Le chiese di Racalmuto ed altre cose della religiosità
locale
PREMESSA
Questa è una silloge di nostre personalissime e non agevoli ricerche. Se qualcuno ha dato un contributo - anche e quasi sempre piccolo, sparuto e sostanzialmente di non grosso rilievo - noi ne facciamo esplicito riferimento: è certo che non plagiamo nessuno, mentre potremmo essere vittima - e lo siamo - di plagio. La nostra cifra culturale e ideologica è marxista anche se trattiamo cose di chiesa. Sono note pubblicate in vario tempo; nostre personali convinzioni sono spesso cambiate ma in sostanza io resto sempre fedele a me stesso. Non amo né dogmatismi né moralismo. Sappiamo che dire storia religiosa di Racalmuto è solo riesumazione dell'unico e inscindibile vivere o sopravvivere di un aggregato sociale in questa landa per tanti versi aprica per altri ostile. Preti, conventi congreghe, istituti, canoni, morale, interessi non sempre sono propizi ad un egualitario consorziarsi di uomini liberi, eppur sempre vien fuori una cifra di acculturamento e di civilizzazione che trascende il mero dato confessionale.
Questa è una silloge di nostre personalissime e non agevoli ricerche. Se qualcuno ha dato un contributo - anche e quasi sempre piccolo, sparuto e sostanzialmente di non grosso rilievo - noi ne facciamo esplicito riferimento: è certo che non plagiamo nessuno, mentre potremmo essere vittima - e lo siamo - di plagio. La nostra cifra culturale e ideologica è marxista anche se trattiamo cose di chiesa. Sono note pubblicate in vario tempo; nostre personali convinzioni sono spesso cambiate ma in sostanza io resto sempre fedele a me stesso. Non amo né dogmatismi né moralismo. Sappiamo che dire storia religiosa di Racalmuto è solo riesumazione dell'unico e inscindibile vivere o sopravvivere di un aggregato sociale in questa landa per tanti versi aprica per altri ostile. Preti, conventi congreghe, istituti, canoni, morale, interessi non sempre sono propizi ad un egualitario consorziarsi di uomini liberi, eppur sempre vien fuori una cifra di acculturamento e di civilizzazione che trascende il mero dato confessionale.
Questa piccola chiesa di Racalmuto sorgeva all''estremità
Nord di Racalmuto, nel vecchio quartiere della FONTIS tradizionalmente
FONTANA e per ripicche politiche tra due dioscuri egemoni codesto
quartiere oggi è sparito dalla popolare toponomastica alla cui principale
arterie hanno cambiato il tradizionale nome di Battesimo di via Fontana con
quello improbabile di via Gramsci.
La chiesetta dedicata a S. Nicola di Bari adatta il suo nome
alle esigenze foniche di questo strano paese, la nostra Racalmuto, per divenire
SANTA NICOLA che resta pur sempre santo maschile ad onta dell'epiteto ambiguo.
"Santa Nicola, Santa Nicola, vi dugno la vecchia e mi
dati la nova" pregavamo quando ci cadevano i denti lattei per quelli che
più o meno malfermi ci dovevano accompagnare per tutta la vita. E l'invocazione
accompagnava il gesto del dentino scagliato sui tetti nella convinzione
che se non invocavamo questo santo barese non avremmo mai spuntato in
bocca il sostituto.
Iniziamo da questa bella foto, fornitaci dalla
signora Rita Grazia Mattina, la nostra scorribanda storica su
Racalmuto propiziata dalle foto che Rita Grazia, eccellente fotografa,
mano mano ci metterà a disposizione.
Parte da qui una microstoria racalmutese, rapsodica, vagula,
ma poggiante su studi e ricerche trentennali.
Filo logico sono l'amore per la verità storica -
nonostante tutto, oltre tutto - e lo spasmodico affetto per questo !spazio
vitale" in cui siamo nati, che giammai abbiamo rinnegato, che vogliamo
integro nella sua storica toponomastica e fedele nel suo genuino toponimo. I
vezzi letterari, gli svolazzi di un cervellotico congetturare devono stare
stellarmente lontani.
Amiamo con tutta la nostra mente, con tutto il critico e
duttile intelletto di cui disponiamo questo nostro irrinunciabile borgo
natio, spesso oggetto di interessate mistificazioni, di immeritate
denigrazioni.
Ripuliamo la memoria storica di RACALMUTO!
Rita Grazia Mattina con le sue appassionate, non
oleografiche e non mercificate foto, ci accompagnerà in questo tortuoso e
ondivago percorso.
Due episodi ci rendono cara o interessante questa periferica
chiesetta. Ai tempi della mia infanzia davvero vi erano bande di ragazzini
terribili da richiamare alla mente i "ragazzi della via Paal".
Molto attivi, spesso figli di famiglie dedite al crimine, un tempo
all'abigeato, negli anni del dopoguerra del '40 al furto alla grassazioni, e
sovente all'omicidio, quei bambinetti respiravano violenza da tutte le parti e
consideravano l'atto aggressivo atto coraggioso, Una banda temibile raccoglieva
i ragazzini dagli otto ai dodici anni provenienti dalle casupole attorno alla
chiesa di San Nicola (vulgo Santa Nicola). In quel quartiere ora abitava gente
dura, con precedenti penali e taluni dimoranti nelle patrie galere. Il quartiere
di San Nicola, attestato già ai primi del '500 come coevo del tempo in cui la
tradizione vuole la venuta della Madonna del Monte a Racalmuto, fu luogo
prediletto da certe famiglie emergenti, famiglie di notai, di nobilato addetto
alla gestione dell'economia dei Carretteshi, di preti piuttosto affermati. Era
poi di molto decaduto, credo per l'insalubrità o ritenuta tale che si
addebitava ai luoghi bassi: coincidenze di tisi endemiche in quel
quartiere invero si erano avute. I medici consigliavano aria buona: d'estate si
andava "fori" alla Culma o alla Marchisa o a Gargilata, considerate
campagne atte a rigenerare polmoni malandati e quindi dall'autunno in poi
nelle zone alte del Carmelo. Subentravano poveracci che occupano dammusi e se divenivano
meno poveri salivano, sempre numerosi, le camere solerate. Promiscuità
assoluta, igiene inesistente, moralità attutita.
La banda di Santa Nicola saliva gagliarda e minacciosa a lu
Castieddru, Qui trovava l'altra banda un po' meno diseredata ma pur sempre
grintosa. In un certo qual senso ne faceva parte un mio cugino vigoroso, molto
abile con la fileccia, capace di colpire passeri alla Spina e colombi nelle
feritoie della torre carrettesca. C'era la possibilità di organizzare non tanto
uno scontro di calcio ché mancavano palloni e anche passione, ma erano le
furibonde lotte allo Sceriffo, come nei filmi americani che tutti non so come
conoscevano, a determinare infinite sparatorie finte con indice e pollice
a simulare la pistola e con la reboante voce a sparare. Stanchi i più piccoli
tornavano a casa, i più grandicelli già non più puberi al calare della sera
andavano a sedersi sugli scalini della chiesa di San Giuseppe e iniziavano
conversari molto spinti. Eccitati poteva nascere una masturbazione a cerchio
magari per mostrare chi poteva fiottare più lontano.
Molto più tarda è l'altra simpatica memoria: Siamo
negli anni '80. La nuova amministrazione social-comunista organizza
addirittura un festival della lirica con concorso a premi. L'emergente on.
le Milioto fa convergere nella bella piazzola antistante la chiesetta di Santa
Nicola alcune manifestazioni liriche, persino dei balletti, concerti. Seduti
dinanzi allo sfondo della facciata che qui si fotografa tra due filari di basse
e civettuole case si poteva godere di una accattivante atmosfera. Ho partecipato
qualche volta. Mi è molto piaciuto. Una sorta di redenzione artistica, una
riabilitazione al suono di "la donna è mobile" o delle rivisitazioni
di vecchi strazianti canti (Maria Passa) o di canzonette prossenetiche paesane,
(affaccia beddra) che gli eredi di Luigi Infantino riescono a far cantare nel
paese d'origine del pienotto tenore da poco deceduto.
La chiesa di San Nicola sorge, periferica, nei primissimi anni del '500. Spirava a Racalmuto in quel tempo un'aria misticheggiante cui non erano estranei i Del Carretto che tornarono ad abitare nel castello che si dice - non senza qualche fondamento - chiaramontano. Esplodeva un'espansione demografica, come dire un'appetibile servitù della gleba che si tramutava in bei proventi per codesti signori dalle origini genovesi e non finalesi come fa oggi comodo continuare a credere. Naturale che oppiare i popoli con fervori religiosi era espediente anche allora molto praticato. Una statua di "marmaru di nostra signura" viene via mare fatta venire da Palermo ove aveva buona bottega artigiana un non spregevole scultore toscano a nome MASSA.
Anche allora avere una dignitosa sepoltura era assillo dei nostri antenati racalmutesi. Si costruivano chiese per sepolture di ceti meno disagiati che si consorziavano in quelle che presero nome di confraternite. Una di queste costruì appunto la chiesetta di San Nicola di Bari. Ne abbiamo scritto nel nostro RACALMUTO NEI MILLENNI; ne stralciamo alcuni passi che messi qui forse qualche lettore in più riesco ad adescarlo.
La chiesa di San Nicola sorge, periferica, nei primissimi anni del '500. Spirava a Racalmuto in quel tempo un'aria misticheggiante cui non erano estranei i Del Carretto che tornarono ad abitare nel castello che si dice - non senza qualche fondamento - chiaramontano. Esplodeva un'espansione demografica, come dire un'appetibile servitù della gleba che si tramutava in bei proventi per codesti signori dalle origini genovesi e non finalesi come fa oggi comodo continuare a credere. Naturale che oppiare i popoli con fervori religiosi era espediente anche allora molto praticato. Una statua di "marmaru di nostra signura" viene via mare fatta venire da Palermo ove aveva buona bottega artigiana un non spregevole scultore toscano a nome MASSA.
Anche allora avere una dignitosa sepoltura era assillo dei nostri antenati racalmutesi. Si costruivano chiese per sepolture di ceti meno disagiati che si consorziavano in quelle che presero nome di confraternite. Una di queste costruì appunto la chiesetta di San Nicola di Bari. Ne abbiamo scritto nel nostro RACALMUTO NEI MILLENNI; ne stralciamo alcuni passi che messi qui forse qualche lettore in più riesco ad adescarlo.
Un vescovo agrigentino del tempo, il nobile Tagliavia nutrì
eccessivo interesse per la comunità ecclesiastica di Racalmuto. Nel 1540 mandò
suoi pignoli visitatori; tre anni dopo fece visita inquisitoria lui stesso.
Poteva considerarsi apparentato con il bigotto Giovanni III del Carretto, ma il
barone non viene neppure adombrato nelle relazioni episcopali che per nostra
fortuna si conservano nell’archivio vescovile di Agrigento.
In tali atti vescovili viene descritta piuttosto
diffusamente la condizione dell’organizzazione ecclesiale di Racalmuto.
Un fenomeno nuovo emerge con il suo peso sociale, economico
e soprattutto bancario: quello delle confraternite. Le confraternite
cinquecentesche di Racalmuto nascono come associazioni per garantire la “buona
morte” che è come dire una onorevole sepoltura - il culto dei morti da noi è
stato sempre presente, ossessivo, dispendioso - ma subito, venute in possesso
di disponibilità finanziarie e monetarie, cosa di gran rilievo in un’angusta
economia curtense, assurgono a potentati economici molto simili alle attuali
banche: finanziano, danno in affitto gli immobili di proprietà (sia pure relativa),
fanno committenze per costruire chiese (fonte prima del loro guadagno per le
sepolture a pagamento che vi vengono fatte), le fanno riparare, e così via di
seguito. Non sono corporazioni di arti e mestieri, anzi sono essenzialmente
interclassiste. Il prete vi svolge un ruolo, ma solamente religioso: è soltanto
il cappellano spirituale. Nasce da qui il detto tutto racalmutese: monaci e
parrini, vidici la missa e stoccaci li rini. Come dire i preti ed i monaci
nelle confraternite ci stano per celebrar messa, ma dopo bisogna loro
“stuccarici li rini” beffarda espressione per specificare che ognuno deve poi
girarsi su se stesso per le mansioni e competenze proprie, in assoluta
indipendenza. I preti infatti non potevano inserirsi nella gestione economica,
tutta affidata al governatore laico ed agli altrettanto laici deputati che ogni
anno si eleggevano. Il vescovo Tagliavia cerca di irreggimentare il tutto, ma
con scarso successo.
Gli aridi inventari episcopali del 1540 e del 1543 ci
consentono comunque di fare una ricognizione critica - senza le grandi
sbavature cui gli storici locali indulgono - delle chiese veramente esistenti
all’epoca. Abbiamo innanzitutto la vetusta chiesa di S. Antonio: è
parrocchiale, risale ad epoca immemorabile (noi pensiamo alla prima metà del
Quattrocento). Al tempo di Giovanni III del Carretto è fatiscente; nessuno
pensa a ricostruirla; la si lascia in abbandono ma alla fine la solerzia del
vescovo Tagliavia è tale che risorge a nuova vita e il culto in essa perdura
sino alle soglie del Settecento.
Monsignor Pietro Tagliavia ed Aragona, nel tempo in cui fu
vescovo di Agrigento curò molto le visite pastorali. Racalmuto fu prima, nel
1540, assoggettato ad un’ispezione sommaria la cui verbalizzazione è contenuta
in cinque fogli ove è riportata, in sostanza, una secca inventariazione dei
beni delle più importanti chiese di allora: Nunziata, Santa Maria di Gesù,
Santa Margherita, Madonna del Monte e San Giuliano. [1] Tre anni dopo, il paese subì, come si è
accennato, una più seria indagine da parte del vescovo in persona, che vi
si recò il giorno 11 giugno 1543. Il taglio del resoconto è ora molto più
articolato, e viene fornito uno spaccato della vita religiosa locale di grande
interesse.[2]
Al centro della locale comunità religiosa è
l’arciprete don Nicolò Gallotto (o de Gallottis). E’ originario della terra di
San Marco, diocesi di Messina; è anche canonico agrigentino (“est etiam canonicus
agrigentinus”). Non riusciamo a sapere, però, se risiede in paese. Gode di metà
delle rendite e degli emolumenti, perché l’altra metà serve per il
sostentamento di quattro cappellani che accudiscono alla chiesa e amministrano
i sacramenti all’intera popolazione (“dictus dopnis Nicolaus habet dimidiam
omnium redditum et emolumentorum ... alia dimidia est assignata quatuor
capellanis qui serviunt dicte ecclesie et administrant populo ecclesiastica
Sacramenta.”).
Ricade su Racalmuto l’onere del sostentamento
del suo arciprete, cui spetta per antico diritto (“ex disposictione”), il
beneficio della “primizia”. E’ questo un gravame tributario in forza del quale
ogni fuoco (famiglia) è assoggettato alla corresponsione di un tumolo di
frumento ed un altro di orzo all’anno; le vedove sono obbligate solo per il
tumolo di frumento; i non abbienti sono esonerati (”primitiam .. contigit
dictus archipresbiter seu eius locum tenentes unaquaque domo dicte terre et
illam solvunt hoc modo: unaqueque domus solvit tumulum unum frumenti et unum
ordei, exceptuatis viduis, que solvunt tumulum unum frumenti tantum singulo
anno”.)
Nella visita del 1540 era stato precisato che
il Gallotto percepiva annualmente tale primizia nella misura di 25 salme di
frumento e 22 di orzo. Considerando una salma formata di 16 tumoli, avremmo 400
fuochi di cui 48 quelli di vedove capo-famiglia. La popolazione abbiente
ascenderebbe quindi a circa 1600 abitanti. Ma siamo molto lontani dai dati
disponibili per quell’epoca. Nel rivelo del 1548, sotto Carlo V, Racalmuto
risulta forte di 890 fuochi per oltre 3100 abitanti. Non crediamo che vi
fossero 490 case di indigenti; il numero degli esonerati e degli evasori doveva
essere molto elevato. Ed il fenomeno dovette essere duraturo. Un paio di secoli
dopo, nel 1731, l’arciprete Algozini dava i seguenti ragguagli sulla primizia
di Racalmuto, un diritto che evidentemente si perpetuava: «questa chiesa non ha
decime ma la Matrice solamente ha ogni anno in primizie, tolti li miserabili e
fuggitivi, formenti di lordo in circa salme quarantaquattro, in orzi salme
sedici in circa, dovendo pagare ogni capo di casa tum.lo uno di formento e
tum.lo uno d’orgio.» Tradotto in statistica demografica, abbiamo una
popolazione di 2800 abitanti, a fronte di una popolazione effettiva dichiarata
dallo stesso Algozini in 5134 anime suddivisa in 1200 famiglie. Sorprendono le
analogie e le concomitanze con il fenomeno elusivo del 1540. A meno che in
entrambi i casi si dichiarasse soltanto la metà (la dimidia pars di spettanza
dell’arciprete).
Oltre alle primizie, l’arciprete Gallotto
percepiva i proventi per quelli che l’Algozini due secoli dopo chiama diritti
di stola: i proventi cioè dei funerali e dell’amministrazione dei servizi
religiosi (“mortilitia et alia provenientia ex administratione cure”).
Nel 1540 si constatava che la chiesa
dell’Annunziata dell’omonima confraternita fungeva anche da chiesa parrocchiale
al posto della Matrice intitolata a S. Antonio e non si aveva nulla da
eccepire. Visitata per prima, se ne annotava la doppia funzione: «Ecclesia di
la Nuntiata confraternitati et servi pro maiori ecclesia di ditta terra».
E’ comunque alla chiesa maggiore che spetta il diritto delle primizie: essa, in
quanto “maior ecclesia”, «habet primitias videlicet salme 25 frumenti et salme
22 ordei in persona domini Nicolai Gallocti cum onere unius misse
quotidie» Ma tre anni dopo, il vescovo Tagliavia ha di che ridire:
per lui, l’Annunziata è “ecclesiola” e quindi non può fungere da chiesa madre;
è un tempio «valde parvulum et angustum pro tanto populo”. La vecchia matrice
di S. Antonio è diruta; ma poiché essa sarebbe adeguata alle esigenze di spazio
dell’accresciuta popolazione, viene ordinato dal presule che venga restaurata e
riedificata. «Et quia .. ecclesia [maior] est diructa, et hec que servit pro
maiori ecclesia est valde angusta, ideo iussit provideri quo dicta maior ecclesia
restauretur et reedificetur.» Non si mancò di eseguire gli ordini vescovili:
sappiamo di certo che nel 1561 la chiesa Madre è proprio S. Antonio.
Le nostre notizie sull’arciprete venuto dalla
diocesi di Messina sono tutte qui. Non abbiamo neppure un appiglio per
formulare un qualsiasi giudizio sulla sua figura. Poté essere un bravo
sacerdote, ma poté essere un semplice percettore di benefici ecclesiastici. Dei
quattro cappellani che lo coadiuvarono (o lo sostituirono) non sappiamo neppure
i nomi.
Le carte episcopali richiamate a proposito
dell’arciprete Gallotto contengono accenni ad altri sacerdoti racalmutesi della
metà del Cinquecento: fra loro spicca don Francesco de Leo, vicario foraneo
della terra di Racalmuto. Si sa quanto importante fosse il ruolo del vicario
che fungeva da rappresentante del vescovo sul luogo. A lui venivano
demandati i compiti esecutivi della giurisdizione della Curia agrigentina,
specie in materia penale. Il vicario era uomo temuto e rispettato, forse ancor
più dell’arciprete, che spesso si limitava a percepire i frutti del beneficio
ottenuto per entrature curiali e non metteva neppure piede nella parrocchia di
cui era titolare.
Il de Leo era vicario, dunque, al tempo
dell’arciprete Gallotto. Tra gli altri compiti aveva quello di curare gli
interessi del canonico don Giovanni Puiates, titolare del beneficio di Santa
Margherita. Naturalmente, anche questi si limitava a percepire i pingui
proventi racalmutesi senza interessarsi neppure della chiesa che sorgeva
accanto a quella di Santa Maria di Gesù: a ciò pensava il vicario d. Francesco
de Leo ed era incarico che espletava encomiabilmente. Il vescovo Tagliavia nel
visitare, nel 1543, la chiesa di Santa Margherita la trova «satis bene
compositam» ed il merito l’attribuisce al vicario, «hoc propter bonam curam
dopni Francisci de Leo, vicarii dicte terre.»
Del solerte vicario, oltre a questa notizia,
non sappiamo null’altro. Possiamo giudicarlo, comunque, positivamente e tutto
fa pensare che fosse racalmutese. Si spiega così perché tenesse alla
vetusta chiesa di S. Margherita che, se è da dubitare che risalisse al 1108
come scrisse nel 1641 il Pirri, era pur sempre un luogo di culto di cui ad un
diploma del 1398. Il de Leo sembra avere care le tradizioni indigene. La chiesa,
varie volte rinnovata e ricostruita, era da tempo immemorabile sede di un
titolo canonicale agrigentino. «Ecclesia Sancte Margarite - si sa dalla visita
del 1543 - est titulus canonicatus” che al tempo spettava al cennato canonico
Pujades. I contadini racalmutesi dovevano corrispondere le decime al canonicato
della Cattedrale di Agrigento e non risulta che il beneficiario sia stato mai
un racalmutese. Quando si trattò di giustificarne il titolo originario, si
assunsero a documenti due antichissimi diplomi del 1108. In essi si descrive la
donazione di un fondo da parte di Roberto Malconvenant ad un suo parente, il
milite Gilberto, a condizione che vi edificasse una chiesa. Gilberto accetta,
si fa chierico ed inizia, costruisce e completa un tempio nella sua terra
intitolandolo a Santa Margherita Vergine. Il vescovo Guarino in una domenica
del 1108 consacra chierico e chiesa inquadrandoli nella giurisdizione
della Cattedrale agrigentina.
L’ubicazione del centro agricolo è di ardua
individuazione. Nel diploma viene così descritta l’estensione del fondo: se ne
specificano i confini; emergono quindi punti di riferimento e località che
nulla hanno a che vedere con Racalmuto. Quella antica chiesa “normanna” non è
posta pertanto vicino a Santa Maria, non ci compete e lasciamola al suo
destino. Il fascino della storia racalmutese non si appanna certo per il venire
meno di una tale tradizione.
Resta assodato che a Racalmuto il culto di
Santa Rosalia è ben antico. Non sembra, però, che vi sia qualcosa su S. Rosalia
nelle primissime visite pastorali agrigentine del 1540-3, dato che in quella
del 1543 si accenna solo alle seguenti chiese racalmutesi:
1)
Chiesa Maggiore, sotto il titolo di S. Antonio;
2)
“Ecclesiola” sub titulo Annuntiationis Gloriose Virginis Marie, da tempo sede
di una Confraternita e dove era stato trasferito il Santissimo, chiesa adibita
ormai al posto di quella Maggiore, già fatiscente;
3)
Chiesa di Santa Maria del Monte;
4)
Chiesa di santa Maria di Gesù;
5) Chiesa
di Santa Margherita;
6)
Chiesa di San Giuliano;
Nella precedente visita del 1540 abbiamo:
1)
Chiesa della “NUNTIATA”
2)
Chiesa di Santa Maria di Gesù (Jhù)
3)
Chiesa di Santa Margherita;
4)
Chiesa di “Santa Maria di lo Munti”;
5)
Chiesa di S. Giuliano.
(Cfr. le pagine 196v-198v della Visita)
|
Passando al setaccio i radi accenni delle carte
episcopali del 1540-1543 abbiamo che non proprio recenti erano le chiese quali:
la Nunziata, visto che vi si trovava una
vecchia tunichella di damasco turchino ( Item uno paro di tunichelli una di
villuto iridato cum soj frinzi di varij coluri et l’altra di damasco turchino
vechia);
Santa Maria di Gesù col suo vecchio paramento
di borchie stagnate (Item uno casubolo di borcati vecho stagnato);
Santa Margherita sia per quel che sappiamo
dalle antiche fonti sia come testimoniano i “avantiletto” lisi (item dui
avantiletti vechi). Significativo invece che a S. Giuliano non v’era nulla di
vecchio.
Di Giovanni del Carretto è consultabile il
testamento ([3]) steso sul letto di morte: a raccoglierlo il
notaio Jacopo Damiano, quello finito sotto le grinfie del Santo Ufficio.
L’inventario della vita del barone viene in qualche modo abbozzato.
In
epigrafe, la data: 2 gennaio 1650. Riguarda il “molto spettabile signor D.
Giovanni de Carrectis, domino e barone della terra di Racalmuto, cittadino
della felice città di Palermo, dimorante nel Castello della detta terra e
baronia di Racalmuto, che fa testamento dinanzi il notaio ed i testi”.
“Sebbene infermo nel corpo, è tuttavia sano di mente ed intelletto, con la
parola ed i sensi integri”.
Il
testamento esordisce con una sorpresa: erede universale non viene nominato il
primogenito (Girolamo, futuro primo conte di Racalmuto), ma il secondogenito,
“lo spettabile signor don Federico de Carrectis barone di Sciabica,
secondogenito legittimo e naturale nato e procreato dallo stesso spettabile
signor testatore e dalla fu spettabile donna Aldonza consorte del medesimo”.
Ripete in
dialetto, il morente barone: “legitimo e naturali, procreatu da me e
dalla condam Aldonsa mia mugleri in tutti e singuli beni, e cosi mei
mobili e stabili presenti, e futuri, e massime in la Vigna e loco chiamato di
lo Zaccanello, con tutti soi raggiuni e pertinentij, e suo integro statu,
pretensioni, attioni, e ragiuni, frumenti, orzi, cavalli, e scavi; superlectili
di casa, massarij, boi et altri animali, et instrumenti di massaria, vasi di
argento manufatti esistenti in lo detto Castello con li nomi di miei debitori
ubicumque esistenti e meglio apparenti”.
Se si è
avuta la pazienza di scorrere questa specie d’inventario, si ha un’idea di
quanto ricco e bene arredato fosse il Castello; vi era una frotta di servitù e
vi erano veri e propri schiavi (“scavi”).
A don
Federico vanno 200 once di rendita annuale, oltre alla definitiva proprietà di
mille once promesse a suo tempo dal testatore come dote assegnata nel contrarre
matrimonio con donna Eleonora di Valguarnera.
“Del pari
il prefato signor testatore volle e diede mandato che lo stesso spettabile D.
Federico erede universale abbia e debba sopra la restante eredità versare al
signor don Girolamo del Carretto la somma occorrente per le spese del funerale
quale dovrà essere celebrato in relazione alla qualità della persona dello
stesso spettabile testatore sino alla somma di once 100 da prelevarsi da quelle
600 once che stanno nella cassaforte (in Arca) del medesimo testatore ed
essendoci più bisogno di più si aviranno da pagare communiter da entrambi gli
eredi don Federico e don Girolamo”.
“Del pari
il prefato testatore istituisce suo erede particolare il molto spettabile
signor D. Girolamo de Carrectis suo figlio dilettissimo primogenito, legittimo
e naturale nato dal medesimo Testatore e dalla spettabile quondam Donna D.
Aldonza sua consorte, cui va la baronia nonché i feudi della terra di Racalmuto
con tutti ed ogni giusto diritto, con le giurisdizioni civili e criminali, il
mero e misto imperio giusta la forma dei privilegi ottenuti nella regia curia,
con le prerogative sui feudi, sul Castello, sugli stabili e con tutti gli altri
diritti quali il terraggiolo, le gabelle ed ogni altra consuetudine spettante
alla predetta baronia. A questo del Carretto suo indubitato figlio primogenito
spetta pertanto nella detta Baronia ogni pretesa, azione, ed imposizione. Gli
competono altresì denaro, frumento, orzo, servi, suppellettili di casa, buoi e
messi ovunque esistenti, nonché gli animali ovunque si trovino, come i frumenti
nelle masserie, i vasi d’argento esistenti nel Castello e tutte le ragioni
creditorie con le eccezioni che seguono”.
Giovanni
III morente pensa alla sua cappella privata nel castello e la dota: «Item
praefatus spectabilis dominus Testator voluit, et mandavit quod omnes raubae
sericae, et jugalia Cappellae existentes in Castro dictae Terrae quae
inservierunt pro Culto Divino, etiam illae raubae quae sunt, ut dicitur de
carmisino, et imburrato remanere debeant in Cappella dicti Castri pro uso
dictae Cappellae in Culto divino.»
“E così
il predetto testatore volle e diede mandato, ordinò e invitò come ordina ed
invita il detto spettabile don Girolamo suo figlio primogenito, futuro ed
indubitato successore nella detta Baronia affinché voglia e debba bene
trattare, reggere e governare tutti ed ogni singolo vassallo della predetta
terra e non permettere che vengano molestati da chicchessia, e ciò per
amore di nostro Signore Gesù Cristo e per quanto abbia cara la salute
dell’anima del testatore.»
Non crediamo
che Girolamo I del Carretto abbia dato troppo peso alla retorica
raccomandazione paterna. Se ne dipartì anzi per Palermo e Racalmuto fu solo il
luogo da dove provenivano le sue cospicue disponibilità liquide, spese
soprattutto per ottenere prestigiosi quanto tronfi titoli dalla corte spagnola.
“Del pari
il testatore lascia il legato a carico di Girolamo di far dire tante
messe nel convento di San Francesco di Racalmuto. Là doveva pure essere eretta
una Cappella bene adornata per cui dovevano essere spese almeno 100 once.”
“Al
Convento dovevano pure andare le 7 once di reddito annuale cui era tenuto il
magnifico Giovanni de Guglielmo, barone di Bigini.”
Di quella
Cappella a San Francesco, nulla è dato sapere: crediamo che Girolamo del
Carretto aveva ben altro a cui pensare a Palermo per spendere soldi per una
tomba regale nel lontano e spregiato Racalmuto. Crediamo, anzi, che di
quell’eccesso di devozione sia stato considerato artefice ed inspiratore il
notaio. Come familiare del Santo Ufficio, Girolamo I del Carretto ebbe quindi
modo di incolpare il malcapitato Jacopo Damiano e farne un eretico che ebbe il
danno della privazione dei beni e la beffa del sanbenito. Leggere il commento
di Sciascia per la letteraria rievocazione di questa pagina purtroppo
tragica nella sua acre realtà storica.
Il
morente barone dichiara di avere speso 130 once nella compera di legname e
tavole per il tramite di mastro Paolo Monreale e mastro Giacomo Valente.
Sancisce che devono essere bonificate 27 once per la costruzione della chiesa
di Santa Maria di Gesù e 11 once per completare il tetto “della chiesa di
Santa Maria di lu Carminu”.
Giovanni
del Carretto ha anche figlie femmine da dotare:
donna
Beatrice del Carretto, moglie di don Vincenzo de Carea, barone di San Fratello
e di Santo Stefano (150 once in contanti da prelevare dalle casse del
castello);
donna
Porzia del Carretto, moglie di don Gaspare Barresi (altro che lotta intestina
con i Barresi, dunque). Si parla di altre 50 once in contanti da erogare;
Suor Maria
del Carretto, dilettissima figlia legittima, monaca del convento di Santa
Caterina della felice città di Palermo. Oltre alla dote per la
monacazione, altre 20 once a carico dell’erede Girolamo;
Il notaio
Jacopo Damiano fu forse anche un tantinello venale: introdusse una clausola
che, se non fu determinante, contribuì quasi certamente alla sua rovina ed al
suo deferimento al Santo Uffizio da parte dei potenti ed ammanigliati del
Carretto. La clausola in latino recita: «Item ipse spectabilis Dominus testator
legavit mihi notario infrascripto pro confectione praesentis, et inventarij, et
pro copijs praesentis testamenti, et inventarij uncias quinque, nec non
relaxavit et relaxit mihi infrascripto notario omnia jura terraggiorum,
censualium, et gravorum omnium praesentium, et praeteritorum anni praesentis
tertiae inditionis pro Deo, et Anima dicti Domini Testatoris per esserci stato
buono Vassallo, et Servituri, et ita voluit et mandavit.» Vada per le cinque
once di parcella: cara ma tollerabile; l’esonero dal terraggio e dai censi, no.
Francamente era troppo. Ed a troppo caro prezzo Jacopo pagò quella sua
cupidigia. Un accenno veloce alle sue disavventure: Jacopo Damiano, notaro fu
imputato di opinioni luterane ma “riconciliato” nell’Atto di fede che si celebrò
in Palermo il 13 di aprile del 1563 (tre anni dopo la morte e la redazione del
testamento di Giovanni III del Carretto). Ebbe salva la vita, ma non i beni né
l’onore. Impetra accoratamente: «... per molti modi ed expedienti che ipso ha
cercato, non trova forma nixuna di potirisi alimentari si non di ritornarsi in
sua terra di Racalmuto [in effetti ci sembra originario di Agrigento, n.d.r.].
.... [ed i parenti, uomini d’onore] vedendo ad esso exponenti con lo ditto
habito a nullo modo lo recogliriano, anzi lo cacciriano et lo lassiriano andar
morendo de fame et necessità ...».
Tanta la
beneficenza del barone morente (ma era compos sui, o il ‘luterano’ notaio
inventava?):
5 once al
venerabile convento di San Domenico della città di Agrigento;
5 once
alla venerabile chiesa di Santa Maria del Monte;
10 once
al venerabile ospedale della terra di Racalmuto;
5 once
alla venerabile confraternita di San Nicola di Racalmuto;
5 once
alla venerabile chiesa di San Giuliano; inoltre poiché il testatore ha una
certa quantità di calce e detenendo una fabbrica di calce (“calcaria”)
esistente in territorio di Garamuli, dispone che se ne dia sino a concorrenza
di 500 salme per la chiesa di San Giuliano
5 once
alla chiesa di S. Antonio (che quindi è ritornata in auge);
5 once in
onore del glorioso Corpo del Signore quale si venera nella Matrice.
Al servo
di provata fedeltà debbono andare ben 20 once per i tanti servizi prestati; 10
once, invece, al servo (famulus) Francesco de Milia.
Il barone
è grato al clero; gli è stato vicino ed amico. Ecco perché raccomanda al
successore d. Girolamo del Carretto «quod omnes et singulae Personae
Ecclesiasticae dictae Terrae Racalmuti sint, et esse debeant immunes, liberi,
et exempti ab omnibus, et singulis gabellis, et constitutionibus solvendis
spectabili Domino eius successori, videlicet à gabella saluminis, vini, carnis,
granorum, et olei, et hoc pro usu tantum dictarum personarum ecclesiasticarum,
et ita voluit, et mandavit.»
I preti
debbono dunque essere immuni dai balzelli baronali come la gabella dei salami,
del vino, della carne, del grano, dell’olio: una sfilza di tasse sui consumi
che la dice lunga sull’assetto fiscale della realtà feudale di metà secolo XVI
a Racalmuto.
Il barone
resta legato alla sua terra; vuole essere seppellito nella chiesa di San
Francesco, vestito con l’abito di San Francesco (dobbiamo almeno ammettere che
alla fine dei suoi giorni, la sua fede era intensa).
[2]) Cfr.
«LA VISITA PASTORALE DI MONS. PIETRO DI TAGLIAVIA E D'ARAGONA - parte II (Anno
1542-43)» - tesi di laurea di Rosa Fontana, relatore Paolo Collura
dell'Università degli Studi di Palermo - facoltà di lettere e filosofia - anno
accademico 1981-1982. Racalmuto risulta trattato nelle pagine 207-218. Inoltre:
ARCHIVIO VESCOVILE DI AGRIGENTO - "GIULIANA" - VISITA 1542-43 -
colonne 190v-193v.
[3] )
Archivio di Stato di Palermo - Fondo Palagonia - Atti privati n. 630 - anni
1453-1717 - ff. 44r - 56v.
giovedì 5
settembre 2013
QUANDO Il
buon Leonardo Sciascia si avventura nelle cose di Dio e della Chiesa, non
sempre la sua raffinatissima e talora pungente penna lo mette a riparo da
topiche anche gravi. Successe con la faccenda del vescovo Ficarra, successe con
fra Diego La Matina e purtroppo appare claudicante anche quando vuol cimentarsi
con gli sviluppi del convento di San Giuliano di Racalmuto. Dovremmo citare e
commentare quanto scritto nelle pagg. 226 e 227 del volume che raccoglie e le
Parrocchie di Regalpetra e la Morte dell'Inquisitore. Dovremmo qui comprovare queste
nostre apodittiche insinuazioni. Lo faremo in altra occasione. A dire il vero
attendiamo i risultati di una intrigante tesi di laurea che una discendente
della grande famiglia degli Sferrazza Papa ( il cui apice è per noi un nostro
estimatore, il defunto gesuita Padre Sferrazza Papa S. J) sta approntando con
acuto intelletto, caparbietà sarda, e serietà indagatrice. Ed è anche una bella
ragazza, il che non guasta mai. Abbiamo capito che terremoterà tanti idola
baconiani. Roba insomma da mandare in brodo di giuggiole chi come me non vede
l'ora di sbeffeggiare le ricorrenti cervellotiche congetture cui osano
indulgere più o meno impettiti eruditi locali.
Frattanto proponiamo questo scritto in cui molto vi è sugli agostiniani centuripini nei cui confronti Carmelo Sciascia ci appare steccare abbondantemente.
[naturalmente non è materiale nostro, ma è preso da internet]
LA CONGREGAZIONE Dl CENTORBI
Tutti questi monaci, che abitavano gli eremi sulle montagne vicino a Centuripe, non appartenevano ad un ordine religioso e non seguivano nessuna regola, erano soltanto dipendenti dal Vescovo del luogo di appartenenza o terziari di qualche ordine religioso senza fare mai la professione solenne. Per cui la Sacra Congregazione dei Vescovi e Religiosi incaricò Matteo Saminiati, protonotario apostolico e vicario generale di Catania, di far sì che quei frati entrassero a far parte di qualche ordine religioso riconosciuto dalla chiesa o che lasciassero l’abito eremitico e vivessero come chierici secolari. Per cui fra Andrea del Guasto ed i suoi compagni decisero di seguire la regola di S. Agostino. Furono dodici quelli che seguirono fra Andrea che, dopo tante difficoltà, fondò la “Congregazione dei Frati Agostiniani Riformati di Centorbi”. Il due febbraio del 1579 fra Andrea si recò a Roma dal generale dell’Ordine Agostiniano, Tadeo da Perugia, che approvò l’aggregazione di questo gruppo di frati eremiti all’OSA., ottenendo il primo decreto che lo autorizzava a fondare la nuova Congregazione Riformata in Sicilia sotto la regola di Sant’Agostino. Al suo ritorno nell’isola, però, per poter attuare quel decreto, il frate incontrò molte difficoltà, per l’opposizione del vescovo di Catania Cutelli e di alcuni eremiti, che durò circa cinque anni, dal 1580 alla fine del 1584. Nel frattempo, tra il 1579 ed il 1581, furono aperti altri dieci romitori per attendere alla vita contemplativa ed al “laborizio”. Nel 1581 arrivò l’approvazione di tale Congregazione da parte di papa Gregorio XIII e del Governo della Sicilia. In questo periodo fra Andrea del Guasto si recò per ben tre volte a Roma e alla fine, il 22 maggio del 1585, su licenza del Vescovo, prese l’abito dalle mani del p. Malchiore Testaì da Regalbuto, nel convento di Sant’Agostino di Catania, con l’approvazione del vicario generale Matteo Saminiati, insieme con i suoi dodici compagni: Andrea Diaz (Dias) spagnolo, Francesco di Paternò, Mario di Paternò, Matteo di San Filippo, Matteo di Vizzini, Domenico di Troina, Filippo di Regalbuto, Michele di San Filippo, Zaccaria di Francofonte, Bonaventura spagnolo, Leone del Guasto di Castrogiovanni (Enna) e Agostino spagnolo. Indossato l’abito, fra Andrea del Guasto, con i dodici monaci, si recò a Centuripe e fondò nella Sacra Grotta, dove si trovava la chiesa dedicata alla Vergine Maria, il primo Convento Agostiniano e così i tredici eremiti iniziarono il loro primo anno di prova. Nello stesso anno (1585) fu eletto il primo Vicario Generale della Congregazione, nella persona del fra Andrea del Guasto. Le elezioni del Vicario Generale si svolgevano sempre ogni due anni fino al 1745. In seguito il Capitolo Generale dell’Ordine OSA. dispose di poter fare le elezioni dei Vicari della Congregazione e dei Provinciali ogni tre anni. Questa Congregazione, in poco tempo, si diffuse negli altri eremi di Sant’Antonio di Regalbuto, di San Michele di Militello, di San Basilio sul Monte Scalpello ed in altri luoghi solitari. Propagatasi, ormai, in varie parti della Sicilia, i frati della Congregazione si chiamarono: “Frati Eremiti dell’Ordine di Sant’Agostino della Congregazione di Sicilia”. Il primo novembre, festa di tutti i Santi, del 1586 frate Andrea con i suoi compagni emise i voti di Castità, Povertà ed Obbedienza nel convento di Sant’Antonio a Regalbuto (come risulta dagli atti del notaio Ottavio di Paula). In questo periodo fra Andrea si recò ancora a Roma. La nuova Congregazione fu regolata da uno statuto a cui tutti i frati dovevano fare riferimento. Esso fu approvato dal Generale dell’Ordine Agostiniano, sotto il pontificato di Sisto V, il primo aprile del 1587, confermato il 30 luglio dello stesso anno e messo in pratica il 12 marzo del 1588. Il 3 giugno del 1587 i due conventi della Congregazione di S. Adriano si unirono a quella di Centorbi, secondo l’atto notarile di unione già effettuata dal P. Generale il 14 aprile dello stesso anno. Nell’anno 1588 i fratelli fra Santoro e fra Gregorio fondarono il convento di Militello; due anni dopo, nel 1590, fra Matteo Panzica fondò quello di Caccamo ed infine fu eretto il convento di Paternò. Costoro erano i primi discepoli di fra Andrea del Guasto. Il 10 luglio del 1591 il P. Generale OSA concede al Vicario della Congregazione la facoltà di ricevere “servatis servandis” anche i religiosi della provincia O.S.A. Apparteneva alla “Congregazione dei Frati Eremiti Riformati di Centorbi” anche il conventino dei SS. Marcellino e Pietro, aperto da p. Girolamo Grazian a Roma, in via Labicana e preso nel 1592 da fra Andrea Diaz, compagno di fra Andrea del Guasto e secondo nella lista dei tredici frati eremiti fondatori di tale Congregazione. Fra Andrea Diaz, iniziatore della riforma degli Agostiniani Scalzi d’italia, sbarcò a Messina intorno al 1584 ed entrò a far parte della Congregazione Centorbana, insieme con i suoi due compagni spagnoli, fra Bonaventura e fra Agostino. Durante il suo periodo a Centuripe p. Diaz insieme con p. Andrea del Guasto, introdusse la vita riformata e fu importantissimo il suo lavoro di “agostinizzazione” nella Congregazione, secondo la direttiva dell’Ordine. Padre Andrea Diaz rimase a Centuripe fino al 1588 poi, venuto a sapere che la provincia di Castiglia, nel Capitolo di Toledo, aveva accolto finalmente la Riforma Agostiniana, rientrò in Spagna. Il diciannove ottobre 1589 entrò a far parte della prima comunità recolletta nel convento di Talavera. Ottenuta la licenza dal Nunzio Apostolico in Spagna di portare la riforma in Italia, si trasferì nell’aprile del 1592 a Roma, presso il convento dei SS. Marcellino e Pietro. Il 19 maggio 1592, nel centesimo Capitolo Generale Agostiniano, si parlò della riforma dell’Ordine voluta da Clemente VIII. Il neo eletto priore generale, p. Andrea da Fivizzano, il 22 maggio dello stesso anno approvò i Capitoli per il buon progresso della Congregazione degli Eremiti Riformati di Sicilia. Il 28 giugno 1592 giunse a Napoli, nel convento di Sant’Agostino, fra Andrea Diaz, “vestito con un abito di panno nero e grosso, un cappuccio tondo in testa e alle spalle, cinto da una cintura larga, scalzo con le sandole di corde alla spagnola ed un lungo mantello”. Espresso il desiderio di vita riformata, il Priore gli mise a disposizione i due conventini di Santa Maria dell’Olivella, dove va a vivere, e quello di Santa Maria della Grazia, alla Renella. Nel conventino di Santa Maria dell’Olivella, p. Andrea Diaz abitò insieme con p. Andrea da Sicignano. Il 6 luglio si aggiunsero due laici: Andrea Taglietta e Lorenzo della Tolfa. Il 20 luglio arrivarono altri due giovani sacerdoti agostiniani p. Ambrogio Staibano da Taranto e p. Giovan Battista Cristallino, e infine si unirono a loro altri due religiosi più anziani: p. Giulio Calabrese e p. Giovanni da Bologna. Costoro furono i primi “riformati”. Infatti, nello stesso giorno “tutti rivestiti di rozza lana si scalzarono”. Padre Andrea Diaz diventò il Superiore di quei religiosi dei conventini di Napoli, ma tra la fine del mese di marzo e i primi di aprile del 1593 fu eletto Vicario Generale della sua Congregazione di Centorbi. La notizia fece scalpore nel convento dell’Olivella, perché p. Andrea Diaz voleva ufficialmente unire alla Congregazione Centorbana i due conventini di Napoli. Allora la piccola comunità si divise: p. Sicignano era d’accordo con fra Andrea Diaz mentre p. Staibano e p. Cristallino erano contrari, perché ritenevano la Congregazione di Centorbi diversa da quella che stava nascendo nei conventini di Napoli. Questi ultimi fecero ricorso al P. Generale affinché non permettesse l’unione. Il Generale, allora incaricò come suo delegato, per risolvere quella controversia, p. Cristoforo di Roma. Nel frattempo p. Andrea Diaz, amareggiato da quegli eventi, decise di abbandonare tutto e far ritorno in Spagna, rifiutando anche la carica di Vicario Generale della sua Congregazione di Centorbi. I Padri Centorbani, sapendo che p. Diaz non voleva iniziare il suo governo della Congregazione, dopo alcuni mesi elessero padre Domenico da Troina, con l’approvazione del P. Generale. La questione durò per circa sette mesi e alla fine, a metà novembre del 1593, si arrivò ad un compromesso. Il 16 novembre del 1593 p. Andrea Securani da Fivizzano, priore generale, con il decreto “Cum Ordinis nostri splendorem”, nominando padre Staibano primo vicario generale, riconobbe giuridicamente la nuova Congregazione degli Agostiniani Scalzi, separandola da quella degli Eremiti di Sicilia. Il 19 novembre 1593 l’elezione a Centorbi di padre Domenico da Troina, non essendo canonica, fu considerata nulla e quindi fu dichiarato legittimo vicario generale p. Diaz, al quale fu ordinato di recarsi in Sicilia a governare la sua Congregazione Centorbana. Quindi da un lato il Priore Generale diede ragione a p. Staibano, ufficializzando gli Agostiniani Scalzi d’Italia, dall’altro ridiede fiducia a p. Andrea Diaz inviandolo nella sua Congregazione a completare i due anni di Vicariato. Completato il suo mandato a Centorbi p. Diaz decise di ritornare in Spagna, per fondare un nuovo convento. Durante il viaggio la nave su cui viaggiava, a causa di una tempesta, fu trasportata sulle coste della Catalogna, vicino a Cadaquez, qui si ammalò gravemente e nel 1596 morì. Fu sepolto nella Parrocchia di S. Maria. L’Ordine agostiniano gli riconosce il titolo di Venerabile. Il 15 agosto del 1609, p. Andrea del Guasto fu rieletto vicario generale a Centorbi dove si celebrò il Capitolo, che fu uno dei più famosi tenutisi allora per il gran numero di frati che vi parteciparono e per le tante leggi stabilite. Il 15 agosto del 1617, fra Andrea si ammalò gravemente nel suo convento di Sant’Antonio. La sua agonia durò fino al 7 settembre, quando, dopo aver abbracciato un Crocifisso, rivolgendogli lo sguardo pieno di gioia, morì. Si concluse così, secondo il racconto di p. Fulgenzio da Caccamo, la straordinaria vita di questo frate che, dopo ottantatre anni vissuti santamente in terra, raggiunse l’eternità. Passati tredici anni dalla sua morte, su istanza del Vescovo di Catania, fu esaminato il corpo del ven. frate e fu trovato intero ed incorrotto, come più volte attestò, insieme ad altre persone, fra Vincenzo da Regalbuto della nobile famiglia dei Picardi. Il suo corpo fu analizzato nuovamente il 27 settembre 1674, durante il vicariato di p. Adeodato di Geraci. Il 4 maggio del 1918, su ordine di Mons. Agostino Felice Addeo, vescovo di Nicosia, su istanza del priore del convento di Sant’Agostino p. Giuseppe M. Campione, si è accertata, nella chiesa del convento di Sant’Antonio Abbate fuori le mura della città di Regalbuto, l’esistenza delle reliquie di fra Andrea del Guasto e l’inviolata conservazione delle medesime. Le ossa furono poste in un’altra cassa e il 19 maggio dello stesso anno furono traslate nella chiesa di Sant’Agostino della suddetta città. L’ultima ricognizione fu effettuata il tredici novembre del 1927.
IL NUOVO CONVENTO
Due anni prima della morte di fra Andrea, il 20 novembre 1615, il nobile Francesco Moncada dichiarò esente da ogni tassa chiunque volesse costruire una casa a Centuripe. Inoltre, per evitare ai cittadini penosi viaggi da Centuripe ad Adrano, da cui dipendevano per l’amministrazione della giustizia, dei beni e delle rendite, nominò Antonio Spitaleri governatore e giudice della città. Il 21 novembre 1617, con un accordo tra il priore del convento agostiniano, fra Michele di San Filippo, Antonio Spitaleri governatore di Centuripe e don Giuseppe Perdicaro, cappellano della città, si stabilì che quest’ultimo, non avendo nessuna chiesa a sua disposizione dove poter esercitare il suo ministero sacerdotale, poteva usufruire della piccola chiesa dei Padri Agostiniani. Nel frattempo con l’aumento della popolazione, i Padri del convento pensarono di lasciare le loro piccole e malconce abitazioni, scavate nella roccia, per costruirsi un convento ed una nuova chiesa più grande e capace di poter accogliere tanta gente. Il nuovo convento fu edificato tra il 1627 ed il 1628, sulle rovine della vecchia fortezza ed il santuario fu intitolato a “Santa Maria La Stella” dal nome della prima chiesetta costruita nella grotta. Era priore p. Stefano da Regalbuto. Però, il Vescovo di Catania, da cui dipendeva Centuripe, non credette opportuno far continuare l’amministrazione dei Sacramenti ai Padri Agostiniani e diede l’incarico ad un parroco. Intorno al 1638 p. Agostino da Sanfilippo fu il primo vicario foraneo, cioè un parroco fuori della città, inviato dal Vescovo, che giunse a Centuripe. Con la costruzione della nuova chiesa, la “Sacra Grotta” rimase per molti anni chiusa ed abbandonata. I Centuripini, che non avevano dimenticato quel luogo sacro, nel 1649 ottennero dal Vescovo il permesso di farvi celebrare di nuovo la Santa Messa, riaprendo così al culto quel Santuario, mèta di numerosi pellegrini provenienti anche dai paesi vicini. Sotto il pontificato di papa Innocenzo X, verso il 1662, furono soppressi molti conventi e ne rimasero solo diciassette; i religiosi furono chiamati nei paesi ad aiutare i parroci. Ricordiamo inoltre, che all’inizio tutti i conventi erano costruiti fuori delle città. Soltanto nel 1632 i monaci ottennero il permesso di poterli fondare dentro, ad eccezione del romitorio di Centorbi che rimase sempre dentro l’abitato. La “Congregazione Centorbana” contava i seguenti conventi: Santa Maria della Stella in Centorbi, Santa Domenica in Bideni (Vizzini), Sant’Antonio in Regalbuto, San Leonardo in Militello, San Calogero in Caccamo, Santa Maria in Artesina (EN), Santa Maria di Liccia (Castelbuono), Santa Maria dei Gulfi in Chiaromonte, Santa Maria della Consolazione in San Filippo di Agira, San Bartolomeo in Geraci, Santa Maria della Neve in Piazza, Santa Rosalia in San Michele di Ganzaria, Santa Maria in Castiglione, Sant’Ippolìto in Mineo (già in S. Basilio a quindici miglia), Santa Maria della Rocca in Monreale, Santa Maria della Grazia in Paternò, San Nicola in Mascali, e Santa Maria del Riposo in Francavilla Sicula (già in S. Adriano sul monte), Santa Maria della Sanità in Castelvetrano, SS. Marcellino e Pietro in Roma, poi, dopo il 1650, Sant’Agata la Pedata in Palermo, S. Giovanni Battista in Cattolica Eraclea e San Giuliano in Racalmuto. Questo lungo elenco ci fa capire quanto si sia propagata la Congregazione di fra Andrea del Guasto. Continuando con la nostra indagine storica, siamo giunti al 1671, quando a Centuripe, con l’aumento della popolazione, crebbe anche il numero delle parrocchie, che alla fine del XVII secolo arrivò a sei. Il 26 dicembre 1721 i Padri Agostiniani concessero agli esponenti dell’Arciconfraternita di Nostra Signora della Consolazione, prima chiamata dell’Innacolata Concezione, un pezzo di terreno adiacente alla loro chiesa maggiore “ad effetto di erigersi dai medesimi un Oratorio [per] colà esercitarvi dalli confrati suddetti tutti gli officii dovuti”. Nel 1728 il Vicario Generale della Congregazione chiese alla Santa Sede di essere autorizzato a poter cambiare l’abito “di tessuto siciliano con la sua tinta di vitriolo”, nocivo alla salute, per vestire come i Padri Agostiniani Scalzi “con tunica di saja leggiera e ferrajuolo di panno”. Quello stesso anno, il 20 gennaio, papa Benedetto XIII scrisse al generale dell’Ordine Bellisini ordinandogli di interessarsi affinché anche quei Padri si vestissero con un abito simile a quello degli Agostiniani Scalzi d’Italia. Il 12 febbraio il Generale dell’Ordine accettò quella proposta e i Padri di Centorbi cambiarono il loro abito. Nel 1757 il convento era abitato da tredici religiosi tra sacerdoti, chierici e laici. I Padri Agostiniani continuarono ad occuparsi del convento fino alla metà del XIX secolo, quando la Sicilia e, quindi, Centuripe entrarono a far parte del nuovo Regno d’Italia. Tra il 1866 e il 1867 furono soppressi gli Ordini religiosi ed incamerati dallo Stato i loro beni. Già nel gennaio del 1865 a Centuripe alcuni locali del convento furono adibiti a caserma dei Carabinieri. Successivamente, il 20 maggio 1867, i due Padri Agostiniani che vivevano nel monastero, furono costretti a cederlo allo stato. L’ex convento passò al municipio di Centuripe, che ne occupò i locali, tranne quelli adibiti come caserma. Uno dei Frati rimasti, l’ex priore don Francesco Lo Giudice si assunse il compito del mantenimento delle due chiese. Nel 1868 vi fu trasferita la biblioteca comunale e nel 1870 furono spostate le tre scuole comunali maschili. Il convento di Sant’Agostino, poi, fu sede del Municipio, della Pretura e di altri uffici comunali. Nel periodo fascista l’ex chiostro del convento, che era aperto da una parte, fu chiuso e si costruirono nuovi locali adibiti ad uffici e ad antiquarium comunale. In seguito il fabbricato ormai con i locali umidi e fatiscenti, fu demolito e ricostruito ex novo. Di quel convento ci rimane oggi soltanto la chiesa parrocchiale intitolata a Sant’Agostino, con accanto l’oratorio.
Frattanto proponiamo questo scritto in cui molto vi è sugli agostiniani centuripini nei cui confronti Carmelo Sciascia ci appare steccare abbondantemente.
[naturalmente non è materiale nostro, ma è preso da internet]
LA CONGREGAZIONE Dl CENTORBI
Tutti questi monaci, che abitavano gli eremi sulle montagne vicino a Centuripe, non appartenevano ad un ordine religioso e non seguivano nessuna regola, erano soltanto dipendenti dal Vescovo del luogo di appartenenza o terziari di qualche ordine religioso senza fare mai la professione solenne. Per cui la Sacra Congregazione dei Vescovi e Religiosi incaricò Matteo Saminiati, protonotario apostolico e vicario generale di Catania, di far sì che quei frati entrassero a far parte di qualche ordine religioso riconosciuto dalla chiesa o che lasciassero l’abito eremitico e vivessero come chierici secolari. Per cui fra Andrea del Guasto ed i suoi compagni decisero di seguire la regola di S. Agostino. Furono dodici quelli che seguirono fra Andrea che, dopo tante difficoltà, fondò la “Congregazione dei Frati Agostiniani Riformati di Centorbi”. Il due febbraio del 1579 fra Andrea si recò a Roma dal generale dell’Ordine Agostiniano, Tadeo da Perugia, che approvò l’aggregazione di questo gruppo di frati eremiti all’OSA., ottenendo il primo decreto che lo autorizzava a fondare la nuova Congregazione Riformata in Sicilia sotto la regola di Sant’Agostino. Al suo ritorno nell’isola, però, per poter attuare quel decreto, il frate incontrò molte difficoltà, per l’opposizione del vescovo di Catania Cutelli e di alcuni eremiti, che durò circa cinque anni, dal 1580 alla fine del 1584. Nel frattempo, tra il 1579 ed il 1581, furono aperti altri dieci romitori per attendere alla vita contemplativa ed al “laborizio”. Nel 1581 arrivò l’approvazione di tale Congregazione da parte di papa Gregorio XIII e del Governo della Sicilia. In questo periodo fra Andrea del Guasto si recò per ben tre volte a Roma e alla fine, il 22 maggio del 1585, su licenza del Vescovo, prese l’abito dalle mani del p. Malchiore Testaì da Regalbuto, nel convento di Sant’Agostino di Catania, con l’approvazione del vicario generale Matteo Saminiati, insieme con i suoi dodici compagni: Andrea Diaz (Dias) spagnolo, Francesco di Paternò, Mario di Paternò, Matteo di San Filippo, Matteo di Vizzini, Domenico di Troina, Filippo di Regalbuto, Michele di San Filippo, Zaccaria di Francofonte, Bonaventura spagnolo, Leone del Guasto di Castrogiovanni (Enna) e Agostino spagnolo. Indossato l’abito, fra Andrea del Guasto, con i dodici monaci, si recò a Centuripe e fondò nella Sacra Grotta, dove si trovava la chiesa dedicata alla Vergine Maria, il primo Convento Agostiniano e così i tredici eremiti iniziarono il loro primo anno di prova. Nello stesso anno (1585) fu eletto il primo Vicario Generale della Congregazione, nella persona del fra Andrea del Guasto. Le elezioni del Vicario Generale si svolgevano sempre ogni due anni fino al 1745. In seguito il Capitolo Generale dell’Ordine OSA. dispose di poter fare le elezioni dei Vicari della Congregazione e dei Provinciali ogni tre anni. Questa Congregazione, in poco tempo, si diffuse negli altri eremi di Sant’Antonio di Regalbuto, di San Michele di Militello, di San Basilio sul Monte Scalpello ed in altri luoghi solitari. Propagatasi, ormai, in varie parti della Sicilia, i frati della Congregazione si chiamarono: “Frati Eremiti dell’Ordine di Sant’Agostino della Congregazione di Sicilia”. Il primo novembre, festa di tutti i Santi, del 1586 frate Andrea con i suoi compagni emise i voti di Castità, Povertà ed Obbedienza nel convento di Sant’Antonio a Regalbuto (come risulta dagli atti del notaio Ottavio di Paula). In questo periodo fra Andrea si recò ancora a Roma. La nuova Congregazione fu regolata da uno statuto a cui tutti i frati dovevano fare riferimento. Esso fu approvato dal Generale dell’Ordine Agostiniano, sotto il pontificato di Sisto V, il primo aprile del 1587, confermato il 30 luglio dello stesso anno e messo in pratica il 12 marzo del 1588. Il 3 giugno del 1587 i due conventi della Congregazione di S. Adriano si unirono a quella di Centorbi, secondo l’atto notarile di unione già effettuata dal P. Generale il 14 aprile dello stesso anno. Nell’anno 1588 i fratelli fra Santoro e fra Gregorio fondarono il convento di Militello; due anni dopo, nel 1590, fra Matteo Panzica fondò quello di Caccamo ed infine fu eretto il convento di Paternò. Costoro erano i primi discepoli di fra Andrea del Guasto. Il 10 luglio del 1591 il P. Generale OSA concede al Vicario della Congregazione la facoltà di ricevere “servatis servandis” anche i religiosi della provincia O.S.A. Apparteneva alla “Congregazione dei Frati Eremiti Riformati di Centorbi” anche il conventino dei SS. Marcellino e Pietro, aperto da p. Girolamo Grazian a Roma, in via Labicana e preso nel 1592 da fra Andrea Diaz, compagno di fra Andrea del Guasto e secondo nella lista dei tredici frati eremiti fondatori di tale Congregazione. Fra Andrea Diaz, iniziatore della riforma degli Agostiniani Scalzi d’italia, sbarcò a Messina intorno al 1584 ed entrò a far parte della Congregazione Centorbana, insieme con i suoi due compagni spagnoli, fra Bonaventura e fra Agostino. Durante il suo periodo a Centuripe p. Diaz insieme con p. Andrea del Guasto, introdusse la vita riformata e fu importantissimo il suo lavoro di “agostinizzazione” nella Congregazione, secondo la direttiva dell’Ordine. Padre Andrea Diaz rimase a Centuripe fino al 1588 poi, venuto a sapere che la provincia di Castiglia, nel Capitolo di Toledo, aveva accolto finalmente la Riforma Agostiniana, rientrò in Spagna. Il diciannove ottobre 1589 entrò a far parte della prima comunità recolletta nel convento di Talavera. Ottenuta la licenza dal Nunzio Apostolico in Spagna di portare la riforma in Italia, si trasferì nell’aprile del 1592 a Roma, presso il convento dei SS. Marcellino e Pietro. Il 19 maggio 1592, nel centesimo Capitolo Generale Agostiniano, si parlò della riforma dell’Ordine voluta da Clemente VIII. Il neo eletto priore generale, p. Andrea da Fivizzano, il 22 maggio dello stesso anno approvò i Capitoli per il buon progresso della Congregazione degli Eremiti Riformati di Sicilia. Il 28 giugno 1592 giunse a Napoli, nel convento di Sant’Agostino, fra Andrea Diaz, “vestito con un abito di panno nero e grosso, un cappuccio tondo in testa e alle spalle, cinto da una cintura larga, scalzo con le sandole di corde alla spagnola ed un lungo mantello”. Espresso il desiderio di vita riformata, il Priore gli mise a disposizione i due conventini di Santa Maria dell’Olivella, dove va a vivere, e quello di Santa Maria della Grazia, alla Renella. Nel conventino di Santa Maria dell’Olivella, p. Andrea Diaz abitò insieme con p. Andrea da Sicignano. Il 6 luglio si aggiunsero due laici: Andrea Taglietta e Lorenzo della Tolfa. Il 20 luglio arrivarono altri due giovani sacerdoti agostiniani p. Ambrogio Staibano da Taranto e p. Giovan Battista Cristallino, e infine si unirono a loro altri due religiosi più anziani: p. Giulio Calabrese e p. Giovanni da Bologna. Costoro furono i primi “riformati”. Infatti, nello stesso giorno “tutti rivestiti di rozza lana si scalzarono”. Padre Andrea Diaz diventò il Superiore di quei religiosi dei conventini di Napoli, ma tra la fine del mese di marzo e i primi di aprile del 1593 fu eletto Vicario Generale della sua Congregazione di Centorbi. La notizia fece scalpore nel convento dell’Olivella, perché p. Andrea Diaz voleva ufficialmente unire alla Congregazione Centorbana i due conventini di Napoli. Allora la piccola comunità si divise: p. Sicignano era d’accordo con fra Andrea Diaz mentre p. Staibano e p. Cristallino erano contrari, perché ritenevano la Congregazione di Centorbi diversa da quella che stava nascendo nei conventini di Napoli. Questi ultimi fecero ricorso al P. Generale affinché non permettesse l’unione. Il Generale, allora incaricò come suo delegato, per risolvere quella controversia, p. Cristoforo di Roma. Nel frattempo p. Andrea Diaz, amareggiato da quegli eventi, decise di abbandonare tutto e far ritorno in Spagna, rifiutando anche la carica di Vicario Generale della sua Congregazione di Centorbi. I Padri Centorbani, sapendo che p. Diaz non voleva iniziare il suo governo della Congregazione, dopo alcuni mesi elessero padre Domenico da Troina, con l’approvazione del P. Generale. La questione durò per circa sette mesi e alla fine, a metà novembre del 1593, si arrivò ad un compromesso. Il 16 novembre del 1593 p. Andrea Securani da Fivizzano, priore generale, con il decreto “Cum Ordinis nostri splendorem”, nominando padre Staibano primo vicario generale, riconobbe giuridicamente la nuova Congregazione degli Agostiniani Scalzi, separandola da quella degli Eremiti di Sicilia. Il 19 novembre 1593 l’elezione a Centorbi di padre Domenico da Troina, non essendo canonica, fu considerata nulla e quindi fu dichiarato legittimo vicario generale p. Diaz, al quale fu ordinato di recarsi in Sicilia a governare la sua Congregazione Centorbana. Quindi da un lato il Priore Generale diede ragione a p. Staibano, ufficializzando gli Agostiniani Scalzi d’Italia, dall’altro ridiede fiducia a p. Andrea Diaz inviandolo nella sua Congregazione a completare i due anni di Vicariato. Completato il suo mandato a Centorbi p. Diaz decise di ritornare in Spagna, per fondare un nuovo convento. Durante il viaggio la nave su cui viaggiava, a causa di una tempesta, fu trasportata sulle coste della Catalogna, vicino a Cadaquez, qui si ammalò gravemente e nel 1596 morì. Fu sepolto nella Parrocchia di S. Maria. L’Ordine agostiniano gli riconosce il titolo di Venerabile. Il 15 agosto del 1609, p. Andrea del Guasto fu rieletto vicario generale a Centorbi dove si celebrò il Capitolo, che fu uno dei più famosi tenutisi allora per il gran numero di frati che vi parteciparono e per le tante leggi stabilite. Il 15 agosto del 1617, fra Andrea si ammalò gravemente nel suo convento di Sant’Antonio. La sua agonia durò fino al 7 settembre, quando, dopo aver abbracciato un Crocifisso, rivolgendogli lo sguardo pieno di gioia, morì. Si concluse così, secondo il racconto di p. Fulgenzio da Caccamo, la straordinaria vita di questo frate che, dopo ottantatre anni vissuti santamente in terra, raggiunse l’eternità. Passati tredici anni dalla sua morte, su istanza del Vescovo di Catania, fu esaminato il corpo del ven. frate e fu trovato intero ed incorrotto, come più volte attestò, insieme ad altre persone, fra Vincenzo da Regalbuto della nobile famiglia dei Picardi. Il suo corpo fu analizzato nuovamente il 27 settembre 1674, durante il vicariato di p. Adeodato di Geraci. Il 4 maggio del 1918, su ordine di Mons. Agostino Felice Addeo, vescovo di Nicosia, su istanza del priore del convento di Sant’Agostino p. Giuseppe M. Campione, si è accertata, nella chiesa del convento di Sant’Antonio Abbate fuori le mura della città di Regalbuto, l’esistenza delle reliquie di fra Andrea del Guasto e l’inviolata conservazione delle medesime. Le ossa furono poste in un’altra cassa e il 19 maggio dello stesso anno furono traslate nella chiesa di Sant’Agostino della suddetta città. L’ultima ricognizione fu effettuata il tredici novembre del 1927.
IL NUOVO CONVENTO
Due anni prima della morte di fra Andrea, il 20 novembre 1615, il nobile Francesco Moncada dichiarò esente da ogni tassa chiunque volesse costruire una casa a Centuripe. Inoltre, per evitare ai cittadini penosi viaggi da Centuripe ad Adrano, da cui dipendevano per l’amministrazione della giustizia, dei beni e delle rendite, nominò Antonio Spitaleri governatore e giudice della città. Il 21 novembre 1617, con un accordo tra il priore del convento agostiniano, fra Michele di San Filippo, Antonio Spitaleri governatore di Centuripe e don Giuseppe Perdicaro, cappellano della città, si stabilì che quest’ultimo, non avendo nessuna chiesa a sua disposizione dove poter esercitare il suo ministero sacerdotale, poteva usufruire della piccola chiesa dei Padri Agostiniani. Nel frattempo con l’aumento della popolazione, i Padri del convento pensarono di lasciare le loro piccole e malconce abitazioni, scavate nella roccia, per costruirsi un convento ed una nuova chiesa più grande e capace di poter accogliere tanta gente. Il nuovo convento fu edificato tra il 1627 ed il 1628, sulle rovine della vecchia fortezza ed il santuario fu intitolato a “Santa Maria La Stella” dal nome della prima chiesetta costruita nella grotta. Era priore p. Stefano da Regalbuto. Però, il Vescovo di Catania, da cui dipendeva Centuripe, non credette opportuno far continuare l’amministrazione dei Sacramenti ai Padri Agostiniani e diede l’incarico ad un parroco. Intorno al 1638 p. Agostino da Sanfilippo fu il primo vicario foraneo, cioè un parroco fuori della città, inviato dal Vescovo, che giunse a Centuripe. Con la costruzione della nuova chiesa, la “Sacra Grotta” rimase per molti anni chiusa ed abbandonata. I Centuripini, che non avevano dimenticato quel luogo sacro, nel 1649 ottennero dal Vescovo il permesso di farvi celebrare di nuovo la Santa Messa, riaprendo così al culto quel Santuario, mèta di numerosi pellegrini provenienti anche dai paesi vicini. Sotto il pontificato di papa Innocenzo X, verso il 1662, furono soppressi molti conventi e ne rimasero solo diciassette; i religiosi furono chiamati nei paesi ad aiutare i parroci. Ricordiamo inoltre, che all’inizio tutti i conventi erano costruiti fuori delle città. Soltanto nel 1632 i monaci ottennero il permesso di poterli fondare dentro, ad eccezione del romitorio di Centorbi che rimase sempre dentro l’abitato. La “Congregazione Centorbana” contava i seguenti conventi: Santa Maria della Stella in Centorbi, Santa Domenica in Bideni (Vizzini), Sant’Antonio in Regalbuto, San Leonardo in Militello, San Calogero in Caccamo, Santa Maria in Artesina (EN), Santa Maria di Liccia (Castelbuono), Santa Maria dei Gulfi in Chiaromonte, Santa Maria della Consolazione in San Filippo di Agira, San Bartolomeo in Geraci, Santa Maria della Neve in Piazza, Santa Rosalia in San Michele di Ganzaria, Santa Maria in Castiglione, Sant’Ippolìto in Mineo (già in S. Basilio a quindici miglia), Santa Maria della Rocca in Monreale, Santa Maria della Grazia in Paternò, San Nicola in Mascali, e Santa Maria del Riposo in Francavilla Sicula (già in S. Adriano sul monte), Santa Maria della Sanità in Castelvetrano, SS. Marcellino e Pietro in Roma, poi, dopo il 1650, Sant’Agata la Pedata in Palermo, S. Giovanni Battista in Cattolica Eraclea e San Giuliano in Racalmuto. Questo lungo elenco ci fa capire quanto si sia propagata la Congregazione di fra Andrea del Guasto. Continuando con la nostra indagine storica, siamo giunti al 1671, quando a Centuripe, con l’aumento della popolazione, crebbe anche il numero delle parrocchie, che alla fine del XVII secolo arrivò a sei. Il 26 dicembre 1721 i Padri Agostiniani concessero agli esponenti dell’Arciconfraternita di Nostra Signora della Consolazione, prima chiamata dell’Innacolata Concezione, un pezzo di terreno adiacente alla loro chiesa maggiore “ad effetto di erigersi dai medesimi un Oratorio [per] colà esercitarvi dalli confrati suddetti tutti gli officii dovuti”. Nel 1728 il Vicario Generale della Congregazione chiese alla Santa Sede di essere autorizzato a poter cambiare l’abito “di tessuto siciliano con la sua tinta di vitriolo”, nocivo alla salute, per vestire come i Padri Agostiniani Scalzi “con tunica di saja leggiera e ferrajuolo di panno”. Quello stesso anno, il 20 gennaio, papa Benedetto XIII scrisse al generale dell’Ordine Bellisini ordinandogli di interessarsi affinché anche quei Padri si vestissero con un abito simile a quello degli Agostiniani Scalzi d’Italia. Il 12 febbraio il Generale dell’Ordine accettò quella proposta e i Padri di Centorbi cambiarono il loro abito. Nel 1757 il convento era abitato da tredici religiosi tra sacerdoti, chierici e laici. I Padri Agostiniani continuarono ad occuparsi del convento fino alla metà del XIX secolo, quando la Sicilia e, quindi, Centuripe entrarono a far parte del nuovo Regno d’Italia. Tra il 1866 e il 1867 furono soppressi gli Ordini religiosi ed incamerati dallo Stato i loro beni. Già nel gennaio del 1865 a Centuripe alcuni locali del convento furono adibiti a caserma dei Carabinieri. Successivamente, il 20 maggio 1867, i due Padri Agostiniani che vivevano nel monastero, furono costretti a cederlo allo stato. L’ex convento passò al municipio di Centuripe, che ne occupò i locali, tranne quelli adibiti come caserma. Uno dei Frati rimasti, l’ex priore don Francesco Lo Giudice si assunse il compito del mantenimento delle due chiese. Nel 1868 vi fu trasferita la biblioteca comunale e nel 1870 furono spostate le tre scuole comunali maschili. Il convento di Sant’Agostino, poi, fu sede del Municipio, della Pretura e di altri uffici comunali. Nel periodo fascista l’ex chiostro del convento, che era aperto da una parte, fu chiuso e si costruirono nuovi locali adibiti ad uffici e ad antiquarium comunale. In seguito il fabbricato ormai con i locali umidi e fatiscenti, fu demolito e ricostruito ex novo. Di quel convento ci rimane oggi soltanto la chiesa parrocchiale intitolata a Sant’Agostino, con accanto l’oratorio.
Don
Aloysio (Lisi) Provenzano
Questo
sacerdote traspare dai registri di battesimo e di matrimonio della Matrice. Il
suo ministero sembra discontinuo. Nel biennio 1575-1576 dovette avere funzioni
di cappellano ed il suo nome si alterna con quello di don Vincenzo d’Averna
negli atti di battesimo. Ancora nel 1581 è uno degli officianti della Matrice
ed il 19 settembre 1581 battezza Paolino d’Asaro, fratello del pittore e futuro
sacerdote racalmutese.
In tale
veste compare sino al 1584, dopo subentrano altri cappellani come don Paolino
Paladino e don Francesco Nicastro. Don Lisi Provenzano riappare successivamente
nei documenti della Matrice, ma come teste nella celebrazione di matrimoni (ad
es. il 28 settembre 1586) o come semplice padrino in battesimi (come quello di
Francesco Castellana del 3.10.1587 ).
La sua
presenza a Racalmuto è attestata sino al 1593 come da un atto di matrimonio, da
cui però risulta che il Provenzano non è più cappellano della Matrice.
La figura
di d. Lisi Provinzano emerge invero da un documento dell’Archivio Vescovile di
Agrigento che risale al 31 ottobre 1556. Se ne ricavano alcuni tratti
biografici. Ma soprattutto è la vita paesana a metà del XVI secolo che
traspare. Val quindi la pena di riportarne alcuni brani.
Siamo
stati supplicati da parte del Rev. presti Aloysio Crapanzano del tenor
seguente: .. da parte del rev. presti Aloisio Provenzano della terra di
Racalmuto, subdito della giurisdizione di V.S. ... In tempi passati
venendo a morte lo condam ... di Salvo della ditta terra, fece il suo testamento
agli atti dell’egregio condam notaro Vito Jandardoni et per quello inter alia
capitula legao all’esponente pro Deo et eius anima et in satisfatione de suoi
peccati tarì dudici anno quolibet sopra tutti li soi beni hereditari durante la
vita di esso esponente per una missa da dovirisi diri in die lunae cuiusvis
hebdomadis .. in ecclesia Sancti Francisci dictae terrae per ipse esponente. Et
mancando, che tali tarì dudici li havissero li frati di ditto convento
durante la vita di esso esponente, si como per ditto legato appare in ditto
testamento fatto ni li atti de ditto notaro Vito 21 novembre iiij ind. 1545. Et
perché lo esponente si trovao absenti da ditta terra alla morte del ditto
testatore, che havea stato in Palermo et ad altri parti per soi negotij et non
habbi mai notitia di tale legato et li frati di ditto convento quello si
exigero con diri che ipsi voleano dire tali missa.
Appena
saputa la faccenda del legato, il sacerdote si dichiara disponibile alla
celebrazione della messa per l’anima del di Salvo. Ma i frati sono riluttanti e
non consentono al Provenzano di celebrare quella messa nella chiesa del loro
convento. Quindi il sacerdote si trova nell’impossibilità di adempiere
all’obbligo nelle modalità volute dal testatore. Egli non può celebrare
ditta
missa per la repugnantia di ditti frati in la loro ecclesia; pertanto supplica
V.S. sia servita provvedere et comandare che ipso exponente possa satisfare la
volontà di ditto defunto in diri la missa ogni lune cuiusvis hebdomadis in
alcuna altra ecclesia in ditta terra di Racalmuto ben vista a V.S. Rev.da et
comandare alli heredi di ditto defunto che di ditti tarì dudici anno
quolibet staiono de rispondere et quelli dari allo esponente con la
conditione ordinata e fatta per lo defunto che quando mancasse per sua colpa e
defetto recada al ditto convento di santo Francesco. Et ita petit et supplicat.
..
Il
vicario generale dell’epoca don Rainaldo dei Rainallis dà quindi disposizioni
al vicario del luogo perché faccia un’inchiesta e ragguagli il vescovado.
Quel che
emerge con chiarezza è dunque la vita piuttosto girovaga di questo nostro prete
del Cinquecento che per affari si reca a Palermo ed in altre località ed è
tanto affaccendato da non sapere neppure di un legato in suo favore. Non meraviglia
certo che il di Salvo s’induca a lasciare a favore di questo sacerdote, durante
vita, un legato di dodici tarì per una messa la settimana, il giorno di Lunedì,
da celebrarsi nella chiesa di S. Francesco. Le disposizioni testamentarie pro
Deo et anima in remissione dei propri peccati investivano i vari strati della
popolazione. Non sorprende che i frati siano riluttanti a concedere il permesso
di celebrare nella loro chiesa a sacerdoti secolari. Se messe di suffragio sono
da dire, possono benissimo essere loro ad adempiere ogni volontà testamentaria
al riguardo. Ovviamente percependone le elemosine. A chi abbia dato ragione il
Vicario Generale, se ai frati o a d. Lisi Provenzano non sappiamo, ma
propendiamo a credere che sia stato quest’ultimo a venire favorito. Non per
nulla, qualche anno dopo il sacerdote si stabilisce a Racalmuto e qui svolge
funzioni da cappellano.
Il
documento è comunque importante perché ci fornisce qualche dato sul convento e
sulla chiesa di S. Francesco. L’uno e l’altra erano dunque operanti da prima
del 1545. Stanziano a Racalmuto padri francescani che dispongono della chiesa
ed erano sottratti alla giurisdizione del vescovo agrigentino. Nella visita
pastorale del 1540-43, il vescovo Tagliavia omette ogni riferimento ai francescani.
Eppure abbiamo motivo di ritenere che essi fossero già insediati. Nel
1548 il convento possedeva una bottega in piazza e ciò risulta dalla bolla di
riconoscimento della confraternita di S. Maria di Juso datata 21 maggio
1548 ( A.C.V.A. - Registro Vescovi 1547-48, p. 142).
Con i
padri dell’Ordine dei Minori Conventuali di S. Francesco, ebbe dunque a
confliggere don Lisi Provenzano attorno al 1556 per un legato del 1545. Il
convento francescano precede quindi di almeno 15 anni il 1560, data ritenuta di
fondazione dal Tossiniano. Al 1560 risale, invero, il testamento di Giovanni
del Carretto che accenna alla chiesa di S. Francesco ed al convento ma in
questi termini:
Del pari
lo stesso spettabile Testatore volle e diede mandato al predetto d. Girolamo
del Carretto, suo figlio primogenito ed erede particolare, di far celebrare
delle messe nel convento di S. Francesco di detta terra. Inoltre dispone che
sia costruita una cappella in un luogo da scegliersi in detta chiesa dal
suddetto erede particolare ed a tal fine saranno da spendere 100 onze entro due
anni dalla morte del testatore. La Cappella è da fabbricarsi per l’anima del
predetto testatore e dei suoi predecessori.
Inoltre
decide di venire sepolto nella chiesa di S. Francesco con l’abito francescano:
Item
elegit eius corpus sepelliri in Ecclesia Sancti Francisci dictae Terrae indutus
ordinis ditti Sancti Francisci et ita voluit, et mandavit.
Anche da
qui emerge che S. Francesco esisteva da tempo.
Il Sac.
Lisi Provenzano visse, dunque, gli anni del suo sacerdozio tra Palermo, altri
luoghi e Racalmuto. Ordinato già nel 1545, all’epoca cioè del testamento del di
Salvo, nacque a Racalmuto qualche tempo prima del 1520. Morì attorno al 1597.
Nel 1584
fa una donazione alla chiesa di S. Maria Inferiore (di Gesù) di tt. 6 annui,
cedendo un censo annuo su una casa una volta appartenuta a Violante
Petruzzella:
Actus donationis o. - 6.
Pro ven: Eccl. Sanctae Marie
inferioris - cum p.ro Aloisio Provenzano.
Die xxiiij° septembris xiij^ ind.
1584
Reverendus
presbiter Aloisius Provenzano de Racalmuto coram nobis mihi notario cognitus
pro anima sua titulo donationis et omni alio meliori modo sponte cessit et
cedit ven: Eccl. Sanctae Mariae Inferioris dictae terrae per eum Mattheo
La Paxuta rettore mihi cognito omnia jura quae et quas habuit et habet in et
super tt. 6 census quolibet anno solvendi contra magistrum Joseph Cachiatore
super domo olim Violantis Petrocella virtute contractus facti in actis
meis die etc.
Testes
m.j Joseph Lomia et Jacobus de Poma.
Con bolla
pontificia del 13 novembre 1561 ( Archivio Segreto Vaticano - Registri Vaticano
- Bolla n.° 1911 - f. 211 e ss.), Pio IV nomina arciprete di Racalmuto
don Gerlando D’Averna (chiamato nel documento Giurlando de Averna). La bolla
viene indirizzata al diletto figlio, arciprete e rettore della chiesa di S.
Antonio di Racalmuto, diocesi di Agrigento.
Pius
episcopus servus servorum Dei. Dilecto filio Giurlando de Averna rectori
archipresbitero nuncupato parrochialis ecclesiae archipresbiteratus nuncupatae
Sancti Antonij terrae Rachalmuti Agrigentinae diocesis, salutem et apostolicam
benedictionem.
E’ del
tutto rituale l’apprezzamento che giustifica la concessione papale del lontano
beneficio dell’arcipretura racalmutese, ma è pur sempre un riconoscimento di
meriti:
Vitae ac
morum honestas aliaque laudabilia probitatis et virtutum merita, super quibus
apud nos fide digno commendaris testimonio, nos inducunt ut tibi reddamur ad
gratiam liberalem.
Ci appare
oggi strano come una prebenda così striminzita fosse di concessione pontificia.
All’epoca era invece una consuetudine ed il papa mostra di esserne un custode
geloso et attento. Ne fa accenno nel corpo della stessa bolla, dichiarando
illegittima ogni usurpazione da parte di qualsiasi autorità:
Dudum
siquidem omnia beneficia ecclesiastica cum cura et sine cura apud Sedem
apostolicam tunc vacantia et in antea vacatura collationi et dispositioni
nostrae reservavimus, decernentes ex tunc irritum et inane si secus super hijs
a quacumque quavis auctoritate scienter vel ingnoranter contingeret attemptari.
In un
siffatto quadro giuridico si colloca, dunque, il beneficio di Racalmuto, un
beneficio che, comunque, tal Sallustio - già rettore ed arciprete di Racalmuto
- non ha reputato utile mantenere e l’ha restituito nelle mani del Papa.
Et
de inde parrochiali ecclesia archipresbiteratus nuncupata Sancti Antonij terrae
Rachalmuti Agrigentinae diocesis per liberam resignationem dilecti filij
Salustij humilissimi nuper ipsius ecclesiae rectoris archipresbiteri nuncupati,
de illa quam tunc obtinebat in manibus nostris sponte factam et per nos
admissam apud Sedem predictam vacantem.
L’arcipretura
di Racalmuto, cui rinuncia anche il chierico Cesare, viene alla fine assegnata
al D’Averna per i suoi meriti:.
Noi,
quindi vogliamo concederti una speciale grazia per i tuoi premessi meriti, e
assolvendoti da ogni eventuale censura, disponiamo che tu ottenga tutti i
singoli benefici ecclesiastici con cura e senza cura (d’anime) e tutto
quanto ti compete in qualsiasi modo, comunque e per qualsiasi quantità; ed in
particolare gli annessi frutti, redditi e proventi che costituiscono una
pensione annua di 24 scudi d’oro italiani secondo la ricognizione fatta dalla
Santa Sede quando ebbe ad accordarla al predetto Sallustio, pensione che in
ogni caso non supera i sessanta ducati d’oro come tu stesso affermi.
E
vogliamo ciò anche se sussiste una qualche riforma insita nel corpo delle
leggi visto che la predetta chiesa è riservata alla disponibilità apostolica in
forma speciale e generale.
Pertanto
ti conferiamo il beneficio con l’autorità apostolica che ci compete, giudicando
irrituale ed inefficace ogni altra contraria decisione di qualsiasi autorità
che abbia ritenuto di poterne disporre, scientemente o per ignoranza. E ciò
vale anche verso chi tenterà in futuro di arrogarsi poteri dispositivi.
Intorno a
quanto precede, diamo mandato per iscritto ai venerabili fratelli nostri, i
vescovi Amerin/ e Muran/ nonché al diletto Vicario del venerabile fratello
nostro, il vescovo di Agrigento, affinché loro due o uno di loro, direttamente
o per il tramite di qualcuno introducano Te o un tuo procuratore nel materiale
possesso della chiesa parrocchiale e degli annessi diritti e pertinenze e lo
facciano per la nostra autorità. Non manchino, altresì, di difenderti, dopo
avere rimosso qualsiasi altro detentore, facendoti dare integro il resoconto
della chiesa parrocchiale e degli annessi frutti, redditi, proventi e doti. A
ciò non osti qualsiasi contraria costituzione di papa Bonifacio Ottavo, di pia
memoria, nostro predecessore, né ogni altra decisione apostolica. Del pari,
nessuno può richiedere per sé o per il proprio legato un qualche diritto di
omaggio o un qualunque beneficio ecclesiastico in base a lettere o in forma
speciale o generale, anche nel caso in cui vi sia stato un processo e sia stato
emesso decreto riformatore.
Vogliamo
che tu comunque entri in possesso di detta chiesa parrocchiale, senza
pregiudizio alcuno degli annessi benefici. Se qualcuno dovesse tentare presso
il venerabile fratello nostro, il vescovo di Agrigento o presso chiunque altro
che sia stato dalla Sede apostolica dotato in comunione o frazionatamente nei
beni della chiesa, non gli si accordi costrizione o interdetto o sospensione o
scomunica. Resta ribadito che quanto ad omaggi, benefici ecclesiastici,
relativa collazione, provvisione, presentazione e qualsivoglia altra
disposizione, sia congiuntamente che separatamente, non può provvedersi per
lettera apostolica che non faccia piena ed espressa menzione, parola per
parola, alla presente, la quale ha forza di annullare qualsiasi altra
indulgenza, generale e speciale, di qualsiasi tenore della Sede apostolica.
La
complessità della bolla invero illumina poco sulle peculiarità parrocchiali
della Matrice del tempo. V’è un rigonfiamento di formule curiali, del tutto
sproporzionato alla esiguità dell’affare.
L’arc.
D’Averna non pare essere racalmutese. Sembra venire da Agrigento. E’ un po'
nepotista. Con lui si sistema a Racalmuto il sac. d. Vincenzo d’Averna che è
anche cappellano. Appare un vicario a nome don Giuseppe d’Averna. Fa capolino
un chierico: Orlando d’Averna.
Come
arciprete, lo riscontriamo con una certa assiduità negli atti di battesimo dal
12.11.1570 sino al 5.7.1571; poi appare sporadicamente. Non abbiamo, però,
serie complete di atti di battesimo: il primo quinterno è incerto se si
riferisce al 1554 o al 1564. Si salta, poi al 1570-71-72 e quindi al 1575-1576.
Quindi il vuoto sino al 1584.
L’arc.
Gerlando d’Averna figura ancora il 24 di maggio 1576 in questo atto di
battesimo - ed è l’ultima testimonianza di cui disponiamo:
24 5 1576
Joannella figlia di Barbarino Vella (di)e diPalma;
madrina:
Juannella di Rotulu;officiante: Don Gerlando di Averna.
Va,
quindi, fugato il sospetto che, ricevuto il beneficio dal papa, egli
abbia soltanto percepito i proventi della sua arcipretura e per il resto se ne
sia stato lontano. La sua arcipretura sembra durare oltre 18 anni: è, infatti,
nel 1579 che subentra l’arc. Michele Romano.
Ci sembra
un parente dell’arciprete d. Gerlando D’Averna, ma non abbiamo prova alcuna ove
si eccettui una qualche singolare coincidenza. Sicuramente non era racalmutese.
E’ cappellano della matrice a partire dal luglio del 1571. I salti della
documentazione parrocchiale ci impediscono di sapere sino a quando operò
assiduamente. Comunque, stando agli atti di battesimo disponibili, nel
successivo periodo che decorre dal 6.11.1575 sino al 21.5.1576 è il sacerdote
officiante in n.° 76 funzioni battesimali. Dopo quella data non lo s’incontra
più, ma vanno tenute presenti le interruzioni che si riscontrano per quel
periodo nell’archivio della matrice. Don Vincenzo D’Averna non appare nel
“liber” della parrocchia: ovviamente già nel 1636 si era perso il ricordo di
quel cappellano.
Appare
per la prima volta in un atto notarile della confraternita di S. Maria
Inferiore del 31 agosto 1578:
Terrae
Racalmuti Die xxxi° augusti vj ind. 1578. - Notum facimus et testamur quod
Reverendus pater Joseph d’Averna cappellanus, Antoninus de Acquista; Jo Grillo
et Vincentius Macalusio rectores venerabilis ecclesiae Sanctae Mariae
Inferioris ...
Nel 1580
fa da padrino di battesimo a Vincenza Stincuni:
14 2 1580
Vincentia
di Gerlando Stincuni e Angela; lo q. don Joseph di Averna la q. Betta la
Carretta'.
E’ poi
assiduo come cappellano sino alla data della sua morte che il ‘Liber’ segna
sotto la data del 26 ottobre del 1600 (Liber in quo adnotata .. cit. col. 1.
n.° 13). Una malcerta annotazione sembra indicarlo come Vicario Foraneo,
ma è indizio troppo dubbio per essere certi che abbia ricoperto tale importante
carica. Comunque è presente nei battesimi dei figli degli ottimati locali come
quello di
3
7 1598 Margarita donna di
Geronimo don Russo e di donna Elisabetta del Carretto, per don Gioseppe
d'Averna; patrini Vinc. Piamontese et soro Gioanna
Piamontese
Elisabetta
del Carretto era figlia di Giovanni del Carretto, conte di Racalmuto e di donna
Caterina de Silvestro. Ella fu legittimata il 12 novembre del 1587.
Giovanni
del Carretto, fa sposare la figlia, attorno al 1590, con il nobile Girolamo
Russo. Costui figura come governatore del castello di Racalmuto nell’ultimo
scorcio del secolo. Un’eco affiora in certo carteggio scambiato tra il vescovo
di Agrigento Horozco Covarruvias e la Santa Sede, come si è visto nello
stralcio di un documento vaticano sopra richiamato.
Tra il
1579 ed il 1581fa capolino negli atti parrocchiali tal Clerico Blasi Averna. Di
lui non fa menzione il “Liber”: era dunque sparito persino dal ricordo nel
1636. Nel rivelo del 1593 figura tal Blasi Averna, ma è un ragazzo di 22 anni
che vive con la madre Vincenza nel quartiere di S. Giuliano: non ha dunque
nulla a che vedere con il chierico in questione. Costui sposerà nel gennaio del
1601 Agata Mastrosimone, come da seguente trascrizione della Matrice:
7 1 1601
Averna Blasi di Antonino q.am e di Vicenza q.am con Mastro Simuni Gatuzza di
Nicolao q.am e di Francesca; testi: Muntiliuni cl. Jac. e Gulpi Antonino:
Benedice il sac.Macaluso Jo:
Compare
come cappellano della Matrice attorno al 1579, agli esordi dell’arcipretura
Romano, e la sua missione sacerdotale, in subordine all’arciprete, dura sino al
1594. Sotto la data del 30 aprile 1595 lo incontriamo negli atti della chiesa
di S. Maria di Gesù, di cui è divenuto cappellano. Nel coevo atto di
assegnazione di un’onza di reddito da parte dei fratelli Vincenzo e Giacomo
d’Agrò per avere in cambio la concessione di sepoltura nella medesima chiesa,
don Monserrato d’Agrò fornisce il suo benestare nella cennata veste di
cappellano:
Praesente
ad haec omnia et singula praesbyter Monserrato de Agrò, mihi etiam notario
cognito et stipulante pro dicta ecclesia uti eius cappellano et se contentante
de praesente attu et omnibus in eo contractis et declaratis et non aliter.
Ma
negli ultimi giorni di agosto dell’anno successivo è già infermo e si accinge a
fare testamento. Il suo attaccamento alla chiesa di S. Maria di Gesù è tale da
presceglierla quale luogo della sua tumulazione. A tal fine assegna una rendita
annua di un’onza e 3 tarì.
In un
atto della chiesa del 12 settembre 1596 viene formalizzato il contratto di
concessione in termini che sono uno spaccato del vivere civile e religioso dei
racalmutesi dell’epoca.
Sappiamo
dal rivelo del 1593 che a quel tempo il sacerdote aveva 45 anni. Era nato
dunque attorno al 1548. Muore giovane, all’età di 48 anni. Abitava,
apparentemente da solo, nel quartiere della Fontana come da questa nota del
rivelo del 1593:
3 149
AGRO' (DI) PRESTI MONSERRATO [Sac:] CAPO DI CASA DI ANNI 45
La
cappella desiderata da don Monserrato sorse nella chiesa di S. Maria vicino a
quella di S. Maria dell’Itria e di fronte all’altra ove era raffigurata
l’immagine di S. Francesco di Paola (intus dictam ecclesiam Sanctae Mariae
Majoris prope Cappellam Sanctae Mariae Itriae in frontispicio cappellae
Imaginis Sancti Francisci de Paula...). Risulta che questa fu dedicata a S.
Michele Arcangelo ( nell’atto del 1604 si parla, infatti della dote Cappellae
Sancti Michaelis Arcangeli condam presbiteri Monserrati de Agrò).
Per quel
che ci dice il Rollo della confraternita di S. Maria di Gesù, don Monserrato
aveva almeno quattro nipoti di cui si ricorda nel testamento:
Est
sciendum quod inter alia capitula donationis causa mortis facta per condam don
Monserrato de Agrò Paulino, Natali, Joseph et Joannelle de Agrò eius nepotibus
est infrascriptum capitulum tenoris ....
Il nipote
Paolino d’Agrò risulta figlio di quel Simone d’Agrò che approvò la transazione
feudale con il conte Girolamo del Carretto nel 1581 (è il 229° dei presenti
nella chiesa maggiore di Racalmuto che diedero l’assenso il giorno 15 gennaio
1581). Don Monserrato si limiterà ad apporre la sua firma come teste.
Il più
antico quinterno di atti battesimali della Matrice è composto di n.° 26
colonne. In alcune parti è indicata la data del 1554 (ad esempio 24 di augusto
1554 o die Xbris 1554) in altre 1563 (adi 9 januarii 1563) ed in altre
ancora 1564 (junii VII ind. 1564). Non è facile districarvisi. A noi comunque
sembra che le date sia apocrife, aggiunte successivamente. In effetti il
fascicolo dovrebbe essere datato 1563-64, settima indizione anticipata.
Vi vengono
segnati i sacerdoti che celebrano il battesimo. Sono costoro i cappellani della
Matrice (operante nella chiesa di S. Antonio). Non riscontriamo mai la presenza
dell’arciprete (né don Gerlando d’Averna, né quello che si considera il suo
predecessore, don Tommaso Sciarrabba (“Arciprete e canonico della
cattedrale di Girgenti anno 1553”, annota il Liber citato, c. 1 n.° 2).
I
cappellani officianti risultano:
don
Vincenzo Colichia;
don
Antonino La Matina;
don
Dionisi Lombardo;
don
Antonio Castagna.
Il primo
atto di battesimo della Matrice di Racalmuto
Anno 1554
Viene Battezzato il figlio di Gilormo La Licata Inferno
Il
sacerdote celebrante è il rev. Presti Vincenzo Colicchia
La
maggior frequenza si registra per don Vincenzo Colichia e per don Dionisi
Lombardo. Entrambi vengono segnati con il titolo di “presti” (prete). Di
nessuno di loro si fa il più vago cenno nel “Liber”. Nella successiva
documentazione del 1570/71, riappare soltanto il cappellano don Antonino La
Matina.
E’ il
periodo centrale dell’arcipretura di don Gerlando D’Averna che spesso presiede
alla funzione battesimale. Su don Vincenzo d’Averna ci siamo già
abbondantemente soffermati. Abbiamo pure accennato a don Antonino La Matina,
presente negli atti del periodo precedente del 1564 (o giù di lì). Sul D’Auria,
Cacciatore e Garambula non disponiamo di altri dati. Fra tutti questi
cappellani, il solo ricordato dal Liber è don Filippo Macina (c. 1 n.° 8).
Stando ai cognomi, il D’Auria, il La Matina e Jo Cacciatore possono essere
stati benissimo indigeni. Il Macina ed il Garambula appaiono oriundi.
I salti
della documentazione disponibile ci portano a questa quarta indizione
anticipata (1575/76). I battesimi vengono ora suddivisi solo tra il d’Averna ed
il Provenzano. Su entrambi ci siamo dilungati in precedenza. Arciprete di
Racalmuto è ancora don Gerlando d’Averna
Nei
fascicoli dei battesimi del 1579 appare segnato come arciprete Don Michele
Romano, dottore in sacra teologia (S.T.D.). Nel Liber vengono citati Abbate
(n.° 24), Monserrato d’Agrò (n.° 7) , Giuseppe d’Averna (n.° 13) e naturalmente
l’arc. Romano ( n.° 4). Il Provenzano è segnato come diacono (n.° 18) non si sa
se per errore o perché c’era veramente un diacono Luigi Provenzano morto il 20
luglio 1600.
Arciprete
del tempo è don Michele Romano che appare in qualche battesimo. Rispetto al
precedente periodo appaiono per la prima volta don Francesco Nicastro e don
Paolino Paladino: entrambi sono annotati nel Liber, ma senza alcun altro dato
all’infuori del nome e cognome.
Annotato
nel Liber (c. 1 n.° 17) si riscontra solamente in questa nota a margine del
libro parrocchiale delle trascrizioni dei matrimoni 1582-1600:
Die 24
ottobris Xa ind.s 1597, mi detti lu cunto don Leonardo Spalletta delli
sponczalicii a mia don Joseppi Romano come procuraturi di mons.r ill.mo.
L’arc.
don Michele Romano era morto solo da poco tempo (28 luglio 1597). Che vi sia un
qualche vincolo di parentela, è congetturabile.
Ha tutta
l’aria di essere il primo arciprete d’origine racalmutese. Insediatosi attorno
al 1579, succede a don Gerlando d’Averna. Muore il 28 luglio 1597,
prossimo al suo ventennio di arcipretura. Ebbe forse ad acquisire un discreto
patrimonio, fatto sta che il vescovo Horozco intenta una lite al conte del
Carretto per rivendicare i beni successori del defunto arciprete Romano. Il
Vescovo ne fa cenno in una sua difesa inviata al Vaticano, ove fra l’altro si
legge:
«
[.....]Il detto Conte di Raxhalmuto per respetto che s’ha voluto occupare la
spoglia[1] del arciprete morto di detta sua terra
facendoci far certi testamenti et atti fittitij, falsi et litigiosi, per levar
la detta spoglia toccante à detta Ecclesia, per la qual causa, trovandosi esso
Conte debitore di detto condam Arciprete per diverse partite et parti delli
vassalli di esso Conte, per occuparseli esso conte, come se l’have occupato, et
per non pagare ne lassar quello che si deve per conto di detta spoglia, usao
tal termino che per la gran Corte di detto Regno fece destinare un delegato
seculare sotto nome di persone sue confidenti per far privare ad esso exponente
della possessione di detta spoglia, come in effetto ni lo fece privare, con intento
di far mettere in condentione la giurisditione ecclesiastica con lo regitor di
detto Regno. »
A distanza di secoli non è facile sapere chi
avesse ragione. Di certo, il Romano durante la sua vita non si mostra contrario
ai Del Carretto. Sul punto di morte è persino propenso a favorire il conte
facendogli - a dire del vescovo - «certi testamenti et atti fittizij,
falsi e litigiosi».
L’arciprete Romano deve vedersela con il primo
conte di Racalmuto, Girolamo del Carretto - divenuto tale nel 1576 - e, dopo il
9 agosto 1583, con il successore, l’avventuroso Giovanni del Carretto, che
finirà trucidato a Palermo il 5 maggio 1608. Entrambi furono però signori di
Racalmuto che amarono starsene a Palermo. L’arciprete Romano ebbe a che fare
più con gli amministratori comitali, quali Cesare del Carretto e Girolamo
Russo, che non con gli altezzosi titolari. E l’intesa sembra essere stata
buona, anche quando si trattò di stabilire, nel 1581, oneri e tributi di
vassallaggio.
Quando scende a Racalmuto un parente dei del
Carretto per battezzare il figlio di un personaggio eccellente, in quel tempo
operante nella contea, l’arc. Romano è ovviamente presente:
“Adi 9 marzo VIe Indiz. 1593 Diego figlio del
s.or Gioseppi e Caterina di VUO fu batt.o per me don Michele Romano archipr.te
- il Compare fu l'Ill'S.or Don Baldassaro del CARRETTO - la Conbare l'Ill'S.ora
Donna Maria del Carretto''
In ogni caso, nei raduni del popolo, chiamato
ad avallare gravami tributari, l’arciprete si mantiene, almeno formalmente, al
di sopra delle parti e non appare neppure come teste.
Il Vescovo Horozco lo nominò arciprete di
Racalmuto nell’estate del 1598. Il Capoccio aveva vari incarichi presso la
Curia Vescovile di Agrigento e non aveva tempo di raggiungere la sede
dell’arcipretura: mandò due suoi rappresentanti, muniti di formalissimi
atti notarili. Presso la Matrice può leggersi questa nota apposta al margine di
un atto matrimoniale:
«DIE 16 Julii XIe Indi.nis 1598: ''Pigliao la
possessioni don Vito BELLISGUARDI et don Antonino d'AMATO (?) procuratori di
don Lexandro Capozza p. l'arcipretato di Racalmuto come appare per atto
plubico''.» (cfr. Atti della Matrice: STATO DI FAMIGLIA - M A T R I M O N I -
1582-1600 )
Tre anni prima, don Alexandro Capocho era stato
inviato a Roma, al posto del Covarruvias, per presentare la prima relazione 'ad
limina' dei Vescovi di Agrigento al Papa[2]. Nell'atto di delega del 12 settembre 1595
"Don Alexandro Cappocio' viene indicato come "Sacrae theologie
professor eiusque [del vescovo] Secretarius”.
In Vaticano si
conserva il processo concistoriale di quel vescovo (Archivio Vaticano Segreto -
Processus Concistorialis - anno 1594 - vol. I - (Agrigento) - ff. 30-62.). La
testimonianza del Capoccio è, a dire il vero, schietta e per niente compiacente
(f. 36v e 37).
Sintetizzando e
traducendo dallo spagnolo ricaviamo questi dati:
«Depone il dottor Don
Alexandro Capocho, suddiacono naturale del Regno di Napoli e residente per il
momento in questa corte. Egli testimonia che conosce il detto signor Don
Juan de Horoczo y Covarruvias di vista e solo da due mesi, poco più
poco meno, e di non essere né familiare né parente dell’ Horozco».
Salta quindi ben
dodici domande che attenevano alle origini ed alla vita del futuro vescovo. La
sua testimonianza è quindi molto minuziosa sulla Cattedrale di Agrigento
(circostanza che non ci pare qui conferente). ‘Conosceva piuttosto bene
Agrigento per esservi stato due anni, poco più poco meno’.
Per quanto tempo il
Capoccio sia stato arciprete di Racalmuto, s’ignora. Sappiamo che subentrò
l'Argumento, nominato nel marzo del 1600.[3] Quel che appare sicuro è che
l’arciprete Capoccio non fu presente in alcun atto di battesimo o nella
celebrazione di un qualsiasi matrimonio nella parrocchia racalmutese di cui per
un biennio fu titolare. A sostituirlo nelle incombenze pastorali fu di certo
don Leonardo Spalletta, il cappellano di cui gli atti parrocchiali testimoniano
zelo ed assidua presenza.
I CONVENTI DI RACALMUTO NEL ‘500
Non crediamo che vi siano stati conventi a Racalmuto
nei primi quarant’anni del ‘500: solo attorno al 1545 è di sicuro operante il
convento di S. Francesco, ove erano insediati i padri francescani dell’Ordine
dei Minori Conventuali. In certi documenti vescovili che riguardano il sac. don
Lisi Provenzano abbiamo rinvenuto elementi tali da suffragare questa antica
datazione del convento. L’altro cenobio che appare alla fine del secolo, quello
dei carmelitani, sorge all’incirca verso il 1575 se diamo credito alla lapide
dell’avello del primo priore padre Paolo Fanara, quale ancora si legge nella
chiesa del Carmelo (la chiesa sembra invece essere esistita già dal tempo della
visita del Tagliavia nel 1540 ed è citata nel testamento del barone Giovanni
del Carretto).
Giovan Luca Barberi parla di un convento benedettino presso
Racalmuto, ma gli ereduti locali negli ultimi tempi sono propensi a ritenere
che il chiostro fosse quello di S. Benedetto, in territorio di Favara.
Quanto all’altro convento francescano, quello dei Minori di
Regolare Osservanza, esso, seppure se ne parla già nel 1598, inizia la sua
attività nei primi anni del ‘600.
Per tutto il Cinquecento non vi sono conventi femminili a
Racalmuto. Il primo - quello di S. Chiara - comincerà ad operare verso il 1645.
Sappiamo con certezza che il 21 novembre 1545 il convento di
S. Francesco era operante. Noi pensiamo che sin dagli esordi furono i padri
minori conventuali ad occupare il convento, sotto l’egida di Giovanni del
Carretto. Pietro Rodolfo Tossiniano, vescovo di Senigallia, accenna a questo convento
racalmutese nel libro 2° della sua Historia Serafica. Il maltese Filippo
Cagliola nel 1644, fa un discorso un poco più articolato e, descrivendo le
“Almae sicilienses Provinciae ordinis Minorum Conventualium S. Francisci”,
prende in considerazione anche Racalmuto in questi termini:
LOCUS RACALMUTI [custodia agrigentina]. suae fondationis
certam non habet notam, cum scripturas omnes grassantis pestis
insumpserit lues. Quam ob rem annus 1576 a THOSSINIANO inscriptus, ad
reparationem Ecclesiae, post eliminatum languorem, non ad fundationem
referendus; pugnaret siquidem secum Auctor, qui a Comite Ioanne, certam
pecuniam pro Ecclesia reparatione, legatam asserit, anno 1560. Ecclesia denuo
excitata, imperfecta iacet, locus iuxta arcem a Friderico Claramontano
constructa, situs amoenus, qui fabricis non spernendis incrementa suscepit.
Ecclesia Divo Francisco dicata.[4]
Dunque non era nota la data di fondazione, per la
distruzione dell’archivio nel tempo della grande peste del 1576. Questo stesso
anno viene indicato dal Tossiniano come data di fondazione, subito dopo la
cessazione del flagello. Ma questi cade in contraddizione con se stesso, dato
che afferma che il conte Giovanni [invero era barone] ebbe a lasciare una certa
somma nel 1560 per riparare la chiesa. La chiesa, invero, di nuovo eretta,
giace ora incompleta vicino al castello edificato da Federico Chiaramonte, in
un luogo ameno e con un notevole chiostro. Essa è dedicata a S. Francesco.
Il barone Giovanni del Carretto, a dire il vero non aveva
tanto pensato alla chiesa ma alla sua tomba. Egli lasciò cento onze per la sua
cappella tombale. Ed altri mezzi per la celebrazione di messe in Conventu Sancti
Francisci dictae Terrae, che dunque nel 1560 era attivo.
Da una ricerca del prof. Giuseppe Nalbone risulta che nel
1593 stanziassero a S. Francesco i seguenti religiosi:
1
|
1593
|
COLA ANDREA
|
GAITANO
|
PADRE PRIORE
|
2
|
1593
|
GIOVANNIANTONIO
|
TODISCO
|
FRA
|
3
|
1593
|
SEBASTIANO
|
D ' ALAIMO
|
FRA
|
4
|
1593
|
FRANCESCO
|
BARBERIO
|
FRA
|
5
|
1593
|
GIO
|
BARBA
|
FRA
|
6
|
1593
|
LODOVICO
|
DI
SALVO
|
FRA
|
7
|
1593
|
GIUSEPPE
|
LA MATINA
|
FRA
|
Francamente non conosciamo granché di tutti questi
francescani: abbiamo, ad esempio, alcuni accenni nell’atto di donazione di quel
singolare personaggio che fu Antonella Morreale, rimasta vedova piuttosto
giovane di Leonardo La Licata. Il rogito è datato 9 gennaio 1596 e ad un certo
punto stabilisce:
Et voluit et mandavit ditta donatrix quod dittus Jacobus
donatarius ...debeat ac teneatur supra dicto ut supra donato solvere uncias
decem po: ge: in pecunia fratri Lodovico de Salvo ordinis Sancti Francisci,
filio magistri Rogerij consanguineo dittae donatricis infra annos duos cursuros
et numerandos a die mortis dittae donatricis in antea hoc est anno
quolibet in fine unc. unam in pacem pro vestito ispius Lodovici pro Deo
et eius anima ipsius donatricis et solutis dictis unc. 10 ut supra dictus
Jacobus de Poma donatarius per se et successores teneatur et debat pro dittis
unc. decem anno quolibet in perpetuum solvere unciam unam redditus supra
dicto loco de supra donato dicto ven.li conventui Sancti Francisci dictae
Terrae Racalmuti eiusque guardiano mentionato pro eo et successoribus in ipso
conventu in perpetuum legitime stipulante in quolibet ultimo die mensis augusti
cuiuslibet anni incipiendo solvere anno quolibet in perpetuum pro Deo et eius
anima ipsius donatricis pro celebratione tot missarum celebrandarum per fratres
dicti ven. conventus
Fra Ludovico de Salvo era dunque un consanguineo della
Morreale. Nella donazione si parla di sussidi per il suo vestiario. Per le
messe v’è un altro legato di un’oncia annua in favore del padre guardiano.
La Morreale si ricorda di questo priore anche a proposito
della sistemazione della non chiara vicenda del lascito da parte del
marito di un vestito appartenente a don Cesare del Carretto. In dialetto,
ella dispone piuttosto prolissamente che:
Item ipsa donatrix pro Deo et eius anima ac pro anima ditti
condam Leonardi olim eius viri titulo donationis preditte post mortem ipsius
donatricis ... donavit et donat ditto ven. conventui Sancti Francisci
ditte terre uti dicitur: una robba di donna di villuto russo chiaro con li soi
passamanu di oro, quali robba ditta donatrichi teni in potiri suo in pegno del
sig. don Cesaro il Carretto, la somma dello quali pignorationi ipsa donatrici
non si recorda, per tanto essa donatrici voli chè si il detto del Carretto
paghira ditto conventu seu suo guardiano la reali summa per la quali robba fui
inpignorata, chè in tali casu lu guardiano di detto convento chè tunc forte
serra sia tenuto restituiri ditta robba a ditto del Carretto et casu chè il
detto del Carretto non si recapitassi detta robba oyvero non declarira la summa
per la quali detta robba sta pignorata voli la detta donatrichi chè lu
guardiano di detto convento habbia di obtenere lettere di executione et per
quella somma chè serra revelato il detto guardiano debbea detta robba per detta
somma ad altri personi inpignorarla et quelli denari convertirli et expenderli
in subsidio et bisogno di detto conventi et fari diri tanti missi
per l’anima di detta donatrici et il ditto condam Leonardo per li frati di
detto convento et quoniam sic voluit ditta donatrix et non aliter nec alio
modo.
Il nome del padre guardiano doveva essere padre Cola Andrea
Gaitano: non è certamente racalmutese, mentre originari del paese appaiono
tutti gli altri sei fraticelli.
La famiglia cui apparteneva fra Ludovico Salvo è così
censita nel rivelo del 1593:
36
|
360
|
Salvo (de) Mg. Ruggero, soldato anni 45
|
Nora de Salvo moglie; Santo anni 14; Ludovico 11;
Francesco 7; Ivella; Caterina; Vincenza
|
confina con La Lattuca Paulino
|
abita al Monte
|
Nel 1602 consegue i quattro ordini minori e pare che non sia
andato oltre. Un’annotazione del vescovo Bonincontro del 1608 farebbe pensare
che fra Ludovico abbia lasciato il convento e si sia secolarizzato. Lo troviamo
infatti fra i chierici sottoposti alla giurisdizione dell’ordinario diocesano:
Ludovico di Salvo an 26 cons. ad 4 m. ord. die 23 martii
1602 ... S. Francisci
Fra Ludovico era nato a Racalmuto nel 1581 come da questo
atto di battesimo:
19
|
7
|
1581
|
Lodovico
|
Rogieri m.o
|
Salvo
|
Nora
|
Semplice frate nel 1593 ricevette sicuramente gli ordini
sacerdotali. Nella visita del 1608 viene autorizzato alle confessioni per sei
mesi:
Frater Sebastianus de Alaimo ordinis S.ti Francisci Convent.
ad sex menses
Risulta dai Rolli di S. Maria quale teste in un atto del 28
ottobre 1597. Null’altro ci è dato di sapere su questo francescano, sicuramente
racalmutese.
Per il Pirro questo convento è nobile ed antico ed ai suoi
tempi (1540) contava 10 religiosi con 108 onze di reddito. Ne era stato solerte
priore per 46 anni il racalmutese fra Paolo Fanara. La lapide del suo sepolcro
fornisce questi dati biografici:
Paolo Fanara innalzò, accrebbe e decorò, dotandolo
d’immagini, questo tempio; curò l’edificazione del convento con somma
operosità. Visse 71 anni e nell’anno della salvezza 1621, dopo 41 anni di
priorato, morì nella pace sel Signore.
Fra Paolo Fanara nacque dunque nel 1550; nel 1575 diviene
priore del cenobio carmelitano di cui è fondatore a Racalmuto. Il convento
viene edificato accanto alla chiesa periferica del Carmelo, che stando ai
documenti disponibili sorgeva invero da tempo, a dir poco dal 1540.
La chiesa, invero, sembra in costruzione al tempo della
morte del barone Giovanni del Carretto che così ne accenna nel suo testamento:
Item praefatus Dominus Testator dixit expendisse unceas
centum triginta in emptione lignaminum et tabularum facta per Magistrum
Paulum Monreale, et per Magistrum Jacobum de Valenti, de quibus dominus
Testator consequutus fuit nonnullas tabulas, et lignamina; voluit propterea, et
mandavit quod debeat fieri computum per dictum spectabilem D. Hieronymum heredem
particularem, et faciendo bonas uncias viginti septem solutas Ecclesiae Sanctae
Mariae de Jesu, et uncias undecim solutas pro raubis; de residuo tabularum et
lignaminum compleri debeat tectum Ecclesiae Sanctae Mariae di lu Carminu dictae
Terrae Racalmuti, et voluit quod debeat expendere unceas quindecim in
pecunia in dicto tecto, et ita voluit, et mandavit, et hoc infra terminum
annorum trium.
Nel 1560, dunque, la chiesa di Santa Maria del Carmelo era a
buon punto e doveva soltanto completarsi il tetto, cosa che andava fatta entro
tre anni. Non è attendibile quindi quel che dice l’avello del p. Fanara, quanto
alla chiesa. Certo dopo il 1575 fra Paolo non mancò di farvi fare opere murarie
e migliorie ed a ciò è da pensare che si riferisca l’iscrizione della lapide.
Nel rivelo del 1593, questo era l’orrganico del cenobio
carmelitano racalmutese:
1
|
1593
|
PAULO
|
FANARA
|
PADRE PRIORE
|
2
|
1593
|
RUBERTO
|
COSTA
|
PADRE
|
3
|
1593
|
SALVATORE
|
RICCIO
|
FRA
|
4
|
1593
|
FRANCESCO
|
SFERRAZZA
|
FRA
|
5
|
1593
|
ANGELO
|
CASUCHIO
|
FRA
|
6
|
1593
|
GEREMIA
|
RUSSO
|
FRA
|
7
|
1593
|
GIUSEPPI
|
RAGUSA
|
FRA
|
8
|
1593
|
ZACCARIA
|
RICCIO
|
FRA
|
Nella visita del Bonincontro del 1608 il priore del carmelo
è ricardato fugacemente come confessore approvatoed indicato semplicemente
come “fra Paulo di Racalmuto padre giardiano del Carmine”.
Fra Paolo fu molto attivo anche nelle faccende sociali. Lo incontriamo
in un documento del 1614[5] in cui si briga per consentire
una “fera franca” in occasione della festività della Madonna del Carmine.
«Ill.mo Signor Conte di questa terra. Fra Paulo Fanara
priore del Convento del Carmine di questa terra, dice a V.S. Ill.ma che per
devotione et decoro della festività della Madonna del Carmine quali viene alla
terza domenica di giugnetto [luglio] resti servita V.S. Ill.ma concedere ché
ogn’anno per otto giorni cioe quattro inanti detta festa et quattro poi, si
possa inanti detto convento farci la fera franca di quella di Santa Margarita
la quale si transportao in lo conventu di Santa Maria di Giesu per lo decoro della
detta festa et della terra di V.S. Ill.ma ché li sarà gratia particolare ultra
il merito che per tal causa haverà ut altissimus etc. - Racalmuti Die XX°
octobris XIII^ ind. 1614.»[6]
Nel 1596 lo incontriamo come teste in un paio di atti della
confraternita di S. Maria di Gesù. Non spesso, ma qualche volta assiste pure
alla celebrazione del matrimonio di qualche racalmutese in vista.
Dalla solita visita del 1608 sappiamo che èsacerdote ed è
autorizzato alle confessioni per sei mesi:
Frater Salvator Riccius Carmelitanus ad sex menses.
A dire la verità abbiamo dubbi sulla correttezza della
grafia del cognome. Se Racalmutese, ebbe forse a chiamarsi fra Salvatore Rizzo.
Anche in questo caso, il cognome è forse da correggere in
Rizzo. Un chierico a nome Zaccaria Rizzo è presente in vari atti di battesimo
ed in atti di trascrizione matrimoniali della Matrice dal 1598 in poi.
Costui è anche citato nella nota visita del 1608:
cl: Zaccaria Rizzo an. 25 cons. ad p. t. die 19 decembris
1597 alias vocatus Leonardus
Tratterebbesi di un racalmutese nato nel 1581 come da
seguente atto di battesimo:
5
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9
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1581
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Rizzo
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Leonardo
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Martino
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Norella
|
Ma resta pur sempre da appurare se v’è identità fra il
fraticello carmelitano ed il chierico che s’incontra negli atti della matrice e
della curia vescovile di Agrigento.
Nel 1608 lo ritroviamo fra i confessori:
P. Angelo Casuchia
Stando al Liber in quo .. sarebbe morto il 4 febbraio
1636 (c. 2 n.° 45). Certo sorge il dubbio che tra il frate carmelitano del 1593
ed il sacerdote che del 1608 vi sia identità di persona. Noi siamo per la
tesi affermativa e pensiamo ad una secolarizzazione del giovane fraticello del
Carmine. Il Casuccio che s’incontra in Matrice è chierico tra il 1598 ed il
1600 e figura come diacono in un atto di battesimo del 30 agosto 1600. Il 12
gennaio 1601 è già stato, comunque, ordinato sacerdote.
Analogo dubbio sorge per questo fraticello, visto che negli
atti della Matrice figura un omonimo che però viene indicato nel Liber (c. 2
n.° 38) come don Francesco Sferrazza Fasciotta (ma rectius Falciotta).
A quest’ultimo di certo si riferiscono gli atti della visita
del 1608, ove è reiteramente citato. Vengono forniti alcuni dati anagrafici:
D. Franciscus Sferrazza an. 27 cons. ad sacerd. die 17
decembris 1605 Panorm ... quas dixit amisisse
Costui era già protagonista a quell’epoca, come emerge dai
seguenti passi di quella relazione episcopale a proposito di S. Giuliano:
Sequitur Cappella transfigurationis S.mi Dni Nostri Iesu
Xristi, quae fuit constructa a Don Francisco Sferrazza propriis expensis. et
adhuc non est completa. Altare d.e Cappellae est decenter ornatum super quo est
Scena trasfigurationis praedictae cum multis imaginibus aliorum sanctorum, est
bene depicta et pulchra, est dotata uncias duas redditus relictus a q. Antonino
praedicti de Sferrazza pro celebratione unius missae qualibet hebdomada quae
celebratur a Cappellano Ecclesiae
Habet etiam dicta Cappella incias X pro maritaggio inius
orfanae consanguineae, pariter relictus iure legati a d.o Antonino Sferrazza.
Da altri elementi risulta che trattasi di un membro
dell’importante famiglia degli Sferrazza Falciotta. Sembrerebbe quindi che si
debba escludere l’identità con l’umile fraticello del Carmelo. D. Francesco
Sferrazza Falciotta fu peraltro anche Commissario del Tribunale del S. Officio
e morì il 7 maggio 1630.
Se fra Francesco Sferrazza, carmelitano nel 1593, fu persona
diversa, come sembra, nulla sappiamo all’infuori di quella citazione del
rivelo.
Dalle brume documentali dell’archivio parrocchiale
dell’ultimo scorcio del ‘500 affiorano alcune figure di religiosi racalmutesi
o, comunque, operanti a Racalmuto: uno di questi è fra Giuseppe d’Antinoro,
sicuramente un carmelitano, che l’11 settembre 1584 è presente nel matrimonio
insolitamente celebrato nella chiesa del Carmine. Per questa inusuale
celebrazione era occorso il benestare del vescovo agrigentino. Il matrimonio
era avvenuto tra certo La Licata Paolo di Paolo e La Matina Antonella di Pietro
e di Vincenza. Benedisse le nozze l’arc. Romano. Ne furono testimoni il noto
fra Paolo Fanara ed il citato fra Giuseppe d’Antinoro. Ne trascriviamo qui
l’atto che si conserva nella matrice.
11 9 1584 La Licata Paolo di Paolo e di Angela
con La Matina Antonella di Petro e di Vincenza.= Sacerdote benedicente:Romano
Michele arciprete. Testi: Fanara r. fra Paolo ed D'Antinoro frate Gioseppe.
Nota: foro benedetti nella chiesa del Carmine ex concessione Ill.mi et rev.mi n.
Epi. Agrigentini
gli atti di matrimonio di fine secolo restituiscono alla
memoria questi due monaci, di cui però s’ignora tutto: dall’ordine
d’appartenenza ad un qualsiasi altro dato biografico. Quel che conosciamo è
tutto contenuto in queste annotazioni d’archivio:
1 9 1588 Gibbardo Berto Vincenzo con Savarino Francesca di
Joanne Benedice le nozze: Amato frati Antonino. Testi: Todisco Pietro e Rotulo
Pietro
30 9 1596 Mendola (la) Leonardo di Angilo e Paolina con
Aucello Antonella di Paolo e Minichella. Benedice le nozze: Spalletta don
Nardo. Testi: Mulioto Giuseppe e Di Liberto frati Pasquali.
Nella visita del 1608 è invero ricordato un francescano a
none fra Antonino Amato: che si tratti dello stesso monaco del 1588, non
abbiamo elementi per affermarlo. Questi comunque non figura nel rivelo del
1593. Nella relazione episcopale del 1608 è indicato in questo stringato modo:
Notamento di confessori di S.to Francisci: il p.re
guardiano - fra. Antonio di Amato.
I ponderosi volumi del rivelo del 1593 non possono essere
tutti minuziosamente setacciati, se non da una squadra di studiosi e con
rilevanti mezzi economici. Dobbiamo quindi accontentarci di alcuni sommari
cenni.
A quell’epoca la terra di Racalmuto era idealmente segnata
da un sistema di assi cartesiani in cui l’ascissa era una linea ideale che
dalla Guardia andava al Padre Eterno e l’ordinata (che all’atto pratico era una
sequela di strade tortuose) partiva dal Carmine per giungere alla Fontana. Nel
mezzo vi era di sicuro la chiesa di Santa Rosalia (sicuramente in prossimità
dell’attuale Collegio, ma a quale punto non sembra che si possa individuare con
certezza). In tale sistema la parte sud-ovest costituiva il popoloso quartiere
di S. Margaritella; quella di sud-est il quartiere di S. Giuliano; l’altra di
nord-est era la Fontana ed infine il quartiere del Monte occupava la sezione di
nord-ovest.
All’interno vi erano località di spicco che negli atti
ufficiali servivano per l’individuazione di case e beni: faceva spicco il rione
di Santa Rosalia che in effetti risultava inglobato prevalentemente nel
quartiere di San Giuliano ma una minima parte debordava in quello di S.
Margaritella. Santa Rosalia - che talora veniva chiamata S. Rosana o S. Rosanna
o S. Rosaria, non si capisce bene se per errata trascrizione o per omonimia
popolare o per la presenza nella chiesa di qualche altra immagine della
celeberrima Vergine Sinibaldi - ospitava tanti personaggi cospicui. Esclusivo
appare anche il rione di S. Agata.
Il nuovo secolo, il XVII, si apre a Racalmuto con un vuoto:
non c’è ancora il nuovo arciprete. Questi viene solo dopo alcuni mesi e si
tratta di
Questo nuovo arciprete di Racalmuto è comunque esaminatore
sinodale ad Agrigento, ed è dottore in utroque iure; giunge nel marzo del 1600,
il giorno della festività di San Tommaso dottore della chiesa, prende possesso
della chiesa arcipretale di S. Antonio, anche se forse anche lui preferisce la
più centrale chiesa suffraganea della Nunziata. Questo pozzo di scienza immigra
a Racalmuto, oriundo da non si sa quale parte della Sicilia. Forestiero, di
sicuro, ma almeno in paese ci viene e rispetta le novelle costituzioni
tridentine. Non muore però come arciprete del paese; si trasferisce o viene
mandato altrove. Ma per l’intero triennio 1600-2 lo ritroviamo annotato qua e
là nei registri parrocchiali. In quelli dei morti del 1601 rimangono
rivelatrici annotazioni come “detti fra Paulo [pensiamo a fra Paulo Fanara] la
palora a l’arciprete; all’arciprete; palora al s. arcipreti”. Il senso è
evidente; non può che trattarsi del regolamento dei conti della cd. quarta dei
“festuarii”; in altri termini la quota di spettanza per i funerali (che
costavano per le spese di chiesa, 5 tarì e 10 grani per gli adulti ed un tarì e
dieci grani per le “glorie”, i bambini). Negli esempi che qui sotto riportiamo,
le sepolture avvengono “a lo Carmino” (ed ecco il riferimento al celebre priore
fra Paulo Fanara, di cui abbiamo fornito cenni biografici), a Santa Maria (di
Giesu) - e vi viene tumulato un pargoletto della racalmutesissima famiglia
Mulé, ed a S. Giuliano (accompagnata da tutto il clero vi è sepolta una tale
Angela Turano, ceppo poi emigrato da Racalmuto). Sia però chiaro che non
abbiamo elementi di sorta per sospettare di questo arciprete dottore in
utroque. Crediamo, anzi, che sia stato bene accetto e rispettato: un “signore
arciprete”, dice il chiosatore dell’archivio parrocchiale.
Dopo il 1602 sino al 10 gennaio 1606, l’Horozco ha traversie
giudiziarie, contese con Roma, deve vedersela con il conterraneo - ma non per
questo meno ostile - vescovo di Palermo, Didacus de Avedo (Haëdo). Perseguitato
dai nobili, è costretto a fuggire in un convento amico di Palermo. Artefice di
obbrobri giudiziari per il tramite del suo manutengolo, don Francesco Zanghi,
canonico percettore della prebenda di S. Maria dei Greci, soccombe presso la
Sacra Congregazione dei Religiosi e dei vescovi nella persecuzione contro i
canonici cammaratesi don Francesco Navarra, titolare della prebenda di Sutera,
e don Raimondo Vitali: il primo era accusato di pederastia; il secondo di
relazione peccaminosa con la vecchia madre del primo.
La diocesi sbanda e così Racalmuto. Certe carenze d’archivio
parrocchiale ne sono un indice. Il nuovo vescovo Vincenzo Bonincontro, che si
insedia il 25 giugno 1607 e durerà a lungo sino al 27 maggio 1622, dovette
mettersi di buzzo buono per riordinare la sua turbolenta e disastrata diocesi.
Il 18 giugno del 1608, il novello vescovo da Canicattì si
porta a Racalmuto per la sua visita pastorale. Ne tramanderà una relazione
minuziosa, ricca di riferimenti a persone, chiese, istituzioni, fatti e
misfatti, tale da rappresentare una preziosissima fonte per la storia di
Racalmuto, e non solo quella religiosa.
L’anno successivo, il Bonincontro ritorna a Racalmuto e
completa la vista..
Il Bonincontro trova a Racalmuto una situazione che doveva
essere anomala sotto il profilo del codice canonico del tempo. Il figlio
legittimato - era stato concepito fuori dal talamo coniugale dall’irrequieto
Giovanni IV del Carretto - don Vincenzo del Carretto si era insediato nella
chiesa di S. Giuliano, elevandola a sede parrocchiale. Dove e quando e se fosse
stato consacrato sacerdote, l’Ordinario diocesano non sa ma si guarda bene
dall’indagare. Il potente e collerico figlio del prepotente Giovanni IV non
consente insolenze del genere. Neppure il titolo arcipretale e l’appropriazione
di San Giuliano hanno i crismi della legalità canonica. Il Bonincontro sorvola:
ratifica il fatto compiuto. Solo, divide la terra in due parti
approssimativamente uguali: la bisettrice parte dal Carmino ed arriva a la
Funtana lungo un percosso che per quante ricerche abbiamo fatte non siamo
riusciti a tratteggiare con sicurezza. Non passava di certo per la discesa
Pietro d’Asaro, al tempo un vadduni pressoché impraticabile, ma lungo un dedalo
di viuzze a sud-ovest. Lambiva la chiesa di Santa Rosalia, posta al centro del
paese, ma dalla parte di S. Giuliano, per irrompere nella parte terminale della
vecchia via Fontana.
La parte a sud-est viene lasciata a questo strano arciprete;
quella a nord-ovest, in mancanza di anziani ed autorevoli sacerdoti, viene
assegnata al giovane - è appena ventisettenne - fratello del pittore Pietro
d’Asaro, don Paolino d’Asaro. Di sfuggita annotiamo che il pittore nel 1609 è
già affermato ed una sua tela - oggi purtroppo irrimediabilmente perduta -
viene apprezzata, come abbiamo visto, in occasione della visita a Santa
Margherita, la chiesa congiunta e collegata con quella di Santa Maria
(Visitavit Altare, supra quo est pulchrum quadrum dictae S. Margaritae
depictum in tila manu pictoris Monoculi Racalmutensis, annota il segretario del
vescovo).
Giovanni IV del Carretto, familiare del Santo Ufficio, ma
per interessi e per sottrarsi a tribunali laici molto meno accomodanti, non
dovette essere molto religioso. Quel figlio legittimato che faceva il prete nel
suo lontano feudo di Racalmuto doveva apparirgli come un povero diavolo che si
arrabattava per superare le umiliazioni del suo essere stato concepito in toro
non benedetto. Gli echi della vita religiosa della sede della sua contea gli
saranno pervenuti, ma molto affievoliti, lasciandolo nella totale indifferenza.
Non vi è documento che comprovi la sua presenza, anche saltuaria, a Racalmuto.
Ma appena seppellito quel truculento conte, il figlioletto deve raggiungere la
lontana dimora di Racalmuto, così diversa dai fasti di Palermo.
Don Vincenzo del Carretto, arciprete di Racalmuto lo fu (o
volle essere) per poco tempo. Ancora vivo, l’arcipretura risulta passata a tale
Pietro Cinquemani , originario, forse, di Mussomeli. ([7]) Secondo il prof. Giuseppe Nalbone,
costui sarebbe stato prima rettore e poi arciprete del nostro paese:
1613
PIETRO CINQUEMANI RETTORE e poi nel 1614 ARCIPRETE
Viene annotato, nel Liber in quo a f. 1, n°. 11 come «D.
Pietro Cinquemani - Arciprete 1614. » Gli atti della Matrice ce lo confermano
ancora tale nel 1615, ma l’anno successivo arciprete è don Filippo Sconduto. Il
7 gennaio 1616 benedice, ad esempio le nozze di Silvestre Curto di Pietro
con Giovanna Bucculeri del fu Francesco (vedi atti di matrimonio del 1616).
Don Filippo Sconduto regge a lungo la nostra arcipretura,
fino alla morte avvenuta il 6 novembre 1631. (Cfr. Liber in quo adnotata .. f.
2 n.° 42). Sotto il suo arcipretato avvengono fatti memorabili a Racalmuto,
tristi, lieti e rissosi: la famigerata peste è appunto del 1624; la vedova del
Carretto, vuole reliquie di S. Rosalia e manda 80 cavalieri a Palermo a
prenderle, in una con una bolla che si conserva in Matrice; torna a nuovo
splendore la chiesetta dedicata alla santa eremitica nel centro del paese.
* * *
Ma ritorniamo indietro, agli esordi del comitato
dell’infelice Girolamo II del Carretto. Arriva, frastornato, a Racalmuto nel
1608, subito dopo la morte violenta e scioccante del padre. Ha quasi nove anni;
finisce sotto le grinfie del fratellastro Vincenzo del Carretto che, per eccessiva
benevolenza del vescovo Bonincontro, diviene frattanto arciprete della
importante comunità ecclesiale di Racalmuto. Non ci sembra un prete molto
degno. Non finirà la sua vita da arciprete, ma come balio di Giovanni V del
Carretto, dopo esserlo stato del padre Girolamo II. Conclude la sua esistenza
in stretta intimità con la cognata donna Beatrice del Carretto e Ventimiglia,
almeno giuridica ed economica. Per il resto, chissà. Quel volersi salvare
l’anima, alla fine dei suoi giorni, con l’erezione della minuscola chiesa
dell’Itria, può far sospettare ancor di più, ma può farlo assolvere: dipende
dai punti di vista.
Vincenzo del Carretto, arciprete, ma soprattutto “balio e
tutore” dell’illustre conte, deve vedersela con le procedure della successione
comitale, e non è agevole. Soprattutto sono esborsi cospicui da approntare.
Vincenzo del Carretto, non ne ha voglia o possibilità. Tergiversa. I processi
di investitura mostrano una sfilza di rinvii a richiesta appunto di codesto
strano arciprete. Una proroga è del 2 maggio 1609; un’altra del 2 giugno;
un’altra del 26 giugno; un’altra del 28 luglio; un’altra del 2 settembre 1609.
Ma a questo punto subentra l’abile e potente Giovanni di Ventimiglia marchese
di Gerace e principe di Castelbuono. Il vecchio patrizio risiede - come la
migliore nobiltà - a Palermo, vigile sulla corte viceregia. Ha potere e lo
dispiega per altre proroghe a favore del suo nuovo protetto, il nostro Girolamo
II del Carretto.
L’arcigno marchese di Geraci era stato il padrino di battesimo
del piccolo Girolamo. Abbiamo l’atto battesimale della chiesa parrocchiale di
San Giovanni dei Tartari in Palermo:
Die 28 octobris XI ind. 1597
Ba: lo ill.ri et molto Rev.do don Francisco Bisso v.g. lo
figlio delli ill.mi SS.ri D. Gioanne et donna Margarita del Carretto et Aragona
conti et constissa di Racalmuto jug: nomine Geronimo; lo compare lo ill.mo et
excellentissimo don Giovanni Vintimiglia, la commare la ill.ma et ex.ma donna
Dorothea Vintimiglia et Branciforti.
Il marchese va oltre: fidanza la figlia Beatrice con il suo
pupillo. Sono due bambini, ma l’impegno matrimoniale è inderogabile.
Girolamo II ha meno di tredici anni; la sua futura sposa ha
appena dieci anni (nacque nel 1600 a credere ai dati anagrafici contenuti nel
noto cartiglio del sarcofago del Carmine). Il matrimonio avverrà comunque
attorno al 1616, quando il giovane conte era quasi ventenne e la
splendida Beatrice Ventimiglia sedicenne (nell’atto di donazione di
Girolamo II del 1621, la primogenita è appena di 4 anni - Dorothea aetatis
annorum quatuor incirca).
Don Vincenzo del Carretto ebbe comunque modo di interessarsi
alla scottante questione del terraggio e del terraggiolo. Se ne è parlato
sopra: vi ritorniamo per la rilevanza di quei gravami feudali. Nel 1609,
l’arciprete pensa che una trasformazione del tributo comitale da annuale e
circoscritto ai coltivatori di terre nello stato e fuori dello stato di
Racalmuto in una rendita perpetua di un capitale costituita da un’imposizione
generalizzata su tutti gli abitanti, possa finalmente dirimere e chiudere le
annose controversie. Pensa ad un’imposta straordinaria di 34.000 scudi che al
saggio allora corrente del 7% potevano fruttare 2.380 scudi, sicuramente
molto di più di quel che rendeva l’invisa tassazione tradizionale.
Non sappiamo se l’idea fosse buona o iniqua; sappiamo però
che fu un fallimento. Sembra che vi sia stata una fuga di vassalli (soprattutto
mastri e gente che non aveva terra da coltivare); gli abitati feudali vicini
(Grotte, in testa) furono ben lieti di raccogliere quei profughi che non
vollero essere tartassati. Anziché l’imposizione dell’intero capitale, si tentò
allora di ripartire i soli frutti pari a 2.380 scudi ma annualmente. Anche
questa via fallì. Nel 1613, il vigile tutore e futuro suocero di Girolamo II
pensò bene di ritornare all’antico, ai patti stipulati nel 1580, di cui abbiamo
già detto. Altro che frate Evodio o Odio che dir si voglia; altro che
insinuazioni sacrileghe alla Sciascia. Ci ripetiamo, ma è pagina di storia, di
microstoria se si vuole, che va riproposta con il debito rispetto della verità,
senza un anticlericale spumeggiare.
In una memoria del 1738 [8], quando lo stato di Racalmuto era stato
arraffato dai duchi di Valverde, i Caetani, la vicenda del terraggio e del
terraggiolo racalmutese ci pare molto bene inquadrata.
Ancora nel 1738 i possessori dello stato di Racalmuto
avevano il diritto di esigere dai vassalli, che coltivavano terre fuori del
territorio, il terraggiolo nella misura di due salme per ogni salma di terra
coltivata, sia che si trattasse di secolari sia che si trattasse di
ecclesiastici. Il diritto si originava dalla transazione del 1580 intercorsa
tra il conte ed il popolo. Era stata una transazione che aveva dimezzato la
misura del terraggiolo (da quattro a due salme di frumento per ogni salma di
terra coltivata).
Nel 1609 c’era stata la riforma che abbiamo prima
specificata. Ma poiché fuggirono da Racalmuto oltre 700 famiglie, nel 1613 si
ritenne di tornare all’antico.
La questione si risolleva nel 1716, quando D. Luigi Gaetano
sanzionò la ridotta misura di due salme per salma relativamente al terraggiolo.
Vi fu un ricorso presso la Magna Curia datato 23 settembre
1716. Il fatto era che il Monastero di San Martino pretendeva l’esonero dal
terraggiolo per i racalmutesi che andavano a coltivare i feudi benedettini di
Milocca, Cimicìa e Aquilia. Ma questa è faccenda che esula dai limiti di questo
studio. In calce il documento in latino per l’eventuale curioso.
Il 1613 è dunque data importante per la storia del
terraggiolo (e terraggio) di Racalmuto; quasi contemporaneamente (nel 1614) il
giovanissimo conte Girolamo II concordava con l’agostiniano di S. Adriano, fra
Evodio, la fondazione del convento di San Giuliano. Due vicende distinte e
separate: non relazionabili. Una era di natura fiscale, un bene accolto ritorno
all’antico; l’altra aveva un profondo significato religioso, era un segno della
pia devozione del giovane conte, sorgeva un cenobio tanto a cuore dei
racalmutesi sino alla sua estinzione verso la fine del Settecento: gli
agostiniani furono confessori di fiducia di tanti peccatori incalliti che non
mancarono certo a Racalmuto.
Le note sciasciane stridono con siffatte vicende che una sia
pur superficiale lettura dei documenti rende incontrovertibili.
Un anno prima della morte di Girolamo II del Carretto, nasce
fra Diego la Matina. Era il 1621 (e non il 1622, come vorrebbe Sciascia e come
disinvoltamente si continua a scrivere).
Trattasi del povero fraticello dell’ordine centerupino dei
sedicenti riformati di S. Agostino. Ebbe la sventura di finire in un
convento che già nel 1667 ([9]) si tentava di scardinare, almeno in
quel di Racalmuto, per disposizione vescovile. Visse da brigante ma finì sul
rogo a S.Erasmo in Palermo per un atto inconsulto di rabbia omicida. Morì con
ignominia, ma da tre secoli e mezzo non trova più pace, oggetto di
mistificazioni, magari letterariamente sublimi, ma sempre mistificazioni.
Lo si dice di Racalmuto, sol perché di sfuggita tale lo
indica il suo accusatore inquisitoriale. Gli si attribuisce un atto di
battesimo rinvenuto nei registri dell’Archivio della locale Matrice, ma per una
imperdonabile svista lo si fa nascere un anno dopo: nel 1622 anziché nel 1621
(ovviamente per scarsa consuetudine con le datazioni indizionarie, ché
diversamente si sarebbe saputo che la chiara indicazione della quarta indizione
corrispondeva appunto al 1621). E dire che in tal modo tornava l’età di 35 anni
assegnata al La Matina dal Matranga per il tragico anno della fine
raccapricciante del frate, avvenuta nel 1656. Ma lungi da noi il sospetto che
in tal modo Sciascia non avrebbe potuto irridere ai vezzi astrologici del Padre
Matranga ([10]).
Lo si vuole ad ogni costo di ‘tenace concetto’ in materia di
fede per farne un martire del pensiero e si trascura quanto l’inquisitore
Matranga dice circa i vagabondaggi e le sortite ladronesche del monaco
agostiniano: scrive da cane il frate della Santa Inquisizione - si dice - ma se
deve definire il valore dell’eretico frate racalmutese “la penna gli si affina,
gli si fa precisa ed efficace”. E così a Racalmuto è ora ‘fino’ attribuire a
qualcuno - a proposito e non - quella locuzione matranghesca.
Si deve credere all’Inquisitore quando si arrabatta nel
retorico addebito al frate di colpe dello spirito (bestemmiatore ereticale,
dispreggiatore delle Sagre Imagini, e de’ Sagramenti .. superstizioso ...
empio ... sacrilego .. eretico non solo, e Dommatista, ma di sfacciatissime
innumerabili eresie svirgognato, e perfido difensore). Non è invece più
consentito dargli ascolto quando accenna alle tendenze di fra Diego a vivere da
‘fuoriscito, e scorridore di campagna, in abito secolaresco’ tanto da finire
nella maglie della giustizia ‘laicale’. Ora il nostro grande Sciascia ama
fare lo ‘sprovveduto’ e risponde di no al quesito: «se nell’anno 1644, in
Sicilia, un individuo pervenuto al secondo degli ordini maggiori ma dedito a
scorrere le campagne in abito secolaresco, dedito cioè ai furti e alle
grassazioni, potesse invocare, una volta catturato dalla giustizia ordinaria,
il foro del Sant’Uffizio; o dalla giustizia ordinaria essere rimesso al
Sant’Uffizio come a foro a lui competente; o dal Sant’Uffizio, per uguale
considerazione, essere sottratto alla giustizia ordinaria.»
Di questi tempi bazzichiamo l’archivio segreto del Vaticano
alla ricerca delle notizie sul vescovo spagnolo di Agrigento Horozco
Cavarruvias y Leyva, finito all’indice nel 1602 per avere scritto un’operetta
in latino, ove malaccortamente il presule si era sbilanciato ai fogli dal
119 al 230 «in diverse figure et proposizioni» risultate indigeste alla potente
e prepotente famiglia dei del Porto del capoluogo agrigentino. ([11]) Da un contesto di canonici libertini
e concubini, maneggioni e corrotti, affiora la figura di un canonico cantore e
dottore, imposto dalla curia papale per l’esercizio della giustizia della
lontana diocesi di Sicilia. Non è personaggio gradevole, ma della giustizia del
suo tempo - che è poi tanto prossimo a quello messo sotto accusa da Sciascia -
doveva pure intendersene. Dalle sue ruffianesche relazioni alla Congregazione
sopra i vescovi ci va di stralciare questo illuminante passo: «Nella Diocese,
che è molto grande, vi sono molti chierici, e molti di essi si sono ordenati
per godere il foro ecclesiastico, già che alcuni hanno chi trenta e chi
quaranta anni e chi più, et hanno il modo ed habilità per ordenarsi, e tutta
volta non si ordinano, e quel che è peggio ogni dì ci fanno incontrare con li
superiori temporali e laici per defenderli delli errori che commettono e
disordini che fanno, vorrei sapere se conviene à costoro assegnarci un tempo
conveniente acciò si ordinino, e, non lo facendo, dechiararli non essere più
del foro ecclesiastico che sarebbe liberarsi da molti inconvenienti.» ([12]).
Alla luce di queste considerazioni coeve, ci pare che al
quesito posto da Leonardo Sciascia sembra doversi dare una risposta del tutto
opposta a quella data dallo scrittore.
Un contemporaneo ebbe, pure, ad interessarsi di fra Diego,
il dottor Auria di Palermo nei suoi notissimi diari di Palermo. Sciascia lo
segnala «come uomo talmente intrigato al Sant’Uffizio, e così ben visto dagli
inquisitori, che era riuscito a far diventare eresia l’affermazione che il
beato Agostino Novello fosse nato a Termini». Quel dottore acquista, però,
tutta intera la fiducia quando ci vuol far credere che il frate di Racalmuto
sia finito nel 1647 (a ventisei anni) tra le grinfie dell’Inquisizione
essendogli stato trovato nelle “sacchette” “un libro scritto di sua mano con
molti spropositi ereticali”. Ma di un tal crimine - veramente grave per
l’Inquisizione - l’accusatore Matranga tace. Per Sciascia, l’accorto
Inquisitore avrebbe taciuto «ché sarebbe apparso strano il fatto che un “ladro
di passo” avesse scritto un libro». E dire che gli sarebbe tornato tanto
comodo, potendo, per di più, evitare l’imbarazzo di doversi arrampicare per gli
specchi al fine di conclamare la competenza del Sant’Ufficio.
Lo scrittore di Racalmuto cercò quel libro per tutta la
vita: non ebbe fortuna. «Volentieri - scrisse con tocco blasfemo - [si sarebbe
dato] al diavolo con una polisa, avesse potuto avere quel libro che fra Diego
scrisse di sua mano con mille spropositi ereticali, ma senza discorso e pieno
di mille ignoranze». Credette che «gli atti del processo, e il libro scritto di
sua mano agli atti alligato come corpus delicti, si consumarono tra le fiamme,
nel cortile interno dello Steri, il Venerdì 27 giugno del 1783».
Molto più semplicemente, invece, se un libro eretico fosse
stato rinvenuto, sarebbe stato bruciato con tanto d’intervento della Sacra
Congregazione dell’Indice. Ma Diego La Matina - erculeo, sanguigno, ‘ladro di
passo’, appena ventiseienne - non pare tipo da scrivere libri. Arriva al
secondo degli ordini maggiori, il diaconato: è quindi ad un passo dal
sacerdozio che, tra messe e prebende, era all’epoca anche un invidiabile
traguardo economico. Non procede, però: si ferma ed a ventitré anni si dà alla
macchia da ‘fuoriuscito’ e diviene ‘scorridor di campagna, in abito
secolaresco’. Sembrerà un’amenità, ma non lo è: la fuga dal convento di S.
Giuliano per l’avventura palermitana sarà stata una fuga dallo scarso cibo del
convento (e dalla dura disciplina) con cui il gigantesco giovanottone, tutto
appetito (in ogni senso) e scarso cervello (non è in grado di approdare al
terzo ordine maggiore), non riesce a convivere. Per rendersene conto, basta
scorrere la rigida regola degli agostiniani del tempo.
Allora, essere sorpresi a “scorridar campagne” non era una
bazzecola. Sempre in Vaticano, tra gli atti del processo di beatificazione del
contemporaneo p. Lanuza, gesuita, si rinviene la descrizione di un evento che
si attaglia al caso nostro.
Alcuni compagni di religione del padre La Nuza, dagli
altisonanti nomi aristocratici, battevano le campagne dell’Alcantara, in
Messina, per loro cosiddette Missioni che erano poi qualcosa di molto simile
alle nostre predicazioni del mese mariano. Si imbatterono in briganti di passo,
alla fin fine benevoli con loro, a riverbero della fama di santità del celebre
padre La Nuza. Presero, sì, qualcosa, ma i padri, in cambio di una solenne
promessa di non sporgere denuncia alcuna, ebbero salva la vita. I gesuiti non
mantennero la promessa. Appena incontrati i militari di pattuglia, rivelarono
la loro avventura. La caccia all’uomo fu immediata e proficua. I ‘ladri di
passo’ ebbero subito segnata la loro sorte: furono senza indugio giustiziati
sul posto. ([13])
Il latrocinio di passo era crimine da condanna a morte. E
tale rimase anche ai primi dell’ottocento, sotto i Borboni, ad Inquisizione
cessata, pur dopo lo scioglimento del Sant’Uffizio da parte del conclamato
Marchese Caracciolo. Negli archivi della Matrice di Racalmuto leggesi un atto
di morte di un brigante datosi alla macchia (così ce lo accredita Eugenio
Napoleone Messana) che desta tuttora grande raccapriccio: era il 23 novembre
1811 ed il ‘miserandus’ - un uomo di 42 anni - «susceptis sacramentis
penitentiae et viatici, necato capite multatus a Tribunali nostrae regiae
Curiae Criminalis, animam in patibulo expiravit, in medio plateae et resecatis
capite et manibus: corpus per me D. Paulo Tirone sepultum [fuit] in ecclesia
Matricis, in fovea Communi», come a dire che il “povero disgraziato, confessato
e ricevuto il Viatico, dopo essere stato condannato alla decapitazione dal
Tribunale penale della nostra regia Curia, spirò sul patibolo in mezzo alla
piazza, avendo avuto tagliate testa e mani: il suo corpo, con l’accompagnamento
di me Sac. D. Paolo Tirone, fu seppellito in Matrice, nella fossa comune.” ([14])
Il Matranga sostiene che il frate di Racalmuto aprì i suoi conti
con la giustizia, non certo, per questioni ideali, per eresia o per le sue
idee, ma solo perché datosi al brigantaggio in abiti secolari, pur essendo già
un diacono. A prenderlo fu la Corte Laicale che ebbe a passarlo, per lo stato
religioso del monaco, al Tribunale del Santo Ufficio. Non abbiamo elementi per
non credere al Matranga. Anzi, la vicenda appare del tutto plausibile. Fu
dunque una fortuna per fra Diego La Matina potersi avvalere del Tribunale
dell’Inquisizione, diversamente i suoi giorni li avrebbe finiti subito, a 23
anni, nel 1644. I crimini commessi sono per l’accusatore P. Girolamo Matranga
fatti delittuosi ascrivibili alla ‘crudeltà’ del frate agostiniano (giudizio
che lo si rigiri come meglio aggrada, resta sempre di censura morale) e a
’libertà di coscienza’, locuzione oggi adoperata più per esaltare che per
condannare. E Sciascia vi si appiglia per la glorificazione di quel tipo di
reo. Nel linguaggio del tempo, quel modo di dire alludeva, però, solo alla
sfrenatezza dei costumi, a non avere coscienza morale, o ad averla sfrenata,
libertina.
«Siamo convinti, - scrive Sciascia, nella “Morte
dell’Inquisitore” op. cit. pag. 222 - convintissimi, che nel giro di
quattordici anni il Sant’Ufficio poteva ben riuscire a fare di uomo
religioso, che dentro la religione in cui viveva mostrava qualche segno di
libertà di coscienza (l’espressione è del Matranga) un uomo assolutamente
religioso, radicalmente ateo». Lo snaturamento del pensiero del Matranga è fin
troppo scoperto. L’intento polemico e l’idea preconcetta giocano un brutto
scherzo allo scrittore, peraltro sempre molto circospetto. Il Tribunale
dell’Inquisizione era non migliore degli altri organi di giustizia dell’epoca,
ma neppure peggiore se si faceva a gara nell’invocarne la competenza per
sfuggire alle corti laicali. Si leggano le pagine del Di Giovanni in “Palermo
Restaurato” così lapidarie nel descrivere le manfrine del conte di Racalmuto
Giovanni del Carretto per sottrarsi alle grinfie del Viceré, conte
d’Albadalista, e darsi in pasto all’Inquisizione. La fece franca da un
irridente assassinio. [15]
E la misera storia di fra Diego si chiude con un omicidio:
del suo aguzzino, si dirà, ma sempre uccisione era. Una tragica legge del
taglione venne applicata. Stigmatizziamo pure quell’esecuzione capitale, ma
parlare di martirio, è blasfemo.
La mamma di fra Diego non ebbe motivo di scagliarsi contro
la chiesa. Era una terziaria francescana, intrisa di tanta pietà cristiana.
Morì, assistita dai frati racalmutesi, con esemplare forza d’animo e tanto
attaccamento al Cristo, senza alcuna voglia di ribellismo eretico. Pianse, sì,
il figlio, ma lo pianse come un infelice peccatore, giammai come un eroico
martire, dal “tenace concetto”. L’archivio della Matrice è pieno di
testimonianze al riguardo. Andava opportunamente consultato. Ma era lettura
ostica.
Riandando indietro nel tempo, un antenato di fra Diego La
Matina fu Vincenzo Randazzo, un giurato racalmutese che ebbe parte di rilievo
nelle tassazioni del 1577; nell’adunata presso l’«ecclesiola della Nunziata»
pare addirittura farla da presidente del consiglio popolare. Viene indicato con
il titolo di Magnifico, ma è plebeo, forse appartenente alla piccola borghesia
agricola, un “burgisi” come si direbbe oggi. La madre di Diego La Matina era
una Randazzo, famiglia questa genuinamente racalmutese. Il padre di Diego La
Matina, Vincenzo, era invece figlio di un oriundo da Pietraperzia.
Tralascio l’irrisolta questione della vera identità di fra
Diego La Matina. Non è per nulla poi certo che corrisponda al condannato a
morte il Diego La Matina battezzato da don Paolino d’Asaro il 15 marzo 1621 in
base a quest’atto che va correttamente letto:
Eodem [nello stesso giorno del 15 marzo 1621 quarta
indizione] DIECHO f.[figlio] di Vinc.° [Vincenzo] et Fran.ca [Francesca] La
matina di Gasparo giug. [giugali o coniugati] fui ba—tto [battezzato] per il
sud.^ [suddetto e cioè don Paolino d’Asaro] p./ni [patrini] iac.° [ illeggibile
secondo Sciascia, ma in effetti Jacopo o Giacomo] Sferrazza et Giov.a
[Giovanna] di Ger.do [Gerlando] di Gueli.
Sovverte ogni consolidata credenza sul frate dal tenace
concetto la presenza a Racalmuto nel 1664 (anno a cui risale la seconda delle
numerazioni delle anime della parrocchia della Matrice che ci sono state
tramandate) - e cioè a sei anni di distanza dell’esecuzione
dell’agostiniano fra Diego - di tal clerico Diego La Matina che ha tutta
l’aria di essere lo stesso che era stato battezzato nel 1621.
In definitiva, la vicenda emblematica di Fra Diego La Matina
ci appare un fervido parto letterario del pur grande Leonardo Sciascia. Lo
scrittore diede enfasi alle dubbie affermazioni di un cronista secentesco e
prese alla lettera accuse palesemente rigonfiate. Un Fra Diego La Matina autore
di libelli eretici è ipotesi infondata e comunque non potuta documentare dallo
Sciascia. A noi risulta, invece, - come si è detto - che un chierico di
tal nome dimorasse nel 1660 e rigorosamente assolvesse al precetto pasquale. Il
dato della più antica ‘Numerazione delle Anime’ che gli Archivi Parrocchiali
della Matrice hanno tramandato sino a noi, è sconcertante: va indagato. Forse
non si riferisce al frate giustiziato a Palermo, ma un ragionevole dubbio lo
inculca. Per nulla al mondo stipuleremmo una polisa con il diavolo per
risolvere un tale rebus; porteremmo tanti ceri per convenire con Sciascia sulla
nobile eresia di fra Diego; temiamo purtroppo che Sciascia abbia irrimediabilmente
travisato i fatti della veridica storia del turbolento fraticello di Racalmuto.
Assistito dal notaio racalmutese Angelo Castrogiovanni,
Girolamo II del Carretto si produce in uno strano atto di donazione ai suoi
figli della contea di Racalmuto e di tutti gli altri beni che possiede. E’ il 4
luglio del 1621. Non ha ancora raggiunto i ventiquattro anni. Nomina la moglie
“governatrice”. Il fratellastro don Vincenzo del Carretto ha un ruolo
preminente come esecutore delle volontà del conte, ma non appare beneficiario
di alcunché. Cosa mai sarà successo? Forse è stato un trucco per aggirare le
imposte spagnole, sempre lì in agguato. Forse sentiva alito di morte sulla
nuca.
L’atto viene nascosto dai gesuiti di Naro. Mistero, anche
qui. Resta un fatto provvidenziale: quando, l’anno successivo, un servo spara
al giovane conte una schioppettata - se concediamo fede totale alla
trascrizione settecentesca del cartiglio che si conserva (o si conservava?) nel
sarcofago del Carmine - quell’atto di donazione universale torna molto
acconcio. Il figlioletto Giovanni può assurgere a conte incontrastato come
quinto con tal nome. La sorella - Dorotea - ha beni sufficienti per aspirare ad
un matrimonio altamente prestigioso. I due fratellini, carucci e distinti,
vengono ritratti dal pennello di Pietro d’Asaro nel bel quadro della «Madonna
della Catena» (le pretenziose note [16] di coloro che vi scorgono i ritratti
di Maria Branciforti e di Girolamo III del Carretto, quando sarebbero stati
“promessi sposi”, sono davvero inverosimili.)
Quel sotterfugio della consegna dell’atto di donazione ai
gesuiti di Naro - quale si coglie nella varia documentazione disponibile -
resta in ogni caso inspiegabile visto che il 27 luglio del 1621 il rogito era
stato insinuato nella conservatoria notarile della Curia Giurazia di Racalmuto
sotto tutela del notaio Grillo. Un tocco di mistero in più.
Il 2 aprile del 1619 era frattanto nato il primogenito
destinato alla successione nella contea.
Nel cartiglio del Carmine il conte Girolamo II è dato per
ucciso da un servo sotto la data del 6 maggio del 1622. Stranamente, alla
Matrice, il suo atto di morte suona così:
[Dal Libro dei morti del 1614. Alla colonna n.° 83, n.°
d’ordine 17 è annotato:]
Die 2 dicto (maggio 1622), il ill.mo d. Ger.mo del Carretto
fu morto et sepp.to in ecc.a S.ti Fra.sci per lo clero.
Ecco un ulteriore elemento d’incertezza che si aggiunge al
quadro tutt’altro che chiaro delle vicende feudali racalmutesi di questo conte
ucciso a soli venticinque anni.
A Racalmuto, nella cura delle anime, allo Sconduto era
succeduto il sac. dott. Giuseppe Cicio che dopo un quinquennio cessò i suoi
giorni terreni (+ 6 novembre 1636). Il successore nell’arcipretura, D. Antonino
Molinaro (28 febbraio 1637) dura ancor meno. Subito dopo muore don Santo
d’Agrò (+ 22 luglio 1637) cui infondatamente Tinebra Martorana, Sciascia e
qualche altro ricercatore ancor oggi vogliono assegnare il merito della moderna
Matrice sub titulo S. Mariae Annunciationis.
Il Vescovo Traina, frattanto, seduto sulla sponda del fiume
aspetta il momento della sua vendetta. Finalmente può arraffare l’arcipretura
di Racalmuto, vi manda un suo parente da Cammarata: è anche per quei tempi un
giovanotto e risulterà di scarso discernimento. Si chiama Traina come lui, di
nome Tommaso. Vanta un dottorato, chissà se effettivo. Ha solo 24 anni. Lo
segue una caterva di parenti. Molti sono religiosi e qualcuno finirà la sua
vita terrena a Racalmuto come don Filippo Traina (+ dopo il 1643); altri, i
più, finita la pacchia veleggeranno verso altri lidi, come Giuseppe e Michele
Traina. Particolare menzione merita codesto don Giuseppe Traina che nel 1639
figura come economo della Matrice, incarico che ricopre nel 1645; nel settembre
del 1652 viene indicato come pro-arciprete. Era stato nel frattempo costruito
il convento di Santa Chiara con il lascito di donna Aldonza del Carretto, che
vi aveva destinato taluni pretesi diritti di mora per mancata corresponsione
del “paragio” da parte del fratello Giovanni IV e dei suoi eredi Girolamo II,
prima; e Giovanni V, dopo.
Don Giuseppe Traina, pronubi l’arciprete ed il vescovo,
diviene l’esoso cappellano e confessore di quelle pie monache. Nei libri
contabili, reperibili presso l’archivio di Stato di Agrigento, v’è quasi un
pianto per le continue erogazioni che il convento è costretto a subire in
favore di questo prete venuto dai monti di Cammarata.
Varrebbe la pena spulciare le varie note spese che appaiono
nei libri contabili dell’archivio di Stato di Agrigento, presentate dal Traina
al Convento per l’immediata liquidazione, pronto cassa; ma non è questa la sede
per siffatte ricerche di sapore ragionieristico.
Il giovane arciprete Tommaso Traina s’impania nella
transazione con gli eredi di don Santo d’Agrò: sobillatore ci appare
l’esecutore testamentario, don Dn. Franciscus Sferrazza, dichiaratosi
Legatarius dicti quondam Dn. Sancti de Agrò. Che cosa abbia disposto in
favore della Matrice don Santo d’Agrò, non mi è ancora dato di sapere, non
essendo stato rinvenuto il suo testamento, nonostante le tante ricerche.
Disposizioni in favore della sua tumulazione nella chiesa madre - che in quel
tempo risulta allargata dagli altari centrali a quelli laterali, entrambi i
primi a sinistra ed a destra dell’attuale edificio - non dovevano mancare, ma
dovevano essere ambigue ed indecifrabili. Familiari diretti del defunto,
sacerdote, l’esecutore del testamento ed il giovane arciprete addivengono ad
una transazione, come da rogito notarile. Il rogito cadde sotto l’attenzione di
Tinebra Martorana, procuratogli pare - guarda caso - da tal signor Salvatore
Sferlazza. Come da quel magari incerto latino notarile, il Tinebra abbia potuto
raffazzonare quel po’ po’ di fandonie che leggiamo a pag. 143 delle sue
Memorie è arcano che non manca di sorprenderci. A dire il vero l’alumbriamento
più che nel casto sacerdote Santo d’Agrò sembra doversi cogliere nei nostrani
scrittori, passati e presenti.
Tralasciamo qui di scrivere su Pietro d’Asaro, su Marco
Antonio Alaimo - che pure qualche attinenza, non foss’altro d’indole temporale,
con il Traina ce l’hanno - perché divagheremmo troppo, esulando appieno dai
limiti del presente lavoro, volto alla ricostruzione della storia dei del
Carretto di Racalmuto. Non mancherà tempo per restituire a Pietro d’Asaro
quello che è di Pietro d’Asaro e togliere a Marco Antonio Alaimo quello che una
secolare letteratura agiografica ha su di lui profuso in superfetazioni.
Il 30 agosto L’arciprete Traina muore a soli 35 anni. Gli
atti della Matrice segnano:
30/8/1648 Traijna Thomaso, arciprete, sepolto in Matrice,
gratis;
ed il cappellano detentore dei libri annota:
Il d.re D. Thomaso Traijna Sacerdote et Arciprete di. questa
Terra di Racalmuto d’età' d'anni 35 et mese cinque si morse et fu sepellito in
questa Matrice chiesa di detta terra. Gratis
Ove giaccia in Matrice, si è persa la memoria.
Il 4 ottobre 1651, il vescovo Traina, dopo tante peripezie,
fra le quali una fuga notte tempo a Naro, cessa di vivere. Nella macabra
cappella funeraria della Cattedrale fece incidere, in orripilanti caratteri bronzei,
peracri ecclesiasticae libertatis studio administravit. Chiamò libertà della
chiesa il suo pervicace attaccamento alle cose di questo mondo, come la
giurisdizione sui racalmutesi. Anche da morto non si smentì. Denis Mack Smith,
un protestante, non si esime, a distanza di secoli, dal punzecchiarlo nella sua
Storia della Sicilia.
Al Traina, frattanto, era subentrato nell’arcipretura don
Pompilio Sammaritano, un semplice dottore in teologia.
Porta con sé un parente sacerdote, don Pietro. Lo nomina
subito suo cappellano ed il racalmutese p. Antonino Morreale viene giubilato e
deve emigrare. Lo segue uno stretto parente, forse un fratello, un tal
Francesco Samaritano sposato con Gerlanda e con una figlia, come ci tramanda il
primo censimento di Racalmuto conservato in Matrice. Già nel 1649, il
nuovo arciprete risulta dai registri della Matrice già in opera. Nel 1660 è
felicemente insediato in paese, ove ha messo su casa servito da “un famulo” di
nome Giuseppe ed una fantesca chiamata Lizzitella. (il solito censimento è
impertinente). Durante la sua arcipretura piombarono a Racalmuto la moglie ed i
figli dell’infelice Giovanni V del Carretto.
La contessa ha i suoi guai: deve risolvere i problemi del
recupero dei beni feudali che sono stati requisiti dal re per l’alto tradimento
del marito. Vi riuscirà. I fondi Palagonia contengono, come si è detto, gli
atti di questa avvincente vertenza feudale. Il dottore in teologia è prodigo di
consigli e sa essere di supporto morale.
Frattanto giunge ad Agrigento il nuovo vescovo Ferdinandus
Sanchez de Cuellar. Il 28 novembre 1654 visita Racalmuto e subito mette in mora
l’arciprete per il latitare dei lavori della fabbrica della chiesa della
Matrice. Il giorno dopo si apre la contabilità dei lavori edili, il cui
pregevole rollo si conserva in Matrice: LIBRO D'INTROITO ED ESITO di denari per
conto della fabrica della Matrice Chiesa di Racalmuto incominciando dalli 29 di
novembre 8a Ind. 1654, reca in esordio per la penna di don Lucio
Sferrazza. Il depositario è il dott. don Salvatore Petruzzella, futuro
arciprete. I primi soldi, cioè le prime 12 onze, sono dal vescovo. Ma è un modo
di dire: si tratta delle feroci molte comminate dal vescovo in corso di visita.
E pensare che sotto il vescovo Traina le autorità diocesane avevano latitato. A
noi fa un certo senso leggere:
Dall'Ill.mo et rev.mo Monsignor frà Ferdinando Sancèz de
Cuellar Vescovo di Girgenti hò ricevuto per mano di D. Alonso de Merlo suo
mastro notaro onze dudici quali d.o Ill.mo Signore ha dato d'elemosina alla
fabrica di d.a matrice chiesa dalle .. pene esatte in discorso di visita in
Racalmuto d. ........ onze -/ 12.
La pia contessa, vedova sconsolata, è la più munifica nel
contribuire alle spese per la costruzione della Matrice: oltre 100 onze. Ma
essa è la nuova contessa di Racalmuto, a titolo personale: il figlio Girolamo
III riacquisterà la contea il 28 ottobre 1654, ma ne avrà il diploma solo il 5
novembre 1655, previo pagamento di 200 onze e 29 tarì.
La posa in opera delle colonne della Matrice - quelle di cui
si parlava nella transazione con gli eredi di don Santo Agrò del 1642 - avverrà
nel marzo del 1655. L’iter dei lavori è seguito passo passo e studenti di
architettura potrebbero utilizzare i rolli della “Fabrica” per avvincenti tesi
sulle chiese del Seicento siciliano, quelle minori dell’entroterra contadino,
come Racalmuto.
Il Samaritamo muore il 6 gennaio 1664 a 66 anni. Gli atti
della Matrice riportano:
1664 SAMMARITANO Pompilio
ARCHIPRESBITER 66
huius
matricis Ecclesie
Viene sepolto in Matrice, presente clero. Aveva avuto
l’estrema unzione da P. Antonio ord. S. Marie Carmeli.
Gli succede don Salvatore Petruzzella, finalmente un
racalmutese; ma vive poco: muore il 29 maggio 1666. Non ha il tempo per
lasciare tracce durevoli del suo apostolato.
E’ ora la volta dell’altro arciprete racalmutese: il dott.
sac. Vincenzo Lo Brutto e costui di tempo ce ne ha per lasciare un segno
profondo, al di là della lapide funerea che ancora è visibile nella cappella
centrale della navata laterale di sinistra (per chi entra) della Matrice. Vanta
un elmo chiomato, come se fosse stato un nobile milite: debolezza del nipote
che quella tomba volle.
Il vescovo agrigentino Sanchez - si pensi quale ofelimità
potesse legare uno spagnolo all’amaro vivere contadino di Racalmuto - regge la
diocesi dal 26 maggio 1653 sino alla sua morte (+ 4 gennaio 1657). Subentra
Franciscus Gisulpfus (Gisulfo) - dal 30 settembre 1658 sino alla morte (17
dicembre 1664); e poi Ignatius Amico ( 15 dicembre 1666 - + 15 dicembre 1668);
Franciscus Ioseph Crespos de Escobar (e ci risiamo con gli spagnoli) - 2 maggio
1672, + 17 maggio 1674. Finalmente un buon vescovo per una cattedra durata
vent’anni: Franciscus Maria Rini (Rhini) - 10 ottobre 1676, + 14 agosto 1696.
Chiude il secolo un vescovo nefasto: 26 agosto 1697 - + 27 agosto 1715 (fuori
Agrigento, essendone stato espulso dalle autorità civili per il suo
atteggiamento provocatorio scaturente dalla nota questione liparitana). Su tale
controversia ebbe a scrivere Sciascia. Il valore storico di quel pezzo teatrale
fu denegato da Santi Correnti: comunque, oltre al valore - indubbio - sotto il
profilo letterario, il testo sciasciano ci immerge nel clima politico e
sociale, ma anche religioso e morale di quel tempo. Fu davvero una iattura il
vezzo di preti e religiosi ruffianeggianti con Roma che negavano il sacramento
della confessione ai moribondi, sol perché operava un interdetto dovuto
all’incauto comportamento di alcuni catapani che avevano tentato di
applicare l’imposta di consumo ad un munnieddu di ceci o di fagioli - non
si è capito bene - del vescovo di Lipari (nominato, pare, al solo scopo di
provocare un incidente per consentire al Papa di rimangiarsi la medievale
concessione della Legazia Apostolica).
Se, un moribondo - ossessionato dalla sola paura
dell’inferno per i suoi tremendi peccati - in stato di semplice attrizione,
dunque, avesse chiesto un confessore e non l’avesse avuto per l’interdetto dei
fagioli, era destinato alla dannazione eterna? Certa intelligenza della curia
agrigentina forse è in grado di dare una risposta. Ci serve per giudicare i
tanti, troppi, nostri antenati che tra il 1713 ed il 29 settembre 1728 morirono
in tale ambasce a Racalmuto (cfr. registro dei morti della Matrice).
Annotava il canonico Mongitore - tanto sgradito a Sciascia -
«a 13 agosto 1713. Il vescovo di Girgenti D. Francesco Ramirez, d’ordine del
pontefice, dichiarò scomunicati alcuni regi ministri, che concorsero al
sequestro delli beni del vescovo di Catania.» E soggiungeva: «a 13 settembre.
Partì da Palermo D. Isidoro Navarro, canonico della cattedrale, delegato della
Monarchia, per levar l’interdetto dalla città e diocesi di Girgenti. Entrò egli
non da ecclesiastico, ma da capitano; e armata mano levò il vicario generale il
padre Pietro Attardo, come pure altro vicario Giuseppe Maria Rini, che mandò
altrove carcerati. Mandò lettera circolare per la diocesi, che s’aprissero le
chiese e non s’ubbidisse a detti vicarii.» Le carte della Matrice ci svelano
che il clero racalmutese rimase ligio ai dettami del vescovo Ramirez e snobbò
il canonico-capitano di Palermo. Più abile l’arciprete del tempo - Fabrizio
Signorino - che in cambio di una bolla della crociata (anche con effetto
retroattivo) poteva consentire cristiana sepoltura in chiesa: per i non
abbienti, pazienza, l’ultima dimora era quella all’aperto a li fossi. Solo che
quelli erano tempi davvero calamitosi e tantissimi nostri antenati morirono con
la paura dell’al di là per un interdetto che non capivano ( e di cui non
avevano responsabilità alcuna) ed una sepoltura dissacrata dal vento, dal sole
e dai cani randagi.
Quelli che venivano sepolti in chiesa “gratis pro Deo”
godevano di particolari privilegi: ma gli altri - la gran parte come si è visto
- finivano sepolti all’aperto, anche se ‘prope ecclesiam’ (vicino, ma non
dentro); per di più i loro parenti erano talmente poveri da non potere dare
l’elemosina o il c.d. diritto di stola all’immalinconito cappellano che
accompagnava il feretro in quel derelitto cimitero incustodito. “gratis, pro
Deo”, la formula latina, che era comunque un parlare e scrivere poco ... latino
(nell’accezione sciasciana).
L’arciprete Lo Brutto fu in eccellenti rapporto col vescovo
Rini: si fece elevare a chiese “sacramentali” S.Anna, S. Michele Arcangelo, il
Monte. E’ consultabile la bolla di elevazione della chiesa di S. Anna in
chiesa “sacramentale”. Del tutto analoghe sono le altre, come quella:
Datis Agrigenti die 17 Junii 1686 - fr. Franciscus Maria Episcopus Agrigentinus
- Can Lumia Ass. - Vincentius Calafato M.r notarius.
Del pari fece autorizzare l’istituzione della speciale
congregazione dei Filippini a Racalmuto, di cui parla il padre Morreale, ed al
presente oggetto di studio da parte del prof. Giuseppe Nalbone. Costituisce la
Comunia e ne fa nominare i mansionari.
Contro la devastante peste del 1671 nulla poté fare il
povero arciprete racalmutese della fine del Seicento, se non annotare in bella
calligrafia la iattura capitata tra capo e collo; e fu iattura per tanti
versi: da quello economico a quello sociale; da quello dell’umano vivere a
quello del decomporsi morale e spirituale; per il clero con tanti fedeli in
meno e quindi tante primizie assottigliate, per l’arciprete stesso, il cui
gregge veniva drasticamente ridimensionato; per l’Universitas che non sapeva
dove andare a racimolare le onze occorrenti, essendosi assottigliata la tassa del
macinato per morte di un quarto della popolazione in un anno; per i suoi
giurati che rispondevano dei tributi alla Spagna con la clausola “solve et
repete”; per il neo conte Girolamo III del Carretto, salassato dal re per il
tradimento del padre Giovanni V del Carretto, dalla mala gestione dei
suoi antenati che non pagando i debiti di “paragio” erano finiti sotto la
mannaia delle condanne giudiziarie al pagamento degli arretrati e della
capitalizzazione degli interessi di mora relativi; ed in più una sortita
beffarda dell’uterina virago donna Aldonza del Carretto e delle sue similissime
sorelle, aveva finito con il dare in pasto allo spietato convento di S. Rosalia
di Palermo gran parte del patrimonio dei conti di Racalmuto (come abbiamo già
raccontato).
Girolamo III del Carretto, esasperato, si rivalse sui ricchi
preti di Racalmuto - su quelli poveri, che erano tanti, nulla poteva: a sua
chiamata finiscono sotto il torchio della giustizia palermitana.
Girolamo III del Carretto sembrò benevolo verso la locale
Chiesa quando fece venire i padri Benefratelli perché accudissero presso S.
Giovanni di Dio ai malati di Racalmuto e li dotò: ma a ben guardare si limitò
ad assegnare loro le vecchie rendite del vetusto ospedale racalmutese, la cui
memoria si perdeva nella notte dei tempi. Forse non si astenne dall’incamerare
alcuni lasciti che a suo avviso erano di dubbia origine.
Girolamo III aveva contratto matrimonio con una Lanza di
Mussomeli, di cui parla il Sorge nel suo studio su quella cittadina. Era una Lanza
decrepita per anni che riesce a partorire il figlio maschio Giuseppe, quello
che premuore al padre, ed una figlia femmina i cui discendenti dopo un secolo
consentono ai Requisenz di impossessarsi dell’ormai esausta contea di
Racalmuto.
Quanto fosse addolorato l’ancor possente marito non
sappiamo: di certo, passò subito a nuove nozze. Per il momento non sappiamo
fare altro che dare la parola al Villabianca per la prosecuzione della storia
di Girolamo e Giuseppe del Carretto:
GIROLAMO del CARRETTO e BRANCIFORTE, investito a 15. Agosto
1656, Fu questi Maestro del Campo nella guerra di Messina e sostenendo tale
carica prese il Casal di Soccorso, avendo difeso coraggiosamente SAMMICI da'
Colli di Valdina, ed impedì lo sbarco de' Franzesi presso Melazzo (c) [AURIA
Cron. f. 211], onde poi insieme fu eletto Vicario Generale nella Città di Noto,
di Girgenti, Licata e Caltagirone. Fu Pretore di Palermo nel 1682, Diputato di
questo Regno, e gentiluomo di camera del Ser.mo Rè Carlo II. pubblicato a 10.
Agosto 1688 (e) [AURIA Cron. f. 211]. Sposo nelle prime sue nozze MELCHIORRA
LANZA e MONCADA figlia di LORENZO C. di Sommatino, e poscia ebbe in moglie
COSTANZA di AMATO ed AGLIATA, figlia di ANTONIO P. di GALATI. Dal primo suo
letto coniugale venne alla luce GIUSEPPE del CARRETTO e LANZA.»
L’arciprete Lo Brutto morì il cinque febbraio del 1696.
Risale al 20 settembre 1699 una relatio ad limina del Vescovo di Agrigento (e
cioè una delle relazioni triennali che i vescovi erano tenuti a fare alla Sede
Apostolica dopo il Concilio di Trento sullo stato della propria diocesi). Là [17] troviamo un ampio ragguaglio sulla
vita religiosa di Racalmuto e val la pena di richiamarla consentendoci un
quadro di raffronto con quanto emerso dalla documentazione degli archivi
statali.
''RECALMUTUM - Cittadina (oppidum) di cinquemila abitanti
sotto la cura di un arciprete, la cui elezione ed istituzione sono da tanto
tempo di diritto comune. Costui ha per il proprio sostentamento quasi duecento
scudi. Nella chiesa maggiore si recitano quotidianamente le 'hore canonice' da
parte di sacerdoti vestiti con paramenti canonicali (Almutiis
insigniti). Vi sono cinque conventi di religiosi:
- dei Carmelitani, con tre sacerdoti e due laici;
- dei Minori Conventuali, con tre sacerdoti e un laico;
- dei Minori di Regolare Osservanza, con 4 sacerdoti e 3
laici;
- dei Riformati di S. Agostino con tre sacerdoti e due
laici;
- una casa addetta ad ospedale in cui stanno i frati di S.
Giovanni di Dio, al momento un sacerdote e due
laici.
Reputo qui di
rappresentare che questi religiosi, dopo avere accettato di accudire
all'ospedale, non hanno giammai pensato di rinunciare all'istituto ospedaliero,
e ne hanno percepito il reddito dell'ospedale. Ed essendo esenti dalla
giurisdizione del vescovo ordinario, non vi sono forze per costringerli a
rinunciare ai proventi o a lasciare i locali del convento.
Sorge un monastero di monache sotto la regola del terzo
ordine di San Francesco ove servono il Signore otto professe corali; due
novizie e 5 converse.
Oltre alla chiesa maggiore ed a quelle conventuali prima
segnalate, vi sono quindici chiese, con quarantasette sacerdoti e trentasei
laici.''
Sul vescovo Ramirez non è poca la letteratura - e noi ne
abbiamo fatto sopra vari riferimenti. Ma qualunque sia il giudizio su questo
presule, una sua pagina è profonda ed illuminante. Vi si scorgono le
scaturigini della mafia.
Bello, elegante, colto, raffinato, ricco, sprezzante -
quanto casto non è dato sapere - questo prete svetta sia nelle vicende della
famiglia sia in quelle della locale storia. Leonardo Sciascia, avvalendosi di
dati di seconda mano, tenta di infilzarlo, ma commette una delle sue solite
manipolazioni storiche per prevenzioni ideologiche. Il sac. Giuseppe Savatteri
ha coraggio, cultura e intraprendenza tali da osare un’impari contrapposizione
con il suo potente (e dispotico) vescovo agrigentino. Entra nell’intricata
storia del beneficio del Crocifisso.
Quando, il Tinebra Martorana - un famiglio della discutibile
consorteria dei Tulumello - si accinge, nel 1897, a scrivere la storia del
paese, non gli sembra vero di dilatare il senso di un documento giudiziario -
che invece di venire custodito negli archivi del Comune, sta fra le carte
private del barone Tulumello - per dileggiare un Savatteri, la famiglia ostile
ai suoi protettori, che fra l’altro lo facevano studiare da medico a spese
dell’Amministrazione comunale.
Quello sui cui il Tinebra trama è il carteggio del
Caracciolo su cui abbiamo già detto. Ripetiamo quello che riguarda il nostro
sacerdote:
«17. La Gran Corte dia le pronte provvidenze di giustizia,
onde li cittadini non soffrano aggravij - A febbraio p.p. in die 16 - Li
naturali della terra di Racalmuto, sentendosi molto gravati di questo esattore
ed amministratore Prete d. Giuseppe Savatteri nell’esigenza del terragiolo
dentro e fuori di questo stato, quanto nell’avere agumentato la Baglìa a tutti
li poveri giornalieri, formando una Cascia o Statica come anche esatte a forza
di prepotenze pignorando sin anco gli utensili delle loro moglie e pratticando
molte estorsioni.
«Pregano l’E.V. di ordinare il conveniente per non vedersi
pur troppo soverchiati.»
Al Tinebra Martorana mancano competenza e penna per
fronteggiare la complessa vicenda della lotta al baronaggio siciliano da parte
del discutibile Caracciolo (l’agiografica visione dei laici del Settecento e
del postumo Sciascia lascia oggi il tempo che trova). Il Tinebra, dunque,
compatta scarne e disparate “notizie storiche” in un capitoletto sul Settecento
e velenosamente rubrica (pag. 184): «1785 - Soprusi praticati dal sac. Giuseppe
Savatteri, arrendatore di Racalmuto, verso i poverelli.» Non parve vero a
Leonardo Sciascia di rigonfiare quell’appunto per una delle sue solite tiritere
anticlericali. Nessuna ricerca storica, da parte sua; nessun approfondimento;
nessuno spunto critico. Scrive dunque lo Sciascia [18]:
«Ecco il rapporto di un altro funzionario al Tribunale della
Real Corte sui “soprusi praticati dal sacerdote Giuseppe Savatteri, verso i
poverelli”» e giù, senza analisi critica, il testo di un’evidente lettera
anonima, che crediamo essere dovuta alla penna del malevolo arciprete
Campanella, o peggio del sac. Busuito, contro cui il Savatteri aveva affilato
le armi per l’usurpazione del beneficio del Crocifisso.
Prosegue Sciascia: «Il bello è che dopo questo rapporto il
Tribunale della Real Corte ordinava al giudice criminale di Regalpetra [alias
Racalmuto] “di far restituire ai borgesi tutti gli oggetti che il sacerdote
Savatteri aveva ad essi pignorati”, forse i lettori non lo crederanno ma la
cosa è andata davvero così”.» Con buona pace di Sciascia, a noi pare che le
cose erano molto più complesse e coinvolgono la politica dei re Borboni di
Napoli, che è quanto dire.
D. Giuseppe Savatteri e Brutto morì nella peste del 1802; il
Liber annota: n.° 312, c. 19, D. Giuseppe Savatteri e Brutto, 27 februarii 1802
d’anni 47. Il vescovo non lo aveva voluto come beneficiale della Communia. Il Savatteri
faceva però parte della neo-confraternita della Mastranza. Non pare molto
diligente nell’annotare le messe che era tenuto a celebrare per i confrati
defunti: subisce delle sanzioni. Così risulta annotato in registri della
confraternita.
Abbiamo prima ragguagliato sull’interdetto del 1713, ora ci
pare opportuno riportare alcune annotazioni disseminate nei registri
parrocchiali della Matrice.
1713 (Morti dal 1714 al 1724)
Dopo il 28 agosto 1719:
L’interditto fu imposto dall’Ill.mo e Rev.mo Signor D.
Francesco Remirens Arc. E Vesc. di Girgenti con il consenso della S. Sede nella
Chiesa Cathedrale di Girgenti e in tutta la Diocesi fu sciolto la domenica di
Agosto al dì 27 [1719] dell’ora vigesima seconda dal rev.mo Sig. Dr. D.
Giuseppe Garucci (?) Can. Teo. E Vic. Generale Apostolico con l’Autorità della
S. Sede.
Morti 1707-1714 (Die 3 7bris 1713 VII Ind.)
Vigilia Sanctae Rosaliae hora vigesima fuit affixum
interdictum generale locale in hac terra Racalmuti.
Battesimi 1711-1716 - pag. 450.
Ad perpetuam rei memoriam Die tertio septembris septimae
inditionis 1713 Vigilia Sanctae Rosaliae nostrae Patronae hora vigesima, fuit
affixum interdictum in Civitate Agrigenti et in eiusdem Dioecesi ab Ecc.mo et
rev.mo D.no D. Francisco Remirens Episcopo dictorum
Archipresbitero D.re D. Frabritio Signorino 1713.
Il Lo Brutto fu personaggio di spicco; arciprete, in
simpatia delle varie autorità vescovili, di famiglia presso l’ultimo conte Del
Carretto, dispensatore di benefici e di mozzette clericali, finì – come si
disse – sepolto in Matrice, osannato da una lapide a spese del nipote dottor
Antonio Pistone:
Matrice ex Cappella dell’Annunziata.
Monumentum hoc mortalitatis, quod jure sacelli propriis sibi
facultatibus ascito, ante aram Virginis huius templi patronae, familia Brutto
paraverat, doctor don Antonius Pistone, hic situs, velu optimus heres,
honorifico lapide, qui suos suorumque cineres decentius conderet, exornatum
curavit, votumque expletum est. -
Kalendis Septembris MDCC - Post eius obitum anno sexto.
(Stemma - Pampini - leone alato ... elmo chiomato del
milite)
LA PARENTESI SABAUDA E QUELLA AUSTRIACA
Se volessimo dare le coordinate degli sviluppi politici
dalla fine del dominio spagnolo sulla Sicilia (1713) ed l’avvento dei Borboni
(1735), dovremmo fare riferimento al trattato di Utrecht che inventa il regno
sabaudo in Sicilia; alla rivolta antisovoiarda con l’assalto di Caltanissetta
alle truppe sabaude in ritirata del 1718 ed al quindicennio di dominio
austriaco, dal maggio del 1720 al 30 giugno 1735 quando Carlo III di Borbone
giurava nel duomo di Palermo l’osservanza dei Capitoli del regno.
Il vescovo Ramirez che prima di recarsi in esilio lancia
l’interdetto che investe Racalmuto apre questo tumultuoso periodo:
l’investitura da parte dei Gaetani della contea di Racalmuto, che cadde il 7
agosto 1735 ed il decesso dell’arciprete Filippo Algozini (20 ottobre 1735) lo
chiudono sotto un duplice profilo: quello feudale, ma in senso
involutivo, visto che si ritorna ad una feudalità vessatoria che la morte
dell’ultimo conte del Carretto nel 1710 aveva di molto rilassata, e sotto
quello ecclesiastico con il ritorno agli arcipreti d’estrazione locale, molto
più legati ai loro parrocchiani. Francesco Torretta inizia una serie di
racalmutesi al vertice del locale clero (sia pure come “economo-vicario” ) che
si protrae – fatta eccezione per la scialba arcipretura di Antonio Scaglione
- sino ai nostri giorni.
Sull’interdetto del 1713 parliamo altrove. Sotto i Sabaudi
si intensifica la presenza militare. Ad Agrigento c’è una Sargenzia composta,
tra l’altro, da due compagnie di cavalleggeri: una a Naro e l’altra a
Racalmuto, nonché da die compagnie di Fanteria a Naro ed a Sutera con 550
soldati. Il contingente di Racalmuto è di 9 cavalli e 65 fanti. L’onere
finanziario ricade sulle “università” tra le quale viene ripartito il c.d.
“donativo”. [19]
Col passaggio sotto l’Austria, nel 1720 v’è un allentamento
della morsa militare e l’ordine pubblico ne risente: resta celebre il caso[20] del bandito Raimondo Sferrazza di Grotte,
tra i cui affiliati un qualche racalmutese vi dovette essere. Lo Sferrazza fu
giustiziato a Canicatti il 30 aprile 1727. Iniziò la sua attività criminale
vera e propria nel 1723. Vittima dello Sferrazza risulta tale Mariano Calci di
Racalmuto.
Da Prizzi arriva a Racalmuto il successore di d. Fabrizio
Signorino: don Filippo Algozini, che non dura più di un quinquennio. Muore nel
1735 e pare non abbia lasciato un buon ricordo nei suoi confratelli se costoro
si limitano ad annotarne la morte sul LIBER, al n° 220 seccamente, senza alcuna
sottolineatura. Invero era stato un arciprete alquanto vivace, piuttosto
energico e sicuramente preciso ed ordinato. Ci lascia un tariffario che
illustra ad abbondanza quanto fiscale fosse la Chiesa di allora: veramente tassava
dalla culla alla tomba come abbiamo avuto modo di rappresentare una volta in
una nostra mal tollerata conferenza alla Fondazione Sciascia. I balzelli
venivano pudicamente denominati diritti di stola; il maggior peso si aveva per
i matrimoni per i quali vi è una casistica tanto puntigliosa quanto
invereconda; ecco, infatti, l’ampia gamma di aliquote per tasse matrimoniali
dovute alla locale Matrice.
1731
Tariffario dei diritti di stola per il matrimonio celebrato
in chiesa, a Racalmuto, sotto l’arciprete Algozzini, originario di Prizzi:
Sponsali 1731 al
1738
LIBER
PROCLAMARUM
PRO NUPTURIENTIBUS ET ORDINIS SACRIS INSIGNIRI
CUPIENTIBUS
E ANNO 1731 QUO FUI IMMISSUS
IN HAC MATRICI
RACALMUTI
EGO PHILIPPUS ALGOZINI
PRITIENSIS
S.T.D. ARCHIPRESBITER USQUE AD ANNUM
1770
TASSA PER
L'INCARTAMENTI
se la sposa esiste in questa
terra
LE SPESE SONO
CIOE'
PER LETTA REGOLARE AL PARROCO DELLA TERRA
DOVE
ABITA IL
SPOSO--------
T. 1
SEDE DI DENUNCIE---------- T. 2 10
GRANI
ORDINE PER IL COPIARI TESTES T. 1
LETTERE ALLA G.C. : T. 1
P. SOVRATASSA DI DETTA
LETTERA
NELLA QUALE DONA
LICENZA
DI SPOSARSI T. 1
TASSA
T. 3 10 GRANI
-----------
---------------------
-----------
T.
10
0
..
LETTERA REG.RE AL PARROCO
T.
0
10
GRANI
TESTI
T
. 2
??
T. 1
LIC.
REGOLARE
T.
2
10 GRANI
TASSA DELLA LETTERA DI GI.GNTI
T.
10 GRANI
//
15
GRANI
-----------
---------------------
-----------
T.
7
5
GRANI
SE PERO' LA SPOSA E' FUORI PARROCCHIA
ORD. DEL COPIARE LI TESTES
T. 1
SEDE DI
DENUNCIA
T.
2
10
Dobbiamo però alla penna dell’Algozini un preciso
inventario delle ricche suppellettili che ormai dotavano la Matrice; in
più abbiamo una descrizione preziosa dell’assetto organizzativo della locale
arcipretura, in uno con la raffigurazione dell’interno della chiesa
dell’Annunziata, nonché con altri dati di rilievo anche socio-economico.
L’Algozini lascia, comunque, in sospeso la questione del
quadro della Maddalena che si continua ad attribuire a Pietro d’Asaro;
l’arciprete si limita ad annotare: “Altare di S. Maria Maddalena: item il
quadro con la figura di detta Santa” e non ne indica l’autore; per lui – come
per noi – l’autore è anonimo. Se una congettura personale è permessa, tendo a
credere che il quadro sia stato commissionato dall’Agrò in prossimità del 1637
(molto dopo dunque dalla datazione 1622 di cui a pag. 66 del Catalogo del
1985), in nome e per conto di qualche confraternita della Matrice o
della Fabbrica; consegnato agli eredi, costoro con l’accordo del 1641, s’impegnano
a sistemarlo nella già operante Cappella della Maddalena, il cui spazio
antistante viene acquisito per la “carnalia” del sacerdote defunto e dei suoi
eredi, previa destinazione alla “Fabbrica” di un censo annuo di un’oncia,
prescelto tra i legati del sac. Santo Agrò. Singolare è il fatto che nel 1731
si è perso il ricordo della tomba del sacerdote benefattore e l’Algozini si
limita ad annotare che «non sono sepolture sotto le predelle dell’altari” e che
in tutta la chiesa le gentilizie di specifici “patronati” sono solo quattro ed
appartengono ai « fratelli del SS. Sacramento; ai Petrozzelli, ai Lo
Brutto ed agli Acquista”». Ma già a partire dal 1654 non si rintraccia nei
libri contabili della Fabbrica il cennato censo di un’oncia dell’eredità Agrò[21].
L’elaborato algoziniano che si conserva presso l’archivio
vescovile di Agrigento ci fornisce un insostituibile spaccato della comunità
racalmutese in pieno regime austriaco. Il 28 giugno 1731, l’arciprete consegna
al visitatore pastorale un folto fascicolo di «notizie che dona il Molto Rev.
Dr. Filippo Algozini archipresbitere di detta terra, alle dimande nelle
istruzioni dell’Ill.mo e Rev.mo D. Lorenzo Gioeni, vescovo di Girgenti per la
visita pastorale.» Quel celebre vescovo era di recente nomina (con bolla
pontificia dell’11 dicembre 1730, esecutoriata in Palermo il 5 gennaio 1731) e
all’inizio dell’estate è già a Racalmuto per un controllo ficcante e pignolo.
Fornisce un questionario dettagliatissimo cui l’arciprete deve dare esaustive
risposte. Una fatica improba per lui, ma buon per noi che siamo così in grado
di disporre di una stratigrafica ricognizione della comunità di Racalmuto a quasi
un terzo del Settecento.
Unica la parrocchia, ma quindici le chiese “secolari”, nove
nell’abitato e sei nelle campagne; inoltre sei sono quelle dei “regolari”. In
totale ben 21 luoghi di culto e cioè:
le n° quindici “secolari” sparse per il paese:
1.
la Matrice chiesa sotto titolo della SS.ma Annunciata ; il Rettore ed
Amministratore il M.to Rdo Archipresbitere Dr D. Filippo Algozini;
2.
Oratorio del SS.mo Sacramento sotto titolo di S. Tomaso d’Aquino, il Rettore il
sud.o Dr D. Filippo Algozini Archiprete, ed i congionti Mo Scibetta e Mo
Giuseppe di Rosa, che l’amministrano;
3.
Chiesa sotto titolo di S. Maria del Monte, il Rettore clerico coniugato
Agostino Carlino, Rdo Sac. D. Pietro Signorino ed Onofrio Busuito congionti,
che l’amministrano;
4.
Chiesa sotto titolo di S. Rosalia, amministrata dalli Giurati di questa terra
come Padroni;
5.
Chiesa sotto titolo di S. Anna, il Rettore clerico coniugato D. Calogero
Sferrazza congionto a Sigismondo Borsellino e Diego Emmanuele che
l’amministrano;
6.
Chiesa sotto titolo di S. Micheli Arcangelo, il Rettore e Amministratore il
Rev. Sac. D. Francesco Pistone;
7.
Oratorio sotto titolo di S. Giuseppe, il Rettore Dr. D. Giuseppe Grillo ,
notaio Nicolò Pumo ed Ignazio Mantione congionti;
8.
Chiesa sotto titolo di S. Maria dell’Itria amministrata dal Rev.do Sac. D.
Pietro Signorino Beneficiale;
Chiesa sotto titolo di S. Nicolò di Bari amministrata dal
R.do Sac. D. Gaspare d’Agrò mansionario della Catredale di Girgenti, e per esso
dal R.do Sac. Dn Isidoro Amella procuratore.
Queste le annotazioni che riguardano le chiese di campagna,
denominate “chiese fora le Mura”:
1.
Chiesa sotto titolo di S. Maria della Rocca, il Retttore o amministratore Sac.
D. Vincenzo Avarello;
2.
Chiesa sotto titolo di S. Maria di Monteserrato, in cui si celebra la povera
festa dalli pij devoti;
3.
Chiesa sotto titolo di S. Maria della Providenza amministrata da D. Paolo Baeri
Patrono;
4.
Chiesa sotto titolo di S. Marta amministrata da Pietro Mulè Paruzzo
procuratore;
5.
Chiesa sotto titolo di S. Gaetano amministrata dall’Ill. Marchese di S. Ninfa
come Padrone;
6.
Chiesa sotto titolo del SS.mo Crocifisso, amministrata dal Rev. Sac. D. Antonio
La Lomia Calcerano fondatore.
Dichiarato che non vi erano “cappelle ed oratori domestico”
(queste saranno di moda alla fine del Settecento e si protrarranno sino alla
seconda metà del XX secolo), ecco la descrizione dei monasteri che sono “cinque
conventi de’ regolari ed un monastero di Donne”:
1.
Convento di S. Maria del Carmine;
2.
Convento di S. Francesco de Padri Minori Conventuali;
3.
Convento di S. Maria de Padri Minori osservanti;
4.
Convento di S. Giovanni di Dio de’ PP. Fateben fratelli;
5.
Ospizio di S. Giuliano de’ PP. di S. Agostino della Congregazione di Sicilia;
6.
Monastero de Monache dell’ordine di S. Francesco.
E si precisa che all’epoca non vi erano conventi soppressi.
A Racalmuto operava un ospedale “sotto la giurisprudenza dei
Padri fatebenfratelli giusta li loro privilegi”. Non vi erano ancora monti di
pegno.
In compenso operavano due confraternite e cinque
“compagnie”.
1.
Confraternità di S. Maria di Giesù, li Rettori sono Pietro Casucci, Pietro
d’Agrò, Vincenzo Missana e Giovanne Farrauto; si fanno ogn’anno nella Prima
domenica di gennaro;
2.
Confraternità di S. Giuliano, li Rettori sono Giovanne d’Alaymo, Ippolito Fucà,
Giuseppe Savarino e Vito Mantione, il loro governo dura anno uno, incominciando
dalla Prima Domenica di Gennaro;
3.
Compagnia del SS. Sacramento, Governatore il Mo R.do D. Filippo Algozini,
congionti Mo Giacinto Scibetta e Mo Giuseppe Di Rosa, il loro governo dura tre
mesi, incominciando dalla domenica infra “octavam Corporis”;
4.
Compagnia del Thaù fondata nella Chiesa di S. Anna, Governatore D. Calogero Sferrazza,
congionti Sigismondo Borsellino e Diego Emmanuele; dura il loro officio tre
mesi, incominciando dalla Domenica più prossima all’otto che ch’incide del
mese, li presenti furono fatti all’8 Giugno 1731;
5.
Compagnia dell’Anime del Purgatorio fondata nella Chiesa di S. Micheli
Arcangelo, Governatore Raimondo Borcellino minore, congionti Rev.do Sac. D.
Santo Farrauto e Santo La Matina Calello; il loro officio dura quattro mesi
incominciando dalla Prima Domenica di Gennaro;
6.
Compagnia di S. Maria del Monte, Governatore Clerico Coniugato Agostino
Carlino, congionti R.do Sac. D. Pietro Signorino ed Onofrio Busuito; il loro
officio dura anno uno, incominciando dalla Prima Domenica di Settembre;
7.
Compagnia di S. Giuseppe, Governatore Dr D. Giuseppe Grillo, congionti Notaro
Pumo ed Ignazio Mantione; il loro officio dura quattro mesi incominciando dalla
seconda domenica di Gennaro.
8.
Ci viene fornito un dato anagrafico di notevolissima
importanza: sapendo quanto precisi erano gli uomini della Chiesa, possiamo
essere certi che davvero a Racalmuto, nel giugno del 1731, c’erano 1200
famiglie con 5.134 anime o abitanti che dir si voglia (in media 4,28 componenti
per ogni nucleo familiare). Nutritissima la compagine ecclesiastica: 28
sacerdoti, di cui però ammalati cronici 24. In ogni modo un sacerdote ogni 42
famiglie oppure ogni 183 abitanti. Ecco l’elenco:
1.
Il Mo Rev. Archipresbiter Dr D. Filippo Algozini;
2.
Il Mo Rev. D. Salvatore Lo Brutto Vicario Foraneo;
3.
Sac. D. Filippo Cino;
4.
Sac. D. Francesco Pistone;
5.
Sac. D. MichalAngelo La Mendola;
6.
Sac. D. MichalAngelo Rao;
7.
Sac. D. Ignazio Laudito;
8.
Sac. D. Paulo Spagnolo;
9.
Sac. D. Gerlando Carlino;
10.
Sac. D. Antonino Macaluso;
11.
Sac. D. Francesco Torretta;
12.
Sac. D. Gaspare Casucci;
13.
Sac. D. Vincenzo Casucci;
14.
Sac. D. Leonardo La Matina;
15.
Sac. D. Calogero Pumo;
16.
Sac. D. Giovan Battista Pumo;
17.
Sac. D. Antonino Mantione;
18.
Sac. D. MichalAngelo Savatteri;
19.
Sac. D. Isidoro Amella;
20.
Sac. D. Vincenzo Avararello;
21.
Sac. D. Francesco De Maria;
22.
Sac. D. Antonio La Lomia Calcerano;
23.
Sac. D. Baldassare Biondi;
24.
Sac. D. Pietro Signorino;
25.
Sac. D. Orazio Bartolotta;
26.
Sac. D. Antonino d’Amico minore;
27.
Sac. D. Ignazio Pumo;
28.
Sac. D. Santo Farrauto.
Ma le vocanzioni non mancavano; erano già diaconi: Melchiore
Grillo ed il nostro Servo di Dio padre Elia Lauricella. Baldassare d’Agrò aveva
ricevuto l’ordine minore del suddiaconato; c’erano 7 accoliti: Francesco
Grillo; Vito Gagliano; Vincenzo Amendola; Antonino Busuito; Giuseppe Alferi;
Ludovico Amico; Diego Martorana; semplici esorcisti: Gaetano Raspini e Grispino
Tirone; giovani lettori: Emmanuele Cavallaro; Vincenzo Alfano; Santo di Naro;
Calogero Vinci; Leonardo Castrogiovanne; un solo ostiario: chierico Ignazio
Picone; i chierici tonsurati erano Orazio Sferrazza, Francesco Savatteri e
Nicolò Milano. Tutti gli ottimati racalmutesi, o almeno quelli che cominciavano
ad esserli nel secolo dei lumi ma anche dell'irrompere di una nuova classe,
quella borghese, vi sono rappresentati. Le famiglie escluse, non sono ancora di
riguardo. Tra queste i Tulumello che poi domineranno. I Matrona mancano perché
ancora non scesi a Racalmuto.
Alcuni signori amano essere chierici “coniugati”, forse per
i benefici del Santo Offizio: D. Domenico Grillo; D. Calogero Sferrazza; D.
Paulo Baeri. Ad un livello inferiore troviamo i chierici “coniugati” Agostino
Carlino, Francesco Farrauto e Giuseppe Chiovo.
La pletora dei sacerdoti era però eccessiva e non
tutti i ministri di Dio erano modelli di santità o almeno disponevano di un pur
ristretto bagaglio di nozioni teologiche e morali da potere essere autorizzati
al sacramento della confessione: solo cinque, oltre all’arciprete, erano
facoltizzati: il vicario Lo Brutto, uno solo dei Casucci: Gaspare, don
Francesco Torretta, don Baldassare Biondi e don Leonardo La Matina.
E passiamo ora ai conventi. Iniziamo dai Carmelitani.
Il priore era un racalmutese DOC: il sacerdote padre Carlo
Maria Casucci, assistito dal sac. D. Pietro Paolo Roccella. Il padre lettore,
il sac. Antonio Monticcioli era in trasferta a Trapani. Stavano al Carmine, a
beneficiare delle laute rendite i fratelli – i “fratacchiuna” – fra Elia
Salemi, Fra Angelo La Rosa e fra Gerlando Montagna.
I francescani conventuali erano quelli del convento di S.
Francesco; dovevano essere in quel momento in crisi: un solo sacerdote, padre
Giuseppe Cimino – che giureremmo essere di Grotte, e fra Paulo Surci (semplice
“fratello”).
Non così invece a S. Maria di Gesù: quattro sacerdoti,
venuti tutti da lontana via a godersi le tante rendite (P. Michelangelo da
Lentini, P. Ludovico da Licata, P. Giovan Battista da Mussomeli e P.
Bonaventura da Canicattì) e quattro “fratacchiuna” (fra Pasquale da Racalmuto,
fra Gaetano da Cammarata, fra Giiovanni Battista da Racalmuto e fra Geronimo da
Racalmuto). Stavano al convento attiguo alla chiesa; appartenevano all’ordine francescano
dei Minori Osservanti; coltivavano le feraci terre ove ora c’è il cimitero e
sino al 1866 riuscivano a cavarne del buon vino, sia pure con alterna fortuna.
A S. Giovanni di Dio, adibito soprattutto ad ospedale, non
c’erano sacerdoti ma solo due “fratelli”: fra Bernardo Sassi e fra Vincenzo
Mercante, decisamente forestieri. Le lamentele fatte al Papa da parte del
vescovo Ramirez non erano poi infondate.
Il convento di S. Giuliano doveva essere chiuso da almeno
mezzo secolo ed invece eccocelo vivo e vitale – sia pure ora inquadrato
nell’ordine di S. Agostino della Congregazione di Sicilia. Quanto sia ricco lo
vedremo quando commenteremo una dichiarazione dei redditi, con annesso stato
patrimoniale, del 1754. Qui dimorano tre sacerdoti (P. Agostino da Racalmuto,
P. Ignazio da Geraci e P. Anselmo da Adriano) e tre “fratelli” (fra Giuseppe da
Racalmuto, fra Agostino da Racalmuto e fra Giuseppe da Caltanissetta). I
fratelli laici dovevano sguinzagliarsi per le campagne per la “ricerca”, le
elemosine in natura, ad onta delle cospicue rendite.
Ed ora è il turno del convento delle monache di S. Chiara.
Vi pullulano ben 22 recluso, in uno spazio che per quanto ampio costituiva una
specie di carcere per donne di diversa estrazione, di diversa età e persino di
diversa cultura. Venivano sepolte nella graziosa chiesa della Batia. Ora, il
pavimento della vecchia chiesa è ridotto a sala di conferenza. I loro resti
umani vengono calpestati senza rispetto alcuno, senza un ricorso, senza un
fiore. Almeno quelle derelitte del 1731 ricordiamole qui, con come e cognome.
L’abbadessa era suor Domenica Rizzo ed è dubbio che fosse di
Racalmuto. Le fungeva da vicaria suor Rosa Renda. Provenivano da famiglie di
spicco: suor Gesua Maria Lo Brutto, suor Maria Stella Sferrazza, suor Maria
Lanciata Di Benedetto, suor Maria Grazia Casucci, suor Maria Crocifissa
Signorino, suor Claradia Amella, suor Maria Gioacchina Brutto, suor Angelica
Maria Signorino, suor Francesca Maria Biondi, suor Maria Scolastica Signorino;
da forestieri o da famiglie non altolocate che riuscivano a sistemare le figlie
superflue tra le cosiddette clarisse, ove il pane quotidiano era almeno
assicurato: Suor Giuseppa Maria Caramella, suor Pietra Margherita Zambito, suor
Maria Serafica Zambito, suor Carla Maria Provenzano, suor Antonia Maria
Raspini.
E con loro, le novizie Vita Vinci e Orsola Guadagnino. Tre
“converse” – all’ultimo gradino di quella opprimente gerarchica monastica –
erano tutte del luogo: soro Geronima Martorana, soro Elisabetta La Licata e
soro Angela Rizzo. Un tratto di penna dell’Algozini e poi più nulla per queste
vite umane, per queste vittime di una condizione femminile settecentesca,
echeggiata appena dalla Maraini quando ebbe a raccontare la lunga vita di
Marianna Ucria. Ma qui non c’è neppure il benessere del dominio aristocratico.
I benefizi ecclesiastici sono appena quattro: uno è in
possesso dell’arciprete e gli altri sono semplici: quello di S. Antonio viene
goduto da d. Gaspare Casucci; l’altro di S. Maria dell’Itria da don Pietro Signorino,
quello che lascerà tanto alla chiesa del Monte; ed infine quello di S. Nicolò
di Bari assegnato a don Gaspare d’Agrò.
I mansionari, i preti salmodianti a pagamento in Matrice,
sono ancora dodici, come aveva voluto il fondatore, l’arciprete Lo Brutto e, a
scorrere la lista, ci si sorprende che autorizzati a ricevere le confessioni
sono solo d. Salvatore Lo Brutto, d. Gaspare Casucci e d. Francesco Torretta;
gli altri (don Filippo Cino, don Francesco Pistone, don Vincenzo Casucci, don
Giambattista Pumo, don Isidoro Amella, don Gerlando Carlino, don santo
Farrauto, don Antonino d’Amico e Matina e don Antonino d’Amico e Morreale) sono
bravi a cantare le ore canoniche ma non sono ritenuti all’altezza delle
confessioni, specie delle donne. Per converso don Baldassare Biondi e don
Leonardo La Matina vengono ritenuti idonei ad impartire l’assoluzione dai
peccati, ma sono per il momento tenuti lontano dai benefici economici che il
cantare Vespro e Compieta fa conseguire. Don Nardu Matina non sarà mai beneficiale
venendo a decedere nel 1733 (LIBER, n° 216); Baldassare Biondi (+ 29 ottobre
1771) farà carriera, diverrà vicario foraneo e raggiungerà la ragguardevole età
di 82 anni (LIBER, n° 284).
Racalmuto non ospita eretici o scomunicati; è tutto sommato morigerato
e rispettoso della religione e dei precetti della chiesa. L’Algozini può così
rispondere all’apposito paragrafo del questionario:
1.
Non vi sono scomunicati, , né sospesi, interdetti o che non abbiano adempito la
communione paschale, o non osservato le feste, né publici usurarij,
concubinarij, adulteri, solamente Lorenzo Scibetta è diviso da sua moglie che
ostinatamente abita in Aragona, Diego di Giglia da Maria sua moglie che pure
ostinatamente non lo vuole, siccome Giuseppe Lo Brutto di Gaetana d’Anna sua
moglie; né pure vi sono giocatori scandalosi né inimici;
2.
Vi sono due maestri di scuola, rev.do sac. D. Calogero Pumo ed il Diacono D.
Melchiorre Grillo;
3.
Quattro medici fisici dr. D. Giuseppe Grillo, dr. D. Giuseppe Amelli, rev. Sac.
D. Ignazio Pumo, ed il clerico coniugato D. Calogero Sferrazza;
4.
Chirurghi dui il clerico coniugato D. Giuseppe Sferrazza e D. Antonino Amelle;
5.
Due levatrici, Angela Rini e Maria Schillaci, ambi di buoni costumi e sanno la
forma del Battesimo.
Seguiamo ora, passo passo, come l’arciprete Algozini
descrive la Matrice:
1.
Il titolo della chiesa è Maria SS.ma dell’Annunciazione ;
2.
Si celebra la festa nel giorno proprio;
3.
Non vi sono abusi;
4.
La chiesa non è consecrata;
5.
Il Padrone è il vescovo;
6.
Fu eretta alli 20 giugno 4a Ind. 1621;
7.
Nella Cappella di S. Maria del Suffraggiov’è la Liberazione dell’Anime ogni
lunedì e nell’ottava de morti ad septemnium per breve concesso dalla Stà di
Benedetto XIII di fel. mem. a 17 settembre 1728 e nessuno altare ha Padrone.
Della struttura della Chiesa
1.
Questa Chiesa Matrice è construita con due ordini di colonne, con che si forma
la nave e due ali;
2.
Ha semplice tetto;
3.
Non dona umidità;
4.
Vi sono sei finestre, cioè tre con vitriate e tre senza;
5.
delle quali entra vento;
6.
le pareti della chiesa in alcune parti sono di piedre quadrati, in alcune con
incrostatura in alcune incolte;
7.
senz’erbe;
8.
La fabrica da pertutto ben soda;
9.
senza veruna servitù;
10.
v’è choro situato nell’altare maggiore dell’istesso sito della Cappella;
11.
senza sedili o stalli distinti, ma fra breve vi si faranno ad eccitazione del
detto rev. Archiprete;
12.
non v’è separazione di luoco per le donne;
13.
il pavimento è di gisso intiero.
Disponibili anche notizie sullo stato dell’edificio e sul
suo assetto interno:
1.
Tocca alla Maramma la reparazione che ha onze 3.15.6 di rendite annue e cioè:
dal sac. Isidoro Amella onze 2; dal rev.do sacerdote don Vincenzo Casucci e
consorti tarì 13.19; da Antonino di Salvo Ruggeri tarì 4.10; dagli eredi di
Giovan Battista Petruzzella e consorti tarì 10.10; da Giovanne d’Alaymo
Trombetta tarì 8.5; dall’erede di Salvatore Corbo tari 8.2.
2.
S’amministrano dalli quattro deputati della chiesa che sono il rev. Archip. Dr.
D. Filippo Algozini, il rev. Vicario Foraneo D. Salvatore Lo brutto, don
Francesco Pistone e don Gaspare Casucci.
L’Algozini ci informa che «v’è dentro la Cappella del SS.mo
Sacramento di questa Chiesa Madre la compagnia del Santissomo Sacramento;
l’officiali sono l’antedetto rev.do arciprete dr. D. Filippo Algozini, M°
Giacinto Scibetta e M° Giuseppe di Rosa.» Aggiunge: «Dentro questa
Matrice chiesa non vi sono cappellanie se non le sacramentali che adesso sono
il rev.do sacerdote D. Francesco Torretta ed il rev.do sacerdote D. Leonardo La
Matina.»
Abbiamo peraltro «un beneficio di S. Antonio Abbate posesso
come sopra dal rev.do sac. Don Gaspare Casucci.» Al servizio della Matrice sono
i chierici Pietro Santo Maura e Santo di Naro: il loro stipendio e di 8 onze,
quattro pagari dal rev. Arciprete, due dalla Cappella del SS.mo Sacramento,
onze 1.10 dalla Cappella di Maria del Suffraggio e tarì 20 «d’altre tre
Cappelle in ragione di tarì 6 per una, oltre tarì 10: incirca di venti.»
Ed ecco, di estremo interesse storico, la descrizione e la
disposizione degli altari:
1.
Vi sono quattordeci Altari, il Maggiore;
2.
quel del venerabile;
3.
della SS.ma Annunciata;
4.
di S. Maria del Suffraggio;
5.
del SS.mo Crocifisso;
6.
di S. Vito;
7.
di S. Giovan Battista;
8.
di S. Leonardo;
9.
di S. Antonio Abbate;
10.
di S. Ignazio;
11.
della Ss.ma Assunzione;
12.
delli S.ti tré Reggi;
13.
di S. Giuseppe;
14.
di S. Maria Maddalena.
«Per quante diligenze s’abbiano fatto – soggiunge
l’arciprete – non si sa dell’erezione di ciascheduna.» Nel dettaglio: «Sono
l’altaretti conservati nello stipite e non ve ni sono portatili; sono intieri
nelli sigilli delle Reliquie; ve n’è uno [altare] privilegiato di S. Maria del
Suffraggio; nessun altare ha padrone; non hanno rendite per suppellettili e
manutenimento, se non quelli che si devono contribuire dalli celebranti secondo
la tassa e reduzione ultimamente fatta. L’altare però di S. Ignazio ha tarì 19
annui dovuti cioè: tarì 12 da Pietro Mulè paruzzo in virtù di contratto per
l’atti di not. Michelangelo Vaccaro a 10 settembre 7a 1713, e tarì 7 dal notaio
Michelangelo Vaccaro in virtù del contratto per l’atti del quondam notaio
Francesco Pumo a 11 gennaio X a ind. 1717.»
Gravano sugli altari vari pesi per messe:
1.
La cappella del SS.mo Sacramento messe n° 163;
2.
Cappella della SS.ma Annunciata messe n° 58;
3.
Cappella di S. Giuseppe messe n° 144;
4.
Cappella delli S. Tré Reggi messe 3;
5.
Cappella di S. Maria del Suffraggio messe n° 914.
«Oltre d’altri sei Cappellanie cotidiane trattenute dalla
detta Cappella del Suffraggio, secondo denota la Tabella in Sacrestia.»
L’inventario del Casucci.
Questo l’arredo della chiesa e degli altari secondo
l’inventario del tempo:
«Questo è l’inventario di tutti i beni mobili e stabili
semoventi, frutti, rendite, raggioni azzioni e spese di qualsiviglia sorte
della chiesa Matrice di Racalmuto, sotto il di Primo Aprile 1731, fatto per me
D. Gaspare Casucci Economo di detta Chiesa con la presenza e l’assistenza delli
Rev.di Sac. D. Filippo Cino e D. Gerlando Carlino previamente informati dei
beni, frutti e rendite, e sono l’infrascritte:
La sudetta chiesa Matrice è posta nella strada del
Castello a frontespizio della Piazza; ha d’un lato le case di M° Giuseppe Di Rosa
e dall’altro le case della ven.le Compagnia si S. Giuseppe.»
Qui il Casucci si addentra in una ricostruzione storica che
non sembra avvalorata dai documenti da noi investigati. Ad ogni buon
fine, quella ricostruzione casucciana la riportiamo egualmente:
«Fu finita di fabriche l’anno 1620: benedetta con licenza di
Monsignor Vescovo di Girgenti sotto li 20 Giugno di detto anno.» A nostro
avviso, c’è qui l’abbaglio della strana ripartizione della parrocchia tra don
Vincenzo del Carretto e don Paolino d’Asaro del 1608 ed il successivo
ricongiungimento delle due parti in capo alla chiesa dell’Annunciata sotto un
unico arciprete che a noi risulta essere don Filippo Sconduto. Il Casucci non
ci pare molto ferrato nella storia della sua chiesa.
Attendibile invece quando parla delle Cappelle, di cui
curava in definitiva l’amministrazione:
La Cappella della SS.ma Annunciata fu fondata e dotata da D.
Gaspare Lo Brutto e Leonora d’Asaro con obbligo di 58 messe. [..] Li
superlettili di detto Altare, come di tutti gli altri altari e chiese sono li
seguenti:
In primis una Cappella bianca di lama, con sue tunicelle,
casubula, cappa, stole manipoli e palio;
Item una Cappella violacea di lama, con suoi Tunicelle,
casubula, cappa, stole, manipoli e palio d’altare;
Item una cappella virde, con sue tunicelle, casubula, cappa,
stole manipoli e palio d’altare;
Item una Cappella rossa, con sue Tunicelle, casubula, cappa,
stole manipole e palio d’altare;
Item una Cappella nigra di felba [22] con scuti ricamati, con sue tunicelle,
casubula, cappa, stole manipole e palio d’altare;
Item una casubula di stolfo russa , con sue stola e
manipole;
Item una casubula bianca d’asprino con manipola e stola;
Item dui casubuli nigri, con suoi stole e manipoli;
Item dui casuboli violaci usati con stole e manipoli;
Item trè casubuli russi usati con stoli e manipoli;
Item una casubula bianca raccamata di seta usata con stola e
manipole;
Item una casubula verde usata con stola e manipole;
Item sei cammisi boni, cioè tre di tela d’Olanda e tre di
tela sottile, con suoi cingoli ed ammitti;
Item altri tre cammisi usuali per la giornata, con suoi
cingoli ed ammitti.
Altare maggiore
In primis un quadro di S. Pietro e Paulo di Pittura, con
cornice scartocciata indorata d’oro;
Item n° sei candilieri con suoi vasi e rami usati;
Item n° sei tabole per ornamento dell’altare, indorate di
mostura;
Item una cornice dell’altare indorata di mostura;
Item la carta di gloria, con l’Imprincipio e lavabo;
Item due tovagli d’altare;
Item un tappito vecchio per detto altare.
L’ulteriore precisazione che abbiamo dall’Algozini, datata
1° giugno 1731, parla anche di un dischio foderato di damasco verde usato.
Altare della SS.ma Annunciata
Item la statua della SS.ma Annunciata con l’Angelo, di
ligname indorati di mistura;
Item un Reliquario di Ligname indorato di mistura con sue
reliquie dentro;
Item due candilieri con sua croce usati;
Item una carta di gloria, con l’Imprincipio e lavabo;
Item due tovaglie usate per l’altare;
Item una cornice indorata di mistura per detto Altare;
Item tré pialli d’altare usati;
Item un lampero di ramo.
In più, stando all’integrazione dell’inventario da parte
dell’Algozini: sei candileri con suoi vasi novi indorati di mistura con sei
rami di talco novi.
Altare di S. Maria del Suffraggio
Item un quadro di pittura con sua cornice indorata;
Item sei candileri con la croce e sei vasi;
Item sei rami usati;
Item quattro candileri piccoli;
Item una carta di gloria col’imprincipio e lavabo con le
cornici indorate di mistura;
Item Item due tovaglie d’altare;
Item un palio di seta violaceo e bianco con cornice indorata
di mistura per detto Altare;
Item un lamperi di ramo novo.
Altare del SS.mo Crocifisso
Item l’Immagine del SS.mo Crocifisso con la croce indorata;
Item un quedretto di Maria delli Setti Dolori con sua
cornice;
Item quattro candileri con sua croce usati;
Item una carta di gloria con l’Imprincipio e lavabo; con
“concice indorata” (v. Algozini);
Item un palio d’altare di pittura con cornice indorata, che
è “di stolfo violetto e rosso con gallone d’oro, novo” (vedi inventario del 1°
giugno 1731).