martedì 14 marzo 2017

sabato 25 luglio 2015

Storia non conformista di Pescorocchiano


Per una storia del Castrum di Pescorocchiano

di CALOGERO TAVERNA

Pescorocchiano

Se noi, venuti da fuori ed incantati da questa aprica “rocca”, siam curiosi di sapere qualcosa sulla storia di Pescorocchiano e consultiamo Internet, poco o nulla riusciamo a sapere: tolta sorse la segnalazione i una interessante saga delle castagne, restiamo a bocca asciutta. Ecco perché questa paginetta di una visita pastorale del 1574 è cosa davvero ghiotta.

Un vescovo, arcigno metodico inflessibile, mons. Pietro Camaiani. Preso disacro furore nei prodromi della riforma tridentina, ecco ad esempio come folgora il prevosto di Pescorochiano: frater Franciscus Antonius de Arce Ranisii [ordinis S. Francisci] imperitus ac ineptus in confessionibus audienis, quare inhibitum sibi fuit. – INEPTUS. Il francescano, dunque, era fin troppo birichino specie quando a confessarsi erano le donne. Giudicato addirittura INETTO lo si interdice dalla somministrazione del sacramento della Penitenza. Per il resto, inesperto e carente, il vescovo Camaiani lo stronca con un aggettivo dequalificante: INEPTUS, come dire INSUFFICIENTE, come nelle pagelline dei miei tempi della scuola elementare.

Ma chi era questo grifagno visitatore apostolico? In fondo una lunga nota su di lui lui per chi abbia ben più di una semplice curiosità storica.

CAMAIANI, Pietro

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 17 (1974)

di Gerhard Rill

CAMAIANI, Pietro. - Di famiglia patrizia, nacque ad Arezzo il 1º giugno 1519. Della sua immediata parentela sono noti i fratelli Onofrio e Bernardino, imprigionato nel 1548 nel carcere romano di Tor di Nona. Nulla sappiamo dei suoi anni giovanili e della sua formazione culturale; poiché in seguito gli venne rinfacciata la sua scarsa conoscenza del latino, possiamo assumere che fosse privo di una solida formazione umanistica. Entrato nel 1539 al servizio di Cosimo I de' Medici, divenne nel 1545 segretario del Consiglio di stato col compito precipuo di sottoporre al segretario ducale Cristiano Pagni le relazioni degli ambasciatori.

Già nel maggio 1545 cioè ancor prima dell'inizio della prima fase del concilio, Cosimo aveva inviato a Trento suoi agenti perché gli riferissero gli eventi della sede conciliare. Inviato dal duca, il C. giunse a Trento nel febbraio 1546, inizialmente era stato incaricato di proseguire per Regensburg, ove doveva assistere alle discussioni tra cattolici e protestanti, ma apparentemente questa missione fu revocata, ed egli rimase a Trento quale agente fiorentino, cioè relatore e non rappresentante ufficiale del duca. I rapporti che inviò regolarmente dalla metà di febbraio si distinguono per precisione e sicurezza di giudizio oltre che per l'esattezza delle informazioni, che egli doveva in primo luogo alla sua dimestichezza con Angelo Massarelli, segretario del concilio. Quando questo decise, l'11 marzo 1547, di trasferirsi a Bologna, il C. rimase inizialmente a Trento con la minoranza imperiale, ma ben presto riconobbe l'inutilità di una ulteriore resistenza, per cui Cosimo, alla fine di maggio, lo inviò su sua richiesta a Bologna. Qui conobbe il cardinale Giovanni Maria Del Monte, successivamente papa Giulio III e protettore del Camaiani. La definitiva partenza del C. da Bologna, il 4 giugno 1549, offrì il pretesto al Del Monte per riferire a Roma sull'inutilità di una prosecuzione del concilio. Nel settembre 1549 il C. ritornò ancora a Bologna, ma era solo di passaggio per Venezia, ove fu per breve tempo "secretarius et agens" del duca Cosimo.

Giulio III affidò ripetutamente al C. missioni di rilievo politico, anzitutto in connessione col conflitto parmense. Quando Ottavio Farnese, che aveva riconosciuto la sovranità feudale del papa su Parma, cercò di ottenere in Francia un appoggio contro le minacce sue e dell'imperatore, Giulio III affidò al C. la missione di dissuadere il suo vassallo dal ricercare tale alleanza.

Le istruzioni impartite al C. il 16 febbr. 1551 stabilivano che l'impegno scritto del duca a revocare l'alleanza con la Francia avrebbe dovuto essere controfirmato dai suoi fratelli, i cardinali Alessandro e Ranuccio. Ottavio dichiarò al C. che non poteva revocare gli impegni contratti senza il consenso del re di Francia, e anche tre brevi in data 27 febbraio indirizzati a Ottavio, Paolo Vitelli e Ranuccio Farnese rimasero senza effetto, per cui il C. ritornò a Roma e l'8 marzo fece il suo rapporto.

Dalla fine di marzo ai primi di aprile il C. si recò nuovamente a Siena presso l'oratore imperiale Diego de Mendoza per la questione parmense, e con lui ritornò a Roma per colloqui con il papa. Dalla fine di maggio agli inizi di giugno soggiomò a Bologna nella veste di commissario pontificio, per raccogliere informazioni sulla situazione finanziaria e gli apprestamenti difensivi della città, oltre che sulla situazione militare di Parma. A metà giugno compì un altro viaggio informativo a Urbino, da dove inviò dettagliati rapporti sulle intenzioni dei Farnesi e del duca di Urbino, e sulla disposizione degli animi a Fano, Rimini ed Ancona. Quale plenipotenziario pontificio concluse ai primi di luglio col comandante delle truppe imperiali Ferrante Gonzaga un accordo inteso a coordinare le iniziative degli alleati contro Parma e Mirandola. Il 25 agosto Giulio III nominò il C. - tornato a Roma l'8 agosto - "cubicularius secretus" e "continuus commensalis", dotandolo anche di benefici a Firenze, Fiesole e Arezzo.

Il papa, che aveva inviato ai primi di settembre 1551 il cardinale Verallo a trattare la questione parmense con Enrico II di Francia, decise di inviare presso l'imperatore un nunzio straordinario che lo tenesse al corrente delle trattative, e destinò per questa missione il cardinale Rodolfo Pio da Carpi e infine, quando questi si ammalò, il Camaiani. Dato il modesto rango del C. - non era neppure vescovo - questa designazione attesta la particolare considerazione in cui egli era tenuto dal pontefice.

In base alle istruzioni in data 10 ottobre, il C. doveva addurre le ristrettezze finanziarie e l'amor di pace del papa a giustificazione delle trattative con la Francia, ed assicurare contemporaneamente l'imperatore che Roma non avrebbe concluso una pace separata. Inoltre, nonostante le trattative condotte dal Verallo, egli doveva concordare le ulteriori misure da intraprendere contro Parma.

Il C. passò per Firenze, ove conferì con Cosimo, e giunse ad Augusta il 21 ottobre; il giorno successivo accompagnò Carlo V a Monaco; ritornò a Roma il 5 novembre. La sua missione riuscì solo parzialmente, poiché l'imperatore, mentre acconsentiva a procedere energicamente contro Parma, si dichiarava ora disposto a pagare soltanto la metà dei 100.000 scudi precedentemente promessi. Pur continuando le trattative con Enrico II, Giulio III permaneva scettico nei confronti della Francia e il 21 dicembre inviava di nuovo il C. presso la corte imperiale, con l'ordine di attendere colà i risultati della missione Verallo e, se necessario, concordare un piano di azioni contro Parma. Prima della sua partenza, il C. ottenne l'ulteriore incarico di trattenere a Trento gli elettori di Magonza e di Treviri, che volevano partirne a causa dei disordini in Germania; era anche latore di brevi pontifici che dovevano facilitargli il compito. Assolto con successo questo incarico straordinario il 30 dicembre, giunse ad Innsburck il 1º genn. 1552, accolto amichevolmente dal nunzio ordinario alla corte imperiale, Pietro Bertano, presso il quale fissò la sua dimora. Ma la loro collaborazione, inizialmente buona, diede ben presto luogo a divergenze.

Il C., abituato ad agire autonomamente, vedeva nel cauto e malaticcio Bertano un ostacolo alla sua libertà d'azione; inoltre voleva avere al più presto una propria dimora e domestici (li ebbe solo alla fine di febbraio). Finalmente trattò con l'imperatore e col Granvelle all'insaputa del Bertano - cui tenne celata persino la chiave della cifra - sicché il Bertano era costretto nel corso delle trattative a simulare di fronte agli interlocutori di essere a conoscenza di quanto il C. gli aveva consapevolmente nascosto. Il modesto Bertano ne trasse le conseguenze, e chiese il proprio richiamo.Il 10 febbr. 1552 il C. veniva nominato nunzio ordinario e, contemporaneamente, vescovo di Fiesole; il 26 marzo il Bertano partì da Innsbruck.

Il C. aveva ottenuto così la desiderata autonomia, ma si era suscitato anche molte inimicizie. Persino diplomatici di solito divisi da aspro antagonismo, quali il rappresentante di Cosimo alla corte imperiale Piero Filippo Pandolfini e l'ambasciatore di Ferrara Ercole Rangoni, furono concordi nel giudicarlo: il C. ambiva soprattutto a conquistarsi il maggior prestigio possibile nel minor tempo possibile; epperò era "huomo senza lettere et poco pratico de' negoti"; parlava e scriveva molto, ma in un latino scadente, il che gli era valso il nomignolo derisorio di "il dicevolo". Con questo giudizio concordava il Granvelle, che lo definiva vanitoso, incostante e verboso.

Questi giudizi sono confermati in parte dai rapporti del Camaiani. Il nunzio vi criticava violentemente Carlo V e la sua corte; né dall'uno né dall'altra v'era da aspettarsi aiuto o comprensione perché essi, mancando di discernimento politico, badavano soltanto al vantaggio immediato. L'imperatore desiderava ardentemente la pace universale, perla quale aveva bisogno del papa, e pertanto non era necessario che questi si sforzasse di adempiere ai propri doveri di alleato. Conseguentemente il C. consigliava che la Curia, pur senza rescindere del tutto "il filo dell'amicitia" con l'imperatore, non si impegnasse in iniziative belliche e rimanesse in contatto con la Francia almeno tanto quanto bastasse per non porre in pericolo lo Stato della Chiesa e l'obbedienza della Chiesa francese. A quanto sembra il C. ebbe l'imprudenza di esternare le sue opinioni anche ad altri. Carlo V, quando venne a conoscenza della sua asserzione che l'elettore di Sassonia avrebbe violato i patti qualora si fosse accordato con l'imperatore, biasimò aspramente il nunzio, all'inizio di maggio 1552, e il C. chiese il proprio richiamo. Ma Giulio III rigettò la sua richiesta, e gli espresse nuovamente la propria fiducia.

Il C. pertanto rimase ancora alla corte imperiale, che seguì nella sua fuga dinanzi a Maurizio di Sassonia da Innsbruck, fino a Strasburgo. Qui, come gli altri ambasciatori, si separò da Carlo V che si recava in Lorena, e si stabilì a Spira (settembre 1552). I suoi rapporti avevano corroborato l'opinione del papa che l'imperatore fosse stanco della guerra e fosse perciò facile convincerlo a una azione di pace. Conseguentemente tanto più grande fu la delusione quando il 7 ottobre a Landau l'imperatore oppose un reciso rifiuto al C. che era latore di una proposta in tal senso.

Anche dopo questo insuccesso il C. consigliò di ripetere il tentativo entro due-tre mesi, ché l'imperatore - secondo lui vecchio, malato, avaro e stanco della guerra - e la Francia si ostinavano un contro l'altro come cani intorno ad un osso e tutto ciò avveniva probabilmente per volere di Dio, che così allontanava dalla Chiesa una seria minaccia. Che il papa aspettasse perciò l'ora in cui avrebbe potuto inserirsi, invocato terzo, tra i due esausti contendenti. Questo consiglio del C. peccava contemporaneamente di cinismo e utopia, in quanto non prendeva in considerazione né la missione della Chiesa né la situazione politico militare in Italia che non permetteva al Papato di assumere un ruolo di spettatore.

Dal gennaio ai primi di settembre 1553 il C. rimase a Bruxelles con gli altri ambasciatori accreditati alla corte imperiale. Quando venne a sapere del progettato invio di un cardinal legato, prima cercò di impedirlo, poi sperò che il papa scegliesse il giovane ed inesperto cardinal nepote Innocenzo Del Monte. Finalmente non fu neppure avvisato dell'invio del cardinale Girolamo Dandino, che giunse a Bruxelles nel maggio del 1553. Se ne può dedurre una diminuzione del prestigio del C. in Curia; in effetti egli, offeso, chiese il proprio richiamo.

Il Dandino si lamentava della sua scontrosa riservatezza nei rapporti personali, e della scarsa disposizione del C. alla collaborazione ed alla cortesia. Contrastava con questo e con i precedenti giudizi negativi il parere di Girolamo Seripando, che ebbe frequenti rapporti col C. a Bruxelles nell'estate 1553. Egli, come il duca Cosimo, lo stimava "propter ingenii acumen, fidem, diligentiam ac dexteritatem", e, come i padri conciliari a Trento prima di lui, per la sua intelligenza superiore e per i suoi modi piacevoli. Il contrasto col Dandino si concluse formalmente con una rappacificazione, ma in agosto il C. fu autorizzato a intraprendere il viaggio di ritorno, e il 2 settembre partiva da Bruxelles.

Il 12 ott. 1554 il C. fu nominato alla nunziatura di Napoli, nella quale succedeva al collettore pontificio Fabio Cupellato. Questa designazione ad una nunziatura di scarsa importanza, denotava una nuova diminuzione del prestigio del Camaiani. In realtà la sua attività a Napoli si ridusse alle funzioni di rappresentanza e ad alcuni interventi nei contrasti relativi a questioni di proprietà tra l'abbazia di Passitano e gli abitanti di Rieti e Civita Ducale. Con la morte di Giulio III, il 23 marzo 1555, il C. perdette il suo ultimo sostegno in Curia, come ebbe a riconoscere anche il Seripando, che gli scrisse una lunga lettera consolatoria. Richiamato in agosto, scomparve per alcuni anni dalla scena diplomatica.

Il 6 ott. 1561 il C. giungeva a Trento per partecipare alla terza fase del concilio. Cosimo, pur non conferendogli alcun incarico ufficiale, desiderava ricevere regolarmente rapporti dal C. che questi in effetti gli inviò fino alla fine di marzo 1562. Questo incarico venne poi assolto dall'inviato ufficiale del duca presso il concilio, Giovanni Battista Strozzi, che giunse a Trento in febbraio e fu subito coinvolto in una disputa di precedenze con l'inviato svizzero; il C. sostenne energicamente le pretese fiorentine. Anche ora egli appariva sempre ben informato e intervenne più volte nei dibattiti sull'Indice, sull'eucarestia, sul matrimonio dei preti. In questioni concernenti la Riforma, si espresse in favore della visita episcopale a spese del vescovo, per regolari sinodi diocesani, per l'obbligo ai parroci dell'esegesi biblica nei giorni festivi; sulla questione della residenza si schierò col partito del "ius divinum", ammonì contro decisioni precipitate sulla questione della concessione del calice ai laici e prese in considerazione un regolamento speciale per l'Ungheria e la Boemia.

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