mercoledì 22 febbraio 2023
Quello che scrivevamo quella domenica del 2018 in parte va confermato ma in parte va rettificato. Giuseppe Bella via Messana in parte aveva ragionem in parte farnetica). Untanto dichìiamo che la guardia campestre si chiamava MARTORANA, come correttamente scrive E.N. Messana, niente dunque MARTORELLI. Baldassare Grillo morì assassinato con un colpo di luparare ed era cognato (?) del Barone Grande che a dire di Giuseppe Bedllavia Messana, era il mandante di quella esecuzione a clpi di,lupara. Mio fratello Angelo sta certiosinamente ricosr'truebdo i contorni di questa terrificante mafifestazione nafioseda del 1881. A presto.
(rdomenica 25 febbraio 2018
La caccia, più che per nutrimento, è stata uno sport, una passione. Il barone Luigi Tulumello, a fine Ottocento, si fece costruire nel feudo lasciatogli dal prozio prete, delle torrette, da cui sparare tranquillamente ai conigli, che si premurava a immettere nelle sue terre a tempo debito. Una guardia campestre – tale Martorelli – amava però fare il bracconiere nei dintorni della tenuta baronale di Bellanova. Il nobile don Luigi Tulumello non tollerava il dispetto che si permetteva una volgare guardia campestre: la fece chiamare, e, in sua presenza la fece inquisire da un suo famiglio. Il Martorelli fu arrogante, anzi mise in dubbio “l’essere omo” di quel manutengolo. Dopo pochi giorni, il Martorelli ci rimise la pelle. In un fascicolo a stampa che trovavasi – chissà perché? – nella sacrestia della Matrice (ma mani pietose l’hanno trafugato) si poteva leggere il racconto del processo penale che ne seguì. Per le autorità inquirenti, due bravacci favaresi si erano acquattati in una macelleria di tal Borsellino, all’inizio di via Fontana. Quando, come al solito, il Martorelli, baldanzoso sulla sua giumenta, passò verso il meriggio per andare ad abbeverare la bestia giù alla fontana, fu da malintenzionati paesani additato dall’interno della macelleria. I bravacci seguirono allora il Martorelli fino alla fontana e là gli scaricarono addosso vari colpi di lupara. Per gli inquirenti, i mandante era stato il barone; l’organizzatore il famoso campiere Bartolotta. Si fecero, costoro, un paio di anni di carcere preventivo, ma poi vennero totalmente assolti. Per qualche coniglio selvatico, ci si rimetteva la pelle a Racalmuto sino al tardo Ottocento. Per gli avversari politici, il barone Tulumello – anche se poi sindaco ed consigliere provinciale - rimase “un reduce dalle patrie galere”, come può leggersi in missive anonime che si conservano nell’archivio centrale di stato. E così anche per Sciascia. Va letta in proposito questa pagina di Nero su nero: [i]
«La ragione lontana di questa mia avversione [per i titoli nobiliari, ndr] sta che al mio paese, dove l’ultimo barone era morto una diecina d’anni prima che io nascessi, l’ombra di costui dominava ricordi di soperchieria e violenza, di corruzione e di malversazione amministrativa. A casa mia, poi, ce n’era un ricordo più vicino e diretto, e più tremendo: il barone si diceva avesse fatto ammazzare un cugino di mio nonno, una giovane guardia campestre della cui moglie si era invaghito.
«Nonostante il rapporto di dipendenza (il barone era sindaco, o forse sindaco era suo fratello), la guardia lo aveva ammonito e forse minacciato: che girasse al largo della sua casa, della sua donna. E il barone gli aveva mandato il sicario, a tirargli alle spalle mentre quello abbeverava la giumenta. Dell’agguato, del colpo alle spalle, della terribile condizione della vedova che si era levata, ma inutilmente, ad accusare il barone, mi si faceva un racconto minuzioso: ma in segreto, quasi col timore che il barone potesse ancora, dalle sue spie, venire a sapere quel che si diceva di lui. E ricordo una particolarità piuttosto orrenda: che il colpo che uccise la guardia era fatto, oltre di lupara, di schegge di canna; e volevano dire atroce irrisione (nel sentire popolare la canna, forse perché data all’ecce homo come scettro, è simbolo di scherno; e si ritengono maligne, cioè inevitabilmente destinate a suppurare, le ferite da canna).»
Parola d’onore: nelle carte processuali, neppure l’ombra del delitto passionale. Per movente, si adduceva la stizza per il bracconaggio dei conigli baronali e l’ira per la tracotante insolenza della guardia campestre. Erano, poi, tempo d’abigeato e la lettera anonima avverso i Tulumello – quando la guardia campestre Martorelli era già morta e sotterrata – ce ne ragguaglia con insinuazioni maligne. Certo, ora la nuova guardia comunale Leonardo Sciascia è tutta per il barone Tulumello: in data 25 maggio 1896 si scriveva anonimamente al Cadronghi:
«Eccellenza. - Il sindaco Tulumello reduce dalle patrie galere, tutto può ciò che si vuole. Fattosi padrino di un bambino del marasciallo, se ci è fatto lama spezzata; con cui a mantenere le apparenze di un paese tranquillo e di ordine, si occultano reati col qui pro quo. Il vice pretore Alaimo informi. Così la mafia, vestita di carattere pubblico regna e governa. Pertanto, un Michele Scimé, braccio destro del Tulumello, poté essere assolto, sebbene colto in flagranza di abigeato di animali. Così i fratelli Bartolotta - della greppia - non vengono inquisiti di animali, mentre vennero nei loro armenti scovati animali rubati. Così Leonardo Sciascia disciplina l'elemento cattivo che, sotto le parvenze di circolo elettorale, (sic) dove un Tulumello è presidente, soffoca ogni libera manifestazione, come nell'ultima elezione. CosìAlfonso Conte, dopo la villeggiatura fattasi col Sindaco, dalle carceri di Girgenti, Catania e Palermo, gode oggi di una pensione assegnatagli dal Tulumello, sì da fare il maestro didattico della malavita. Et similia.»
L’abigeato fu piaga che si protrasse sino alla prima metà del XX secolo: se si lasciava la mula oppure l’asino in aperta campagna, spesso non si ritrovava più l’animale, come oggi per la macchina, a meno che non si pagava un riscatto. I manutengoli erano i soliti affiliati alle cosche protette dai soliti galantuomini. Nelle inviolabili tenute di costoro trovavano più o meno provvisoria ricettazione. Mi raccontano della tragedia occorsa al genitore del gesuita padre Scimé (Garibardi), cui fu sequestrata la scecca mentre zappava certe terre della Culma. La riebbe, pagando il riscatto, per l’intermediazione di un potente dell’epoca, un galantuomo di tutto rispetto.
Lillo Taverna
32 m
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Ho letto il post di Calandrino.Ma perchè ti arrabbi per niente?
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Quella rabbia è tutta funzionale ... gioco come il gatto col topo. Dietro vi è una grande guerra interna alla BI. La BI vuol mettere ordine alla gozzovilìglia di fringe benefit ad uso e consumeo di certi amici degli amici e questi sranno reagendo inmalo modo servendosi anche di unpoveraccio che si chiama calandrino. Stanno avendo la sventura di scontrarsi cone me, colti che fevce una verifica t… Altro...
lunedì 20 febbraio 2023
ELIMI
di Vincenzo Tusa
Gli Elimi abitarono nella Sicilia occidentale fin dall’VIII sec. a.C. e probabilmente anche da prima; di questo popolo si sono occupati soprattutto gli storici discutendo le varie fonti, in assenza quasi assoluta di testimonianze archeologiche: solo da poco tempo, infatti, si sono eseguite ricerche archeologiche nei siti elimi indicati dalle fonti e in altri siti non greci della Sicilia occidentale. Degli storici antichi che ci tramandano notizie sugli Elimi quelli maggiormente presi in considerazione sono Ellanico di Mitilene, Tucidide e Filisto di Siracusa. Secondo Ellanico (FGrHist, I, fr. 79), gli Elimi sarebbero stati delle genti cacciate dall’Italia in Sicilia: valutando cronologicamente gli avvenimenti che narra, questo sarebbe avvenuto nella prima metà del XIII sec. a.C. Per Tucidide (VI, 2, 3) sarebbero stati dei Troiani sfuggiti agli Achei dopo la guerra di Troia e approdati in Sicilia insieme ai Focei, ai confini con i Sicani, e avrebbero fondato le città di Erice e Segesta; sempre secondo Tucidide (VI, 2, 6), in un secondo momento, si allearono con i Fenici quando costoro, dalla Sicilia orientale, passarono nella Sicilia occidentale: questo sarebbe avvenuto nella seconda metà dell’VIII sec. a.C.
Filisto (FGrHist, IIIB, fr. 46) ammette l’esistenza degli Elimi, ma nega che siano venuti in Sicilia. Altri autori accennano agli Elimi, spesso in maniera fantasiosa e riportando leggende; cito ancora gli Scholia vetera ad Licophronis Alexandra dove, al verso 964, è menzionata per la prima volta Entella come la terza tra le città elime. Riassumendo le notizie delle fonti antiche si può affermare che, escludendo Ellanico e Filisto, tutti gli altri ammettono la provenienza degli Elimi dalla Troade. Per la maggior parte degli storici moderni è incerta la provenienza degli Elimi (K. Freeman, E. Pais, G. Dunbabin, R. van Compernolle, B. Pace, J. Bérard, L. Bernabò Brea, M.I. Finley), mentre protendono per l’origine orientale A. Holm e J. Bovio Marconi e per l’origine italica Ch. Hülsen, L. Pareti e G. De Sanctis. U. Kahrstedt ha una posizione diversa che si fonda su un concetto politico e non etnico: egli pensa che gli Elimi siano una parte dei Sicani che ha avuto il proprio sviluppo sotto l’influenza della colonizzazione punica; questa diversità di opinioni ha una sua giustificazione: fino a qualche decennio fa non si era praticata alcuna ricerca archeologica nelle località elime indicate dalle fonti.
Di fonti archeologiche si occupò la Bovio Marconi nel 1950: prese in esame i pochi resti allora esistenti provenienti da rinvenimenti fortuiti e da un modesto scavo eseguito a Segesta nel 1942 (oggetti di bronzo e frammenti di ceramica incisa e dipinta, qualcuno proveniente anche da Erice), pervenendo alla conclusione che “non si possa negare la veridicità fondamentale della tradizione di Tucidide, compresa in un ampio orizzonte”. In questi ultimi decenni si sono eseguite varie campagne di scavi soprattutto a Segesta, ma anche a Erice, Entella e in altre località della Sicilia occidentale che, in base ai risultati degli scavi, non si possono considerare estranee alla “cultura” elima. A Segesta si è rinvenuto un grande santuario (83,4 x 47,8 m) ai piedi del Monte Barbaro su cui sorgeva l’antica città, una scoperta questa della massima importanza per la conoscenza di vari aspetti degli Elimi: religiosi, topografici, rapporti con la cultura greca, ecc. Pur non essendo completato lo studio, il materiale rinvenuto ci consente di datare il complesso architettonico, discretamente conservato nella sua struttura esterna, al VI e V sec. a.C.: visse cioè due secoli. Colpisce in questo santuario l’assenza quasi completa di ceramica e di terrecotte figurate che abbondano invece nei santuari greci.
All’interno del recinto è stata accertata l’esistenza, confermata da precise osservazioni geologiche, di un tempio dorico, completo di pronao e opistodomo, di cui restano in superficie resti di colonne, di capitelli e di architravi. Sempre all’interno è stato rinvenuto, non in situ, un frammento di lastra di pietra decorata in bassorilievo con una porta rastremata verso l’alto con la gola egizia, un motivo, com’è noto, di chiara derivazione orientale. Sempre a Segesta, da uno scavo eseguito per più campagne nelle pendici del Monte Barbaro, molto scoscese, si sono rinvenute, ovviamente buttate dall’alto, varie migliaia di frammenti, in massima parte indigeni dipinti e, in minor misura, con graffiti, di vasi greci figurati importati (corinzi, attici a figure nere e rosse) e pochi a semplice vernice nera, tutti databili dall’VIII-VII al IV sec. a.C. I frammenti indigeni graffiti recano spesso la figura umana molto stilizzata, altri cerchietti concentrici e motivi vari (linee punteggiate, denti di lupo, losanghe, ecc.): tipica soprattutto è quella ceramica che reca la figura umana che risente di lontani echi anatolici e che Bernabò Brea, tra gli altri, ha definito “elima”.
Motivi orientali riscontriamo anche nella ceramica dipinta che presenta una gamma vastissima di motivi resi con vari colori: nero, rosso, arancione, marrone scuro e altri ancora; non manca qualche motivo animale molto stilizzato. Il tutto dà l’impressione di un particolare tipo di ceramica di origine anatolica submicenea mediata attraverso Cipro. Non sono assenti altresì influssi del periodo geometrico e dell’inizio dell’Orientalizzante e sono recepiti inoltre alcuni caratteri salienti della tradizione locale influenzata, soprattutto, dal non lontano centro indigeno di Sant’Angelo Muxaro. Alcuni frammenti di ceramica attica importata recano incise a graffito delle iscrizioni, purtroppo non complete, in caratteri greci ma in lingua non greca: le iscrizioni sono state incise quando il vaso era già sul posto, cioè a Segesta. Qualche frammento è stato trovato anche in altre località dell’area elima; si tratta ovviamente della lingua degli Elimi, com’è stato riconosciuto dai vari studiosi che se ne sono occupati esprimendo idee diverse sulla collocazione glottologica: da R. Ambrosini, che pensa a una lingua anatolica (luvio), a M. Lejeune che ritiene si tratti di “un idiome proche des langues italiques connues”; L. Agostiniani, che ha studiato più a lungo le iscrizioni, conclude un suo lavoro del 1991 con queste parole: “...l’italicità dell’elimo è possibile, a mio avviso anche probabile, ma resta ancora, in larga misura, ipotetica”.
È stata trattata più a lungo Segesta perché, almeno allo stato attuale delle nostre conoscenze, questo centro, sia per la quantità che per la qualità del materiale rinvenuto, può rappresentare bene la “cultura” degli Elimi, con una particolarità: le sembianze umane sui vasi si trovano solo a Segesta, almeno allo stato attuale delle nostre conoscenze. Per il resto, sia negli altri due centri menzionati dalle fonti antiche, Erice ed Entella, che in altri saggiati recentemente (Iato, Monte Castellazzo, Monte Polizzo, Monte Maranfusa, Monte Cavalli, ecc.), si rinviene ceramica incisa e dipinta simile a quella di Segesta che, com’è noto, s’incontra sia nella Sicilia occidentale che nella zona centro-meridionale dell’isola. È chiaro quindi che questo tipo di ceramica non può costituire una prova inconfutabile della “elimicità” di quel dato centro. A sua volta però ceramica di questo tipo non si trova in altri siti della Sicilia occidentale, ad esempio a Selinunte. Si può dunque propendere, pur con qualche dubbio, per la “elimicità”, anche se relativa, dei centri dove si rinviene questo tipo di ceramica.
Ancora un’altra osservazione: sembra accertato che i centri elimi, sia quelli indicati dalle fonti che altri che si possono considerare tali a seguito di ricerche archeologiche, si trovino su colline più o meno alte. A tale riguardo si potrebbe pensare che questa caratteristica degli Elimi sia connessa con la loro qualità di coltivatori della terra e forse anche di allevatori di bestiame: se così fosse, questa qualità degli Elimi giustificherebbe la stretta alleanza che sempre ci fu, in pace e in guerra, con i Punici; gli uni fornivano generi alimentari, gli altri i prodotti del commercio. Non si può non tener conto, infine, di una posizione a proposito dell’origine degli Elimi assunta recentemente da S. Tusa secondo la quale è ovvio inquadrare l’emergere degli Elimi come entità etnico-politica e artigianale a sé stante intorno all’VIII sec. a.C., così come si evince dai dati archeologici nel più ampio fenomeno di progressiva peninsularizzazione della primitiva cultura sicana dell’isola.
Lo studioso pensa in questo caso ai Siculi, agli Ausoni, ai Morgeti, agli Iapigi, ai Dauni, ai Peucezi, ai Messapi e adduce prove e considerazioni che certo fanno riflettere; egli però “non nega la possibilità di una effettiva confluenza di elementi anatolici che avrebbero giocato un ruolo non indifferente nella genesi dell’elemento elimo”. Come si evince da quanto esposto, le ricerche e gli studi finora effettuati non hanno fornito una visione compiuta e chiara degli Elimi: è normale del resto dato il breve tempo da cui ci si occupa di tale questione. Due aspetti però si possono ritenere certi: 1) gli Elimi costituiscono una entità diversa dai Sicani; 2) anche per la conoscenza degli Elimi vale, come per altri popoli, il concetto di formazione (si pensi agli Etruschi); a questa formazione hanno contribuito componenti diverse, non ultima quella anatolica. Ricerche, scavi e studi potranno dare in futuro una più approfondita conoscenza di questo popolo che, pur nella sua modestia, ha contribuito alla formazione della regione siciliana.
Bibliografia
G. Nenci - S. Tusa - V. Tusa (edd.), Gli Elimi e l’area elima fino all’inizio della prima guerra punica. Atti del seminario di studi (Palermo - Contessa Entellina, 25-28 maggio 1989), in ArchStorSic, ser. IV, 14-15 (1988-89).
S. Tusa - R. Vento (edd.), Gli Elimi, Trapani 1989 (con bibl. prec.).
Giornate internazionali di studi sull’area elima (Gibellina, 19-22 settembre 1991). Atti, Pisa - Gibellina 1992.
S. Tusa, La “Problematica elima” e testimonianze archeologiche da Marsala, Paceco, Trapani e Buseto Palizzolo, in SicA, 25 (1992), pp. 71-76.
D. Zodda, Il problema degli Elimi e la storia di Erice, in Messana, 19 (1994), pp. 87-115.
Seconde giornate internazionali di studi sull’area elima (Gibellina, 22-26 ottobre 1994). Atti, Pisa - Gibellina 1997.
Terze giornate internazionali di studi sull’area elima (Gibellina - Erice - Contessa Entellina, 23-26 ottobre 1997). Atti, Pisa - Gibellina 2000.
Sicani, Elimi e Greci. Storie di contatti e terre di frontiera (Catalogo della mostra), Palermo 2002.
R.M. Albanese Procelli, Sicani, Siculi, Elimi. Forme di identità, modi di contatto e processi di trasformazione, Milano 2003.
SEGESTA
di Laura Buccino
Insediamento degli Elimi nella Sicilia nord-occidentale (gr. Ἔγεστα, Αἴγεστα, Σέγεστα; lat. Segesta). L’abitato sorgeva su due alture separate da una sella a est, nell’impervio massiccio del Monte Barbaro, non distante dalla costa.
La vicinanza con la più occidentale delle colonie greche, Selinunte, che mirava a espandersi politicamente ed economicamente nella zona della Sicilia abitata da Elimi e Fenici, favorì la precoce urbanizzazione e la profonda ellenizzazione del centro indigeno. Tucidide (VI, 2, 6) documenta l’esistenza di un trattato di epigamia, che permetteva i matrimoni misti tra i cittadini di S. e Selinunte, favorendo la coesione tra le due comunità. Oltre ai contatti commerciali e culturali, però, sono attestati anche conflitti per rivalità territoriali, dopo che S. alla metà del V sec. a.C. aveva esteso la sua egemonia su Mozia. In uno di questi scontri, nel 416 a.C. S. invocò l’aiuto di Atene, che intervenne in virtù del trattato stipulato nel 418/7, dando avvio alla disastrosa spedizione in Sicilia contro Siracusa. In un secondo conflitto scoppiato di lì a poco S. fece appello a Cartagine, altra tradizionale alleata, che nel 409 a.C. distrusse Selinunte, Imera e Agrigento. In seguito, S. fu conquistata da Dionisio I di Siracusa. Nella guerra che oppose Siracusa a Cartagine tra il 312 e il 306 a.C. passò per breve tempo dal fronte cartaginese a quello siracusano. Diodoro Siculo ci informa del brutale trattamento inflitto da Agatocle nel 307 a.C. di ritorno dall’Africa agli alleati Segestani, che non volevano soddisfare le sue esose richieste. Agatocle cambiò il nome della città in Dikaiopolis e la diede da abitare a chiunque vi si fosse recato spontaneamente, esuli, fuoriusciti e disertori. Dopo la conquista romana della Sicilia (241 a.C.), S. fu annoverata tra le civitates immunes ac liberae, secondo la testimonianza di Cicerone.
L’insediamento indigeno è attestato almeno dalla fine del VI sec. a.C. L’impianto urbano, noto essenzialmente grazie alla lettura delle foto aeree, a causa della natura del sito in forte pendenza era articolato su terrazze artificiali, che furono ampliate e regolarizzate in età ellenistico-romana. L’asse viario principale, con direzione est-ovest, proseguiva in un’arteria di collegamento extraurbano, che conduceva a Selinunte. Le case, disposte sui terrazzamenti e in gran parte scavate nella roccia, erano collegate da sentieri tortuosi, che colmavano i dislivelli di quota. Il rinvenimento di materiale votivo nel deposito di Grotta Vanella documenta la frequentazione di un’area di culto sulla sommità del Monte Barbaro da parte di indigeni e Greci nel V sec. a.C. Nella prima metà del V sec. a.C. fu eretta la cinta muraria inferiore, con torri e porte del tipo a corte interna. Le fortificazioni risultano in parte costruite, in parte ottenute riadattando le difese naturali e furono ripetutamente modificate. Su una collina a ovest di S., intorno al 430-420 a.C. fu eretto il celebre tempio dorico, attribuito a maestranze attiche presenti in loco, ma mai portato a compimento, come mostra l’assenza della cella. Un altro tempio periptero fu costruito nel V sec. a.C. in contrada Mango, su una terrazza a sud-est della città, frequentata sin dall’VIII sec. a.C. Il monumentale muro a grandi blocchi è stato interpretato come parte della recinzione del santuario o come struttura di contenimento.
Nell’abitato si segnala l’emergenza monumentale del teatro, costruito sull’altura settentrionale intorno alla metà del IV sec. a.C. e ristrutturato in età romana. L’edificio era in parte ricavato nel fianco di una collina, in parte sostruito da un terrapieno artificiale, sorretto da un muro di analemma (contenimento). Si conservano parte della cavea e resti dell’edificio scenico, ornato da figure di Pan sui lati. La cinta muraria fu risistemata, probabilmente in seguito agli scontri con i Cartaginesi (270-260 a.C.), tramite l’arretramento della linea di difesa e la costruzione della cosiddetta “cinta di mezzo”. La città fu ristrutturata dopo la conquista romana, nella seconda metà del III sec. a.C., secondo un impianto scenografico articolato in ampi terrazzamenti. Nell’altura settentrionale erano concentrati gli edifici pubblici, come il teatro e il bouleuterion (fine del II sec. a.C.) rinvenuto in scavi recenti, con pianta rettangolare e cavea iscritta semicircolare, di cui rimangono i sedili di pietra calcarea, l’ingresso settentrionale monumentalizzato da un portico e l’orchestra pavimentata in opus sectile con mattonelle esagonali e trapezoidali di calcare rosato. La grande iscrizione dedicatoria, incisa su quattro lastre pavimentali di calcare trovate reimpiegate in una cisterna, che menziona l’architetto Bibakos figlio di Tittelos e il direttore dei lavori Asklapos figlio di Diodoros, si riferisce a una fase precedente del monumento (inizi del III sec. a.C.).
Un edificio con cortile lastricato e portico colonnato dorico, adiacente al lato sud del bouleuterion, è stato interpretato come peristylos, la palestra per i lottatori e i pugili del ginnasio. Nel terrazzamento sottostante, il maggiore di quelli ricavati nella roccia (oggi occupato dal piazzale di sosta), è stata riconosciuta l’agorà, pavimentata con lastre di pietra e delimitata in età ellenistica da stoài su tre lati (nord, ovest e sud), mentre a est si apriva spettacolarmente su uno strapiombo. Gli scavi hanno messo in luce, inoltre, lussuose case di età ellenistica, decorate con intonaci bianchi e dipinti, stucchi policromi, pavimenti in mosaico e opus sectile, come la cosiddetta Casa del Navarca sull’altura meridionale, così denominata per le originali sette mensole di pietra a forma di navi da guerra, datata tra la fine del II e l’inizio del I sec. a.C. Il proprietario della villa è stato identificato con l’Heraclius vittima di Verre di cui parla Cicerone. Dopo il I sec. a.C. fu eretta la cinta muraria superiore, impiantata su case tardoellenistiche, che si riallacciava al circuito più antico.
Una necropoli di età ellenistica (fine IV-III sec. a.C.) è stata rinvenuta ai piedi della collina del tempio, in proprietà Mancuso, con sepolture per lo più costituite da fosse scavate nel terreno per inumati, ma anche da urne fittili, provviste di corredo. Potrebbe trattarsi, data la cronologia dell’utilizzo, di un sepolcreto nato dopo il sacco di Agatocle del 307 a.C., frequentato per tutto il III sec. a.C. Tenuto conto della compresenza dei rituali funerari e della varietà di tipologie tombali è stato ipotizzato che la necropoli fosse frequentata da individui di etnie diverse. Altre tombe di età ellenistica sono state messe in luce sulla sovrastante collina del tempio dorico e nell’area antistante al sistema di fortificazione di Porta di Valle. I materiali epigrafici e i resti di edifici (criptoportico e horreum) rinvenuti nell’area dell’agoràforo testimoniano la continuità di vita fino alla piena età imperiale (III sec. d.C.), dopo la quale cominciò il declino di S., fino all’abbandono definitivo nel corso del VII sec. d.C., prima della rioccupazione del sito in età medievale.
Bibliografia
V. Tusa, s.v. Segesta, in EAA, VII, 1966, pp. 151-54.
R. Camerata Scovazzo, s.v. Segesta, in EAA, II Suppl. 1971-1994, V, 1997, pp. 197-203 (con bibl. prec.).
C. Michelini, Reimpiego di iscrizioni a Segesta, in M.I. Gulletta (ed.), Sicilia Epigraphica. Atti del Convegno Internazionale (Erice, 15-18 ottobre 1998), in AnnPisa, s. IV, Quaderni, 2 (1999), pp. 439-48.
Terze giornate internazionali di studi sull’area elima (Gibellina - Erice - Contessa Entellina, 23-26 ottobre 1997). Atti, Pisa - Gibellina 2000, passim.
L. Jannelli, Segesta, in L. Cerchiai - L. Jannelli - F. Longo (edd.), Città greche della Magna Grecia e della Sicilia, Venezia 2002, pp. 272-78.
SICANI
di Dario Palermo
Antica popolazione della Sicilia; i Sicani abitavano l’isola, a detta di Tucidide, al momento dell’arrivo dei primi coloni greci insieme a Siculi ed Elimi; da essi l’isola fu in un primo momento detta Sikanie, denominazione poi ristretta solo alla parte centro-meridionale nella quale in epoca storica il popolo dei Sicani era stanziato. Solo scarse notizie abbiamo dalle fonti antiche sui Sicani; le informazioni più complete sono quelle ricavabili da Tucidide e da Diodoro Siculo, i quali riportano anche pareri di altri autori la cui opera è perduta. Secondo Tucidide (VI, 2), i Sicani sostenevano di essere autoctoni; opinione respinta dallo storico ateniese, il quale dava invece come assodata l’origine iberica dei Sicani, forse sulla scorta della sua fonte primaria Antioco di Siracusa. A prova dell’origine iberica, Tucidide ricordava l’esistenza di un fiume Sicano in Iberia. Le stesse precisazioni si trovavano, secondo Diodoro Siculo, nell’opera di Filisto, forse attinte alla stessa fonte di Tucidide.
Assertore dell’origine autoctona dei Sicani era, secondo Diodoro, Timeo di Tauromenio, il quale rigettava come false le teorie sull’origine iberica; secondo lo stesso Diodoro, i Sicani avrebbero abitato in villaggi sparsi, riuniti attorno a un luogo forte che ne avesse facilitato la difesa in caso di necessità. Lo storico di Agira ricorda inoltre che i Sicani non costituivano una sola entità politica, ma che ogni comunità, spesso in lotta con le altre, aveva il proprio capo. Su di un punto, comunque, le fonti antiche sono d’accordo: e cioè che i Sicani in origine occupassero l’intero territorio della Sicilia e che in seguito si fossero ritirati nella parte centro-meridionale e occidentale; vi è però una diversa indicazione delle cause di questo ritiro: secondo Diodoro esso sarebbe stato provocato dalla paura indotta da ripetute e violente eruzioni dell’Etna; Tucidide invece attribuisce il ritiro all’avvento dei Siculi che andarono a occupare la Sicilia orientale scacciandone i Sicani.
Il nome dei Sicani ricorre poco nella storia dell’isola. È però significativo che, secondo Diodoro, la trattazione storica di Antioco di Siracusa avesse inizio con il regno di Kokalos, dinasta sicano che avrebbe accolto nella sua reggia di Inico il fuggiasco Dedalo, provocando così la spedizione in Sicilia di Minosse il quale vi avrebbe poi trovato morte. A Dedalo gli autori greci attribuiscono la costruzione per Kokalos dell’imprendibile fortezza di Kamikos, vanamente assediata dal re cretese, che oggi si identifica attendibilmente in Sant’Angelo Muxaro. La venuta dei Cretesi in Sicilia e la loro dispersione nel territorio dopo la morte del loro re deve senz’altro aver costituito un momento fondamentale nella storia dei Sicani, con riflessi fino alla piena età storica, allorché Terone, conquistata la città sicana, scoprì il sepolcro del re cretese e ne restituì le ossa ai suoi conterranei. Ritroviamo i Sicani coinvolti in episodi che riguardano la storia dei primi coloni greci in Sicilia, come la conquista di Omphake da parte dell’ecista di Gela Antifemo, che ne riportò fra il bottino una statua attribuita allo stesso Dedalo; negli Stratagemata di Polieno è ricordato anche lo stratagemma mediante il quale il tiranno agrigentino Falaride si impadronì della città di Ouessa e del suo re Teuto.
I Sicani compaiono ancora in un’iscrizione di V sec. a.C. rinvenuta a Samo che li ricorda come assedianti di una città, forse Endesa, nella quale erano rinchiusi degli Imeresi; Tucidide (VI, 62) cita i Sicani come abitanti del villaggio di Hykkara conquistato dagli Ateniesi durante la spedizione in Sicilia e da essi consegnato agli alleati segestani; nel 405 a.C., infine, un trattato stipulato fra Dionisio di Siracusa e i Cartaginesi (Diod. Sic., XIII, 114) li menziona come sottomessi a questi ultimi. Non si conoscono iscrizioni dell’area sicana e del tutto sconosciuta, tranne i rari elementi onomastici e toponomastici, ne è la lingua; a essa sono state talvolta attribuite alcune delle glosse genericamente riportate come “sicule” nelle quali siano riconoscibili elementi preindoeuropei; il quadro delle nostre conoscenze sui Sicani è, come si vede, generalmente sconfortante. In questa situazione, l’archeologia costituisce l’unica testimonianza probante sulla cultura e la storia dei Sicani.
I rinvenimenti archeologici permettono di riconoscere, in effetti, una netta distinzione culturale fra la Sicilia orientale e l’area sicana. Essa è interessata, infatti, dalla cultura cosiddetta “di Sant’Angelo Muxaro-Polizzello”, che presenta un aspetto caratteristico, determinato in larga misura dalla sopravvivenza di elementi più antichi, risalenti alle culture del Bronzo Medio e Tardo. Su questi elementi, ancora fortemente impregnati di ricordi egei – e il tipo della tomba a tholos è solo l’aspetto più monumentale di tali reminiscenze – si vengono poi a innestare elementi nuovi, come la decorazione geometrica, realizzata però con la tecnica tradizionale dell’incisione o dell’impressione, o la decorazione dipinta, che è certamente un portato del contatto con le produzioni delle colonie greche. Evidentissime sono le sopravvivenze di remota origine egea, forse con una connotazione specifica cretese, nel campo delle manifestazioni cultuali, così come ci sono note dalle aree sacre di Sabucina e della montagna di Polizzello, che giungono fino al pieno VI sec. a.C.
Il contatto con l’area egea non sembra però essersi spento del tutto neanche attraverso i secoli della Dark Age greca, come sembra dimostrare la già ricordata nascita della decorazione geometrica oppure la presenza di tipi quali il clipeo fittile e il vaso ornitomorfo, che rimandano ancora una volta all’ambiente cretese ma che non compaiono nella Gela di VII sec. a.C. e che forse ne costituiscono l’antefatto alla fondazione da parte di Rodi e Cretesi. Il riconoscimento della continuità fra le culture di media e tarda età del Bronzo e la successiva cultura “sicana” di Sant’Angelo Muxaro, d’altra parte, costituisce una conferma evidente della tradizione letteraria sulla occupazione della intera isola da parte dei Sicani: l’unico momento, infatti, in cui la Sicilia conosce una uniformità culturale su tutto il territorio è quello della cultura di Thapsos del XV-XIII sec. a.C.; appare quindi probabile che il nome Sikanie possa risalire proprio a questo periodo.
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SICULI
di Dario Palermo
Antica popolazione della Sicilia, dalla quale l’isola prese il nome. Al tempo della venuta dei coloni greci, occupavano la Sicilia orientale, da cui avevano scacciato i Sicani che vi abitavano in precedenza. Le fonti antiche sono concordi nell’assegnare ai Siculi un’origine italica: secondo varie tradizioni, essi abitavano dapprima il Lazio insieme ad Aborigeni e Pelasgi dai quali ne vennero cacciati; progressivamente migrati verso sud, avrebbero infine attraversato su zattere lo Stretto di Messina per occupare la loro sede definitiva. Da un re dei Siculi avrebbe preso nome l’Italia. Varia però negli scrittori antichi l’indicazione del periodo nel quale si verificò la venuta dei Siculi nell’isola. Dionigi di Alicarnasso ricorda l’opinione di Ellanico di Lesbo e Filisto di Siracusa, i quali collocavano l’evento rispettivamente 3 generazioni o 80 anni prima della guerra di Troia, cioè intorno al 1270 a.C.; per Tucidide invece la discesa dei Siculi in Sicilia sarebbe avvenuta 300 anni prima dello stanziamento dei coloni greci, quindi nell’XI sec. a.C.
Da un punto di vista archeologico, il riconoscimento del momento dell’arrivo dei Siculi in Sicilia deve quindi necessariamente basarsi sulla individuazione di elementi di carattere peninsulare, in un primo momento minoritari, ma successivamente estesi a tutta la parte orientale dell’isola. Diversamente pensava P. Orsi, il quale attribuì il nome di “siculi” a tutti i momenti culturali che aveva distinto nella preistoria della Sicilia immediatamente dopo il Neolitico. È stato merito di L. Bernabò Brea l’aver correttamente impostato il problema dell’identificazione degli elementi di carattere italico in Sicilia, a seguito dei suoi scavi nelle Eolie e della risistemazione della sequenza delle culture pre- e protostoriche dell’isola. Lo studioso ha osservato infatti che nella Sicilia orientale, a partire dal XIII sec. a.C., si possono individuare dei momenti di frattura, che segnano un profondo cambiamento nella cultura di questa parte dell’isola e che trovano riscontro con quanto avviene a Lipari, dove alle culture del Bronzo Medio, omogenee con quelle della Sicilia, si sovrappongono manifestazioni culturali di netto stampo italico, dette “ausonie”.
In concomitanza, nella Sicilia orientale le popolazioni locali sembrano arroccarsi in siti facilmente difendibili quali Pantalica, Caltagirone o Monte Dessueri, la cui nascita in questo periodo lascia pensare a uno stato generale di insicurezza forse dovuto alla presenza di elementi ostili nel territorio. Più chiari gli eventi nella fase successiva, detta “di Cassibile” (1050-850 a.C.), allorché, accanto alle forme tradizionali delle culture locali siciliane, compaiono elementi certamente allogeni e con forte impronta peninsulare. Così, accanto al tradizionale rito dell’inumazione entro grotticella artificiale, vi sono necropoli (Molino della Badia di Grammichele, Pozzanghera di Lentini), nelle quali è prevalente il rito dell’inumazione entro fossa o pithos; il villaggio della Metapiccola di Lentini è fatto di capanne rettangolari simili a quelle dell’Ausonio di Lipari e capanne del medesimo tipo compaiono a Morgantina, sede del popolo dei Morgeti, anch’esso di origine italica. Assistiamo inoltre in questo periodo a un significativo mutamento del repertorio delle forme ceramiche e degli utensili metallici, che si va sempre più differenziando dalle manifestazioni della Sicilia centrale e meridionale, la quale rimane invece legata alle tradizioni del Bronzo Medio e Tardo.
Il fenomeno di assimilazione e commistione dell’elemento culturale locale e di quello italico, che ha fatto parlare di una “formazione” in loco dell’ethnos siculo, piuttosto che di una sua venuta dall’Italia già interamente definito nelle sue componenti, è ormai compiuto nella fase di Pantalica Sud (850-730 a.C.), fatta terminare convenzionalmente in corrispondenza del primo impianto delle colonie greche in Sicilia. Questo evento segna infatti un momento capitale della storia dei Siculi. La colonizzazione greca, che si svolge fra l’VIII e il VI sec. a.C., parallelamente cioè alle fasi indigene dette “del Finocchito” e “di Licodia Eubea”, vede in un primo momento la resistenza dell’elemento siculo ai Greci, pur con l’introduzione nella loro cultura di molti elementi di origine ellenica, e successivamente la loro pressoché totale assimilazione e integrazione, per via di conquista militare oppure spesso per il fascino esercitato, soprattutto sulle classi più elevate delle città sicule, dagli usi e dagli oggetti dei Greci, fino a rendere l’aspetto culturale delle città dei Siculi praticamente indistinguibile da quello delle colonie greche.
Le entità politiche sicule si presentano d’altronde davanti ai Greci divise e quindi più deboli: l’unico tentativo di unificazione politica dei Siculi è quello di Ducezio, intorno alla metà del V sec. a.C., concluso con l’esilio e poi con la morte del protagonista, il quale però appare perfettamente integrato nel modo di pensare e di agire greco. Gli insediamenti siculi entrano così progressivamente a far parte dei territori delle colonie greche, soggiogati o spontaneamente aggregatisi, conservando però una specificità locale, segnata soprattutto dall’uso della lingua, della quale ci sono state conservate diverse iscrizioni, la più lunga delle quali, che presenta termini di tipo italico, era incisa su di un blocco inserito nella porta urbica della città del Mendolito presso Adrano. L’alfabeto siculo è di origine greca e se ne differenzia per la presenza di alcune lettere specifiche. Molte parole sicule sono inoltre tramandate da glosse di grammatici greci. Un forte radicamento hanno anche i culti dei Siculi, alcuni dei quali sopravvissuti alla prevalenza dell’elemento religioso ellenico: fra di essi il culto del dio Adrano, praticato in un santuario difeso da cani, o quello dei gemelli Palici, localizzato presso i conetti vulcanici del lago di Naftia. Questi culti sono vivi fino a età romana, man mano assimilati ad analoghe manifestazioni religiose greche.
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MORGANTIN
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