecchini a cerchio, a
pendagli, a lagrimoni; altre vestite di nero e con gli occhi e le guance
bruciati dal pianto, parenti di qualche assassinato. Fra queste, quand’eran
sole, s’aggirava occhiuta e obliqua qualche vecchia mezzana a tentar le più
giovani e appariscenti che avvampavano per l’onta e che pur non di meno tavolta
cedevano ed eran condotte, oppresse di angoscia e tremanti, a fare abbandono
del proprio corpo, senz’alcun loro piacere, per non ritornare al paese a mani
vuote, per comperare ai figlioli lontani, orfani, un pajo di scarpette, una
vesticciuola.»
Forse un tantinello oleografica, ma pur sempre molto pertinente, la
raffigarazione che Nino Savarese ([22]) fa
delle zolfare e dei zolfatai che ben si attaglia alla Racalmuto dell’avvento
fascista. «I fazzoletti di seta
sgargiantissimi, i pantaloni a campana, gli scarpini di pelle lucida con
lo scricchiolìo, il berretto sulle
ventitre e il grumoletto giallo dei semprevivi all’occhiello, sono distintivi
della classe zolfilfera, non solo ignorati, ma ironizzati, dalla gente di
campagna. Dopo di essere stati mezzo nudi come selvaggi, grondanti sudore anche
di pieno inverno, nelle gallerie e nei pozzi afosi o sotto il peso delle corbe
nei trasporti, per i quali spesso non esistono mezzi animali o meccanici,
quelle vistose gale sono come una rivincita, una specie di commemorazione
domenicale, di fatto, non tanto naturale e prevedibile, di essere ancora in
vita e con le tasche piene di danaro ben
guadagnato. E fra i proprietari e dirigenti di zolfare e proprietari di terre,
c’è ancora, una netta distinzione di modi, di vita, di gusti e persino una
certa differenza nel linguaggio: gli uni sempre intenti a tentare nuove
avventure di pozzi e di gallerie, con l’animo sospeso sulle incognite degli
abissi e degli improvvisi disastri dei crolli e del grisù, gli altri con gli
occhi pacificamente rivolti al cielo a scrutare i cambiamenti del tempo. [...]
L’isola è ancora ricchissima di zolfo. Specie nella parte centrale, le miniere,
in certe contrade, si seguono a brevissima distanza.
«Dalla profondità delle loro
viscere esse hanno mandato ricchezze enormi: intere generazioni di padroni vi
si sono arricchite; intere generazioni di operai vi hanno logorato la loro
esistenza, ed eccole che fumano ancora, che è il loro modo di dire che
esistono, che producono ancora e vogliono nuove braccia e nuovi sacrifici, in
cambio di nuove promesse di ricchezza e di felicità! La fumata di una miniera
altera le linee del paesaggio di una contrada, come per l’avvertimento che, in
quel punto, la terra si sta consumando in una dissoluzione e in uno
struggimento innaturali: c’è qualcosa che richiama la vampata di un incendio o
di un disastro irreparabile. Non vedi le poche colonnine di fumo delle
ciminiere di una fabbrica, le quali hanno sempre qualche cosa di simmetrico e
di preordinato, ma centinaia di colonne di fumo che salgono, ora altissime, ora
basse, ora a larghe volute come veli di nebbia densa e giallastra. [...]
«I molli pascoli, gli orti grassi,
le vigne sembrano girare al largo da questi luoghidove la terra si è resa
maledettamente infeconda. [...]
«Qua e là, tra le distese grige del
tufo e i mucchi rossastri dei detriti della fusione, sbocciano improvvisamente
come grandi fiori gialli, i mucchi dello zolfo già fuso ed accatastato, pronto
per essere spedito. Queste cataste vengono fatte in prossimità dei forni e dei
calcheroni, che sono i luoghi della fusione; a sistema moderno, i primi, a modo
antico, i secondi. I calcheroni, mucchi di minerale più minuto, a cono,
sembrano piccolissimi vulcani a catena; i forni, piatte costruzioni in muratura
hanno nell’interno la forma di botti da vino, col mezzule e la spina e l’ampio
cocchiume aperto, dal quale, per certi soppalchi praticabili, viene versato il
mineralegrezzo. Lo zolfo, acceso all’interno, filtra attraverso i residui che
non fondono, e viene fuori dalla spina, in un liquido scuro, ancora denso,
sfrigolante di fiammelle azzurrognole, tra vapori acri ed irrespirabili. Le
operazioni che si vedono in una miniera sembrano allora quelle di una vendemmia
diabolica condotta nel centro della terra, e questo il vino di Mefistofele!
«Di notte la miniera è appena
segnata da grappoli di lampadine. Ma nel suo grembo infuocato il lavoro non si
arresta nemmeno durante la notte. Squadre di minatori non lasciano il piccone.
Si suda ancora e si impreca mentre nelle campagne intorno, i lumi delle casette
campestri si spensero assai per tempo, e i contadini aspettano il nuovo soleper
riprendere la loro fatica. E i campanacci dei bovi e delle pecore levano sui
campi silenziosi il loro suono di pace e di tranquillità.»
Quanto al contrasto contadini-zolfatai che affiora dalla pagina di
Savarese, per Racalmuto dovremmo fare un qualche distinguo se già nel lontano
1885 il pretore locale così riferiva alla Giunta
per l’Inchiesta Agraria sulle condizioni della classe agricola ([23]): «Il contadino di questi luoghi non è un servo
della gleba, non è scarsamente pagato come in altri luoghi: se non gli è ben
pagato il suo lavorosui campi, trova sicuro lavoro e ben retribuito
nelle miniere e perciò non è misero, ha di che vivere e può mantenere la sua
famiglia [...], veri contadini, individui che attendono esclusivamente alla
cultura dei campi, non ve ne sono: lavorano alternativamente, ora in miniera di
zolfo, ora nei campi.»
L. Hamilton Caico, l’irrequita moglie di uno dei membri dell’importante
famiglia Caico di Montedoro (paese finitimo con Racalmuto), commentando vicende
e costumi di un paese agricolo-minerario attorno al primo decennio del secolo,
in pieno riferimento, quindi, al centro che qui interessa, scriveva: «Il lavoro al quale il piconiere è sottoposto corrode e disgrega la sua
personalità, fino alla perdita totale di ogni senso morale. Imbroglia e deruba
il pur severo sorvegliante, durante il lavoro della miniera; e quando rientra
in paese, non fa altro che bere e gioca d’azzardo, sperperando così tutto quello
che ha guadagnato durante la settimana [...]. E’ rispettoso e sottomesso ai
superiori durante le ore di lavoro, ma appena ritorna in paese diventa
prepotente e litigioso, con un atteggiamento sprezzantee provocatorio [...]. E
i carusi? Le infelici creature
vengono ingaggiate per lavorare all’aperto non appena compiono dieci anni e,
quando hanno compiuto i quattordici anni, per lavorare dentro la miniera [...]
questo genere di vita li predispone al rachitismo e alla deformità e,
moralmente, sopprime in essi ogni istinto di umana bontà, poiché crescono
avendo a loro modello i piconieri,
anzi con un più completo e generale disfacimento della dignità umana [...],
mentre nell’animo nascono e crescono istinti violenti di ribellione e di
malvagità, i sensi di un odio inconscio, le tendenze più perverse.» ([24])
Gli zolfatai di Racalmuto furono politicamente e sindacalmente vivaci.
Abbiamo visto come subito passarono al fascismo, ma con un ribellismo sindacale
che fu domato molto tardi dallo stesso fascismo. Ancora, nel 1931, osavano
scioperare per contestare la riduzione della paga unilaterlmente decisa dagli
esercenti. ([25]) Prima di tale - sospetta -
conversione al fascismo, erano stati socialisti sotto l’egida di una strana
figura d’avvocato locale, Vincenzo Vella, figura che illustreremo dopo. Non
crediamo proprio che avessero gradito lo sproloquio moralistico che ebbe a
propinargli un noto socialista dell’epoca, il geom. Domenico Saieva. Costui,
organizzatore di minatori a Favara fra fine secolo ed i primi del ‘900, in un
comizio agli zolfatai di Racalmuto del 12 marzo 1905 redarguiva i locali
zolfatai in questi termini: «Io ho
sentito il dovere di dirvi ... che se volete andare avanti occorre educarvi,
abbandonare il vizio, le bettole e dare una contingente inferiore alla
criminalità [...] le statistiche criminali parlano chiaro e fanno spavento
[..]. Ignoranti, viziosi e disorganizzati come siete oggi, vivrete sempre nella
più orribile abiezione morale ed economica [..].» ([26])
Quanto alla vexata quaestio dei
carusi, il moralismo era antico, ma
in fondo cinico. Richeggiano le scriteriate parole che un sindaco di Racalmuto,
Gaspare Matrona, tanto conclamato da Leonardo Sciascia, ebbe a pronunciare nel
1875 davanti alla Giunta per l’Inchiesa sulla Sicilia: «A domanda: E l’affare fanciulli nelle zofare? Risponde: E’ questione grave, ci è l’umanità da una parte e
l’interesse economico dall’altra. A domanda: Produce danni fisici e morali:
Risponde Non quanto si crede. Per le zolfare credo che ci vorrebbe una specie
di consorzio. Qui la proprietà è divisa. Tutti siamo nella commodità generale.
Per togliere l’acqua occorrerebbe potersi avvalere per costruzione di
acquedotto dei terreni sottostanti; una specie di servitù di acquedotto o
meglio consorzio.» ([27])
Racalmuto si consegnava al fascismo dopo una freneteca corsa allo zolfo.
Un indice è quello demografico che è bene qui segnare:
Abitanti di Racalmuto
Anno
|
N.ro abit.
|
Indici 1825 =100
|
1825
|
7.170
|
100
|
1831
|
7.806
|
108,87
|
1852
|
9.030
|
125,94
|
1869
|
12.252
|
170,88
|
1894
|
13.384
|
186,67
|
1901
|
16.029
|
223,56
|
1911
|
14.398
|
200,81
|
1921
|
13.045
|
181,94
|
1931
|
14.044
|
195,87
|
1936
|
13.061
|
182,16
|
1951
|
12.623
|
176,05
|
1961
|
11.293
|
157,50
|
1980
|
10.000
|
139,47
|
In quasi un secolo, dal 1861 al
1951, i quozienti medi annui dell’incremento totale, di quello naturale ed il
saldo emigratorio sono stati:
Comune di Racalmuto
|
|
|
|
|
|
|
|
Periodi
|
Incremento totale
|
incremento naturale
|
saldo migratorio
|
1861 -1 871
|
3,6
|
8,86
|
-5,26
|
1871 - 1881
|
20
|
18,43
|
1,55
|
1881 - 1901
|
09,65
|
13,26
|
-4,64
|
1901 - 1911
|
-10,8
|
11,32
|
-22,12
|
1911 - 1921
|
-14,6
|
4,19
|
-18,79
|
1921 - 1931
|
11,4
|
9,93
|
1,47
|
1931 - 1951
|
-06,72
|
9,97
|
-16,69
|
Nel periodo 1861-1871 l’incremento totale della popolazione è inferiore a
quello naturale, il che comporta una emigrazione netta del 5,26 per mille; in
quello successivo tra il 1871 ed il 1881 il saldo migratorio s’inverte ed
abbiamo una immigrazione netta dell’1,55 per mille; dopo l’emigrazione prende
il sopravvento e nel periodo 1881-1901 è del 4,64 per mille, nel decennio
successivo di ben il 22,12 per mille e tra il 1911 ed il 1921 è ancora del
18,79 per mille; dopo - nel primo decennio fascista - abbiamo un’inversione di
tendenza: il flusso diviene immigratorio per l’1,47 per mille; quindi il flusso
emigratorio riprende il sopravvento ( 16,69 per mille nel ventennio 1931-1951).
([28])
Rispetto alla provincia di Agrigento, lo sviluppo demografico di
Racalmuto ha avuto il seguente andamento:
Anno
|
abit. Racalmuto (A)
|
N.ro ind.
(B).
|
abitanti prov. Ag. (C)
|
N.ro ind.
(D)
|
Rapporto %
A/C
|
Rapporto % B/D
|
1901
|
16.029
|
100
|
371.638
|
100
|
4,313
|
100
|
1911
|
14.398
|
89,825
|
393.804
|
105,96
|
3,656
|
84,77
|
1921
|
13.045
|
90,603
|
369.856
|
93,92
|
3,527
|
96,47
|
1931
|
14.044
|
107,658
|
398.886
|
107,85
|
3,521
|
99,82
|
1936
|
13.061
|
93,001
|
407.759
|
102,22
|
3,203
|
90,98
|
1951
|
12.623
|
96,647
|
461.660
|
113,22
|
2,734
|
85,36
|
1961
|
11.293
|
89,464
|
447.458
|
96,92
|
2,524
|
92,30
|
1980
|
10.000
|
88,550
|
449.699
|
100,50
|
2,224
|
88,11
|
Rispetto al territorio del’intera provincia di Agrigento, la popolazione
di Racalmuto scema sempre più d’importanza passando dal 4,313% del 1901 al
2,224% dei tempi d’oggi: un vero dimezzamento d’importanza. Eugenio Napoleone Messana ([29], uno
storico locale degli anni sessanta, da prendersi molto con le pinze, è alquanto
malizioso quando scrive: «Osservando i dati dell’Istituto Centrale di
statistica [...] balza evidente una crescente flessione demografica dal 1936 al
1961». Quasi si trattasse di un fenomeno inziato in pieno fascismo. Era invece,
come abbiamo visto, un deflusso che affondava le radici alla fine
dell’Ottocento.
La lezione di Leonardo Sciascia e la storia del fascismo racalmutese.
Scrive in Occhio di Capra, Leonardo Sciascia, il grande scrittore che a
Racalmuto è nato: «Isola nell’isola,
...la mia terra, la mia Sicilia, è Racalmuto.. E si può fare un lungo discorso
su questa specie di sistema di isole nell’isola: l’isola-vallo .. dentro l’isola Sicilia, l’isola-provincia
dentro l’isola-vallo, l’isola paese, dentro l’isola-provincia, l’isola-famiglia
dentro l’isola-paese, l’isola-individuo dentro l’isola-famiglia ...». I
ricercatori di storia locale non si mostrano però tutti d’accordo. Annota, ad
esempio, uno di loro: «Se il passo ha un
valore metafisico, filosofico, di incomunicabilità esistenzialistica, non oso
addentrarmici, ma se vuol essere nota storica su Racalmuto, ebbene mi pare
proprio inattendibile. Racalmuto è solo
uno scisto della storia ma questa tutta quanta vi si riverbera.» ([30]) Quanto
a storia fascista, ci pare che bisogna dar prorio ragione più ai locali
ricercatori che a Sciascia.
Leonardo Sciascia, nato nel 1921, qualche
sapida nota sul fascismo racalmutese, qua e là, ce la fornisce. Affermatosi
come scrittore alla fine degli anni cinquanta, si professa antifascista ed il
suo rievocare non è quindi contrassegnato da obiettività. Bisogna depurare, ma
alla fine un nucleo di verità emerge.
Qualche volta accenna al consenso delle masse al fascismo e può cogliersi
un riferimento a Racalmuto, ove trascorse infanzia e giovinezza ed ebbe a
frequentare con devozione quasi filiale
la famiglia di una sua zia materna, famiglia di spicco nel fascismo locale.
Si riferisce a Brancati ventenne, ma in sostanza od anche a se stesso e
quindi a Racalmuto, in questo passo molto efficace ([31]): «Nato nel 1907 ... aveva dodici anni al momento
in cui Mussolini fondava i fasci (di combattimento: parola che è mancata, negli
anni nostri, alla pur possibile resurrezione del fascismo, d in fascismo) e
quindici quando i fasci marciavano su Roma; tra adolescenza e giovinezza visse,
come noi tra infanzia e adolescenza, quello che lo storico chiama “gli anni del
consenso”: un consenso che, pieno e fervido nella classe borghese (e
specialmente nella piccola ed infima, poiché mai lo stipendio del travet, del
questurino, del maestro di scuola, è stato come allora sufficiente in rapporto
al bisogno e a quel tanto di superfluo - pochissimo - cui si poteva
limitatamente accedere), arrivava alla classe operaia , cui la “carta del
lavoro” aveva dato, un po' in concreto un po’ d’illusione, quel che decenni di
lotte sindacali e socialiste non avevano ottenuto. E c’erano le parole, che dal
Poeta erano passate al regime: eroiche, solenni, vibranti. E l’adunarsi,
l’aggregarsi: insopprimibile istanza giovanile oggi d’altro squallore. E i
riti. Tutto era allora fascismo, insomma, intorno ad un uomo di vent’anni. E
perché un uomo di vent’anni cominciasse a non sentirsi fascista, a detestare
quelle parole, quei riti, quella violenza, quella unanimità, occorreva
insorgesse “una strana quanto
benefica mancanza di rispetto”: verso i padri, le madri, i parenti tutti,
le autorità tutte, la scuola, il Poeta, la Chiesa. Sicché, paradossalmente, il
guadagnare buona salute d’intelligenza, di giudizio, finiva col riscuotere una
condizione di malattia: l’isolamento (alla mercé dei delatori, anche fisico),
la solitudine, l’esilio»
Sui rapporti tra fascismo e mafia, pubblicava, in quei tempi, un articolo
sul Corriere della Sera, destinato a suscitare un vespaio polemico, ancora oggi
non sopito. Vi riecheggiano i precedenti moralismi a sfondo storico.
Commentando un lavoro di Christopher
Duggan ([32]) «L’idea, - scrive Sciascia - e il
conseguente comportamento, che il primo fascismo ebbe nei riguardi della mafia,
si può riassumere in una specie di sillogismo: il fascismo stenta a sorgerelà
dove il socialismo è debole; in Sicilia la mafia ha impedito che il socialismo
prendesse forza: la mafia è già fascismo. Idea non infondata, evidentemente:
solo che occorreva incorporare la mafia nel fascismo vero e proprio. Ma la
mafia era anche, come il fascismo, altre cose. E tra le altre cose che il
fascismo era, un corso di un certo vigore aveva l’istanza rivoluzionaria degli ex combattenti , dei
giovani che dal partito nazionalista di federzoni per osmosi quasi naturale
passavano al fascismo o al fascismo
trasmigravano non dismettendo del tutto vagheggiamenti socialisti ed
anarchici: sparute minoranze, in Sicilia; ma che, prima facilmente conculcate,
nell’invigorirsi del fascismo nelle regioni settentrionali e nella permissività e protezione di cui
godeva da parte dei prefetti, dei questori, dei commissari di polizia e di
quasi tutte le autorità dello stato; nella paura che incuteva ai vecchi
rappresentanti dell’ordine (a quel punto disordine) democratico, avevano
assunto un ruolo del tutto sproporzionato al loro numero , un ruolo invadente e
temibile. Temibile anche dal fascismo stesso che - nato nel Nord in rispondenza
agli interessi degli agrari, industriali e imprenditori di quelle regioni e,
almeno in questo, ponendosi in precisa continuità agli interessi
“risorgimentali” - volentieri avrebbe fatto a meno di loro per più agevolmente
patteggiare con gli agrari siciliani, e quindi con la mafia. E se ne liberò,
infatti, appena dopo il delitto Matteotti, consolidatosi nel potere: e ne fu
segno definitivo l’arresto di Alfredo Cucco [arresto mai avvenuto, n.d.r.] (figura del fascismo isolano, di linea radical-borghese e
progressista, per come Duggan e Mack Smith lo definiscono, che da questo libro
ottiene, credo giustamente, quella rivalutazione che vanamente sperò di
ottenere dal fascismo, che soltanto durante la repubblica di Salò lo riprese [invero
Cucco fu riabilitato nel 1939 divenendo vicesegretario del PNF, subito dopo la
caduta in disgrazia di Starace, n.d.r.] e promosse nei suoi ranghi. Nel fascismo
arrivato al potere, ormai sicuro e spavaldo, non è che quella specie di
sillogismo svanisse del tutto: ma come il fascismo doveva, in Sicilia,
liberarsi delle frange “rivoluzionarie” per patteggiare con gli agrari e gli
esercenti delle zolfare, costoro dovevano - a garantire al fascismo almeno
l’immagine di restauratore dell’ordine pubblico - liberarsi delle frange
criminali più inquiete e appariscenti. E non è senza significato che nella
lotta condotta da Mori, contro la mafia assumessero ruolo determinante i
campieri [...]: che erano, i campieri, le guardie del feudo, prima
insostituibili mediatori tra la proprietà fondiaria e la mafia e, al momento
della repressione Mori, insostituibile elemento a consentire l’efficienza e
l’efficacia del patto. [...] Rimasto inalterato il suo [di Mori] senso del
dovere nei riguardi dello stato, che era ormai lo stato fascista, e alimentato
questo suo senso del dovere da una simpatia che un conservatore non liberale
non poteva non sentire per il conservatorismo, in cui il fascismo andava
configurandosi, l’innegabile successo delle sue operazioni repressive (non c’è,
nei miei ricordi, un solo arresto effettuato dalle squadre di Mori in provincia
di Agrigento che riscuotesse dubbio o disapprovazione nell’opinione pubblica)
nascondeva anche il gioco di una fazione fascista conservatrice e di vasto
richiamo contro altra che approssimativamente si può dire progressista, e più
debole. Sicché se ne può concludere che l’antimafia è stata allora strumento di
una fazione, internamente al fascismo, per il raggiungimento di un potere
incontrastato e incontrastabile E incontrastabile non perché assiomaticamente
incontrastabile era il regime - o non solo: ma perché innegabile appariva la
restituzione all’ordine pubblico che il dissenso, per qualsiasi ragione e sotto
qualsiasi forma, poteva essere facilmente etichettato come “mafioso”. Morale
che possiamo estrarrre, per così dire, dalla favola (documentatissima) che
Duggan ci racconta. E da tener presente: l’antimafia come strumento di potere.
Che può benissimo accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e
spirito critico mancando.)» ( [33])
Qualche giorno dopo (il 26 gennaio 1987, sempre sul Corriese della Sera),
sull’onda della polemica con Scalfari e Pansa, Sciascia ha modo di aggiungere:
«Respingere quello che con disprezzo
viene chiamato “garantismo” - e che è poi un richiamo alle regole, al diritto,
alla Costituzione - come elemento debilitante nella lotta alla mafia, è un
errore di incalcolate conseguenze. Non c’è dubbio che il fascismo poteva nell’immediato
(e si può anche riconoscere che c’è
riuscito) condurre una lotta alla mafia molto più efficace di quella che può
condurre la democrazia: ma era appunto il fascismo, al cui potere - se messi
alla stretta - alcuni italiani avrebbero preferito che la mafia continuasse a
vivere. Dico alcuni: poiché non soltanto per aver letto De Felice so del
consenso dei più, ma per preciso e indelebile ricordo. Da ciò è venuta, in
certe pagine di Brancati ([34]) la rappresentazione del mafioso buono, del
mafioso di ragione - e cioè del mafioso antifascista.» ([35])
In altri tempi e con più serenità, con una sintassi meno labirintica -
che stranamente emerge nei passi citati, segno forse del tormentato delinerasi
del pensiero - Sciascia ragguagliava sull’epilogo del fascismo, scrivendo: «”avanti che cambia bandierà”! Questo era lo
stato d’animo dei siciliani: l’attesa che “cambiasse bandiera”, nel senso di un
rovesciamento della situazione interna. Tale rovesciamento era impensabile non
avvenisse per il non delinearsi o per il realizzarsi di una vittoria
anglo-americana. Cos’ americani ed inglesi erano attesi; magari vagamenti, che
pur nutrendo la più grande fiducia per il colonnello Stevans, la voce di
Palazzo Venezia manteneva una sua tenue ragnatela d’incanto. [ ... ] Quando
[...] sirene e campane a martello annunciarono l’emergenza, la cosa apparve
diversa. Dalla proclamazione dello stato di emergenza ha inizio quella che
senza ironia e senza risentimento, ha tutti i caratteri di una kermesse.
S’intende che cadenze tragiche non mancarono; che città e paesi interi
assunsero un pietoso volto di morte sotto la violenza, spesso inutile e
sciocca, dell’invasore . Ma un’aria di festa popolare accompagnò da Gela a
Messina il cammino delle armate anglo-americane. Ci auguravamo allora fosse la
Kermesse della libertà. Forse lo era. Ma quel che dopo è accaduto, fino ad
oggi, ci fa diversamente credere. Era la kermesse dei servi che finalmente si
liberano da un padrone ed un altro ne attendono che sperano più largo, più
generoso, più stupido. Era la festa che degnamente terminava un ventenniodi
diseducazione, di adorazione alla forza, di culto al proprio stomaco. Era
giusto che la più balorda e cieca primogenitura che un capo abbia mai offerta
ad un popolo, venisse dal popolo cambiata per una scatola di ‘ragione K’ dell’esercito nemico. [...] Eravamo al 14
luglio. Nel pomeriggio si diffuse la notizia che gli americavano arrivavano. Il
podestà, l’arciprete e un interprete si avviarono ad incontrarli. La
popolazione, in attesa, si preoccupò di bruciare, ciascuno nella propria casa,
tessere, ritratti di Mussolini, opuscoli di propaganda. Dagli occhielli i
distintivi scivolarono nelle fogne. [....] cinque soldati col lungo fucile
abbassato sbucarono improvvisamente nella piazza, indecisi. Videro, davanti una
porta semiaperta, qualche uomo in divisa; e si mossero sicuri. I carabinieri si
trovarono puntati addosso i fucili senza ancora capire che gli americani erano
finalmente arrivati. Le loro pistole penzolavano nelle mani di uno della
pattuglia. Un applauso scoppiò. Una voce chiese sigarette; e il caporale
americano tastò le tasche del brigadiere dei carabinieri, ne tirò un pacchetto
di Africa e lo lanciò agli spettatori. Come in un salotto quando fiorisce una
battuta di spirito, un senso di amenità si diffuse al gesto del caporale. La
festa era cominciata. Da tutte le strade la popolazione affluiva. Non si sa
come, ‘cannate’ di vino passate di mano in mano sorvolarono la folla, bicchieri
si arrubinarono, pieni e grondanti venivano offerti con dolce violenza alla
pattuglia che li rifiutava. L’inglese degli emigranti sciamava goffo e servile
intorno a quei cinque uoministupefatti: tutti coloro che in America avevano
guadagnato quel po’ di denaro che in patria era divenuto casa e podere, erano
corsi come ad un appuntamento felice. Una enorme bandiera di seta lacera, la
bandiera degli Stati Uniti, fu totla di mano a quel prover’uomo che l’aveva
tirata fuori: passò saldamente nelle mani di un altro che per caso, proprio in
quei giorni, aveva lasciato le carceri regie. Fu allora il momento di pensare
alle insegne della casa del fascio.
Tirate giù, furono accompagnate a calci per tutte le strade: e l’indomani si
trovarono galleggianti dentro un abbeveratoio. Sembravano di bronzo, ma in
realtà erano di latta. [...] Il segretario politico, il podestà, il maresciallo
dei carabinieri furono l’indomani prelevati: e loro notizie giunsero alle
famiglie, qualche mese dopo da Orano. In fondo nemmeno il segretario politico
era quel che agli americani fu riferito su tutti e tre. Si può dire anzi che
aveva una qualità che, in un gerarca, potrà sembrar strana al lettore: non era
ladro. Ma qualcuno bisognava proprio mandarlo in galera, almeno per dare un
segno dei tempi nuovi. Il fascismo lasciava una pingue eredità di spie di ladri
di odio di diffidenza. Chi qualche giorno dopo si trovò a calcolarne un
inventario, dovette proprio cominciarlo col cittadino che gli americani subito
predilessero.» ([36])
A voler adattare la lezione sciasciana del fascimo alla storia locale di
Racalmuto, potremmo rimarcare i seguenti aforismi e la relativa
periodizzazione:
1°) l’inconsistente forza del socialismo racalmutese aveva svilito ogni
forma di fascismo nel paese per quella “specie di sillogismo” mutuabile dalla
“favola (documentatissima)” del giovane studioso di Oxford, Duggan;
2°) in loco l’antidoto al
socialismo era costituito dalla mafia legata agli agrari del luogo, mafia che
pertanto “è già fascismo”;
3°) ma il fascismo, come la mafia, “era .. anche altre cose”;
4)° “era l’istanza rivoluzionaria degli ex combattenti”... che
trasmigrano al fascismo “non dismettendo del tutto vagheggiamenti socialisti ed
anarchici”. (Si dà il caso che uno dei fondatori del fascismo racalmutese,
l’avv. Salvatore Burruano, fosse un ex ardito e che l’altro fondatore, l’avv.
Agostino Puma, s’interessasse alla lega zolfatai d’ispirazione socialista,
convertendola, come si è visto, al fascismo):
5°) ma il fascismo “volentieri avrebbe fatto a meno di loro (gli ex
nazionalisti) per più agevolmente
patteggiare con gli agrari siciliani, e quindi con la mafia”. Qui invero la
costruzione sciasciana stride con l’evolversi degli eventi locali. Calogero
Vizzini, che se ne stava a Racalmuto per essere gabellotto dell’importante miniera
di Gibillini, figura in consorteria, piuttosto ambigua, con i pretesi puri del
fascismo degli ex-nazionalisti;
6°) degli ex-nazionalisti il fascismo “se ne liberò .. dopo il delitto
Matteotti”; “ne fu segno definitivo l’arresto di Alfredo Cucco”. Questa però
appare lettura affrettata (e poco documentata). Ad Agrigento (e provincia) è il
segretario della federazione fascista Galatioto (e con lui Puma, Burruano
e Calogero Vizzini) che ha la peggio.
Risulta vittorioso l’on. Abisso che ebbe trasformista lo era stato da tempo e
che a seconda dei casi può considerarsi legato alla mafia o appartenente agli
ex-combattenti;
7°) giunto il fascismo al potere, “ormai sicuro e spavaldo”, nel
liberarsi delle sue frange “rivoluzionarie” chiede in contropartita agli agrari
ed agli esercenti le zolfare di “liberarsi delle frange criminali più inquiete
ed appariscenti”. Questa fase, invero, risulta così nebulosa per Racalmuto da
considerala inesistente;
8°) inizia la repressione Mori contro la mafia che incotra il favore
delle masse nell’agrigentino (“non c’è, nei miei ricordi, - scrive Sciascia -
un solo arresto effettuato dalle squadre di Mori in provincia di Agrigento che
riscuotesse dubbio o disapprovazione”). A noi risulta qualche elemento di
stridore. Si racconta ancor oggi che se i militi di Mori incontravano qualche
quieto racalmutese, che in piazza osasse andare
“cu lu tascu tuortu” (berretto storto), procedevano a raddrizzarglielo
con sputi di scherno. Sciascia limita la lotta alla mafia alla sola azione di
Mori - piuttosto inconsistente in provincia di Agrigento - ed alla sua
folkloristica politica dei campieri (che a Racalmuto potevano ridursi ad una
sola unità e riguardante il feudo di Villanova degli “ex-clericali” Nalbone);
9°) l’azione di Mori sarebbe equivalsa alla moderna antimafia; siffatta
antimafia sarebbe stata “strumento di una fazione all’interno del fascismo, per
il raggiungimento di un potere incontrastato ed incontrastabile”. Tesi invero
letterariamente suasiva; storicamente dubbia;
10°) vengono quindi “gli anni del consenso dei più”: Sciascia ne è
convinto sia perchè l’afferma “lo storico” sia perché lo sa “non soltanto per
aver letto De Felice [....], ma per preciso e indelebile ricordo”;
11°) è un consenso che ben si attaglia a Racalmuto: esso è «pieno e
fervido nella classe borghese ... [e arriva] alla classe operaia , cui la
“carta del lavoro” aveva dato, un po' in concreto un po’ d’illusione, quel che
decenni di lotte sindacali e socialiste non avevano ottenuto»; e qui non si può
non essere d’accordo con lo scrittore racalmutese;
12) è un consenso che a Racalmuto si protrae sino al 1943, in definitiva
sino al luglio di quell’anno, come la splendida pagina di Kermesse illustra e
spiega.
La storia nazionale del fascismo e suoi (flebili) echi sulla vicenda
locale prima del 1925.
Quando il 18 ottobre 1914 Benito Mussolini pubblicò sull’ «Avanti!» lo storico articolo
«Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante», è molto dubbio
che qualcuno a Racalmuto ebbe a leggerlo. Poteva, eventualmente, averne presa
visione l’unico socialista di cultura di Racalmuto: l’avv. Vincenzo Vella. Il
suo fascicolo che la P.S. da tempo approntava ce lo mostra assiduo lettore di «La Lotta di classe», «La Giustizia sociale», di «Riscossa» e di certi «opuscoli editi dal Comitato Regionale della
Federazione socialista Ligure» .([37]) Per il
questore di Girgenti, il Vella - così annota il 20 ottobre 1913 - «è laureato
in legge, ma la sua cultura non va oltre gli studi fatti e le molte
pubblicazioni socialiste lette e ben poco ben assimilate». Fose fra quelle
letture c’era l’ «Avanti!», ma possiamo essere certi - a prescindere dalle
malevoli note del questiore ‘girgentano’ - che non afferrò di certo che la
storia d’Italia prendeva in quell’ottobre 1914 una radicale svolta nella storia
dei partiti politici d’Italia. La successiva velenosa polemica tra il partito
socialista e Benito Mussolini, il Vella, però, sicuramente la dovette seguire
in quel di Racalmuto. E quando - dopo il delitto Matteotti - finì sul serio
negli schedari politici del fascismo e ne fu perseguitato ancor più
pressantemente di quanto non lo fosse stato prima dalle questure antisocialiste
dei governi liberali.
A noi pare che la lezione di Ernst Nolte ([38]) abbia
maggiore vigore di quanto leggesi tra i detrattori ([39]) del
fascismo e i suoi coevi esaltatori([40]): non
sembri quindi ozioso se ci permettiamo di riportare il seguente stralcio
dell’opera dello studioso tedesco. «L’articolo
fu in effetti l’ultimo scritto da Mussolini in veste di direttore dell’
«Avanti!». Il giorno dopo, il direttorio del partito si riuniva a Bologna, e
qui la posizione di Mussolini non trovava neppure un difensore; e, benché si
cercasse di fargli dei ponti d’oro, dovette immediatamente dimissionare dalla
direzione dell’ «Avanti!». Le spiegazioni, che egli ne ha dato all’epoca,
permettono di affondare lo sguardo nei suoi moventi: «Io capirei la nuova
neutralità assoluta qualora avesse il coraggio di arrivare fino in fondo e cioè
di provocare un’insurrezione; ma questa a priori la scartate, perché sapete di
andare incontro ad un insuccesso. E allora dite francamente che siete contrari
alla guerra ... perché avete paura delle baionette ... Se lo volete, se vi
sentite, io sono alla vostra testa: neutralisti fuori della legalità ...
ebbene, bisogna essere decisi. Ma la neutralità assoluta nella legalità ormai è
divenuta insostenibile.»
«Non viene addotto alcun motivo di
natura contenutistica: qui non si parla di democrazia, delle necessità vitali
dell’Italia, dei territori irredenti; l’impossibilità di una radicale coerenza
spinge il rivoluzionario su una strada, sulla quale avrebbe dovuto procedere
assieme ai suoi avversari più decisi. A quanto sembra, tuttavia Mussolini
sperava di portare dalla sua il partito ovvero cospicue frazioni di esso. Pochi
giorni gli sono sufficienti per togliergli le illusione: il 25 ottobre,
Mussolini scrive all’amico Torquato Nanni «Ho voluto aprire il vicolo cieco nel
quale si era ficcato il partito, ma nell’urto sono caduto»
«Mussolini non era uomo da
sottomettersi alla disciplina di partito; si sarebbe potuto aspettarsi da lui
che tacesse o, per lo meno, che non scrivesse contro il partito, e a quanto
pare una premessa del genere è stata da lui fatta ai compagni della direzione.
Ma egli non riuscì a tenersi chiuso dentro quella che riteneva la sua verità, e
nel giro di poche settimane tra Mussolini e gli antichi amici si scavò un
abisso di incomprension, disprezzo e odio, che mai più sarebbe colmato.
«Pare che alla fine di ottobre,
Mussolini abbia concepito l’idea di crearsi un proprio organo di stampa: già il
15 novembre, apparve il primo così numero del «Popolo d’Italia. E’
perfettamente comprensibile che i socialisti annusassero odor di «tradimento»,
che sospettassero che Mussolini si fosse «venduto»: sembrava impossibile che un
uomo completamente privo di mezzi potesse, con le sue sole forze e nel giro di
pochi giorni, far sorgere dal nulla un quotidiano. Effettivamente Mussolini,
ancora in veste di direttore dell’ «Avanti!» aveva avuto degli abboccamenti col
direttore di un foglio bolognese, che sapeva organo degli agrari; da costui,
egli ebbe, anche in seguito, un valido appoggio di carattere
tecnico-tipografico. Ma da dove venissero i capitali è, oggi ancora, cosa non
sufficientemente chiarita. Si parlò quasi subito di denaro francese,
supposizione che però non si riuscì mai a provare. L’ipotesi più probabile è
che organi governativi si siano assunti il compito di finanziatori indiretti;
numerosi erano infatti i circoli, in Italia, interessati a un indebolimento del
partito socialista. Indubbiamente dunque Mussolini nel momento in cui si fece
dare un giornale, divenne una carta in mano di qualcuno. Affatto infondata è
invece la supposizione che il denaro, il giornale proprio fossero il motivo per il suo passaggio in campo
interventista. Ma proprio questo lasciò supporre l’ «Avanti!», ponendo,
immediatamente dopo l’apparizione del nuovo giornale, e instancabilmente, la
domanda: «Chi paga?». Nel giro di poche settimane, l’ex-beniamino del partito
era divenuto un «venduto alla borghesia» e un «transfuga», che meritava «il
sacrosanto odio del proletariato italiano». Allorché, il 24 novembre, Mussolini
si presentò alla riunione dei membri della sezione milanese, chiamati a
decidere in merito alla sua espulsione, il suo discorso fu sommesso da un
uragano di ingiurie, fischi e minacce. Il partito socialista compì un
linciaggio morale nei confronti del «traditore»; nessuno dei fogli socialisti
italiani si schierò dalla sua parte, e Mussolini non riuscì a tirare dalla sua
parte neppure una minima frazione del partito. Era la sua prima sconfitta, e
insieme quella che avrebbe avuto le maggiori conseguenze. Mussolini era solo.»
Da qui «prese le mosse una polemica
della massima violenza e spesso bassamente ostile, nel corso della quale furono
poste le basi per l’interpretazione socialista del fascismo e per
l’interpretazione fascista del socialismo. In ogni caso, la dissociazioneera
compiuta. Mussolini era adesso un generale senza esercito, un credente senza
fede. Un piccolo gruppo di individui, per i quali egli era il «duce»,
naturalmente gli si raccolse ben presto attorno. Già nell’ottobre, quando
ancora Mussolini lottava con se stesso, dalle file dei sindacalisti e
socialisti si erano costituiti i fasci interventisti,
sotto la guida di Filippo Corridoni, Michele Bianchi, Massimo Rocca, Cesare
Rosssi e altri. In dicembre questi si fusero coi seguaci di Mussolini nel
«fascio d’azione rivoluzionaria», la cellula germinale del fascismo. L’unico
punto programmatico sostanziale è il proposito di provocare l’intervento a
fianco dell’Intesa; per il resto, Mussolini pone un postulato non facilmente
superabile: «Riaffermare le idealià socialiste rivedendole a lume della critica
sotto l’attuale terribile lezione dei fatti» [...]».
[1]) ALMAE
SICILIENSES PROVINCIAE - ORDINIS MINORUM
CONVENTUALIUM S.FRANCISCI - a patre magistro Philippo CAGLIOLA - a MILITA.
"Sicilia francescana secoli XIII-XVIII a cura di
Filippo ROTOLO" Venetiis, MDCXLIV - Officina di Studi Medievvali - Via del
Parlamento, 32 - 90133 PALERMO - 1984. pag. 108 [Petrus Rodulfus THOSSINIANUS,
Episcopus Senegallensis ordinis nostri, in Historia Serafica - v. per
RACHALMUTUM lib. 2] .
[2]) Archivio di Stato di
Agrigento - Fondo 46 - vol. 506 - f. 1.
[3]) Il
prosieguo del documento è in latino e recita:
«Cons.
Ref., eodem, Ad relationem U.J.D. Francisci la Rizza fuit provisum quod
concedatur petitio et fiat actus in curia juratorum, Joannes Gulielmus
secretarius etc.».
Più
complesso il seguito che trascriviamo per gli eventuali cultori della lingua
latina in uso nella curia racalmutese del primo Seicento:
«Die XXI ottobris XIII^ Ind. 1614:
«fuit
provisum et mandatum per Ill.mum Dominum Comitem Don Hyeronimum del Carretto
Comitem huius terrae et Comitatus Racalmuti ad relationem U.J.D. Francisci la
Rizza consultoris, vigore provisionis fattae in dorso memorialis venerabilis
fratris Pauli Fanara prioris venerabilis conventus Sanctae Mariae de Monte
Carmelo, eiusdem terrae, sub die 20 praesentis mensis
«quod
otto de numero dierum sexdecim nundinarum quae antiquitus fiebant in hac
praeditta terra et in festivitate Divae Margharitae et postea translatae in
festivitate divae Mariae Jesu, eiusdem terrae solitae fieri in die in die
secundo mensis Julij cuiuslibet anni cum illis franchitijs pro ut hactenus
servatum fuerat.
«Intelligantur
et sint concessae ditto venerabili conventui Sanctae Mariae de Monte Carmelo
pro ut vi praesentis actus perpetuo valituri, spectabilis ill.mus Comes per se
et suos etc. tribuit et concessit eidem ven: conventui Virginis de Monte
Carmelo eiusdem terrae nundinas
praedittas pro maiori decoro et devotione festivitatis dittae Beatae Mariae
Virginis de Monte Carmelo celebrandae in dominica tertia cuius libet mensis
Julij cuiuslibet anni in perpetuum fiendas ante eccelsiam et conventum
praedittum per dies quatuor ante et dies quatuor postea dittum festum
«et
hoc cum omnibus et singulis franchitijs et alijs pro ut dittae nundinae gaudunt
et sunt exemptae ab omnibus gabellis ditti ill.mi domini comitis ut supra
dittum est et non aliter.
«Remanentibus
tamen de numero dierum sexdecim nundinarum praedittarum divae Margharitae alijs
diebus octo pro ditta ecclesia et Conventu Sanctae Mariae Jesu eiusdem terrae
fiendarum quoque antea dittam ecclesiam et conventum dittae Sanctae Mariae de
Jesu pro ut hucusque servatum est, in festivitate dittae Beatae Mariae Virginis
de Jesu quae celebratur in die secundo cuiuslibet mensis Julij in perpetuum,
«
hoc est pro diebus quatuor antea et diebus quatuor postea dittam festivitatem et cum franchitijs et aliis ut
supra dittum est e non aliter nec alio modo etc.
«Unde
ut in futurum appareat fattus est praesens actum in curia juratorum huius
terrae praedittae juxta ordinem et provisionem praeditti ill.mi D. Comitis suis
die loco et tempore valitures etc.
«Unde
etc. -
«Ex
actis Curiae Juratorum huius terrae et Comitatus Racalmuti, extratta est
praesens copia - Coll. Sal. - Sanctus Poma, magister notarius.»
[4]) Benedetto Croce, STORIA D’ITALIA dal
1871 al 1915, Bari 1977, pag. VIII. Una
“parentesi”, comunque che bisognerebbe far partire appunto dal 1928; prima il
Croce era stato tutt’altro che pregiudizialmente “antifascista”. Al tempo dell’ «Aventino» il filosofo
napoletano affermava che «non si poteva
aspettare e neppure desiderare» un’improvvisa caduta del fascismo, sul
quale formulava il seguente giudizio: «esso non è stato un infatuamento o un
giochetto. Ha risposto a seri bisogni ed ha fatto molto di buono, come ogni
animo equo riconosce. Si avanzò col consenso e tra gli applausi della nazione.
Sicché, per una parte, c’è, ora, nello spirito pubblico il desiderio di non
lasciare disperdere i benefici del fascismo, e din non tornare alla fiacchezza
e all’inconcludenza che lo avevano preceduto; e dall’altra parte, c’è il
sentimento che gl’interessi creati dal fascismo, anche quelli non lodevoli e
non benefici, sono pur una realtà di fatto, e non si può dissiparla soffiandovi
sopra. Bisogna, dunque, dare tempo allo svolgersi del processo di
trasformazione.» [cit. Da Antonio
Spinosa - Vittorio Emanuele III, l’astuzia di un re - Milano 1990, pagg.
264-265]. Risale al maggio 1925 il Manifesto degli intellettuali antifascisti,
attribuibile al Croce, in risposta al
gentiliano Manifesto degli intellettuali
fascisti. [Vds. Storia d’Italia - Torino 1976 - volume quarto - dall’Unità
ad oggi - pag. 2174].
[5]) Francesco Ercole - La Rivoluzione Fascista
- Ciuni Editore Palermo 1936. Per la “vigilia” della “rivoluzione fascista” cfr. pagg. 77-154; per il “primo tempo” pagg.
155-274; per il “secondo tempo” pagg. 278- 447.
Dopo il 1934, avremmo lo stato fascista corporativo. L’Ercole adotta la terminologia dei “due
tempi della rivoluzione” nel ligio rispetto del frasario mussoliniano.
Mussolini, infatti, in Gerarchia del 1925,
p. 120-121 aveva intitolato un suo intervento “Il primo tempo della Rivoluzione” e nella stessa rivista (pag. 44)
distingue tra primo e Secondo tempo.
Francesco Ercole, professore di storia moderna all’Università di Palermo, fu un
ex nazionalista passato nel fascismo sin dalla prima ora di quella nota
confluenza. Siciliano di adozione, fu deputato anche nelle speciali elezioni
del 1929 e del 1934. Ministro della Educazione nazionale per un breve periodo,
tra il 1932 ed il 1934, è una figura d’intellettuale apprezzata anche dalla
storiografia di “sinistra” meridionalista. Dice, ad esempio, Francesco Renda
(Storia della Sicilia dal 1860 al 1970 - vol. II - Palermo 1990, pag. 362) che
il fascismo, con con l’adesione dei
“nazionalisti siciliani” tra i quali l’Ercole,
«si arricchì delle prime
personalità politiche e culturali di rilievo, che gli diedero dignità e
prestigio di forza di governo pure nella dimensione regionale.»
[6]) Benito Mussolini - Il 1924 - vol. IV Milano HOEPLI 1934-5,
pag 236.
[7]) vedasi ad esempio Ernesto Ragionieri nella cit. Storia
d’Italia, pag. 2145.
[8])
Gabriele De Rosa - i partiti politici in Italia - Bergamo 1972. Stralciamo da
pag. 280: «Con il discorso del 3 gennaio
1925 Mussolini riprese in mano la situazione politica, neutralizzò ogni
possibile e lontana intesa della Corona con l’opposizione aventiniana, dette un
giro di vite nella politica interna aggravando i controlli polizieschi sulle
opposizioni e sugli stessi fascisti intransigenti, ma impedì ancora una volta,
come ormai aveva fatto dalla «marcia su Roma» in poi, che nascesse una seconda
ondata sovversiva del fascismo. Con il discorso del 3 gennaio 1925, in altri
termini, Mussolini non liberò le mani ai fascisti intransigenti, non li gettò
contro gli istituti dello Stato liberale, ma li contenne nell’ambito della
collaudata prassi della politica controrivoluzionaria da lui perseguita sin
dall’epoca dei «blocchi nazionali», cioè sin dalla partecipazione alle elezioni
politiche del 1921 nelle liste liberali. I fascisti intransigenti si accorsero, impotenti, del guoco di
Mussolini, che arrecava un grave colpo anche al ‘fascismo rivoluzionario,
legandogli le mani con dei provvedimenti soltanto in apparenza rivolti contro
gli aventiniani, e in sostanza rivolti contro le minoranze fasciste decise a
tutto’.»
[9]) Renzo De Felice - Mussolini
il fascista, Einaudi, Torino, 1966, p. 729.
[10])
Precedono il passo questi illuminanti passaggi: «La scelta della dittatura aperta era rispondente ad un disegno
precostituito, accarezzato da Mussolini fin dal suo avveno al potere, o non fu
piuttosto, come talune testimonianze asserirono
e alcuni storici ribadirono in seguito, un evento incidentale, imposto
dalle circostanze seguite al delitto Matteotti? Si è scritto che il delitto
Matteotti fu gettato tra i piedi di Mussolini [opinione avanzata
C. Silvestri, Matteotti,
Mussolini e il dramma italiano, Roma 1947, ripresa da R. De Felice, Mussolini il fascista vol. I cit.
e confutata da L. Valiani, la storia del fascismo nella problematica della storia contemporanea e
nella biografia di Mussolini, in ‘Rivista storica italiana’, LXXIX, 1967,
pp. 474-79], che esso costituì un
intralcio sulla via della normalizzazione e della costituzionalizzazione del
fascismo, giungendo a suggerire che la responsabilità prima del 3 gennaio
sarebbe attribuibile all’atteggiamento intransigente degli aventiniani che non
lasciarono a Mussolini alcuna via d’uscita se quella del colpo di forza.
Affermazioni simili sono, in verità, risibili: tutta l’evoluzione delle
vicende successive all’ottobre 1922 ha mostrato sia la sterilità e la
strumentalità dei propositi di normalizzazione del fascismo, sia l’introduzione
da parte del fascismo nel tessuto istituzionale e sul piano della prassi di
governo di elementi che segnavano già una sensibile trasformazione
dell’ordinamento costituzionale in senso autoritario. Se non può parlarsi di un
disegno coerente ed organico, ché il fascismo mostrò spesso di muoversi a
tentoni e con ampi margini di manovra, pu nella persistente fedeltà all’obiettivo di fondo che Mussolini espresse
sinteticamente nel motto ‘durare’, si può dire che lo sbocco dittatoriale era
nella logica delle cose ...»
[11]) Francesco Renda, op. cit.,
pag. 374.
[12]) Salvatore Lupo - L’utopia totalitaria del fascismo
(1918-1942) in Storia
d’Italia - Le regioni - dall’Unità a oggi -
La Sicilia - Einaudi 1987
- pagg. 380- 482.
[13]) Franco Catalano - L’Italia dalla dittatura alla democrazia
1919-1949, Feltrinelli 1970 - vol. I pag. 117.
[14]) In nostre ricerche
all’Archivio Centrale di Stato abbiamo, sì, trovato fascicoli su tale
atteggiamento del fascismo riguardo ad alcune località dell’agrigentino, ma non
investivano in alcun modo Racalmuto.
[15]) R.D. 24 gennaio 1924
pubblicato nella G.U. del Regno d’Italia n. 73 del 26 marzo 1924.
[16]) Archivio Centrale dello
Stato - Ministero Interni - Affari generali - Podestà e rettorati provinciali -
busta 51.
[17]) Eugenio Napoleone Messana - Racalmuto
nella storia della Sicilia - Canicattì 1969 - pag. 401.
[18]) Il
prefetto dott. Raffaele Rocco non era di nomina fascista; proveniente da
Grosseto fu prefetto di Girgenti dal 18 giugno 1922 al 16 marzo 1923, data in
cui viene collocato a disposizion (cfr.
Mario Missori - Governi, alte cariche
dello Stato, alti magistrati e prefetti del Regno d’Italia - Roma
1989 - pag. 304.)
[19]) Archivio Centrale dello
Stato - Ministero Interni - Pubblica Sicurezza - 1925 - busta 115.
[20]) Archivio Centrale dello
Stato - Ministero Interni - Pubblica Sicurezza - 1925 - busta 115.
[21]) Luigi Pirandello - I vecchi e
i giovani - Oscar Mondadori 1973 - pag. 142-143
[22]) Nino Savarese - La Sicilia nei suoi aspetti poco noti od ignoti - in
Delle cose di Sicilia - vol. IV - Sellerio editore Palermo 1986, pag.
254 e segg.
[23]) Cfr. Atti della Giunta per l’Inchiesa Agraria
sulle condizioni della classe agricola, vol. XIII, tomo I, fasc. III, Relazione generale, Roma 1885, pp. 661-662.
[24]) Cfr. L. Hamilton Caico, Vicende e costumi siciliani, Epos, Palermo 1983, pp.
118-121.
[25])
Archivio Centrale dello Stato - Ministero Interno - Pubblica Sicurezza - 1930,
busta 310 fasc. C1 - Relazione del prefetto Miglio del 16 luglio 1931.
[26]) Cit.
in S. Bosco, Il
proletariato a Favara. Lotte scioperi ed altre manifestazioni dal 1860 al 1960,
Sicilia Punto L Edizioni, Ragusa. S.d., p. 75.
[27])
Archivio Centrale dello Stato - Giunta per l’inchiesta sulla Sicilia -
Fascicolo 66.
[28])
Elaborazione dai dati riportati dallo studio di Mario
Cassetti - Fascismo e crollo operaio. I
villaggi minerari (1937-1942)
in Economia e società nell’area dello
zolfo - secoli XIX-XX - Sciascia
Caltanissetta editore 1989 - pag. 456.
[29]) Eugenio Napoleone Messana - Racalmuto
nella storia della Sicilia - Canicattì 1969 - pag. 443.
[30]) Calogero Taverna - conferenza tenuta nella Fondazione
Sciascia il 18 giugno 1995 - ds. pag.
14.
[31]) Leonardo Sciascia - del dormire con un solo occhio
- nota alle Opere 1932-1946 di Vitaliano Brancati - Bompiani, Milano
1987, pagg. XIII e XIV.
[32]) Christopher Duggan - La mafia durante il fascismo - editore Soveria Mannelli,
1987. Sciascia definisce l’autore «giovane ricercatore dell’Università di
Oxford ed allievo di Denis Mack Smith»
[33]) Leonardo Sciascia - a futura memoria (se la memoria ha un futuro) - Bompiani,
Milano 1989, pagg. 126-128.
[34])
crediamo che si riferisca al racconto il ladro dottore de i
fascisti invecchiano in opere cit. pagg. 1118 e segg. Tra l’antifiscismo di Sciascia e quello di
Brancati vi sono assonaneze impressionanti, persino sotto il profilo
stilistico. Non è questa la sede per approfondimenti. Del resto - si sa - che
ad avviare all’ “antifascismo” Sciascia, fu proprio Brancati al tempo in cui
era il suo insegnante di italiano all’istituto magistrale di Caltanissetta. I
due “antifascimi”, tanto affini da confondersi, appaiono, però, meri
atteggiamenti cerebrali, in negativo. Sono due atteggiamenti “contro”. Per
converso, entrambi gli scrittori non sanno, non vogliono prendere partito in
positivo. La politica come “non valore” riaffiora immancabilmente nei loro
scritti. Non per nulla Sciascia si presentò e fu eletto nelle liste di
Pannella.
[35]) Leonardo Sciascia - a futura memoria (se la memoria ha un futuro) - Bompiani,
Milano 1989, pagg. 138-139.
[36]) Leonardo Sciascia - Una Kermesse - in Malgrado
tutto - periodico cittadino di Racalmuto - settembre 1993 Anno XII
n.° 4, pagg. 4-5.
[37]) Archivio Centrale
dello Stato - Casellario Politico
Centrale - busta n.° 5344 - fascicolo n.°
16434.
[38]) Ernst Nolte - I tre volti del
fascismo - Oscar Mondadori 1978 - pp. 252-254.
[39]) Tra i tanti includiamo
l’opera del Ragionieri che abbiamo già citata.
[40]) Valga per tutti il lavoro
prima richiamato di Francesco Ercole.
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