LA PARENTESI CARTAGINESE
Attorno al
282 a.C. si affaccia sul proscenio della storia un tiranno agrigentino di un
qualche rilievo: Finzia. Fu lui a radere al suolo Gela e a trasportarne la
popolazione nell'attuale Licata: in questa località il tiranno costruì una
città di stile greco, cinta di mura e dotata di agorà e di templi. Racalmuto dovette essere terra subalterna a
Finzia e dovette contribuire quindi al sostegno finanziario delle mire
egemoniche del tiranno agrigentino. Fu però vicenda storica di breve respiro.
Sparisce ben presto Finzia e Akragas, ritornata debole e faccendiera, non sa
ostacolare l'egemonia di Siracusa.
Nel 280 a. C. Siracusa sconfigge
Akragas. Cartagine, vigile ed interessata, arma un imponente corpo di
spedizione che presto raggiunge le porte di Siracusa. Akragas ed il suo territorio - ivi compreso Racalmuto - si estraniano, come
sempre, dalla lotta armata ed assistono piuttosto indifferenti all'intrusione
di Pirro, quel re dei Molossi, passato alla storia per le sue risibili
vittorie.
Akragas e Racalmuto, quale sua
pertinenza, rientrano nella zona di influenza di Cartagine e vi restano per
quasi un ventennio fino a quando la Sicilia fenicia incappa nelle mire
espansionistiche della repubblica romana.
Nel 264
a.C. scoppia la prima guerra punica e la vicenda siciliana si avvia
melanconicamente a divenire la scansione di un'oscura appendice della lontana e
suprema Roma. La Sicilia assurge all’inglorioso ruolo di provincia che secondo
Cicerone: «prima docuit maiores nostros
quam praeclarum esset exteris gentibus imperare». Già, la Sicilia fa
gustare per prima ai Romani quanto fosse bello soggiogare popoli stranieri. E,
ancora - dopo un secolo e mezzo - Sicilia, Akragas (e ancor più Racalmuto)
saranno per i romani nient'altro che «extera
gens» [gentucola straniera] da dominare e da proteggere solo perché «ornamentum imperi».
Roma
conquistò Akragas nel 261: dopo un assedio di sei mesi, le scomposte furie dei
romani si sfogarono ignominiosamente sui poveri cittadini agrigentini. Né beni,
né donne e neppure gli stessi uomini furono risparmiati: 25.000 dei suoi
abitanti furono venduti come schiavi.
Sette anni
dopo, sono i cartaginesi a rimpadronirsi della città, dopo avere distrutto la
flotta romana che ritornava dall'Africa. A farne le spese è ancora una volta la
città di Akragas: i cartaginesi bruciano ogni cosa, abitazioni e mura.
Riteniamo
che la terra di Racalmuto dovette risultare alquanto decentrata per subire
direttamente le atrocità di quella guerra punica. Ma i riflessi dovettero
esserci, dolorosi e devastanti. Lutti per i parenti che si erano stanziati
nella vicina polis; distruzione di
beni; spoliazioni, rapine, banditismo, vandalismi ed altro.
Le antiche fonti nulla ci dicono sui successivi due
decenni: verso lo spirare del secolo, Akragas
e la vicina Eraclea Minoa
appaiono saldamente in mano dei cartaginesi. Tra il 214 e il 211 a.C. un
massiccio movimento di uomini armati - si parla di 40.000 militari tra i quali
6.000 cavalieri - su 200 navi parte da Cartagine per raggiungere la Sicilia.
Punto di approdo è Akragas: sulle colture raculmutesi si abbatte il gravame di
apporti alimentari a quegli eserciti tutto sommato stranieri. Nel 212 a. C.
tocca a Siracusa cadere nelle mani dei romani ed il grande Archimede finisce
ucciso per mano militare. Per i cartaginesi, nel grande scontro con i romani,
le sorti belliche volgono al peggio: i fenici ripiegano su Agrigento, ultimo
baluardo delle loro difese. Mercenari numidi consumano l'ennesimo tradimento.
Akragas cade ancora una volta in mano dei romani; ancora una volta popolazione
e beni diventano bottino di guerra per una vendita sui mercati del mondo.
Levino a Roma fa il suo trionfale rapporto. Per Racalmuto inizia l'epoca di
agro ferace per le distribuzioni di grano nella lontanissima Roma.
IL
PERIODO ROMANO
Finite le
guerre puniche, il console Levino avvia la Sicilia al suo secolare sfruttamento
agricolo da parte di Roma. Dall'originaria Siracusa i gravami fiscali della
legge Ieronica si estendono all'intera Isola, a tutto vantaggio delle plebi
dell'Urbe: quell'estensione avviene con
la lex Rupilia del 132. E
così sotto il cielo di Roma una società di pubblicani appaltava la riscossione
delle tasse sul pascolo (scriptura) e sui trasporti
marittimi (portorium). Ma erano il grano, l'orzo, il vino, l'olio e i
legumi di Sicilia che, assoggettati a decima, prendevano la via del mare per
Roma.
Ma per uno dei soliti paradossi della storia, Racalmuto in
quel regime coloniale romano ebbe occasione e modo di sviluppo economico e
demografico: il suo suolo ferace ed anche la sua vocazione alla viticoltura
furono di sprone all'insediamento contadino. Niente grandi opere e neppure
edifici; non si ebbe manco un toponimo che resistesse all'oblio dei tempi.
Eppure, i segni di quel consorzio umano e sociale nel territorio di Racalmuto
sono giunti sino a noi: resti fittili, anfore, monete romane ed altre
testimonianze archeologiche.
Nella contrada di S. Anna agli inizi del secolo furono
rinvenute anfore in gran numero - forse proprio quelle che servivano agli
esattori romani per trasportare il grano o l'orzo a Roma - e mi si dice che i
proprietari dei poderi dell'epoca si affrettarono a farle sparire nelle voragini
del monte Castelluccio per il timore di espropri o molestie da parte delle
autorità.
E' tuttavia
noto un reperto di grande interesse che fu trovato da tal Gaspare Vaccaro nel
1782: esso ci attesta della organizzazione esattoriale delle decime agrarie a
Racalmuto da parte di Roma. Trattasi di una iscrizione latina pubblicata nel
1784 da Gabriele Lancellotto Castello, principe di Torremuzza, nel suo "Siciliae et adiacentium insularum veterum
inscriptionum - nova collectio..". A pag. 237 il principe archeologo
c'informa che l'anfora fittile rinvenuta a Racalmuto era una "diota"
(anfora per vino) nel cui manico [«in
manubrio diotae fictilis erutae»] poteva leggersi la seguente epigrafe:
C* PP. ILI* F* FUSCI
RMUS. FEC.
|
Il Mommsen diede credito al Torremuzza e
pubblicò tale e quale quell'epigrafe nei suoi ponderosi volumi (C.I.L. X, 8051, 40, pag. 870) ma amputandola
del riferimento alla diota
ed eludendo ogni commento prosopografico.
Chiaro appare,
comunque, il richiamo ad un personaggio di nome FUSCO, del tutto ignoto alla storia di Sicilia ma ben presente alla
prosopografia romana. Marziale augura al potente Fusco che «le smisurate sue
cantine diano ottimi mosti» (VII, 28); Giovenale ironizza sui ricchi Fusco
della Roma del suo tempo; un Fusco fu console romano con Domizio Destro ed
abbiamo anche un Cn. Pedanius Fuscus Salinator
e via di seguito. Ma una famiglia Fusco siciliana non sembra essere esistita.
Quello del vaso fittile di Racalmuto era dunque un romano
o in ogni caso un cittadino di Roma: un probabile esattore dunque e forse un
esattore delle decime sul vino di Racalmuto se ci fidiamo del Torremuzza quando
accenna a diote fittili e cioè ad anfore per il trasporto a Roma del vino, prelevato
in natura dal fisco romano sino a tarda età, come si evince dalle Verrine di
Cicerone.
Per quasi quattro secoli la vita agricola e contadina nei
dintorni di Racalmuto, sotto il dominio romano, trascorre senza lasciare
traccia alcuna. Gli studiosi ci avvertono che tutto il sottosuolo siciliano
divenne proprietà privata di Augusto, ma di miniere racalmutesi non si ha
notizia per quel periodo. Solo, sul finire del secondo secolo d.C., sotto
Comodo, secondo una non convincente lettura del Salinas, si registra una svolta
economica di grande risalto in Racalmuto: le miniere di zolfo, impiantate come
alcuni vecchi ancor oggi ricordano, vi presero piede.
Per oltre un millennio non se ne seppe nulla, finché
nell'Ottocento si rinvennero i cocci di talune forme romane, simili alle
'gàvite', recanti sul fondo i caratteri a risalto, e con scrittura alla
rovescia, indicativi dello stabilimento minerario.
Il primo ad
averne contezza fu l’avv. Giuseppe Picone, figlio di racalmutesi trasferitisi
ad Agrigento. All’Archivio di Stato di Roma si conserva una preziosa
corrispondenza tra il Picone, all’epoca ispettore degli scavi e dei monumenti
di Girgenti ed il Ministero, che risale
al 3 novembre del 1877. Emerge un’appropriazione indebita da parte del grande
tedesco ai danni del modesto avvocato con antenati racalmutesi.
Burocraticamente l’oggetto della corrispondenza si denomina: Mattoni antichi con bolli relativi alle
miniere sulfuree. Un ottocentesco alto burocrate del Ministero della
Pubblica Istruzione di quel tempo, il dott. Donati, interpella seccamente il
Picone:
Il dr. Mommsen reduce dal suo viaggio in Sicilia mi
parla della scoperta importante da lui fatta di bolli fittili con ricordi di
preposti alle miniere sulfuree nei primi secoli dell'e.c. - Sarò grato alla S.V.
se si compiaccia dare su tale oggetto i maggiori ragguagli.
L’interpellato
risponde in data 28 dicembre 1877 (Repertorio
al protocollo 1878 n.° 16) in termini dimessi ma di grosso risalto per la
storia delle miniere di zolfo racalmutesi al tempo dei Romani:
Furono or sono pochi anni scoverti nel bacino di
Racalmuto, e a considerevole profondità taluni mattoni antichi, con bolli, che
io raccolsi, e formano parte di questo museo comunale. In essi si vedono delle
iscrizioni latine, che, per difetto d'arte, venivano rilevate al rovescio di
che siano leggibili da sopra a sinistra, come le scritture orientali.
In uno di essi mutilato si legge (totalmente a
rovescio, n.d.r.) :
MANCIPYM/
SULFURIS
SICIL
Messa questa in rapporto alle altre iscrizioni pare
che vi manchi nella prima linea
EX. OF. (ex officina)
come si rileva in talune, ove si legge Ex officina
Gellii ec. ec.
Dallo stile uniforme e dalla paleografia risulta
sippure, che l'epoca sia quella di Antonino Domiziano e di altri, come dai
frammenti di altri bolli, ove si legge il nome di quegli imperatori, sì che
possa concludersi, senza tema di errare, che in quella stagione, la industria
zolfifera era fiorentissima nella provincia Girgentina.
L'esimio Dr Mommsen, che onorò di sua presenza questo
Museo, potrebbe dare alla E.V. maggiori schiarimenti e più dotte illustrazioni
che io non saprei. ([1])
Il Mommsen
fu poco grato al Picone: pubblica - unitamente al Desseau - i dati epigrafici
nei volumi del C.I.L. ([2]) ma si guarda bene dal ricompensare, neppure
con una semplice menzione, il nostro avv. Picone. Sulle ‘gavite’ romane è ormai
consistente la pubblicistica, ma in essa non si rinviene il minimo accenno a
chi per primo ebbe consapevolezza dell’importanza dei reperti solfiferi di
epoca romana, rinvenuti a Racalmuto. Successivamente vi è un’eco nel nostro
Tinebra Martorana che racconta di reperti della specie regalati dalla famiglia
La Mantia all'avv. Giuseppe Picone di
Agrigento e finiti, quindi, al Museo Archeologico di Agrigento.
All'inizio
di questo secolo, il SALINAS aveva modo di rinvenire proprio a Racalmuto alcuni
reperti di quelle che Mommsen impropriamente, ma con fortuna, ebbe a chiamare «tegulae sulfuris». Al Salinas, invero,
furono vendute per il Museo di Palermo quattro lastre con iscrizioni da un contadino
nostro compaesano che le aveva rinvenute nella costruzione di un sepolcro,
provenienti presumibilmente dalle miniere dei dintorni di Santa Maria.
Quell'insigne archeologo procedeva ad una
lettura oggi non piùconvincente che pubblicava sul bollettino dell'Accademia dei Lincei. ([3])
Per lui, l’iscrizione:
EX PRAEDIS
M. AURELI
COMMODIAN
che si
poteva leggere nell’esemplare cedutogli per denaro da un contadino di
Racalmuto, comprovava la «provenienza dai predii dell’imperatore Marco Aurelio
Commodo Antonino» ed era anche atta a far desumere dalla titolatura la data
esatta; ciò «in quanto Lucius Aurelius Commodus, salendo al trono nel 180,
s’intitola Marcus Aurelius Commodus
Antoninus, per esser poi di nuovo, nel 191, Lucius (Aelius) Aurelius Commodus (Eckhel, Doctr. Num. VII, 134 segg., 102 seg. C.I.L. VI, 992).» In
definitiva, «per siffatta ragione le nostre matrici sarebbero da attribuire al
periodo tra il 180 e il 191.»
Già, il
dotto Michelangelo Petruzzella mi faceva notare che quella trasposizione di
COMMODIAN in Commodo non era molto attendibile. A conferma, il prof. Salmeri [4]
optava per la formula: ex praedis/ M.
Aureli/ Commodiani, pur non ignorando la tesi del Salinas, e continuava:
«al centro della fascia compresa tra l’ultima linea e il margine inferiore è
raffigurato, a rilievo come le lettere, un caduceo; mentre tra la prima linea e
il margine superiore compaiono – come sigma
– un ramo (di palma) e due stelle ad otto punte. Il nesso ex praedis, di uso comune nei bolli laterizi urbani, seguito dal
nome del dominus al genitivo, nel
secondo secolo d. C., sta ad indicare il “fondo” da cui viene estratta
l’argilla per la produzione di mattoni e di altri manufatti di terracotta.
Nelle lastre siciliane esso rimanda invece al “fondo” da cui provengono i
blocchi gessosi che, una volta sottoposti a fusione, daranno luogo alle forme
di zolfo. Il praedium in questione,
stando ai dati di rinvenimento delle lastre, deve avere occupato tutta o una
parte del territorio degli attuali comuni di Milena e di Racalmuto, che del
resto sono stati tra i primi nell’area nisseno-agrigentina ad essere stati
interessati, dopo una lunga interruzione, della ripresa dell’attività
estrattiva dello zolfo nel XVIII secolo [5];
suo proprietario risulta il liberto imperiale M. Aurelio Commodiano [6],
da collocare nei decenni finale del II secolo d. C. L’assenza di ulteriori
specificazioni dopo la formula ex praedis
M. Aureli Commodiani, in particolare del nome di un conduttore, induce a
ritenere che le cave di zolfo dell’area Milena/Racalmuto, nel tempo a cui
risalgono le lastre, venissero sfruttate direttamente dal proprietario. […]
Quanto alla manodopera impegnata nel praedium di Commodiano, essa sarà stata costituita da
schiavi e da liberi salariati; nel De
officio proconsulis di Ulpiano si prevede inoltre che il governatore possa
comminare quale condanna il lavoro in una sulpuraria
[7]»
L’avere
scisso l’epigrafe dall’imperatore Commodo per collegarlo al liberto Commodiano
comporta, però, uno scardinamento della ricognizione temporale del Salinas.
Continuare ad assegnare il reperto agli ultimi decenni del II secolo d. C. pare
fragile congettura, né la figura di quel liberto può venire invocata per
datazioni certe, come invece la primigenia lettura consentiva. Neppure può affermarsi
che il liberto Commodiano fosse davvero il dominus
delle miniere: più probabile che fosse invece il proprietario di un “fondo”
agrigentino ove si potevano benissimo fabbricare le “gàvite” come altri mattoni
e manufatti di terracotta. Nulla proprio ci assicura che Comodiamo sia vissuto
a Racalmuto, a capo di una miniera di zolfo che, stante il luogo del
ritrovamento della “tegula” o “tabula” sulphuris,
potova essere propinqua alla pirrera di
la Ciaula che mastro Liddu Casuccio
seppe ben coltivare nella seconda metà del XIX secolo.
Ma, se fu
assente Commodiano, certo vissero nei dintorni di Racalmuto, tra il Castello
Chiaramontano e la Piana di la Cursa minatori romani - schiavi, salariati e di
certo damnati ad sulpurariam, come
dire una specie di galeotti – le cui condizioni di vita furono molto simili
alla ottocentesca sorte dei minatori che ci hanno descritta Franchetti e
Sonnino nella loro Inchiesta in Sicilia. [8]
Che le
“gàvite” fossero fabbricate lungi dalla miniera, sembra comprovato dalle «tegulae» che sono state rinvenute nel
1947 in località Bonomorone di Agrigento. E qui non attestavano la presenza di
miniere di zolfo perché, come ebbe a scrivere il Prof. Pietro Griffo ([9]),
si trattava di un deposito di cocci di una figlina
(officina di vasaio): dunque il commercio avveniva ad Agrigento, ma la
produzione era altrove ed in particolare, per quel che ci riguarda, a
Racalmuto.
Biagio
Pace, con taglio più letterario che scientifico, così descrive quell'attività
mineraria: «Si tratta di tegole quadrate di terracotta, di circa 40 cm. di
lato, che recano in rilievo, rovesciate, delle epigrafi... Tegole evidentemente
poste, come illustrò il Salinas, nei cassoni destinati a contenere lo zolfo
liquido e che dobbiamo immaginare del tutto identici a quelli che si adoperano
tuttavia sotto il nome di gàvite, nel
fondo dei quali sono parimenti incise le lettere della miniera, che in tal modo
vengono riprodotte in quelle caratteristiche forme falcate di zolfo, le balate, che ognuno che abbia transitato
per le stazioni zolfifere di Sicilia ha notato.» ([10]).
Pare,
comunque, che l'attività mineraria solfifera a Racalmuto si sia presto estinta
nell'antichità: iniziata, a seguire il Salinas ed anche il Salmeri, attorno al
180 d.C., autorevoli autori la ritengono protratta sino al IV secolo d.C. Dopo,
per oltre 14 secoli, nessuna notizia su miniere di zolfo a Racalmuto. Risale,
invece, agli inizi del Settecento una nota negli archivi parrocchiali della
Matrice che ha attinenza con una miniera, ma non di zolfo, sibbene di salgemma.
Sotto la data del 22 ottobre 1706 il cappellano dell'epoca registra
un infortunio sul lavoro: Giacomo Giangreco Cifirri, di 34 anni, sposato con la
sig.a Nicola, periva sotto una valanga di massi, mentre scavava in una salina.
Il giovane minatore veniva sepolto nella Matrice. «In fovea salinae, ob ruinam
salis repentinam, defunctus est», è
la malinconica annotazione in latino.
I TEMPI DELLA DECADENZA DELL’IMPERO ROMANO (Secc. II-IV d.c.)
Se
la tegula rinvenuta e studiata dal
Salinas e dal Salmeri si colloca negli ultimi decenni del secondo secolo d.C., quella di cui riferisce il
Picone sembra doversi datare nel IV secolo d.C. ([11]).
In epoca di totale declino dell’impero romano, andrebbe pure collocato il noto
sarcofago del Ratto di Proserpina ([12]).
Rispetto a quanto si è detto e scritto su tale testimonianza, per noi resta
ancor valido l’appunto della Guida del T.C.I. del 1968: «Il Castello, - è detto relativamente a
Racalmuto ([13]) -
fondato tra il ‘200 e il ‘300 da Federico Chiaramonte, nell’interno conserva un
sarcofago romano del sec. IV, con la raffigurazione del Ratto di Proserpina.» La coincidenza tra la data del sarcofago e
quella della tegula studiata dal
Picone consente suggestive ipotesi storiche. Le miniere di zolfo erano dunque
attive dal II al IV secolo d.C. e l‘insediamento umano è molto probabile che
gravitasse attorno alla zona in cui ora sorge il Castello. Noi abbiamo potuto
appurare che sotto la costruzione vi è materiale di risulta che pare trattarsi
di reperti ceramici databili ad epoca post-normanna. In ogni caso, nei secoli
del tardo Impero, ferveva l’attività mineraria là dove nell’Ottocento greve è
stato lo sfruttamento dello zolfo. Si attaglia molto bene anche a Racalmuto ciò
che il De Miro annota in una relazione pubblicata in Kokalos: «Accanto a
famiglie di personaggi politici di rango, la prosperità e l’ambizione di classi
medie possono essere state legate alla produzione e al commercio di zolfo per
cui, proprio dopo la metà del II secolo d.C., si rilevano segni di una attività
proficua sulla base delle non poche tegulae
sulfuris. Questo periodo di ricchezza continua anche nel III sec. d. C. con
i sarcofagi marmorei [...] La produzione era ancora attiva nei primi decenni
del IV secolo d. C.; [quindi, subentra] il silenzio dei documenti». ([14])
Sempre secondo il De Miro, la tegula
rinvenuta dal Salinas attesta la proprietà imperiale della miniera di zolfo,
data la formula Ex praedis M. AURELI
([15]).
I dati
archeologici disponibili permettono comunque di abbozzare dati descrittivi
sull’industria solfifera racalmutese ai tempi dei Romani, nonché alcune linee
evolutive di quell’antica economia mineraria. «Per quanto riguarda la
produzione - annota il De Miro ([16])
- pur essendo nulla rimasto delle antiche miniere, evidentemente obliterate da
quelle di età moderna, il processo di estrazione e di preparazione dei pani di
zolfo da commerciare già Biagio Pace aveva indicato come non dovesse
differenziarsi dai sistemi in uso ad Agrigento nel XIX secolo.»
Pare che in
un primo momento ci fosse una organizzazione specialistica che, «distinguendo
tra proprietà del fundus e attività
mineraria, affida[sse] la gestione della miniera e la produzione a “officine”..
Questa tendenza nel III sec. d.C. e oltre porta al monopolio imperiale delle
miniere di zolfo in Sicilia, con una organizzazione razionalizzata e articolata
in cui, unitamente alla proprietà imperiale emerge, in posizione evidenziata,
la figura del concessionario titolare dell’officina,
dell’attività industriale, e in posizione subordinata [..], quella del conductor della miniera.»
Successivamente appare «il manceps,
figura che assume sempre maggior rilievo, sicché in età costantiniana, sparita
l’indicazione dell’officina e del conductor,
essa è la sola registrata dopo l’indicazione dell’imperatore. [..] Il manceps tende ad assumere per appalto
l’intera amministrazione delle miniere di zolfo imperiali, con un significato
molto vicino a quello che, nello stesso periodo, indicava coloro che
attendevano all’amministrazione del cursus
publicus e delle stationes. [...]
Quale sia stato l’evolversi ulteriore della organizzazione industriale delle
miniere di zolfo in Sicilia non è dato sapere. Certo è che dopo il IV sec. d.C.
l’attività si affievolì e si spense. E ciò può essere avvenuto contemporaneamente
al passaggio della proprietà terriera assenteista imperiale e più tardi
ecclesiastica in gestione privata, nel quadro di un’economia che ormai ignorava
lo sfruttamento delle miniere. La destinazione della produzione dovette
superare l’ambito isolano, e in particolare dall’Emporium di Agrigento doveva partire il commercio diretto con
l’Africa. [..] Si ha quindi l’impressione che, caduta in disuso l’industria
dello zolfo, gli interessi economici e gli investimenti si concentrino
esclusivamente sulla campagna [..] Nel IV sec. il tessuto sociale agrigentino
si attiva, nell’ambito religioso, dell’apporto del Cristianesimo, conservando
il suo baricentro verso l’Africa: ceramica sigillata tarda africana e lucerne
sono comune corredo delle sepolture ipogeiche.» ([17])
In tale
contesto, pensiamo ad un’operosa presenza di officinae, conductores e,
quindi, di mancipes in quel di
Racalmuto, con centro abitato gravitante più verso l’area del Castello che
verso Casalvecchio. Ove ora si ergono le torri potrebbe esservi stata una
necropoli, se il noto sarcofago fosse stato utilizzato fin dal IV sec. d. C. là
dove, poi, per secoli è rimasto. I resti di tegulae,
rinvenuti presso S. Maria, rafforzano ipotesi della specie.
Dopo il IV
secolo, uno spostamento del centro abitativo in contrada Grotticelli, è per tanti versi attestato. La fine dell’industria
estrattiva e la desolazione che ebbe a determinare il terremoto che devastò
l’Isola nel 365 d. C. spinsero, probabilmente, a questo cambiamento abitativo.
Ma i resti archeologici che ormai vanno affiorando con ritmo crescente e con
maggiore attenzione da parte delle autorità, attestano necropoli bizantine
sotto il Ferraro e soprattutto un centro abitato – che per padre Salvo è il
Gardutah dell’Edrisi – sotto la grotta di fra Diego, come già si è avuto modo
di accennare.
Fascicolo 40.3.4 -
(annotazioni interne: 1877 - 64-1-1 - Girgenti - Mattoni antichi con bolli,
miniere solfuree).
[2])
C.I.L. [CORPUS INSCRIPIONUM LATINARUM] a cura di Teodoro MOMMSEN - Vol. X,2 p.
857 - TEGULAE MANCIPUM SULFURIS AGRIGENTINAE - 1883 - (nn. 8044 1-9).
[3])
NOTIZIE DEGLI SCAVI - Anno 1900, pagg. 659-60.
[4] ) Giovanni Salmeri, Sicilia Romana. Storia e storiografia, G. Maimone Editore, Catania
1992, pp. 29-43.
[5] ) M. Colonna, L’industria zolfifera siciliana. Origini, sviluppo, declino.
Catania 1971, pp. 14-15.
[6] )
Così giustamente R.J.A. Wilson, Sicily under the Roman Empire,
Warminster 1990, p. 238 e p. 395 n. 8.
[7] )
Tavole di flessione: sulphuraria, sost.; sulpuraria, sost. sulphuraria, ae, f.,
solfatara, ULP. – Dig. XLVIII, 19, 8,
10; F.G.B. Millar, Condemnation to Hard Labour in the Roman
Empire, «PBSR» 39 (1984), pp. 124-147.
[8] ) Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, Inchiesta in Sicilia, edizione
fiorentina del 1974, pp. 269-279 del II volume.
[9])
KOKALOS 1963, pp. 163-184.
[11])
L’accenno al MANCEPS conduce a quella
datazione, se si accettano le argomentazioni in proposito di E. De Miro, quali
si leggono nella sua relazione pubblicata in Kokalos XXVIII-XXIX, 1982-1982,
pag. 324.
[12])
Oggi custodito nell’androne del Comune, da tempo immemorabile giaceva prima al
Castello.
[13])
Guida d’Italia del Touring Club Italiano - Sicilia - ed. 1968, pag. 303.
[14]) Ernesto De Miro: Città e contado nella Sicilia
Centro-Meridionale, nel iii e iv sec. d.C.
- in Kokalos pag. 320. In quella relazione, spunti
riguardanti specificatamente Racalmuto si colgono nella Tav. XLIV [la Tegula di
cui alla Fig. 1d - CIL X 8044, 1 - MANCIPU[M] - [S]ULFORIS - SICILI[AE] - ST,
se non è proprio quella del Picone, è del tutto analoga.]
[15]) E. De Miro, op. cit. pag. 321.
[16]) E. De Miro, op. cit. pag. 320.
[16]) B. Pace, Arte e Civiltà della Sicilia Antica I, 1935, p. 393
ss.
[17]) E. De Miro, op. cit. passim.
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