[OTTAVO ARTICOLETTO]
MINIERE RACALMUTESI AI TEMPI DEI ROMANI
di Calogero Taverna
Immemorabile trascorse per quasi quattro secoli la vita agricola e contadina nei dintorni di Racalmuto, sotto il dominio romano.
Gli studiosi ci avvertono che tutto il sottosuolo siciliano divenne proprietà privata di Augusto, ma di miniere racalmutesi non si ha traccia alcuna per quel periodo. Solo, sul declinare dell'impero romano, sotto Commodo si registra una svolta economica di grande risalto per Racalmuto: le miniere di zolfo, impiantate come alcuni vecchi ancor oggi ricordano, presero piede nel nostro territorio.
Per oltre un millennio non se ne seppe nulla. Nell'Ottocento, dopo un buio millenario, si rinvennero i cocci di talune forme romane, simili alle 'gàvite', recanti sul fondo i caratteri ribaltati dell'indicazione dello stabilimento minerario. A parlarne per primo è il nostro Tinebra Martorana che racconta di reperti della specie regalati dalla Famiglia La Mantia all'Avv. Giuseppe Picone di Agrigento e finiti, quindi, al Museo Archeologico di Agrigento.
KAIBEL e MOMMSEN ne fecero oggetto di studio nei rispettivi CORPORA, senza però precisarne l'origine. All'inizio di questo secolo, il SALINAS aveva modo di rinvenire proprio a Racalmuto alcuni reperti di quelle che Mommsen impropriamente, ma con fortuna, ebbe a chiamare «tegulae sulfuris». Al Salinas, invero, furono vendute per il Museo di Palermo quattro lastre con iscrizioni da un contadino nostro compaesano che le aveva rinvenute nella costruzione di un sepolcro, presumibilmente nei dintorni di Santa Maria.
Quell'insigne archeologo procedeva ad un'analisi storica di grande acume che pubblicava sul bollettino dell'Accademia dei Lincei «NOTIZIE DEGLI SCAVI» (Anno 1900, pagg. 659-60). Proprio di recente - come mi segnala il valente giornalista di Malgrado Tutto, Gigi Restivo - la Regione Siciliana ha ripubblicato quell'articolo, data l'importanza che ancora riveste.
Altri reperti di tali «tegulae» sono stati rinvenuti in gran numero nel 1947 in località Bonomorone di Agrigento. Ma qui non attestavano la presenza di miniere di zolfo perché, come ebbe a scrivere il Prof. Pietro Griffo (KOKALOS 1963, pp. 163-184), si trattava di un deposito di cocci di una figlina (officina di vasaio): dunque il commercio avveniva ad Agrigento, ma la produzione era altrove ed in particolare, per quel che ci riguarda, a Racalmuto.
Biagio Pace, con taglio più letterario che scientifico, così sintetizza quell'attività mineraria dei tempi romani: «Si tratta di tegole quadrate di terracotta, di circa 40 cm. di lato, che recano in rilievo, rovesciate, delle epigrafi... Tegole evidentemente poste, come illustrò il Salinas, nei cassoni destinati a contenere lo zolfo liquido e che dobbiamo immaginare del tutto identici a quelli che si adoperano tuttavia sotto il nome di gàvite, nel fondo dei quali sono parimenti incise le lettere della miniera, che in tal modo vengono riprodotte in quelle caratteristiche forme falcate di zolfo, le balate, che ognuno che abbia transitato per le stazioni zolfifere di Sicilia ha notato.» (B. Pace, Arte e Civiltà, I pp. 393-4).
Pare, comunque, che l'attività mineraria solfifera a Racalmuto si sia presto estinta nell'antichità. Dopo quelle testimonianze dell'anno 180 d.C. si fa un salto di oltre quindici secoli per avere notizie certe su una presenza mineraria a Racalmuto: risale all'inizio del Settecento una nota negli archivi parrocchiali della Matrice che ha attinenza con le miniere. Sotto la data del 22.10.1706 i preti dell'epoca registrano un infortunio sul lavoro: Giacomo Giangreco Cifirri, di 34 anni, sposato con la sig.a Nicola, periva sotto una valanga di salgemma, mentre scavava dentro una miniera di sale. Il giovane minatore veniva sepolto nella Matrice. «In fovea salinae, ob ruinam salis repentinam, defunctus est», è la malinconica annotazione in latino. Il Giangreco Cifirri moriva dunque nella caverna di una salina, per il repentino crollo di massi di sale.
[NONO ARTICOLETTO]
RACALMUTO BIZANTINO
di Calogero Taverna
Confesso di avere avuto un sobbalzo quando mi sono imbattuto in quel passo di Biagio Pace che accenna ad un ipogeo cristiano in «quell'abitato prearabo che fa postulare il nome di Racalmuto» (cfr. B. Pace, Arte e Civiltà, vol IV, pag. 174): una presenza cristiana del quinto o sesto secolo nel nostro paese con tanto di chiesetta cimiteriale era notizia di acuto interesse storico.
Con una punta di disillusione ho però subito dovuto convincermi che l'eclatante affermazione poggiava su un malcerto passo del nostro Tinebra Martorana, il seguente: «..alla contrada Grutticeddi esiste un poggetto di masso scavato in una grotta; da molti mi fu assicurato che in quella grotta furono rinvenuti dei sepolcri scavati nel masso con resti di ossa». Da qui all'ipogeo cristiano del V secolo ce ne corre. Una ipotesi dunque, ma tutt'altro che inattendibile come i recenti ritrovamenti archeologici nei dintorni vanno sempre meglio precisando.
Di certo sappiamo che le Grotticelle erano una plaga abitata anche al tempo dei bizantini. Confinavano con le contrade di Bigini e Cometi e tutte tre le contrade risultano feudi nei capibrevi minori di Luca Barberi e tali appaiono nel primo abbozzo di una mappa catastale di Racalmuto custodita presso l'Archivio di Stato di Agrigento. Per contro vi sono i feudi maggiori di Gibellini e del castello chiaramontano di Racalmuto.
Grotticelle e dintorni poterono dunque essere fattorie o pertinenze di 'massae' soggette al papa Gregorio nel VI secolo o alla chiesa di Ravenna oppure costituire beni propri della corte di Bisanzio. Sulla scia di autorevoli storici (cfr. V. D'Alessandro, per una storia delle campagne siciliane nell'Alto Medioevo, in Archiv. Storico Siracusano, n.s. V, 1981) oggi è pur congetturabile una sorta di continuità tra l'assetto agrario dell'epoca bizantina e quella della Sicilia post-araba. La frattura saracena a Racalmuto, come altrove, fu profonda ma non invalicabile.
In tale contesto pensiamo che, se non tutti e due i nostri castelli medievali, almeno il Castelluccio (nella vecchia contrada di Gibellini) può sorgere su un antico nucleo bizantino: il «frourion». A convincerci in tal senso, sono le tesi di Rodolfo Santoro sulle «fortificazioni siciliane dall'ultima amministrazione imperiale bizantina al consolidamento del Regno di Sicilia» (Archivio Storico Siciliano, 1976, p. 27 ss.) e più specificatamente sulla «architettura castellana della feudalità siciliana» (Arch. Stor. Sic., 1981, p. 59 ss.). Secondo Santoro, il «Frourion, parola greca che designa la fortificazione in generale, ... è riferibile al piccolo fortilizio di età bizantina dotato di una torre e di un breve circuito murario..» (Ibidem pag. 65). Il Castelluccio, ingrandito e meglio fortificato in età post-normanna, ha invero l'aria di una derivazione bizantina che precede dunque la conquista araba.
Ma l'ultimo atto relativo a Racalmuto pre-arabo resta per il momento la presenza di un ripostiglio di aurei imperiali (oltre duecento) rinvenuto casualmente in contrada Montagna. Sul ritrovamento delle monete a Racalmuto, ho sentito varie versioni pittoresche sin dalla prima infanzia: lavori di scasso per l'impianto di una vigna in contrada "MONTAGNA"; ritrovamento del tesoro da parte di operai, tra i quali un contadino di non eccelse capacità intellettuali; rapacità del padrone del fondo; imprevista denuncia del minorato; intervento dei carabinieri e sequestro delle monete finite al Museo di Agrigento. A quel ripostiglio si riferisce André Guillou (L'Italia bizantina dall'invasione longobarda alla caduta di Ravenna, Vol. I, Torino 1980, pag. 316). Nell'illustrare l'industria e il commercio dei bizantini di Sicilia, quell'autore colloca nei secoli VII-VIII il «numero notevole di tesori di monete ... dispersi nell'isola» e mette a capofila le monete di Racalmuto. Secondo quel che possiamo leggere in un altro studio di quell' Autore (Arch. Stor. Sirac., n. s. IV. 1975-76, pag. 74, n. 149) trattasi di un tesoro di «205 pezzi, riferentisi a Tiberio II - Héracleonas».
Quell'importante testimonianza di Racalmuto bizantino è oggi nascosta in una sala sempre chiusa del Museo Agrigento, quasi a simbolo del pubblico oscuramento della nostra antica storia locale. Se non fosse stato per il francese Guillou, le ultime vicende bizantine di Racalmuto sarebbero finite nell'oblio o inficiate da errori di datazione come mi è capitato di constatare in testi per altri versi pregevoli (cfr. P. Griffo, Il Museo Archeologico Regionale di Agrigento, 1987, pag.192).
[Articoletto n.° 10]
RACALMUTO SOTTO GLI ARABI
di Calogero Taverna
La pagina più buia della storia di Racalmuto è quella del dominio arabo. Può dirsi una storia quasi trisecolare completamente oscurata.
Di certo sappiamo che caduta Agrigento attorno all’ 828 in mano dei Musulmani, anche per il tradimento del greco Eufemio, quella che dovette essere la popolazione bizantina sparsa per il territorio di Racalmuto finì sotto il dominio arabo. Di certo, verso l’840 i nuovi e più stabili padroni furono i Berberi, gente della famiglia camitica della stessa schiatta dei moderni marocchini. Distrussero costoro religione, usi, costumi, tradizioni, cultura, superstizioni dei nostri progenitori racalmutesi di lingua greca? Noi pensiamo di no.
Pochi, di religione non missionaria, necessitanti di imposte a carico dei ‘rum’ (romani o cristiani che dir si voglia), alieni da commistioni ed in un certo senso razzisti, non avevano alcun interesse a consumare genocidi nella nostra landa o a imporre il loro modo di essere maomettani a quelli che quella ‘grazia’ non era stata concessa, perché militarmente sconfitti. Allah non poteva essere anche il Dio dei vinti. Ed i vinti servivano - come in ogni tempo - per lo sfruttamento, per il discrimine sociale, per il supporto schiavistico su cui, mascherato e variegato, si radicano le leggi della economia.
Così poté esservi convivenza tra le due religioni e i due popoli, anche se mancano testimonianze per comprovarlo. Ma non ve ne sono neppure di segno contrario. Forse le tante lucerne funerarie ed i resti archeologici delle zone del Giudeo risalgono proprio a quei secoli arabi, anche se sono attestazioni cristiane o ebree oppure appunto per questo..
Propendiamo a credere che gli indigeni bizantini di Racalmuto rimasero sul luogo al tempo della conquista saracena; essi continuarono a coltivare grano e vite nelle zone alte del territorio. I vincitori, intere famiglie di coloni, si assestarono nelle valli, vicino alle fonti d'acqua della Fontana, del Raffo ed anche di Garamoli e della Menta, in zone appunto propizie alle loro colture d'ortaggi, in cui erano maestri e che i Rum (i Cristiani) ignoravano. Dai Rum, l'emiro di Girgenti esigeva la tassa capitaria della Gezia, il soldo per mantenere il culto dei Padri e la fedeltà alla propria religione.
Forse semplici congetture, ma ci appaiono fondate: i Berberi, insediatisi da noi, introdussero sistemi di coltivazione degli ortaggi alla stregua di quanto avviene ancor oggi. Certi autori riportati dall'Amari descrivono la coltura delle cipolle con porche e zanelle come tuttora si usa negli orti sotto l'attuale Fontana. (Michele Amari: Biblioteca Arabo-Sicula, Torino 1880 - pag. 305-306: dal Kitab 'al Falah (Libro dell'Agricoltura) di Ibn 'al Awwam). I secoli dal Nono all'Undicesimo sono sicuramente secoli arabi per Racalmuto.
Un documento greco del 1178, se per avventura si dovesse veramente riferire a Racalmuto come autorevolmente sostiene il Garufi, proverebbe appieno queste nostre ipotesi.
In effetti, in quel documento greco del 1178 abbiamo il primo attestato storico sul toponimo di Racalmuto, e già siamo ai tempi di Guglielmo II, il Buono. Ebbe a pubblicarlo nel 1868 il grande Salvatore CUSA (cfr. I diplomi greci ed arabi di Sicilia, Palermo 1868, pag. 657-658 e pag. 729): vi si parla di una vendita a Berardo, priore di S. Maria di Gadera, di un fondo sito in RAHALHAMMUT, per il prezzo di 50 tarì. A venderlo, nel settembre di quell'anno, fu tale Pietro di Nicola GUDELO, insieme alla moglie Sofia ed ai figli Tommaso e Nicola.
Il toponimo Rachal Chammoùt ( αµµu) figura scritto in greco e la vendita del terreno viene fatta al lontano monastero di S. MARIA di GADERA, sito nei pressi di Polizzi Generosa. Per alcuni studiosi locali, affetti di laico attaccamento alle loro pretese origini musulmane, vi sarebbero le stigmate della sofferenza post-araba di Racalmuto. Terra ormai di schiavi, il suo circondario sarebbe stato spartito tra chiese e conventi e già dal 1093 avrebbe, per di più, subito l'onta dell'assoggettamento alle decime del vescovo di Agrigento, di cui per volontà dell'invasore normanno era stato ridotto a territorio diocesano subalterno.
[Articoletto n.° 11]
IL NOME DI RACALMUTO
di Calogero Taverna
Mi si controbatterà che buia per quanto sia la pagina araba racalmutese, arabo è indubitatamente il toponimo.
Già nel XVI secolo il colto Fazello attestava l’origine saracena di Racalmuto. «Castello saraceno - lo definiva - dove è una Rocca edificata da Federico Chiaramonte». Più in là non andava. Tra il 1757 e il 1760, il monaco benedettino Vito Maria Amico nel suo “Lexicon topographicum siculum” rivestiva purtroppo di patina scientifica la funerea etimologia di paese “diruto, morto” e simili relativamente a Racalmuto. L’avv. Giuseppe Picone, agrigentino ma del ceppo dei Picone del nostro paese, s’inventava addirittura la derivazione da due termini arabi: Rahal (‘Villaggio’ e sin qui correttamente) e Maut (‘della Morte’ e qua invece cervelloticamente). Il Nostro Tinebra Martorana, con fervore giovanile, vi correva dietro. Leonardo Sciascia, ovviamente poco incline alle pignolerie etimologiche, vi dava plurimo ed autorevolissimo avallo.
Diviene difficile per chicchessia procedere ora alle debite rettifiche. Vi tentò, ma flebilmente, il compaesano gesuita padre Antonio Parisi: «... emerge la probabilità, se non la certezza - scrive il dotto gesuita - che fosse stato un Hamud [...] a dare il nome all’abitato. Rahal, pronunziato Rakal [ ...]; Hamud, pronunziato Kamud o Kamut [...] dava Rakal-kamut; ed a togliere la cacofonia si soppresse il secondo “ka” e rimase “Rakal-mut” = Ralmanuto!». Quando ignoravamo questo scritto, seguendo altre nostre personali argomentazioni, siamo arrivati a conclusioni analoghe che abbiamo affidate alla locale biblioteca comunale.
Di certo, con la sua indiscussa autorità, ci aveva pensato il Garufi a debellare la fantasiosa etimologia di Racalmuto quella lugubre di “Paese dei Morti”. In un suo studio del 1947 (Carlo Alberto Garufi, PATTI AGRARI E COMUNI FEUDALI DI NUOVA FONDAZIONE IN SICILIA, parte II dell'articolo, in ARCHIVIO STORICO SICILIANO, anno 1947, pag. 34) troviamo, infatti, questa illuminante nota: «soggiungo che l'unica e più antica notizia di Racalmuto, che ci permetta d'indagarne l'origine al di fuori delle cervellotiche etimologie di R a h a l m u t, casale della morte, si ha nella pergamena greca originale conservata tuttavia nel Tabulario di S. Margherita di Polizzi, la quale contiene l'atto di compra-vendita, dell'a. m. 6687, e. v. 1178, feb. ind. XII, di un fondo sito in Rachal Chammout. Sin dalle sue origini il casale fu denominato da Chammout, nome codesto di persona che per due volte ricorre fra i g a i t i testimoni saraceni nel diploma originale, greco-arabo, di Re Ruggiero dell'a.m. 6641, e.v. 1133 feb. ind. XIa ».
Va detto che la lezione del Garufi, purtroppo, non è stata recepita dai moderni storici alla Henri Bresc. Ispirato forse da quest’ultimo, un grandissimo arabista contemporaneo si è data la briga di riesaminare l’etimologia del toponimo “Racalmuto”. Non accetta la versione tradizionale. Ed ci dà una nuovissima lettura: Racalmuto come ‘Paese del moggio’. Ci riferiamo a quanto pubblicato nel 1990 nell’opera rispettabilissima: Giovan Battista Pellegrini, in Dizionario di Toponomastica - i nomi geografici italiani - UTET 1990.
Vi leggiamo che “Racalmuto”: «deriva dall'arabo Rahl al Mudd = uguale Casalis Modi (Cusa 24, 25 e 221) 'sosta, casale' del Mudd <latino modium 'Moggio' ". "Paisi di lu Munnieddu", dunque, alla siciliana. Ma di modii e mondelli Racalmuto non ha la configurazione. L'immagine potrebbe valere per il vicino Monte Formaggio di Sutera. Del resto, può escludersi qualsiasi vecchio fonema che suoni simile a Racalmuddo o Racalmullo ed analoghi.
Ma almeno, niente più accenni mortuari che ci tornano indigesti. E’, dunque, un passo avanti.
Dipanata in qualche modo la questione del significato, nasce quella del periodo in cui si ebbe ad affermare quel nome arabo. Fu durante il periodo della dominazione berbera, come propende il p. Antonio Parisi? O va spostato nei tempi immediatamente successivi alla caduta dell’Emiro di Girgenti, Hamùd (25 luglio del 1087), come noi siamo inclini a credere?
Insediatosi Ruggero il Normanno, presso gli abitanti arabi del territorio di Racalmuto permase l’uso di chiamarsi quelli del Casale di Hamùd e, tardivamente, i notai e gli uomini colti dell’agrigentino - preponderantemente, ebrei - finirono col recepire quella dizione, che solo nel XIII secolo resta raffermata in “Racalmuto” o più precisamente “Rachal-Chamut”, come più dettagliatamente vedremo in seguito. Questa la nostra ipotesi.
[Articoletto n.° 12]
I NORMANNI A RACALMUTO
di Calogero Taverna
La conquista da parte di Ruggero il Normanno del territorio agrigentino, nella primavera del 1087, non pare abbia trovato un Racalmuto popoloso e prospero. La fole di una Rahal-Almut con il suo emiro dal beffardo nome di AABD-ALUHAR con le sue 2095 anime etc.etc. è un infondatissimo falso del settecentesco abate Vella, cui non si può attribuire neppure quel barlume di verità che gli storici moderni rinvengono nei miti, nelle saghe e nelle inverosimili agiografie. Serafino Messana - un robusto intellettuale dell’Ottocento della nostra terra, il cui valore oggi appare del tutto ignorato - ebbe a provarci, per quel che ce ne dice Eugenio Napoleone Messana. Ma non va oltre un fantasioso romanzare. Narra, dunque, il Messana di due governatori di Racalmuto chiamati Apollofar ed Apocaps. Muore in battaglia a Catania, Apocaps. Organizza una stenua difesa ad Al ’Minsar - che Eugenio Napoleone Messana reputa essere l’attuale Castelluccio - Apollofar. Fiaccato per il bisogno tentò riparo nella fuga verso Licata, ma invano giacché fu visto e raggiunto presso Ravanusa, ove, preso prigioniero, venne decapitato.
Quanto a documenti, però, non vi è nulla.
Un piccolo barlume potremmo forse trovarlo nelle cronache del Malaterra. Facendo anche noi ricorso alle congetture, propendiamo ad identificare Racalmuto in un toponimo, evidentemente corrotto nelle tante trascrizioni del testo malaterrano, che si rifà ad un impreciso “Racel....”. Goffredo MALATERRA fu un cronista normanno dell’XI secolo. Monaco benedettino a Sanie-Evreul-Ouche, passò nell'Italia meridionale e si stabilì in Sicilia. Qui fu incaricato dal gran conte RUGGERO di scrivere la cronaca delle gesta del Normanno. Il racconto si estende per quattro libri. La sua opera è variamente intitolata. La riedizione del Pontieri (Bologna 1927), porta: «De rebus gestis Rogerii ..... et Roberti Guiscardi». Il manoscritto malaterrano che fu trafugato dall'Italia dallo spagnolo ZURRITA fu pubblicato a Saragozza nel 1578. Del manoscritto originale si sono perse le tracce. Michele Amari ovviamente se ne serve e riduce in RAHL il RACEL che si trova nel punto in cui si parla della conquista dell’agrigentino e che potrebbe riguardare proprio il nostro paese: Racalmuto.
In effetti il Malaterra parla di undici castelli nei dintorni di Agrigento conquistati dal conte Ruggero «.. Unde et usque ad undecim - scrive il monaco - aevo brevi subjugata sibi alligat, quorum ista sunt nomina» In altri termini, il Conte in breve tempo riesce a conquistare fino ad undici villaggi, i cui nomi sono: «Platonum, Missar, Guastaliella, Sutera, Racel .., Bifar, Muclofe, Naru, Calatenixet, [che nella nostra lingua significa “Villaggio delle donne”], Licata, Remunisce».
Tra Sutera. Bifara, Milocca, Naro e Caltanissetta, quell’incompleto “Racel....” potrebbe essere proprio Racalmuto: una delle undici località note al cronista del conte Ruggero. Ma il limite di mera congettura, resta.
L’evanescenza di un centro abitato a Racalmuto, dopo la conquista normanna, si protrae nel tempo. Neppure, per i primi decenni del secolo XII, ai tempi del geografo Edrisi, si ha la prova certa della sua esistenza. Commettendo, forse, un’altra appropriazione indebita, potremmo accaparrarci di un passo dell’opera di quel geografo e collegare una delle località descritte dall’ Edrisi, Gardutah, con Racalmuto (come se si trattasse di una corrotta trascrizione del fonema dialettale "Racarmutu"). Era questo «un grosso casale e luogo popolato, con orti e molti alberi e terreni da seminare ben coltivati» (v. EDRISI, Nuzhat ’al Mustaq fi ihtiraq ’al afaq [Sollazzo per chi si diletta di girare il mondo] - Testo e traduzione a cura di Amari-Schiapparelli - Accademia dei Lincei, Roma, 1883, pag. 47). Il contesto ben si addice a Racalmuto. « Da Sciacca a Platano corrono diciassette miglia - il fiume Platano vi scorre a levante. Da Platano [si va] a Gardutah [che sta] a levante [....] A tramontana di Gardutah è Sutir (comune di Sutera) [...] Da Sutera a Gardutah si contano nove miglia ..» Nelle vicinanze sembra debbasi collocare ’al Minsar che Amari finisce col situare - dopo tante perplessità - «a Castrofilippo o nei dintorni, piuttosto che a Montedoro, dove l’[aveva notato] nella Carte comparée ..». Pertanto, aveva forse ragione Eugenio Napoleone Messana ad individuare nel Castelluccio proprio l’edrisiano ’al Minsar.
[Articoletto n.° 13]
NE’ CASALVECCHIO NE’ SANTA MARIA
di Calogero Taverna
Le origini di Racalmuto sono pervicacemente incrostate da due falsi storici, peraltro in contrasto fra loro. Da un lato, si indica Racalmuto insediato a Casalvecchio con questo improbabile toponimo in lingua volgare sin dai tempi post-arabi; dall’altro, si vuole il centro sito nei pressi di Santa Maria per volontà di Roberto Malconvenant, sin dal 1108.
Per il primo falso, la più antica testimonianza che siamo riusciti ad individuare risale al 1869, quando un tal prof. Amato Amati raccoglieva l’imbeccata che a tal proposito gli forniva il sindaco di Racalmuto di quel tempo, che crediamo essere stato il notaro Michele Angelo Alaimo (cfr. DIZIONARIO COROGRAFICO DELL'ITALIA a cura del prof. Amato AMATI - Milano -Vallardi, 1869). Vi si legge: « Antica è l'origine di Racalmuto: il suo nome è di origine arabica. Fu distrutto dalla peste del '300, indi nel ripopolarsi non occupò il luogo primitivo, che si trova ora alla distanza di un chilometro, e si chiama Casalvecchio.» La notizia viene, per esplicita ammissione, riecheggiata dal nostro Tinebra-Martorana, che invero non ha la pretesa di dare ragguagli incontrovertibili. P. Girolamo M. Morreale S.J. - ricercatore serio e da noi particolarmente apprezzato - si lascia purtroppo andare in arbitrarie congetture nella sua storia di “Maria SS. del Monte di Racalmuto” [pag. 24] e tenta di accreditare la tesi secondo la quale «cessata la peste [del 1355] i Racalmutesi superstiti non tornarono più nelle loro antiche abitazioni, ma attirati dall’acqua del Raffo costruirono le nuove case nei dintorni; il paese abbandonato ed il territorio circostante ebbero il nome di Casalvecchio». Ma a intorbidare del tutto le acque è stato - a nostro avviso - L’Assessorato Turismo Comunicazioni e Trasporti della Regione Sicilia che nel n.° 39 del 22 dicembre 1991 de “L’Amico del Popolo” propina infondatezze su Racalmuto come la seguente «Distrutto Casalvecchio, come riferisce Michele Amari, il nuovo centro abitato venne spostato di alcuni chilometri e dagli Arabi venne denominato Rahal Maut...». Il passo dell’Amari non è citato ed è quindi impossibile chiarirne la fondatezza. Noi crediamo che ci si riferisca alla Storia dei Musulmani, vol. II, pag. 64. Se è così, l’arbitrio è totale. Vi si parla, sì, di CASTEL VECCHIO ma è località a quattro miglia da Agrigento, chiamata Raqqâdah (Sonnolenta). Comunque la si giri, non mi sembra proprio che Racalmuto c’entri proprio. Come nulla ha a che fare - almeno secondo me - con Casalvecchio. Ritrovamenti archeologici provano magari insediamenti greci e romani in quelle parti. Nulla di arabo finora risulta. Men che meno reperti attestanti presenze abitative collocabili nel Basso Medioevo. L’arcidiacono Bertrando Du Mazel, che ebbe a fare censimenti nel 1375 (29 marzo) proprio a Racalmuto, nella documentazione rimessa ad Avignone, attesta l’esistenza di un centro abitato (appena 136 “fuochi” in case per la gran parte coperte di paglia) che appaiono sparse nei dintorni della fortezza, quella che noi racalmutesi chiamiamo “lu Cannuni”.
L’altro plateale falso è l’erezione di una chiesa nel 1108 là dove oggi stanno i ruderi di Santa Maria di Gesù. E qui la colpa è tutta dei canonici agrigentini, protesi ad accaparrarsi talune rendite racalmutesi, sotto il nome di Santa Margherita. Su loro interessate segnalazioni, il PIRRI, attorno al 1641, ebbe a scrivere: “antiquissimum est templum olim majus S. Margaritae V. ab oppido ad 3. lapidis jactum, anno 1108, de licentia Episc. Agrig. à Roberto Malconvenant domino illius agri extructum...” (pag. 758 delle Notizie della Chiesa Agrigentina). A tre lanci di pietra da Racalmuto sorge un’antichissima chiesa che un tempo era quella maggiore, fabbricata nel 1108, su licenza del vescovo di Agrigento, da Roberto Malconvenant, signore di quel territorio, attesta dunque l’abate netino. Solo che la notizia si basa su documenti dell’ Archivio Capitolare di Agrigento, che, in base a studi del 1961, si riferiscono ad altra località, molto probabilmente sita nei pressi di S. Margherita Belice, come più dettagliatamente vedremo in seguito.
[Articoletto n.° 14]
BORGO ARABO AL TEMPO DEI NORMANNI
di Calogero Taverna
Del tutto singolare è l’assoluta assenza di una qualsiasi località chiamata Racalmuto nelle più antiche carte capitolari del vescovado di Agrigento per il periodo che va dal 1092 al 1282. Si suol dire che il silenzio nella storia equivale al nulla. In questo caso, però, si deve ammettere che per un paio di secoli Racalmuto non fu tributario in modo esplicito della potente curia agrigentina, ne ebbe a pagare censi, canoni e livelli agli ingordi canonici del capitolo della asfissiante cattedrale di San Gerlando. Basta scorrerle, quelle carte per rendersi conto di quanto fiscali fossero il prelato e la sua corte agrigentina sin dal tempo in cui Ruggero il Normanno istituì - o si pensò che avesse istituito - quella diocesi affidandola al santo, o santificato, consanguineo di Bretagna: Gregorio, uomo di bell’aspetto e di copiosa dottrina, secondo quel vogliono le cronache.
Non sono tutti originali i documenti più antichi: alcuni sono rifacimenti posteriori al Vescovo Urso (1191-1239), un prelato finito prima prigioniero dei saraceni in una loro storica rivolta, e poi riuscito ad affrancarsi insieme ad una parte dei privilegi, che ci sono stati nel complesso fedelmente conservati. Tra questi spiccano i diplomi che nel diligente studio di Paolo Collura (P. Collura: Le più antiche carte dell’Archivio Capitolare di Agrigento - Palermo 1961) recano i nn.i 8, 9 e 27 sui quali fu imbastita in tempi imprecisati un’impostura su Racalmuto e sulla sua chiesa di Santa Maria. Lo studio del 1961 dimostra intanto che trattavasi di posti collocabili presso Santa Margherita Belice. Una confusione davvero rimarchevole. E sebbene ciò, i canonici agrigentini, sin da prima del XV secolo, hanno tratto da quel falso un titolo giuridico per una loro pingue prebenda d’origine racalmutese. L’hanno legata alla pretesa fondazione ecclesiale di Santa Margherita, che fu invero una chiesuola sorta molto più tardi, “contigua e comunicante” «colleteralis et coniuncta», con la Chiesa di Santa Maria (stando almeno ai dati della visita di Mons. V. Bonincontro, Vescovo di Agrigento, effettuata il 20 giugno 1608 [v. Curia Vescovile Agrigento: REGISTRO VISITE 1608-1609 f. 247 e ss.]).
L’incolpevole Pirri, nel 1641, attribuisce il diploma n. 8 a Racalmuto: ma si sa che si avvaleva di notizie di seconda mano perché il netino, data la sua età, non poté che affidarsi a corrispondenti locali e cioè a canonici che avevano libero accesso a quei documenti capitolari tenuti gelosamente custoditi (come del resto avviene tuttora). Sulla scia dell’abate di Noto, il nostro Tinebra Martorana giovanilmente riproduce il falso a pag. 57 del testo ripubblicato nel 1982 dando suggello alla secolare impostura secondo la quale «fu Roberto Malconvenant ad erigere sul nostro territorio la prima chiesa cristiana». Ed aggiunge, falso nel falso: «la chiesa di S. Margherita vergine corrisponde alla nostra S. Maria di Gesù.»
I racalmutesi a questa tradizione tengono come si evince dai cartelli pubblicitari che tuttora si ostendono. Si continui pure nelle credenze, purché in definitiva si sappia che la chiesa di Santa Maria sorse in un periodo almeno di due secoli posteriore alla pretesa data della sua fondazione: forse si può risalire al 1308 se accreditiamo in tal senso un documento vaticano delle decime avignonesi.
Che il Pirri si riferisse ai documenti contrassegnati dal Collura con i nn. 8 e 9 è fuor di dubbio e che quindi per il contesto di entrambi i diplomi siamo in località che nulla hanno a che vedere con il nostro paese è del tutto incontrovertibile: il falso, però, un elemento di chiarificazione per la storia di Racalmuto ce lo fornisce. Vi è come il paradigma di come sorgevano borghi arabi sotto i normanni nel perimetro della diocesi agrigentina. E Racalmuto - nullo o pressoché inesistente sotto Ruggero il Normanno, tanto che non vi si appuntarono in un primo momento gli appetiti tassaioli dei canonici agrigentini, - poté sorgere, attorno alla metà del XII secolo, sotto la spinta di un signorotto transalpino del tipo dei Malconvenant o per spinta di monaci dell’ordine dei benedettini, come siamo più propensi a credere. Villani o schiavi risultarono certi arabi, più o meno importati; padroni erano invece stranieri non residenti o abbazie distanti.
Il documento del 1108 che si vuole a base di Santa Maria è abbastanza complesso. Vi si ricava che il Malconvenant ebbe a donare ad un suo consanguineo delle terre con degli schiavi saraceni. Quel parente, un militare in disarmo, vi costruisce una chiesa. Viene dal vescovo fatto chierico per amministrarla. Le terre di pertinenza sono vaste. Ad accudirle penseranno cinque saraceni i cui nomi astrusi sono: Alibithumen, Hben El Chassar, Sellem Eblis, Mirriarapip Abdelcai, Maimon Bin Cuiduen. Scomunica per chi vi attenta; benedizioni per chi ne accresce la ricchezza: ' Si quis - aggiunge il vescovo - vero ecclesiam Sancte Margarite Agrigentine Ecclesie omnino subiectam circa possessiones eius in aliquo defraudaverit, anathema sit; qui vero eam aut de rebus mobilibus aut immobilibus augmentaverit, gaudia eterne vite cum sanctis peremniter percipiat'.
Con siffatta benedizione un borgo arabo poteva prosperare e così congetturiamo che ebbe a prosperare Racalmuto, forte di una qualche ecclesiale benedizione, s’intende a pagamento.
[Articoletto n.° 15]
RACALMUTO: UNA PREISTORIA DURATA 3271 ANNI
di Calogero Taverna
Giunti a questo punto del nostro excursus, uno sguardo retroattivo, una pausa di riflessione si rende indispensabile per fare il punto su ciò che fu la società, la vita, la religione, gli usi, i costumi che in questa landa dell’altipiano racalmutese, nel corso di circa 3271 anni, quanto dura la preistoria di Racalmuto. Il documento angioino del 1271, sbarra finalmente le porte alla storia, quella documentata, non inventata, più o meno fantasiosamente.
Prima, affiorano solo cenni o spunti che soltanto in via congetturale possono portare a questo centro dall’incerto nome arabo che è la nostra terra di Racalmuto.
Sul nostro altipiano - che, a ben vedere, altipiano non è - l’uomo ha lasciato, da quasi quattro millenni, tracce del suo dimorarvi ora rado, ora intenso, qualche volta prospero, ma di solito stentato. Un popolo preistorico, quello cosiddetto sicano, fu presente per oltre sei secoli nel secondo millennio a. C. Ma a partire dal XIV sec. a.C., mentre nella vicina Milena ebbe a prosperare una popolazione che, come attestano le ancor visibili tombe a tholos, seppe avvalersi degli influssi micenei, il territorio di Racalmuto pare divenuto del tutto inospitale e la civiltà sicana scompare del tutto (o non fu in grado di lasciare testimonianze che superassero l’onta del tempo).
Contraddistingue il popolo sicano un sentimento religioso tanto profondo da spingerlo ad opere che scavalcano l’obliterazione dei millenni per giungere sino a noi. Sono quelle tombe sicane che si affacciano grandiose e impressionanti dalla parete della grotta di Fra Diego. Il culto dei morti - una costante racalmutese che diventa una mania al di là di ogni temperanza, dai tempi remoti sino ai nostri giorni - affonda le radici in quel sentimento religioso, nel senso dell’al di là che connota ed ossessiona persino l’uomo preistorico racalmutese. Certo, a quel tempo è più il terrore superstizioso della morte, che non una liberatrice fede nell’immortalità dell’anima, ad avere il sopravvento. Ma è pur aspetto nobile e qualificante di un popolo che se crede in una vita ultraterrena, crede anche nell’esistenza di Dio. In tal senso anche il popolo sicano racalmutese è stato il popolo di Dio.
Sparita quella civiltà attorno al XIII secolo a.C., saranno i sicilioti greci di Akragas a rifrequentare quelle plaghe. Continua il culto dei morti, sorge una religione politeista, vi ispira sentimenti nuovi di pietà e di fede operosa. Dio continua ad essere presente a Racalmuto. Così come avviene quando il territorio viene annesso dalla predace Roma ed assoggettato a decime in natura ed in denaro. Una epigrafe sul timbro apposto nell’interno del manico di una diota testimonia la tassazione romana delle terre di Racalmuto al tempo di Cicerone. Reperti archeologici di tombe attestano riti e culti religiosi.
Con Sparita quella civiltà attorno al XIII secolo a.C., saranno i sicilioti greci di Akragas a rifrequentare quelle plaghe. Continua il culto dei morti, sorge una religione politeista, vi ispira sentimenti nuovi di pietà e di fede operosa. Dio continua ad essere presente a Racalmuto.
In Sicilia quindi subentrò il periodo delle immigrazioni greche. Racalmuto appare completamente estraneo al processo iniziale della colonizzazione: solo, quando si consolida l’egemonia greca di Agrigento, qualche colono ebbe l’ardire di addentrarsi nelle parti più interne dell’altipiano racalmutese. Di documentato, però, non abbia nulla e dobbiamo accontentarci delle acritiche descrizioni di ritrovamenti archeologici che ci fornisce Nicolò Tinebra Martorana nella sua «Racalmuto, memorie e tradizioni». Non solo le contrade di Cometi e Culmitella ma anche quelle del Ferraro sarebbero state frequentate da Sicilioti.
[articoletto n.° 16]
ESATTORI ROMANI, ZOLFO, DECIME E MANCIPES A RACALMUTO
di Calogero TAVERNA
Nel terzo secolo a.C., con la conquista romana, non cambia molto ed è solo sporadico l’interesse di coloni, che solitari ebbero voglia di coltivare qua e là alcune delle plaghe più fertili di Racalmuto; si può forse congetturare che più frequente fosse, specie nell’interno, la pastorizia.
Contadini grecofoni non mancarono comunque ai tempi della repubblica romana ed essi furono tassati specie per le loro produzioni vinarie, come attesta un’epigrafe rinvenuta nel territorio di Racalmuto nel XVIII secolo, di cui ebbe a fornire preziosi ragguagli il Torremuzza. Un tal Fusco - sicuramente non racalmutese, anche se non può affermarsi che fosse un romano - deteneva in questa località siciliana “diote” per il trasporto a Roma di vino, presumibilmente in piena epoca repubblicana ed a titolo di decime sulla locale vinificazione.
Ma quel che di rimarchevole ci forniscono i reperti archeologici del luogo sono certe “ tabulae” o “tegulae” ‘sulfuris’ risalenti con certezza al tempo di Commodo e che per secoli dal II al IV comprovano una intensa attività mineraria solfifera nelle medesime zone del nord ove sino a qualche decennio fa prosperava tale industria.
Con Commodo, nel 180 d. C., le viscere della terra, che erano state invase da vibrioni trasformatisi in vene di zolfo, vengono violate per l’estrazione del biondo minerale con metodi e strumenti che dopo essersi eclissati per secoli riemergono nell’ottocento e durano, tutto sommato, sino a metà di questo secolo. Reperti archeologici, compresi per primo dal nostro quasi compaesano avv. Giuseppe Picone, disvelano l’esistenza a quei tempi di “gàvite” con impressi timbri di singolare importanza epigrafica. In esse talora viene incisa una piccola croce. Ecco la più antica testimonianza dell’avvento del cristianesimo a Racalmuto.
L’industria mineraria solfifera dura dal II al IV secolo d.C. in quel di Racalmuto: dopo decade e scompare (salvo a risorgere nel XVIII secolo) per l’opera nefasta dei Vandali di Genserico. L’abitato si trasferisce allora a Casalvecchio. Un monticello calcareo - le Grotticelle - ben si presta alla tumulazione dei morti. Per Biagio Pace quello è un ipogeo cristiano. Il culto dei morti si ammanta ora di pietà cristiana. Solo la rapace ed incolta pirateria di improvvisati tombaroli racalmutesi degli anni ’quaranta ha impedito uno studio archeologico serio di quell’ipogeo. Nessun reperto si è comunque salvato. Di nessun dato disponiamo per una vulnerazione del buio fitto che è calato sulla vicenda religiosa locale del periodo post-romano.
Nell’atrio dell’ex convento della Clarisse - rapinato dal buon Garibaldi - si custodisce il noto sarcofago con il bassorilievo del ratto di Proserpina. Giaceva prima nel castello chiaramontano, assurto nel XVI secolo a dimora dei Del Carretto. Chi, quando e come ve lo avesse qui portato, resta un mistero. Se dovesse essere il superstite segno di una necropoli giacente sotto (o nei dintorni) del castello (per i racalmutesi: lu Cannuni), se ne dovrebbe trarre l’inferenza che ancora nel VI secolo d. C., la religione cristiana non era universalmente abbracciata in questa antica terra, e qualcuno amava farsi seppellire in sarcofagi pagani.
[articoletto n.° 17]
VISIGOTI E GOTI, BIZANTINI E LATINI A RACALMUTO
di Calogero TAVERNA
Dopo, con la caduta dell’impero romano e l’avvento dei barbari, il silenzio archeologico - oltreché documentale - è totale sino al tempo dei bizantini. Di certo, incursioni di barbari dovettero esservi specie per razziare i pregiati raccolti cerealicoli. Forse Genserico, se non nel 441 almeno nel 445, portò i suoi Vandali a devastare anche il territorio racalmutese. Possiamo congetturare che vi fu un sostegno da parte dei coloni dell’epoca all’azione militare del patrizio svevo Racimero che nel 456 riuscì a sconfiggere i Vandali ad Agrigento. Del pari non sono da escludere presenze vandale a Racalmuto nel periodo del loro ritorno in Sicilia che si protrae sino alla cessione dell’isola ad Odoacre. Quel che avvenne, poi, sotto i Goti che dal 491 ebbero il possesso della Sicilia ci è del tutto ignoto. Si parla o si favoleggia del ‘buon governo’ di Teodorico. Probabilmente risale a questo periodo se tanti coloni poterono concentrarsi nelle contrade di Grotticelli e di Casalvecchio e costituirvi un consistente agglomerato che poté prosperare specie sotto i Bizantini.
Casalvecchio, il toponimo che ancor oggi persiste, è zona piuttosto ricca di testimonianze archeologiche: purtroppo riluttanze delle autorità agrigentine impediscono a tuttora di studiarne in loco la portata, le valenze e la significatività. Sappiamo solo che fu fiorente la civiltà bizantina, che durò sino all’incasione araba, allorchè appassì e si disperse. Alcune monete - rinvenute, però, nella disabitata contrada della Montagna portano in effigie gli imperatori bizantini Héracleonas e Tiberio II. Il primo risale al 641; il secondo, appoggiato dal partito dei verdi, salì al trono nel 698 e venne ucciso nel 705. Le tante e ricorrenti testimonianze archeologiche (lucerne, condutture d’acqua, resti di fondamenta, ingrottamenti artificiali ad arcosolio, strutture murarie abitative affioranti, etc.) che si rinvengono nella zona che va dallo Judì al Caliato; dalle Grotticelle a Casalvecchio e dintorni attengono alla cultura bizantina, prosperata dal sesto secolo sino all’avvento degli Arabi.
Dal VI al IX secolo Racalmuto - ci è ignoto il nome greco del periodo - divenne palesemente bizantino. Secoli fervidi di opere e di umane presenze che le future campagne di scavi redimeranno dall’oblio dei tempi. La locale comunità fu di certo grecofona e quanto al rito religioso ebbe ad optare per quello ortodosso. Infuriava ad Agrigento la lotta tra vescovo greco e quello latino. Le vicende di tal Gregorio ci sono state tramandate ma con tali obnubilamenti che neppure il grandissimo mons. De Gregorio è riuscito sinora a dipanare. Misterioso dunque l’atteggiamento della periferica chiesa racalmutese in tal frangente.
[articoletto n.° 18]
ARRIVA LA CIVITA’ ARABA
di Calogero TAVERNA
Con gli Arabi l’antica civiltà racalmutese si eclissa e non può fondatamente affermarsi che sia subentrata la tanto favoleggiata cultura saracena. Il tempo degli arabi a Racalmuto è totalmente buio: né vestigia archeologiche, né testimonianze scritte, né tradizioni appena attendibili, né indizi in qualche modo illuminanti. L’abate Vella nel Settecento fabbricò un falso su Racalmuto che è, appunto, inventato di sana pianta. Certo, per i racalmutesi è ostico pensare che di arabo Racalmuto non ha nulla: già, perché i tanto conclamati toponimi - a partire dal nome del paese - o l’etimologie arabe dei vari lemmi della parlata locale, resta da vedere se risalgono ai tempi della dominazione saracena o non piuttosto, come pare, a quelli posteriori della signoria normanno-sveva sulle sconfitte popolazioni arabe. A sfogliare una qualsiasi delle pubblicazioni degli eruditi locali che si sono dilettati di storia racalmutese, la vicenda araba è ben condita di fatti, dati, curiosità, risvolti sociali, politici, demografici, religiosi. Vai a dir loro che trattasi di meri vaneggiamenti, di fole senza fondamento, di ingenue credenze. Racalmuto non ebbe moschee, né consistente intensità demografica tanto da raggiungere nel 998 ‘il numero di 2000 abitanti’ (frutto questo dell’irrefrenabile fantasia dell’abate Vella), né nobiltà terriera, né ‘usi e costumi che assieme ad una presenza genetica’ noi racalmutesi ci trascineremmo sino ai nostri dì. E’ certo che un paese di tal nome non esistette per nulla durante tutta l’epoca araba: Racalmuto sorge attorno alla metà del XIII secolo, quasi duecento anni dopo la conquista normanna dell’agrigentino. E il suo toponimo (indubbiamente arabo) lascia trasparire l’assesto voluto da Federico II, dopo la repressione dei moti ribellistici degli sudditi arabi dell’intero territorio agrigentino. Non possiamo credere, con il Tinebra Martorana, che «... Moezz ordinò l’inurbamento di queste popolazioni rurali, fra le quali era quella di Rahal Maut, e per suo ordine l’Emir di Palermo, a rendere più tranquilla l’industria agraria e più sicura la proprietà, creò ufficiali addetti alla esazione delle imposte. Spento così per opera di Moezz l’abuso delle esazioni, la libera operosità dell’agricoltore dovette svolgersi notevolissimamente. Rahal Maut a quest’epoca è uno dei popolosi casali.» Così, nel 998 «.. il nostro villaggio conteneva 1101 adulti e 994 di un’età inferiore ai 15 anni.» Tanto secondo quel che «il governatore di Rahal-Almut, AABD-ALUHAR, per bontà di Dio servo dell’Emir Elihir di Sicilia» era in grado di rapportare al suo Padrone Grande a seguito dell’ordine ricevuta dall’Emir di Giurgenta ([1]) Ma l’intera faccenda nient’altro è che il solito imbroglio storico dell’abate Vella. Nell’introduzione alle memorie del Tinebra, Leonardo Sciascia non manca di cicchettare lo storico locale per avere contrabbandato come storia quella che era stata una mera invenzione del “famoso Giuseppe Vella” e ciò per la «tentazione dell’accensione visionaria, fantastica», non sapendo «resistere al piacere di riportare un documento falso pur sapendo che è falso». E del resto lo stesso Sciascia confessa: «anch’io non mi sono privato del piacere di riportare quel documento pur conoscendone la falsità, e precisamente nelle Parrocchie di Regalpetra.» E di piacere in piacere, il falso affascina tuttora i racalmutesi. Anche il compianto p. Salvo (v. Ecco tua Madre, Racalmuto 1994, p. 20) non resiste al fascino di quella falsità. Ed a ben vedere, neppure Leonardo Sciascia mostra totale resipiscenza se nel 1984, nel presentare la mostra di Pietro d’Asaro, si lascia andare a questa arditezza storica: «... siamo nella microstoria di Racalmuto: antico paese che esisteva già, un po’ più a valle, quando gli arabi vi arrivarono e, trovandolo desolato da una pestilenza, lo chiamarono Rahal-maut, paese morto. Ma non era per nulla morto, se fu riedificato arrampicandolo verso l’altipiano che dal paese prende oggi il nome....». Non sembra che la fonte di cui si serve Sciascia sia altra o più attendibile rispetto a quanto va asserendo il solito Tinebra Martorana (v. pagg. 33 e segg.).
[articoletto n.° 19]
NORMANNI E SARACENI
di Calogero TAVERNA
E di fantasia in fantasia, trova ancora credibilità la favoletta che a metà dell’Ottocento confezionò il peraltro meritevole Serafino Messana quando racconta di due baldi eroi saraceni racalmutesi, Apollofar e Apocaps, distintisi nella lotta contro i Normanni.
Ruggero il Normanno conquistò Agrigento il 25 luglio del 1087 (se seguiamo l’Amari, o l’anno prima secondo il Maurolico ed altri). Racconta il Malaterra, nelle sue cronache coeve, che Ruggero il Normanno, una volta conquistata Agrigento e munitala di un castello e di altre fortificazioni, si accinse a conquistare i castelli dei dintorni che furono undici e cioè Platani, Missaro, Guastanella, Sutera, Rahal ..., Bifar, Muclofe, Naro, Caltanissetta, Licata e Ravanusa. Il testo del Malaterra è inquinato e non si è certi della correttezza di tutti i toponimi. Sia come sia, Racalmuto non vi figura - salvo a fantasticare su quell’impreciso ed incompleto Rahal... Un tempo abbiamo aderito a tale tesi, dando credito al Fazello che a dire il vero include nell’elenco il nostro casale in modo esplicito. Oggi siamo convinti che a quell’epoca nessun centro dell’agrigentino portasse quel nome. Il silenzio di tutte le fonti scritte è significativo. Neppure nella celeberrima geografia dell’Edrisi della prima metà del XII secolo è rintracciabile un qualche toponimo che assomigli a Racalmuto. Là, tutt’al più, incontriamo Gardutah o al-Minsar che in qualche modo possono essere collocati nei pressi dell’attuale centro racalmutese. Nel ricco archivio capitolare della Cattedrale di Agrigento, Racalmuto non figura mai menzionato per tutto il periodo che va dagli esordi della diocesi normanna sino ai tempi del Vespro. Il primo documento storico che parla di questo casale nelle pertinenze di Agrigento è del 1271 ed era custodito negli archivi angioini di Napoli (come diffusamente si vedrà in seguito). Mi si obietterà che l’argomento ex silentio non ha molto rilievo sotto il profilo storico. Certamente, ma tutto quello che si afferma nel silenzio delle fonti è mera congetturazione, che nel caso di Racalmuto trascende pressoché costantemente persino l’area della verosimiglianza. Il territorio racalmutese non ha sinora restituito neppure una testimonianza archeologica di una qualche presenza umana per tutto il tempo degli arabi, dei normanni e degli eventi che seguono sino alle repressioni saracene di Federico II. Pensare ad un prospero centro abitato, dalla conquista araba (immediatamente dopo l’anno 827) sino al 1240-1250, è francamente avventatezza storica.
Il Garufi considerò «.. cervellotiche [le] etimologie [che vogliono] R a h a l m u t, casale della morte....». Per lui: il casale di « Rachal Chammout .... sin dalle sue origini fu denominato da Chammout, nome codesto di persona che per due volte ricorre fra i g a i t i testimoni saraceni nel diploma originale, greco-arabo, di Re Ruggiero dell'a.m. 6641, e.v. 1133 feb. ind. XIa ». Ma la tesi del Garufi appare poco credibile se si considerano le ricerche del Di Giovanni che colloca tale località un quel di Polizzi. Il Rachal Chammoùt ( ammu ) del diploma greco del 1178 nulla ha dunque a che vedere con il casale agrigentino che corrisponde all’odierno Racalmuto. E ciò destituisce di ogni fondamento la notizia, che pur trovasi nel Pirri, di una chiesa fondata nel 1108 dal Malconvenant in onore di Santa Margherita e corrispondente all’attuale S. Maria di Gesù. Trattasi di un altro plateale falso, i cui artefici sono stati i canonici agrigentini, protesi a legittimare l’accaparramento di rendite racalmutesi avvenuto dopo il XIV secolo.
[articoletto 19bis]
AGRICOLTURA RELIGIONE E COSTUMI NELLA RACALMUTO ARABA-NORMANNA
di Calogero TAVERNA
Due furono le fasi della conquista araba di Racalmuto: in un primo tempo gli arabi - la componente guerriera - razziarono il territorio bizantino racalmutese. Se ne stancarono molto presto, per la povertà di quei coloni nostri antenati. Passarono altrove. Subentrarono allora i Berberi, popolo contadino, che si insediarono presso le sorgenti (Saracino, Raffo e forse Fontana). Un toponimo - anche se troppo poco - testimonia infatti che si siano raggrumati attorno alla località del Saracino: le vicinanze abbondanti sorgenti d’acqua, propiziatrici delle colture di ortaggi con il sistema delle porche e zanelle, in cui erano maestri, potrebbe avvalorare la congettura. Sia quel che sia, l’Islam divenne imperante e non sono da escludere conversioni in massa dei pavidi cattolici del tempo, non foss’altro per sottrarsi alle sgradite tassazioni che la tolleranza araba aveva inventato per permettere che i non credenti conservassero vita e beni.
La sopraffazione si inverte con la conquista normanna dell’XI secolo. Esistesse o meno una terra fortificata di nome Racel (ad utilizzare le cronache del Malaterra), per Racalmuto fu il tempo del villanaggio saraceno che durò sino al greve riordino sociale di Federico II. Che cosa è stato il “villanaggio”? Non è questa la sede per spiegare l’istituzione contadina che vedeva il subalterno colono come una “res” del “dominus”, quasi alla stregua di uno schiavo. (Vedansi, per chi ne voglia sapere di più gli studi di I.Peri). Contadini islamici, miseri e schiavi da una parte; padroni cristiani, lontani e socialmente insensibili, dall’altra. L’istituzione di un beneficio a favore di canonici agrigentini, mai racalmutesi, con le decime del feudo facente capo ad un falso diploma del 1108 (non foss’altro perché non si riferiva a Racalmuto), svela i misteri della colonizzazione, sotto i Normanni, di nuove terre. Tanto avvenne per il beneficio di Santa Margherita, che per l’avallo del Pirri, costituì poi la saga della nostra chiesa di Santa Maria di Gesù.
I saraceni si ribellarono in modo devastante negli anni venti del 1200. Federico II li represse, deportandoli in Puglia. Racalmuto diventa deserta. Tocca a Federico Musca - come si è detto - farvi fiorire un nuovo casale. Nel 1271 le testimonianze sulla vita e le vicende del risorto centro urbano cominciano ad avere dignità di fonti documentali. Sotto i Vespri, la terra è Universitas così bene organizzata che il nuovo padrone aragonese Pietro può esigere tasse ed armamenti, demandando ai locali sindaci l’ingrato compito esattoriale, persino con la vessatoria condizione di doverne rispondere con il proprio patrimonio in caso di insolvenza. Una sorta di ‘solve et repete’ ante litteram. La cattolicissima Spagna esordiva con spirito depredatorio nel regno che gli era stato regalato da taluni maggiorenti siciliani. E così anche la ‘meschinella’ Racalmuto iniziava a pagarne lo scotto. Roma, il papato, dissentiva. Sarà questa una scusa buona per esigere dai fedeli di una Racalmuto, che nel 1375 abitano in case coperte di paglia, una tassa pesante onde liberarsi dell’antico interdetto, che secondo il nuovo padrone feudale Manfredi Chiaramonte era la causa della ‘mala epitimia’ distruttrice di uomini e cose.
[articoletto n.° 19ter]
FEDERICO II CHIARAMONTE ALLA CONQUISTA DI RACALMUTO - L’EREDITA’ DEI DEL CARRETTO
di Calogero TAVERNA
I Chiaramonte si sono impossessati di Racalmuto all’inizio del secolo XIII. Federico Chiaramonte - un cadetto della famiglia - aveva fatto costruire, secondo il Fazello, nel primo decennio, l’attuale fortezza, forse una, forse tutte e due le torri oggi esistenti. Il territorio era divenuto ‘terra et castrum Racalmuti’. Vi giunsero preti e monaci forestieri. Nel 1308 e nel 1310 costoro vennero tassati dal lontano papa: un piccolo prelievo - si dirà - dalle pingue rendite che un prete ed un monaco riuscivano a cavare dai poveri coloni infeudati dai Chiaramonte. Sono certo pagine non gloriose della storia ecclesiastica racalmutese. Ma basta ciò per essere obbligati al silenzio omertoso, sia pure in tema di verità storica?
Nel 1392 giunge in Sicilia il duca di Montblanc. E’ un cinico, infido, ma astuto e determinato personaggio, protagonista in Sicilia ed in Spagna di grandi svolte storiche. Martino, secondogenito di Pietro IV e duca di Montblanc, viene dagli storici siciliani indicato come Martino il vecchio; ebbe la ventura non comune - scrive Santi Corrente - di succedere al proprio figlio sul trono di Sicilia. Resta l’artefice della sconcertante condanna a morte del vicario ribelle Andrea Chiaramonte, e non cessò di combattere la nobiltà siciliana, salvo a remunerarla oltremisura appena ciò gli fosse tornato utile.
Ne approfitta Matteo del Carretto per farsi riconoscere il titolo di barone di Racalmuto, naturalmente a pagamento. L’intrigo della genesi della baronia di Racalmuto dei Del Carretto è tuttora scarsamente inverato dagli storici. All’inizio del secolo XIII un marchese di Finale e di Savona - a quanto pare titolare di quel marchesato solo per un terzo - scende in Sicilia e sposa la figlia di Federico Chiaramonte, Costanza. Ha appena il tempo di averne un figlio cui si dà il suo stesso nome, Antonio, e muore. La vedeva convola, quindi, a nozze con un altro ligure, il genovese Brancaleone Doria - un personaggio che Dante colloca nell’Inferno - e ne ha diversi figli, tra cui Matteo Doria che morrà senza prole e pare che abbia lasciato i suoi beni (in tutto o in parte, non si sa) agli eredi del suo fratellastro Antonio del Carretto. Questi frattanto si era trasferito a Genova. Aveva procreato vari figli, tra cui Gerardo e Matteo. Matteo, in età alquanto matura, scende in Sicilia: rivendica i beni dotali di Agrigento, Palermo, Siculiana e soprattutto Racalmuto. Parteggia ora per i Chiaramonte ora per Martino, duca di Montblanc ed alla fine gli torna comodo passare integralmente dalla parte dell’Aragonese. In cambio ne ottiene il riconoscimento della baronia. Certo dovrà vedersela con le remore del diritto feudale. Inventa un negozio giuridico transattivo con il fratello primogenito Gerardo, che se ne sta a Genova, ove ha cointeressenze in compagnie di navigazione, e finge di acquistare l’intera proprietà della “terra et castrum Racalmuti”.
Martino il vecchio si rende subito conto del senso e della portata dell’istituto tutto siculo della cosiddetta Legazia Apostolica. Deteneva il beneficio racalmutese di Santa Margherita l’estraneo canonico “Tommaso de Manglono, nostro ribelle al tempo della secessione contro le nostre benignità” - come scrive Martino da Siracusa, l’anno del Signore VII^ Ind. 1398. Gli viene tolto per assegnarlo ad un altro estraneo “al reverendo padre GERARDO DE FINO arciprete della terra di Paternò, cappellano della nostra regia cappella, predicatore e familiare nostro devoto”. Altra ignominia della storia ecclesiastica racalmutese, che ci guardiamo bene dall’oscurare.
[articoletto n.° 19quater]
LA CONTROVERSA BARONIA DEI DEL CARRETTO NEL XV SECOLO
di Calogero TAVERNA
Il secolo XV vede Racalmuto saldamente in mano a Giovanni del Carretto, figlio di Matteo, di quell’avventuriero, cioè che si era arrabattato alla fine del secolo precedente. Henri Bresc vorrebbe questo Giovanni del Carretto come un disastrato, finito in mano degli Isfar di Siculiana. A noi risulta il contrario. Lo vediamo rapace esportatore di grano locale dal caricatoio del suo feudo minore di Siculiana. Appare come creditore dei Martino, socio degli Agliata. Lo storico francese è perentorio: «La baisse du prix de la terre - que l’on suit sur la courbe des prix moyens des fief vendus par la noblesse - oblige - ritorna sull’argomento in pubblicazioni a spese della Regione Siciliana e nella sua madre lingua, visto che mostra gallica diffidenza verso un traduttore siciliano di una precedente sua opera storica di analogo argomento - à un endettement toujours plus grave et à une gestion très rigoureuse du patrimoine résiduel. Et l’on s’achemine vers l’intervention de la monarchie et de la classe féodale dans l’administration des domaines fonciers et des seigneuries: Giovanni Del Carretto est ainsi dépouillé en 1422 de sa baronnie de Racalmuto, confiée en curatelle à son gendre Gispert d’Isfar, déjà maître de Siculiana.»
Attorno alla metà del secolo, subentra nella baronia di Racalmuto Federico del Carretto. Il 3 agosto 1452 ne viene ratificata l’investitura stando agli atti del protonotaro del Regno in Palermo. Un grave episodio di intolleranza religiosa contro gli ebrei - in cui però preminente è l’aspetto di comune criminalità - si verifica nelle immediate adiacenze di Racalmuto nell’anno 1474. E’ l’efferata esecuzione dell’ebreo locale Sadia di Palermo. In un documento del 7 luglio 1474, Ind. VII vengono narrate le circostanze raccapriccianti del crimine. Leggiamo: Il Vicere' Lop Ximen Durrea da' commissione ad Oliverio RAFFA di recarsi a Racalmuto per punire coloro che uccisero il giudeo Sadia di Palermo, e di pubblicare un bando a Girgenti per la protezione di quei giudei
Il Cinquecento si apre con la pia leggenda della venuta della Madonna del Monte. Dominava il barone (non certo conte) Ercole Del Carretto. Ebbe costui il suo bel da fare con Giovan Luca Barberi, che sembra essere venuto proprio a Racalmuto per meglio investigare sulle usurpazioni della potente famiglia baronale. Il Barberi arriva persino a dubitare sul concepimento nel legittimo letto di alcuni antenati del povero barone Ercole Del Carretto. Gli contesta molte irregolarità d’investitura ed il padrone di Racalmuto è costretto a ricorrere ai ripari formalizzando i suoi titoli nobiliari presso la corte vicereale di Palermo, a suon di once. La ricaduta - oggi si direbbe: traslazione d’imposta - sui disgraziati racalmutesi dovette essere espoliativa. In compenso - direbbe Sciascia - fu profuso il succo gastrico delle opere di religione. Non proprio una “venuta” miracolosa, ma una statua di marmo della Madonna fu certamente fatta venire da Palermo - genericamente si dice dalla scuola del Gagini - e posta in bella mostra su un altare, maestosa, della chiesa del Monte, che ad ogni buon conto preesisteva. Ai parrocchiani, questo non può di sicuro venire predicato. Se ne scandalizzerebbero oltre misura. Ma qui, in un orecchio, può venire sommessamente e riservatamente sussurrato. Chi ha orecchie da intendere, intenda.
[articoletto n.° 19quinquies]
LIUNI DI RACARMUTO GIUSTIZIA L’EBREO SADIA DI PALERMO
di Calogero TAVERNA
Gli atti dell’archivio di Stato, citati la volta scorsa, ci riportano un efferato fatto di cronaca avvenuto in Racalmuto nel XV secolo. Lasciamo la parola ai funzionari di polizia dell’epoca, che così rapportano, in vernacolo siciliano, sui criminosi eventi, di sapore antigiudaico:
diviti sapiri comu quisti iorni prossimi passati Sadia di Palermo iudeu lu quali habitava in lu casali di Raxalmuto actendendo ad alcuni soy fachendi li quali fachia in lu dictu casali fu primo locu mortalmenti feruto da uno Liuni figlastro di mastro Raneri; et dapoy alcuni altri di lu dictu casali quasi a tumultu et furia di populu dediru infiniti colpi a lu dictu iudeu non havendu timuri alcuno di iusticia. Immo, diabolico spiritu ducti, tagliaro la lingua et altri menbri et ruppiro li denti usando in la persuna di lu dictu iudeu multi crudelitati et demum lu gettaru in una fossa et copersilu di pagla et gictaru foco petri et terra. La qual cosa essendo di malo exemplo merita grande punicioni et nui tali commoturi di popolo et delinquenti volimo siano ben puniti et castigati a talchi ad ipsi sia pena et supplicio et a li altri terruri et exemplo. E pertanto confidando di la vostra prudencia ydonitay et sufficiencia havimo provisto per sapiri la veritati e quilli foru a tali malici participi et culpabili. et per la presenti vi dichimo commictimo et comandamo che vi digiati personaliter conferiri in lu dictu casali et cum quilla discrepcioni lu casu riquedi digiati inquisiri et investigari cui dedi a lu dictu et li persuni li quali si trovaro a lu dictu tumultu et actu. Et eciam si lu populu fra loru accordaru amazari lu dictu iudeu et cui si trovau presenti et partechipi a la dicta morti et delicto. Et de tucti li sopradicti cosi fariti prindiri in scriptis informacioni et in reddito vestru li portariti a nui. Comandanduvi chi cum diligencia et cum quilla discrecioni da vui confidamo digiati prindiri de personis tucti quilli foru culpabili et si trovaro alo dicto acto et quilli digiati minari in la chitati di Girgenti et carcerarili in lu castellu di la dicta chitati in modo chi non si pocza di loro fuga dubitari. E perche siamo informati che a lu dictu iudeu fu prisa certa roba et intra li altri uno gippuni in lu quali si dichi erano cosuti chentochinquanta pezi d’oro, farriti di lo dicto gippuni e di tucta laltra roba libri et scripturi diligenti investigacioni et perquisicioni cui li prisi et in putiri di chi persuna sono.
Quel tesoro non fu più ritrovato. Non valsero neppure gli anatemi del sacerdote ad indurre alla restituzione dei 150 pezzi d’oro trafugati dallo “jppuni” del povero ebreo Sadia di Palermo, racalmutese di vecchia data. Lo spaccato della società racalmutese non appare molto esaltante. Non possono comunque da un singolo episodio trarsi valenze generali che sarebbero solo generiche e fuorvianti. Ma l’indignazione rimane e la tentazione alla condanna di tutta la comunità ecclesiale dell’epoca è piuttosto irrefrenabile. Alcuni tratti, un marchio, un DNA, riconducibili alle famiglie citate nel quattrocentesco dispaccio, qualcuno potrebbe ravvisarli ancora in taluni personaggi locali.
[articoletto n.° 20]
LA (PRETESA) BARONIA DI RACALMUTO
di Calogero TAVERNA
Caduta la favoletta di una chiesetta eretta nel 1108 a Racalmuto, anche narrata dal grande Pirri, svanisce anche la credenza di un dominio dei Malconvenant, così come è infondato ogni possesso baronale del Barresi; ed è del pari infondato quello che si vorrebbe attribuire agli Abrignano. Il Tinebra Martorana, che di queste signorie parla, si appoggiò agli scritti del Villabianca sulla Sicilia Nobile; sennonché il settecentesco principe aveva in un caso interpretato liberamente una notizia del Fazello e nell’altro concessa una qualche credibilità - sia pure con espressa riserva - al Minutolo.
Un diploma angioino - autentico ed illuminante - fa giustizia di tali attribuzioni baronali e, sovvertendo tutte le congetture araldiche su Racalmuto prima della signoria dei Del Carretto, ci informa che il primo signore di Racalmuto ( o per lo meno il primo di cui si abbia notizia storica) fu tal Federico Musca, forse appartenente alla grande famiglia dei Musca titolare della contea di Modica. Sennonché Federico Musca tradisce al tempo di Carlo d’Angiò e questi lo priva, nel 1271, del dominio di Racalmuto, casale nelle pertinenze di Agrigento, per conferirlo a Pietro Nigrello di Belmonte. I Vespri Siciliani ci mostrano un comune divenuto demaniale. Sotto Pietro re di Sicilia e d’Aragona, il casale è costretto a nominare dei Sindaci fra le persone più cospicue, chiamati il 22 settembre 1282 a prestare il debito giuramento al nuovo re in Randazzo. Il che equivale a sottoporsi a tassazione piuttosto pesante. Il 20 gennaio 1283 Pietro incarica i suoi esattori di recarsi al di là del Salso per riscuotere di persona le tasse gravanti sulle singole terre: Racalmuto deve versare 15 once. Il Bresc ne desume una popolazione di 75 fuochi pari a circa 300 abitanti. Il 26 gennaio 1283 ind. XI «scriptum est Bajulo Judicibus et universis hominibus Rakalmuti pro archeriis sive aliis armigeris peditibus quatuor», cioè Racalmuto viene tassato per 4 soldati a piedi ed ha una struttura comunale con un baiulo e due giudici. Chi fossero costoro non sappiamo: crediamo che si trattasse di latini. I saraceni non potevano avere incarichi ufficiali. Ridotti probabilmente a pochi coloni, poterono forse starsene in contrada Saracino, a coltivare verdure con perizia di antica tradizione. Non erano più villani dato che il villanaggio - come dimostra il Peri - era già tramontato.
I Saraceni dell’agrigentino furono tumultuosi sotto Federici II. Nel 1235 essi furono in grado di prendere prigioniero il vescovo Ursone e di trattenerlo nel castello di Guastanella fino a quando non ebbe pagato un riscatto di 5000 tarì d’oro. Federico II ristabilì l’ordine confinando a Lucera quei sudditi ribelli. Il risultato fu una desolazione del territorio agrigentino che si ritrovò a corto di manodopera contadina. Nel 1248 v’è dunque un atto riparatorio da parte di Federico II verso la chiesa agrigentina che era stata spogliata dei villani saraceni, deportati in Puglia per le loro turbolenze. I danni sulla chiesa agrigentina per questa azione di polizia e per altri gravami imposti da Federico e dai suoi ufficiali furono così pesanti da ridurre il vescovo e la sua chiesa in condizioni tali da non avere più mezzi di sostentamento. Per risarcimento l’imperatore avrebbe concesso i proventi sugli ebrei e quelli della tintoria di Agrigento.
[articoletto n.° 21]
FONDAZIONE DI RACALMUTO NEL BASSO MEDIOEVO
di Calogero TAVERNA
Fu a seguito dell’assestamento di Federico II che Federico Mosca (o un suo diretto antenato) poté fondare Racalmuto portandovi coloni suoi propri o accogliendo saraceni sbandati. Nel 1271 egli però deve cedere il casale a Pietro Nigrello, avendo tradito l’angioino. Il personaggio riemerge sotto Pietro d’Aragona. Nel 1282 il Mosca figura, infatti, come conte di Modica, ma non rientra in possesso di Racalmuto. Sarà Federico Chiaramonte - se crediamo al Fazello - che prenderà possesso di questo casale e vi costruirà, nel primo decennio del XIV secolo, il castello con due torri cilindriche che ancor oggi si erge maestoso ed imponente entro la cinta del paese. E’ falso quel che appare nell’elenco «baronorum et feudatariorum» dello pseudo Musca (pubblicato dal Gregorio: Bibliotheca, II, pp. 464-70), laddove si pretende che nel 1296 Racalmuto fosse baronia di Aurea Brancaleone (l’elenco recita testualmente a pag 20 del ruolo pubblicato nel 1692 da Bartolomeo Musca: «Aurea Brancaleone, eredi, per Calabiano e Rachalmuto; reddito onze 400»). Se un ulteriore elemento si vuole per dimostrare la falsità di quel pur celebre ruolo, eccolo qui: Brancaleone Doria sposa la vedova di Antonio del Carretto, Costanza Chiaramonte, attorno al 1344, e solo dopo tale data poté avere qualche pretesa su Racalmuto. Sappiamo infatti che il figlio - Matteo Doria - nominò propri eredi i figli del fratellastro Antonio, Gerardo e Matteo del Carretto..
L’excursus sinora soltanto abbozzato tende ad additare un punto per noi basilare della storia di Racalmuto: l’anno 1271, con il cennato documento angioino, segna il salto tra preistoria e storia locale. Il paese dal nome arabo dell’Agrigentino, sorto come casale ad opera di Federico Musca (sia o non sia il conte di Modica), lascia dietro le spalle il mistero del suo esistere e si accinge a divenire quella che Amerigo Castro chiamerebbe un’umana, fervida, sofferente, tenace, talora rigogliosa tal altra “meschinella” «dimora vitale».
Francamente non riusciamo a concordare con Leonardo Sciascia secondo il quale Racalmuto «ebbe per secoli ... vita appena “descrivibile” nell’avvicendarsi di feudatari che, come in ogni altra parte della Sicilia, venivano dal nord predace o dalla non meno predace ‘avara povertà di Catalogna’; col carico delle speranze deluse e delle rinnovate e a volte accresciute angherie che ogni nuova signoria apportava. Ma la vita vi era sempre tenace e rigogliosa, si abbarbicava al dolore ed alla fame come erba alle rocce.» Quell’abbarbicarsi al dolore ed alla fame produsse storia narrabile e non solo descrivibile , ben al di là delle figure care a Sciascia: il prete ‘alumbrado’ Santo d’Agrò; il teologo Pietro Curto; il medico ‘specialista’ Marco Antonio Alaimo; l’ “uomo di tenace concetto” - martire per lo scrittore e niente più che un ‘insano di mente’ per Denis Mack Smith - Diego La Matina, il monaco agostiniano di “Morte dell’inquisitore”; il pittore, forse confidente dell’Inquisizione, Pietro d’Asaro. Sono i protagonisti celebrati dallo scrittore racalmutese, e per taluni versi falsati o spudoratamente aureolati nelle sue icastiche pagine.
Da oltre sette secoli, Racalmuto lascia tracce di vita e di morte negli archivi, nei diari, nelle opere storiche e si appalesa popolo fervido di inventiva, coeso, dai costumi peculiari, dalla cultura inconfondibile, capace di azioni reprobe, narrabili, contraddistintosi in eventi rimarchevoli, con connotati magari di vigliaccheria o di perversione, però non privi talora di empiti nobili, senza - a dire il vero - nessuna propensione all’eroismo, ma rifuggendo sempre dalle abiezioni collettive. Nessun episodio di guerra, nessuna rivolta cruenta, nessuna carneficina, nessun sovvertimento sociale. Obbedienti e critici, sottomessi ma mugugnanti, specie nelle varie congreghe (religiose o civili, a seconda dei tempi).
GLI ESORDI STORICI DI RACALMUTO
di Calogero Taverna
Su interessate segnalazioni dei canonici agrigentini, il Pirri non aveva, attorno al 1630, dubbi che la più antica chiesa di Racalmuto fosse S. Margherita Vergine - che secondo postumi documenti appare contigua e collegata con la chiesa di S. Maria di Gesù - e che essa fosse stata fondata nel 1108 da Roberto Malconvenant. Purtroppo, la notizia si base su un documento dell’Archivio Capitolare agrigentino, che, come ebbe a dimostrare Mons. Paolo Collura, si riferisce a ben altra località, molto probabilmente sita nei pressi di S. Margherita Belice. Sappiamo di certo che S. Maria di Gesù non è chiesa del XII secolo: dobbiamo risalire alla prima metà del XVI secolo per averne indubbi dati documentali.
I primi cenni sulla comunità religiosa di Racalmuto risalgono alle decime avignonesi del 1308 e 1310. Nell’abitato racalmutese vi erano almeno due chiese: quella parrocchiale retta da tale presbiter Angelo di Montecaveoso, e quella forse conventuale dedicata alla Vergine Maria, i cui carichi tributari ricadevano su un certo Martuzio Sifolone (divenuto poi il moderno Scicolone?).
Altra pagina storica insieme civile e religiosa è quella rinvenibile negli archivi avignonesi dell’ Archivio Segreto Vaticano sulla presenza a Racalmuto dell’Arcidiacono Bertrando du Mazel per numerare i fuochi, stabilirne la capacità contributiva e raccoglierne l’imposta per togliere l’interdetto che si originava dalla rivolta dei Vespri Siciliani. Era l’anno 1375.
Nel 1375 Racalmuto doveva essere un piccolo centro agricolo con non più di 900 abitanti. Nell’ archivio segreto Vaticano è reperibile il resoconto delle collette redatto in quell’anno dall’arcidiacono du Mazel (cfr. Reg. Av. 192). Questi era stato mandato in Sicilia per raccogliere il sussidio che doveva servire alla rimozione dell’interdetto. Il sussidio andava ripartito in ciascun abitato per case, in rapporto alle condizioni economiche: 1 tarì per le famiglie più povere, 2 per le ‘mediocri’, 3 per le agiate e cioè ‘qualsiasi fuoco di ricchi abbondanti in facoltà’ (cfr. Peri I.: la Sicilia dopo il vespro - Laterza, 1982, pag. 235). Il 29 marzo del 1375, il pio collettore (o suoi emissari) giungeva a Racalmuto e trovatovi 136 fuochi raccoglieva il ‘sussidio’ e scioglieva l’interdetto (cfr. AVS - Reg. Av. 162 f.419v). Dato che per ogni fuoco è calcolabile un nucleo familiare medio di 4-5 persone, ne deriva una popolazione di circa 610 abitanti, aumentabile sino a 7-800 se pensiamo ad evasori o a soggetti resisi irreperibili. In un secolo e tre quarti - dal 1375 al 1548, la popolazione di Racalmuto - se le nostre congetture e i dati del Tinebra Martorana hanno una qualche attendibilità - si sarebbe accresciuta di quasi tre volte e mezzo. Nel successivo eguale lasso di tempo, la crescita si è invece limitata solo al 48,32%, che in ogni caso è tasso di sviluppo normale.
Che cosa sia avvenuto tra il 1375, quando Racalmuto era una modesta terra del potente Manfredi Chiaramonte, e la metà del XVI secolo non è chiaro. Il salto nell’intensità abitativa testimonia comunque un massiccio afflusso di forestieri.
Abbiamo motivo di congetturare che tanti sono giunti dalle terre marine vicine, fuggiti per la paura dei pirati. L’improvviso sviluppo della coltura granaria ha esaltato il fenomeno della immigrazione intensiva. I tanti La Licata sembrano convalidare la prima ipotesi. I molti cognomi di paesi e terre del circondario scandiscono la provenienza di numerosi agricoltori accorsi nei feudi racalmutesi che talora sostituiscono e talora si aggiungono ai patronimici.
Tanti immigrati nel campo dei mestieri, ma ancor più in quello delle mansioni pubbliche, acquisiscono come cognome di famiglia la peculiare attività o funzione svolta. I non pochi Xortino denunciano l’antica carica di maestri di xurta. I maestri xurteri erano al tempo di Carlo d’Angiò i soprintendenti alla sicurezza notturna. Se ne riscontra traccia in documenti del 1270 e se ne ha conferma nel 1282-1283 sotto Pietro d’Aragona.
[articoletto n.° 23]
APPROCCIO CRITICO ALLA STORIA DI RACALMUTO
di Calogero TAVERNA
Le vicende di Racalmuto possono venire ricostruite con amore, con passione, con interesse ma criticamente, spregiudicatamente spazzando via tutti quegli “idola” della ingenua tradizione locale o della mistificante letteratura degli autori paesani.
E’ una Racalmuto che va vista con occhi critici e razionali. Non può certo avvalorarsi la saga della venuta della Madonna del Monte del 1503, così come, in buona fede, non può affermarsi che vi siano state tasse per uzzolo dei Del Carretto con buona pace del “terraggio e terraggiolo” secondo la deformazione del pur sommo Leonardo Sciascia. Noi valutiamo piuttosto positivamente la presenza del Del Carretto a Racalmuto. Reputiamo fucina di cultura clero locale, organizzazione parrocchiale, atteggiamenti della fede nel sorgere e nell’abbellimento di chiese, negli insediamenti di conventi, nel diffondersi di confraternite.
A tanti non interesserà - ma ad alcuni racalmutesi sì - sapere chi erano a quel tempo i “mastri” ed i “magnifici”; quanti erano “jurnatara”; se vi erano “facchini” (e ce n’erano); come erano pagati; chi si poteva permettere di mangiare “salsizzi” e chi doveva accontentarsi dei residui del porco; se le donnette (come ai miei tempi del resto) potevano tenere per strada “gaddrini” e “gaddruzzi” ed apprendere che vi era l’imposizione del conte di una “tassa in natura” su quest’uso (l’offerta di una gallina e di un galletto al castello a prezzo calmierato), e via di seguito.
L’ Archivio di Stato di custodisce ben n° 69 Rolli di atti notarili che minuziosamente scandiscono la vita paesana di Racalmuto dal 1561 al 1608; n.° 71 per il periodo 1600-1707, n.° 195 per il tempo 1700-1816; n.° 56 per il tratto 1801-1860.
Quel materiale archivistico è praticamente ignoto. Tolta qualche curiosità di padre Alessi che ebbe a cercarvi con l’ausilio di un paleografo atti per il suo Pietro d’Asaro, la cronaca diuturna di Racalmuto vi si sta polverizzando.
La vendita di un mulo, la cessione di una “jnizza”, la suggiogazione di una casa, il “pitazzu” di un “inguaggiu”, vita, morte, sposalizio, tasse, risse, organizzazioni sociali, ruolo di preti monaci e chierici, rettori e governatori di confraternite, il pulsare della vita economica, sociale e religiosa di ogni giorno della Racalmuto del tempo, il suo espandersi demografico ed il suo drammatico falcidiarsi per l’esplodere di pesti, tutto ciò è il vivido quadro che i polverosi registri notarili non rivelano per la neghittosità degli storici racalmutesi. Ed i politici potrebbero ovviarvi: penso a cooperative di giovani, a sovvenzioni pubbliche comunali volte a finanziare ricerche d’archivio, a scuole di paleografia - giacché leggere quei documenti non è da tutti - , ad incentivi economici; a borse di studio etc.
Sciascia redarguisce compiacentemente Tinebra Martorana che si produsse in una smaccata falsità a proposito della Racalmuto araba; egli spreca una delle sue splendide metafore elevando il falso del Tinebra ad una «tentazione dell’accensione visionaria, fantastica». E ciò nonostante, per Sciascia il libro del Martorana che degna di una sua alata presentazione, «va bene così com’è: col gusto e il sentimento degli anni in cui fu scritto e degli anni che aveva l’autore, con l’aura romantica e un tantino melodrammatica che vi trascorre. Certo manca di metodo, e tante cose vi mancano: ma credo che molti racalmutesi debbano a questo piccolo libro l’acquisizione di un rapporto più intrinseco e profondo col luogo in cui sono nati, nel riverbero del passato sulle cose presenti.»
Ma davvero il popolo di Racalmuto è così disavvertito da aver bisogno di frottole e scempiaggini per percepire ed amare il riverbero del suo passato storico, il richiamo ancestrale della sua memoria più vera e più pulsante?
Francamente credo di no e queste note - bando alle ipocrisie - hanno un suo codice genetico, una sua cifra culturale ed una sua vocazione storica di segno opposto non solo rispetto a Sciascia ma anche a Tinebra Martorana, a Serafino Messana, ad Eugenio Napoleone Messana, al poeta Padalino, ai tanti esimi sacerdoti che semper sacerdos secundum ordinem Melchisedech hanno scritto di storia racalmutese volti alle cose di Dio ed al forzoso rinvenimento dell’onnipotente presenza nelle misere cose dell’umano dissolversi racalmutese.