lunedì 16 gennaio 2023

 

La trasuta di li miricani

Mini storia racalmutese

 

 

di CALOGERO TAVERNA

APPARECCHIU MIRICANU ....
di Nicolò Falci

 

APPARECCHIU MIRICANU ...

(“apparecchiu miricaaanu, jetta bummi e sinni vaaaaa,
apparecchiu miricaaanu jetta bummi e sinni vaaaaa ...”

Passanu ‘n cìalu tanti aeroplani
e ‘n testa a mia pinzera luntani
(su comu granci ca vannu ‘nnarrìari)
e mi riviju carusu arrìari.

La guerra aviva finutu d’allura.
A lu paisi la vita era dura
e ni li gruìcchi ancora guzzìava
l’ecu di bumma ca ‘n terra scuppiava.

L’allavancavanu li miricani
-ca chini avivanu l’aeroplani-
p’arrigalari la dimucrazìa
a la Sicilia, a l’Italia mìa.

Ma tutti sannu ca a li carusi
-pi fari un juacu cu antri vavusi-
ogni occasioni ci duna lu spuntu,
comu la cosa ca ora vi cuntu.

Si n’apparecchiu passava, vulannu,
li picciliddri, currìann’e ridìannu,
‘n coru cantavanu na filastrocca ...
... ... ma chiddru già era junt’a Milocca!

(((“apparecchiu miricaaanu, jetta bummi e sinni vaaaaa,
apparecchiu miricaaanu jetta bummi e sinni vaaaaa ...”))).

Passa lu tìampu ma li miricani
bumm’arrigalan’a cu voli pani,
dimucrazìa pinsannu di dari
a cu cujetu vulissi arristari.

Spirassi, allura, ca ddri picciliddri,
ca hannu pi tettu sulu li stiddri,
uguali a nantri putissiru fari
e ddra canzuna assìami cantari:

ca ddr’apparecchi ca volanu gantu
ad iddri ‘un portanu lacrimi e chiantu:
eranu fansi, ma ora su mansi!
Genti trasportanu ni li so’ panzi,

genti pacifica ca viaggia in paci
e pò firriari unn’è ca cci piaci.
Chista è la spranza ca tutti avìammu,
ed è cosa fatta si lu vulìammu.

 

 

 

 

Calen di maggio; maggio mese dei fiori; maggio mese del mio compleanno. Siamo nel maggio del 1943. Il 10 di quel mese compio nove anni; frequento la terza elementare e pare che sia bravo a scuola: il primo della classe, dicono. Mio  cugino, Giacomo Saccomando, non brilla molto a scuola, ma è davvero bravo con la "fileccia". Calpisce le colombe anche lassù nelle feritoie di "LU CANNUNI". Svelto coi pugni, si fa rispettare da quelli che vengono su  LU CHIANU CASTIEDDU da SANTA NICOLA o da LA FUNTANA. Io dovrei essere un funtanaru, ma sto con mia nonna in una sorta di catoio DARRIERI SAN GNISEPPI, sopra la discesa di San Francesco. Mio cugino sta nelle CAMMARI di SUSU; il padre è militare in Grecia. Pur anzianotto è dovuto partire per soldato per il fatto che si era dovuto arruolare nella Milizia dopo un alterco con milite protetto da Carminu Burruano. Credo che allora mi invidiasse avendo io oltre che la madre anche il padre a casa. Da fanciullo mio cugino era piuttosto manesco e forse cattivo: con gli animali era piuttosto crudelle. Io ero fragilino, tanto pio e volevo farmi parrino. A giocare al dottore con le bambine non andavo: mon sapevo neppure cosa facessero. Ed Angila la figlia di Rita mi ebbe per superbo e ce l'ebbe con me persino a tardissima età. Era bruttarella, oltretutto, e semmaio io arrossivo ed abbassavo gli occhi per una biondina di San Giuliano. A vederla dopo, piccoletta e rachitella, ebbi a dubitare delle mie capacità discernitrici.

In quel maggio, con mia nonna e con la sorella di mia nonna - la zza Turidduzza, spirlongona rispetto alla sorella, ma col lo stesso Jppuni, egualmente e totalmente in nero, meno il candido fazzoletto in testa - andai alla Curma a mettere la ticchiara a li ficara. Poi io, mia nonna e sua sorella, ci inerpicammo per lu Castidduzzu ove la zza Turidduzza aveva una robba bella grande in una proprietà vasta e ben alberata. Anche là mettemmo la ticchiara. Laggiù, a Portoempedoche sparavano i cannoni in risposta alle cannonate delle navi americane, ma non ce ne curavamo. Eravamo abbastanza lontani e non era sera: allora sì che era uno spettacolo sembrava uno spettacolare sastieddu fuocu.

 

Mia nonna e sua sorella avevano i figli emigrati in America: a Buffalo la prima; a New York la zza Turidduzza. Entrambe prima dello scoppio della guerra erano state fornite abbondantemente di zucchero e caffé. Mia nonna teneva sopra lu cantaranu una fila di burnie piene di quel ben di Dio, che rano merce preziosa ora durante il conflitto. Mio cugino, scendeva spesso di soppiatto e salendo su una siggiteddra, che mia nonna non alta di statura predilegdeva, riusciva a scoperchiare la burnia dello zucchhero e trangugiare pugni pieni di quella prelibatezza. A me sembrava che commettesse peccato mortale ed ero convinto che non si confessasse neppure anche se si faceva la comunione. La prima comunione ce l'eravamo fatta insieme tre anni prima. Io avevo un completo di giacca e pantaloni lunghi che bianchi com'rrano mi facevano apparire come un buffo angioletti: con libricino bianco in mano frammezzato da una coroncina pur essa bianca - mio padre ne faceva commercio - mi fecero la fotografia appoggiato ad una colonnetta pittosto alta con sopra un vaso di fiori finti. La posseggo ancora.

In quel maggio lì, in Africa era avvenuto quello che è avvenuto; per l'Italia la guerra era ormai irrimediabilmente persa. Toccava a noi subiro l'urto della strabocchevole potenza alleata; all'Ameria, all'amica Amirica, alla terra promessa di tanti emigranti, a tanti nostri compesani là emigrati, ai loro figli il compito di conquistarci. Fu liberazione? fu aggressione? Dopo le aspre polemiche dell'immediato dopoguerra, ecco riproporsi il quesito: Non crdedo che la parola sia davvero passata agli storici, alla ricerca obiettiva, anche se la querelle attuale mi sa troppo di pruriti eruditi. di voglia di contraddire, di correggere, di sapere, di potere essere più intelligenti. L'America ci è amica, la Germania ci protegge, i fascisti sobo patetici ed innocui nostri consanguinei, la Sicilia non ebbe guerre partigiane (e se ciò è un male per la crescita culturale, è un bene per il relativismo che bisogna avere nelle militanze politiche).

Sfogliando una raccolta ben rilegata di un settimanale dell'epoca IL MATTINO ILLUSTRATO che il suocero di mio fratello teneva ben custodito, mi soffermo sull'ultimo numero della Sicilia fascista, l'anno XXI (ovverossia il 1943), mese di maggio.

In quel maggio lì, in Africa era avvenuto quello che è avvenuto; per l'Italia la guerra era ormai irrimediabilmente persa. Toccava a noi subiro l'urto della strabocchevole potenza alleata; all'Ameria, all'amica Amirica, alla terra promessa di tanti emigranti, a tanti nostri compesani là emigrati, ai loro figli il compito di conquistarci. Fu liberazione? fu aggressione? Dopo le aspre polemiche dell'immediato dopoguerra, ecco riproporsi il quesito: Non crdedo che la parola sia davvero passata agli storici, alla ricerca obiettiva, anche se la querelle attuale mi sa troppo di pruriti eruditi. di voglia di contraddire, di correggere, di sapere, di potere essere più intelligenti. L'America ci è amica, la Germania ci protegge, i fascisti sobo patetici ed innocui nostri consanguinei, la Sicilia non ebbe guerre partigiane (e se ciò è un male per la crescita culturale, è un bene per il relativismo che bisogna avere nelle militanze politiche).

Sfogliando una raccolta ben rilegata di un settimanale dell'epoca IL MATTINO ILLUSTRATO che il suocero di mio fratello teneva ben custodito, mi soffermo sull'ultimo numero della Sicilia fascista, l'anno XXI (ovverossia il 1943), mese di maggio.


 

 

 

 

Mi colpisce l'assenza assoluta di immagini di Mussolini; ma quel periodico mai mostra Mussolini; forse era questione di censura di guerra. Sembra ormai che la guerra non ci sia più. Almeno per la Sicilia. Sono amori ancellari che hanno spazio; voli aerei dell'epoca, romantici, vagamente sensuali. Sono le cene dei ricchiche affiorano, in tempi credo (e ricordo) di grandi privazioni. Vestigia dell'ancora imperante regime un VOI al posto del Lei ed una periodizzazione cara a Starace.

 

 

 Dopo l'ultimo numero di maggio 1943, il periodico non arriva più a Racalmuto, nella casa dei solerti benestanti della famiglia Palermo.

Neppure le innocue rievocazioni storiche di un papa pur discutibile per il fascismo come PIO XI ci saranno più. Sparisce il settimale con l'ultima pagina disegnata con scene soprattuttutto irridenti all'America.


 


 

 

 Dopo l'ultimo numero di maggio 1943, il periodico non arriva più a Racalmuto, nella casa dei solerti benestanti della famiglia Palermo.

 

 

 

 

 

 A giugno sostenni gli esami di terza elementare; terrorre di fanciullo il mio; soddisfazione paterna per il brillante risultato, il primo invero di tant'altri che hanno costellato la mia vita e che hanno riempito di orgoglio mio padre, che non lo celava al Mutuo Soccorso incassandone malcelate invidie. Io mi irritavo tanto; ma pover'uomo non faceva nulla di male. Ovunque tu sia, padre mio, questo tuo figlio, ora quasi ottantenne, ti ricorda con molto melanconico affetto e ti vuol bene come se tu fossi ancora fra noi.

Ombre fluttuanti, ai miei occhi appariste .... eccovi ancora.

 

Spolvero un vecchio testo di “cronaca”. Eugenio Napoleone Messana ecco come rammenta, riferisce, corregge, riempie di valenze politiche questo scorcio di storia locale.

“Il 1943 fu l’anno più duro.  … Gli allarmi cominciarono a susseguirsi. Mentre prima, sia di notte che di giorno, quando le campane a morto annunziavano l’allarme di rimanere a casa, limitandosi a vestirsi se a letto e a riempir d’acquale bacinelle per intinguervi le lenzuola in caso di lancio di gas asfissiante e metterli davanti le imposte, secondo le istruzioni avute in precedenza, poi si cominciò a correre nelle grotte. Gli aerei nemici si sentivano rombare sopra le case.

”Un giorno verso le tredici una raffica di mitraglia lanciata sul campanile della Matrice fece avvertire che realmente il pericolo c’era. Il 9 luglio 1943 mitragliarono un treno ad Aragona Caldare […] Verso le ore 21 si sentì un cupo rombo di aerei. Poco dopo piovvero le bombe in contrada Pantanelli. Ci fu il corri corri. Tutti alle grotte  [cfr. foto successive]

 





 

 

RIEVOCAZIONI

 

Riprendo il racconto con una precisazione: nel 1943 nessun MATTINO ILLUSTRATO giunse a Racalmuto. Mi sembrava strano: ora so che varie annate del MATTINO ILLUSTRATO tutte e belle e rilegate pervennero a Racalmuto ma da una bancarella di Palermo e quando eravamo negli anni ‘60. Nel 1943 a Racalmuto era solo cessato ascoltare a mezzogiorno il comunicato radio, dopo il celebre cinguettare, a capo scoperto. Con il 13 maggio anche il residuo patriottismo dei più grintosi fascisti si era afflosciato. Solo Giuggiu Agrò poté credere alla retorica del bagnasciuga dell’ormai spento Mussolini. Certo i baldi cadetti vi facevano coro, ma con quanta convinzione non sappiamo dire. L. M., L. di M., G.C., Leopoldo, tutti i cugini di M., il non cresciuto P. F. ed altri ed altri ligi al duce, poco al re, si dichiaravano pronti alla morte ma nel calduccio delle case racalmutesi; ad ammirare il martire fascista e a credere, ubbidire e combattere, ma solo nelle colonie elioterapiche del Serrone. A sbirciare magari le piccole donne in camicetta bianca ed in gonnellino nero. Quando insomma fiorirono i primi amori. E mi pare che non andarono a buon fine. Amori che se si consumarono, come dicono i preti, non portarono al matrimonio. Il matrimonio magari dopo vi fu, ma tra parenti stretti, Alcuni di loro spinnarono fino al decomporsi della non più giovane vita.

 


Sciascia odiava il “giummo”: quando l’ho scritto, un fanatico per poco non va a comprarsi una lupara per scaricarmela addosso. Sciascia giovane col fascismo vi bazzicò. Aveva zio quasi federale ed il primo impiego glielo diede nelle odiose trappole fasciste della requisizione del grano superfluo o intercettato al mercato nero.  Si chiamava Consorzio Agrario. Un galantuomo di vecchia data ebbe ad adontarsene e se lo segnò a dito. Venuti gli americani, quel galantuomo, che pur aveva avuto alti incarichi nelle ragnatele paramilitari fasciste, divenne persino capo della inventata sezione partigiana racalmutese. Subito se la intese con Guarino Amella di Canicattì. Quando ancora forse il celeberrimo Tony, questo strano yenkee americano che signoreggiò su Racalmuto  e ne taglieggiò qualche ricattabile farmacista, non era sbarcato; il galantuomo, dottore per antonomasia, riuscì a far spedire in Africa per un paio di anni di internamento Giuggiu Agrò l’ex gerarca fascista (che aveva osato requisirgli qualche stanza del suo palazzo in via Matrona per darlo ad ufficiali tedeschi ed anche italiani), l’evanescente maresciallo Craveri (cui i tre americani conquistatori di Racalmuto, avevano tolto la pistola d’ordinanza in piena piazza, che è poi il Corso Garibaldi dinnanzi la putia di Ticchitì) e tale don Bardiddu (finito vice podestà  per la insostituibilità del podestà Matina chiamato alle armi e per la indisponibilità degli altri gerarchi anzianotti, Grillo o Farrauto, riluttanti a coprire tale ormai scottante carica).  Uomo vendicativo, quel galantuomo, passato dalla sera alla mattina da gerarca fascista a capo della sezione partigiana di Racalmuto, non fu contento di avere fatto tre vittime – per il paese tutti e tre innocenti, ma più innocente di tutti viene ancora ritenuto ed era don Bardiddu.

 

Il nostro galantuomo compila una lista di duecento nomi – tutti quelli che odiava o di cui si voleva vendicare o per un motivo o per un altro  - e lo porta a Canicattì per il confino in Africa. Tra questi vi era Nardu Sciascia e don Pino Matina; vi era pure un altro giovane che mi pare fosse Fofu la Gadda. Ne ebbe sentore il neo sindaco, il celeberrimo – per i racalmutesi, e celebrato da Tanu Savatteri – don Ballassaru Tinebra. Questi si precipitò a Canicattì e bloccò arrabbiatissimo il provvedimento. Sarà stato quello che si dice (e si scrive), sarà stato ammazzato da ignoti, o da C. come credo, il mandante sarà stato ignoto oppure  - e pare – certo, sarà stato l’ex affittuario di Gibillini, sarà stato quel che volete, ma Sciascia, don Pino Matina ed altre centinaia di Racalmutesi si risparmiarono un paio di anni di confino in Africa per la solerzia e l’umanità di questo primo sindaco imposto dagli americani, tramite il solito Guarino Amella di Canicattì. Questa era allora mafia; questa era allora infiltrazione mafiosa, ma non risulta che si avesse voglia di inviare a Racalmuto prefette in gonnella per sbaragliare le nostre cosche mafiose. 



 

 

 

 

”La trasuta di li miricani” a Racalmuto,  Sciascia  ce la racconta, molto sapidamente, in Kermesse. In quel     tempo avevo pur io età per ricordare qualcosa. In tante parti del racconto del Racalmutese i ricordi combaciano, in altre no. Per il seguito credo di sapere ciò che Sciascia non volle confessare. L’esordio è frutto di erudita ricerca storica. Sfracella il generale Roatta; un tempo mi era sembrato eccessivo, ma un bel giorno del marzo 2012 Enzo Macaluso mi trascina nel museo di Catania e lì quel proclama ironizzato da Sciascia c’è esposto e mostra davvero la marronata di quel generale: davvero – ho pensato – la guerra è una cosa molto seria per farla fare ai generali.

Dopo, lo scrittore fa una cronaca di guerra diversa dai miei ricordi e dalle versioni che pur bambino riuscivo a decriptare. Io racconto la mia versione.


 

Da San Giuliano, nel primo pomeriggio del 14 o 15 o 16 luglio del 1943 affacciato nell’ “astracu” della mia vecchia casa natia di Via Fontis dei documenti (divenuta poi via Fontana ed ora Via Gramsci), vedo scendere una ronda di tre soldatoni, marziale il passo. Martellante l’incedere, armatissimi, casco in testa. Fucili in pugno. “ I tedeschi .. i tedeschi” gridavano alcuni. A Racalmuto i tedeschi non c’erano. Soldati italiani tanti, a lu cannuni, davanti a “ma mamma Cuncittì”. A frotte. Mangiavano nelle loro gavette. Molti seduti sul marciapiede lungo tutta la facciata del fortilizio; altri appoggiati alle inferriate di “lu Cannuni”. Un pacioso in divisa grigio-verde prese in braccio mio fratello Luigi, allora belloccio e biondiccio, e cominciò a baciarlo. Mia nonna terrorizzata voleva levaglielo di mano ma quel pacioso militare gli disse in dialetto nordico: me lo lasci baciare un po’: ho un bambino come questo che non vedo da mesi. E’ bello come questo qui. Mio fratello aveva manco tre anni.

“ Che tedeschi e tedeschi” risposero altri. “Questi, americani sono”. Sgomento, prima, perplessità, dopo. Infine come una folgorazione: “viva gli americani”. Figli di taliani sunnu. Abbasso il duce, stu’ gran curnutazzu, ca nni rruvinà. E giù battimano , tutti a batter le mani. La ronda si rasserenò, sorrise persino. Gli americani “eranu trasuti a Racalmuto”.

 

 

Sciascia sapidamente irride al noto proclama Roatta. Come ho precisato, lo ebbi a leggere in una gita fatta con Enzo Macaluso visitando il museo sullo sbarco di Catania, un museo molto agghindato. Ne vale la pena visitarlo, anche se forse molto esuberante per una sola decina di giorni di storia siciliana. Ma trattasi di inquietanti vicende a raggio planetario. Altre priorità della tanto incalzante Sicilia, se aspettano, non è poi malanno esiziale.

A leggere le invocazioni roattiane non si può non dare ragione a Sciascia. Quando Sciascia scriveva, non credo che si soppesasse ancora a pieno il movimento di Bossi, considerato a torto o a ragione antisiciliano. Poi quel movimento crebbe e per reazione il sentire siciliano divenne nazionalista e gli empiti separatisti del primo dopoguerra si afflosciarono. Un tantinello anche i miei. Solo che ora mi sento cittadino del mondo nato a Racalmuto. Se ho bisogno di una patria fisica, mi rifugio a Racalmuto, se mi si parla di valori nazionali ne rifuggo reputandomi uomo alla pari di quei sei o sette miliardi di esseri umani sparsi per l’intero mondo. Ce l’ho con l’Italia intera dopo che ho ben capito che cosa significò l’essere  stato mio nonno disperso di guerra. Della guerra del 15-18, per intenderci. Mio nonno aveva soltanto 37 anni nel ’17. La strategia militare dei generali del tempo rimase terribilmente nota per usare gli esseri umani in grigio-verde come muraglia all’avanzare del nemico: che avanzava e sparava e falcidiava. Mio nonno aveva comprato una mula; stava salendo di grado nella scala sociale dell’era giolittiana: da mezzadro a coltivatore diretto. Aveva già cinque figli. La moglie ancor più giovane divenne subito vedova per la faccenda di Caporetto. Mio nonno sparì e nella burocrazia militare fu segnato come disperso. Ancor oggi non si sa ove fu sepolto. Sinceramente non gliene importava nulla a mio nonno di liberare Trento e Trieste. Non capiva neppure una parola di quel dialetto veneto, lui analfabeta che le lettere alla moglie se le faceva scrivere da qualcuno lì al fronte che lu cuocciu di la littra ce l’aveva.


 

Dal fronte mio nonno urgeva: che si recasse mia nonna a supplicare la suocera. Mio nonno padre di cinque figli era; ben tre altri suoi fratelli erano sotto le armi. Lui aveva diritto a venire congedato, gli avevano detto. Bastava che la madre ne facesse istanza. Mia bisnonna, mamma Pippina – matriarca vera e dispotica e tutta la famiglia, maschi e femmine teneva sotto di sé – non se ne dava per intesa: “sì, fazzu turnari Caliddu .. e cchi bbeni intra nni mia; intra nni tia ssi nni va  … va … va, vattinni va” . Mia nonna la odiò per tutta la vita. A noi nipoti, ci fuorviava con quelle invettive contro la suocera. Noi nipoti finimmo col crederle … e la bisnonna divenne una odiosa “mamma Pippina” come se non fossimo sangue del suo sangue.

Sarà! I miei ricordi stridono. Una mia zia monaca che mi sembrava tanto vecchia ed invece aveva appena 33 anni, aveva dovuto lasciare il convento per i tremendi bombardamenti americani ed era venuta a dimorare a casa nostra. Tutta nera di vestito, destava preoccupazione. Si diceva che gli americani scambiassero chi andava vestito di nero per fascista e lo mitragliavano di colpo. Un carrettiere racalmutese ebbe  a morire per le mitraglie americane sol perché – si diceva – aveva la camicia nera per un lutto strettissimo: altrettanto si disse per un contadino racalmutese trucidato dagli anglo-americani. Brava gente si vorrebbe  oggi.

A far levare l’abito monacale e farla vestire da cristiana qualunque, non c’era verso e la monaca, provvisoriamente di casa, non si sapeva come nasconderla. Fu così che anzitempo andammo “fori”, nella casettina di la Curma, mia nonna, la figlia monaca, una nipote cresciutella, mio fratello Giacomo, ed anche Giovanni e Luigi.

Questo avvenne nei primissimi di Luglio. Si sussurrava dappertutto che la guerra era persa e francamente questo non interessava ad alcuno:  sia pure vagamente si pensava che i disagi potessero diminuire. Va detto che a Racalmuto, fame vera e propria non ve ne fu. Si coltivava la terra e l‘arriconta bastava per tutti; il pane – non quello della tessera che era immangiabile e serviva ai bambini per appallottolare la mollica e farne palline da gioco – che si mangiava veniva accompagnato dalla pasta, dal sugo di pomodoro maturato al sole o dall’astrattu nel periodo invernale. Racalmuto ha sempre prodotto vino, non di eccelsa qualità, ma sempre vino genuino era; nutriente. Favi, ciciri, piseddi, cacuocciuli, puma, piruna, ficu, e fucudinii, in abbondanza. Chi non aveva terra comprava al mercato nero da chi ce l’aveva. V’era l’obbligo dell’ammasso. Sciascia, che per via dello zio gerarca era privilegiato, ebbe subito un posticino negli uffici comunali dell’ammasso. Credo che dopo se ne vergognasse un po’. In FUOCO ALL’ANIMA qualcosa dice, molto nasconde.

 

Quella storiellina del contadino e dell’arciprete va un tantinello rettificata: a Racalmuto tutti in quel tempo facevano il mercato nero con il grano, cercando di non darlo per nulla all’ammasso, ove bivaccavano due baldi giovanotti raccomandati. Sciascia dice di non essere andato militare perché gracilino. Se non avesse avuto un paio di zii quasi federali, ci sarebbe andato e come. I due – il contadino e l’arciprete – finirono nei guai il primo per testardaggine, il secondo per astiosa vendetta. La storia del contadino, che contadino non era ma un buon burgisi con figlie femmine che non tutte sposarono e con tre figli maschi divenuti professionisti di tutto rilievo, quando me la raccontarono molto mi son divertito. Ora non la ricordo più bene. Aveva un figlio ufficiale il contadino e si credeva una parte dello stato; come potevano molestarlo per una sciocchezza che, se reato era, tutti i racalmutesi erano colpevoli, anche l’arciprete. L’arciprete subì anch’egli l’onta del processo, ma più accorto ne uscì assolto, l’altro, invece, cominciò a sbraitare, ad insolentire e forse aveva ragione: appunto per questo indispettì oltre misura i giudici, che la coscienza pulita al riguardo non ce l’avevano neppure loro, ed ecco una bella condanna a dispetto.

I due giovanottoni, per essersi acquistata una buona dose di malevolenza da parte di un dottore non medico,  alquanto irritabile, dovevano finire dopo tra i berberi in Africa. Il famiglio del grande mafioso Calogero Vizzini – già quando come dice Sciascia in fuoco all’anima, “la mafia era la mafia” ed è frase se non elogiativa almeno lievemente ammiccante – evitò a Canicattì presso il comando alleato la deportazione, come si disse, e così Sciascia poté dopo persino vincere il concorso a maestro elementare. Insegnò a Racalmuto, svogliatamente, se vogliamo esser sinceri. I suoi meriti sono letterari, non didattici, né storici (almeno nel campo della microstoria locale) e per quel che mi riguarda nemmeno politici. Né con lo Stato né con le Brigate rosse non fu frase molto felice. La cena con Berlinguer, Guttuso  e lo scrittore finì in tribunale ma ancora non ha sentenza. Io sono per Berlinguer e per Guttuso. Il giornalista  racalmutese, molto bravo, Macaluso è rissosamente per Sciascia: si vede che ne sa più di me.

In NERO SU NERO di Sciascia, a pag. 118, trovo questa chicca: «Ho vivo il ricordo di quel che è successo quando, nel ’43, l’amministrazione militare alleata nei territori occupati AMGOT: ne ripeto la sigla assaporando l’amarezza di un tempo, (più che perduto, deluso) mostrò di avercela coi fascisti e di gradire denuncie contro i più pericolosi e disonesti. Non uno ne fu denunciato e subì deportazione in Algeria che non fosse degli onesti, degli innocui, dei ‘fessi’ (e cioè di quelli che dal regime in articulomortis  avevano accettato quelle cariche da cui i furbi ormai si defilavano). I facinorosi , i profittatori, i ladri furono non solo risparmiati, con una selezione a rovescio che si può dire senz’altro perfetta, ma furono segnalati alla fiducia degli ufficiali americani ed inglesi, che gliene accordarono.»

Certo quella ‘i’ in più nelle denunce, lascia un po’ stupiti. Il quadro è dilettevole. A voler fare le pulci al grandissimo Sciascia, diciamo che tra quei “fessi” vi fu a Racalmuto solo don Bardiddu, che maresciallo e segretario politico, chi per devozione fanatica e chi per il pane quotidiano che insieme al companatico elargiva la benemerita, non potevano passare tra i “furbi” tra i quali Sciascia qualche suo parente stretto (meglio affine, forse) sapeva vi annidasse. E meno male che  tra i “facinorosi, i profittatori e i ladri”, vi fu qualcuno che, dopo,  impedì la deportazione in Africa del Nostro. Il quale, ora lassù, mentre col profittatore (fulminato dalla lupara davanti Danieli) sta a rimembrare “questo pianeta”, un qualche “ingrato” se lo becca. Queste vicende mi sono state narrate dal don Pinu Matina, per me un gran signore, un “galantuomo”, uno di quelli di cui si sono perse le tracce al Circolo Unione. Anche lui prossimo alla deportazione. Lui sempre grato ed obiettivo anche. D’altronde poteva urtare la suscettibilità di chi talora gli stava vicino  impettito nella signorile poltrona del Circolo.

 

 

Nella sua primavera letteraria Sciascia scrisse KERMESSE. Quattro o cinque pagine sapide, deliziose, ironiche, veritiere. Solo un po’ pudiche nella parte finale.

 Prende subito di mira ROATTA e il suo proclama: lo lessi al museo dello sbarco di Gela a Catania. I generali, non solo non sanno fare la guerra  ma se si cimentano nelle cose della storia, sanno anche, loro malgrado, divertire. A Roatta attribuisce il merito di essere stato il «primo ad avvertire i siciliani che italiani proprio non potevano considerarsi e che gli italiani si proponevano di difendere i siciliani allo stesso modo e nello stesso sentimento dei “camerati” tedeschi.»

Che i miei compaesani di Racalmuto avessero il complesso del “cambiar bandiera” non ha riscontro nella mia memoria. Preoccupazione, invece, tanta, perché non si sapeva che fine potessero fare i loro cari che – poco raccomandati – erano finiti in  Grecia; quelli d’Algeria, come mio zio Luigi, presi prigionieri dagli inglesi, abbiamo saputo dopo, finirono in Inghilterra, stivati per giorni in navi, sotto tiro di aerei e a rischio di siluramento dai sottomarini tedeschi, quando non italiani. Mio zio Luigi, classe ’14, nel 1939 parte per la leva; non fa tempo a concluderla e su un trabiccolo sorvola il Mediterraneo per finire in Africa a fare il meccanico. Preso prigioniero dagli inglesi approda nella grande isola britannica, si rifiuta di collaborare e viene sfruttato come uomo della terra: un ritorno coatto al mestiere del padre.  Ritornerà in Italia il 29 giugno 1945.  Parte ventunenne, ritorna trentunenne: non ebbe giovinezza. Era un grande affabulatore, ma  appena settantaquattrenne muore di cancro, dopo ampie metastasi alla gola e per quasi dieci anni non poté parlare, privo dell’unico suo piacere, quello della loquacità. Che strano mondo questo qui! A mio nonno non importava nulla di Trento e Trieste e lo spogliano della vita a 37 anni. A mio zio gli piaceva tanto vivere e parlare e per un quinquennio lo costringono a coltivar patate in terra di Albione, terra a lui del tutto estranea e che non amava di certo. Mia nonna paterna, sempre vestita di nero, col fazzoletto bianco in testa non so se a trent’anni piangesse il marito che per cinque volte l’aveva resa madre in manco nove anni; sembrò uscir di mente per il figlio disperso, per oltre un anno. Poi tramite vaticano ebbe notizia della prigionia in Inghilterra. In quell’anno, mia nonna andava dalle cartomanti che pullularono a Racalmuto. Maria la Billizza la più rinomata. Mia nonna però preferiva quella della straduzza di ‘gnura Annidda. Non era facoltosa, eppure i soldi per sapere se il figlio era vivo dall’arcano linguaggio delle carte della “maga” se li faceva uscire. Per la chiesa faceva peccato; mia nonna non se ne dava per inteso; credo che non ne parlasse nel confessionale e si faceva egualmente la comunione. Subito dopo magari passava per la “maga” che sempre buone notizie aveva.


 

Nel 1943 mio zio l’aveva scampata per miracolo in Africa sotto un bombardamento a tappeto: volle che si portassero due buchè alla Madonna del Monte, due buchè con fiori, erano alti filiformi vitrei. Nicu Lu Sardu, il barbiere fotografo, venne a casa mia, a tutti i nipoti ci fece mettere a scala per altezza e ci fece la fotografia con avanti i due buchè. Non erano ancora nati mio fratello Angelo e Lina la figlia di mio zio paterno Calogero. Non eravamo allegri, non sorridevamo, specie io che assumevo l’area pretesca ad appena nove anni. Questo non significa che eravamo tristi, solo compunti, dignitosi come possono essere sette bambini il più anziano di soli nove anni. Non capivamo che stavamo vivendo un periodo tragico della storia d’Italia, stavamo perdendo la guerra che aveva voluto Mussolini.

 


Ricordo il giorno in cui quello lì di Roma, da Piazza Venezia sfidò le maggiori potenze del mondo. Scesi con mia nonna materna a San Franciscu: vi era il raduno delle cinque sorelle (i cinque fratelli, uno faceva il “dirigibile”, l’altro stava accanto a mia nonna in un dammusu tentando impossibile fortuna da “scarparu” ed era sordastro, l’altro ancora stava facendo invece fortuna con una salumeria avviatissima a Palermo -  dopo dovette scappare per i bombardamenti, e finì a Racalmuto con una bellissima figlia e due masculi non disprezzabili, ma finì, se non in miseria, col disperdere i suoi risparmi); due fratelli in America. Erano in dieci figli.


 A San Franciscu, donne e giovinette (la zza Lillina, Teresina, etc.) si trasformarono nelle ancestrali prefiche e piansero, e imprecarono, e chiamavano Mussolini con improperi che non ricordo, forse oltre la decenza. Disertò per prima la ‘zza Mariù: aveva il figlio cadetto ed era fanatico. Sembrava che avesse il fascismo nel sangue; aveva però appena diciassette o diciotto anni e sotto Giuggiu Agrò e con a lato l’autoritario ingegnere Falletti i calci nel culo che ebbe a dare nel raduno fascista del sabato alle scuole nuove restarono proverbiali. Balilla e avanguardisti, militarescamente bardati e con fucili di legno,   dovevano marciare impeccabilmente . Di statura meschinella, mal nutriti, per natura ribelli, non erano uno spettacolo, finivano fuori schiera e il calcio nel culo se lo meritavano. Con tanti di loro ho parlato, tutti a parlar bene del cadetto Luigi Di M. Arrivava tronfio Giuggiuù Agrò e sembrava l’avvento del Duce a Racalmuto.

 

 


 

Sciascia, pare, non partecipasse perché aveva in odio il “giummo” della divisa fascista: forse lo zio il prof. Farrauto sapeva ben proteggerlo ed esonerarlo. Ex avanguardista se  non erano in età di leva, potevano benissimo servire lo Stato fascista con l’arruolamento volontario: se ne guardarono bene. La retorica tanta, i fatti pochi. Tartufescamente, tra il dire (in sproloqui patriottardi) ed il fare ( al fonte si moriva) si disse ma non si andò al fronte. Armiamoci e partite, si ironizzava a Racalmuto. Le piccole italiane, ora giovincelle appetite dai guerreschi  in calore, le addestrava la maestra Taibi, maschia ma non insensibile.

Il “cadetto” aveva una sorella  che si affacciava alla giovinezza: longilinea, soave, alquanto francesizzante. Se dò adito ai miei molto tardivi vagheggiamenti cinematografici, dovrei dichiararla emula di  Anouk Aimée. La ormai ineludibile entrata degli americani, metteva in apprensione. Non per i baldi yenkee  ché quelli composti ne dovevano stare vuoi per i figli militari dei nostri vuoi perché si sapeva che risorta era la vecchia mafia (quella vera) e già accordi c’erano per una tranquilla conquista della Sicilia, vigilata, indirizzata e protetta dai tanti rispettabilissimi capimafia di ogni centro abitato siciliano. Si vociferava che potessero seguirli i marocchini e costoro si diceva essere famelici di giovani donne, specie se minorenni o meglio vergini. Era propaganda fascista, d’accordo. E Moravia on la sua “ciociara” era molto di là a venire. Un po’ si sapeva un po’ no: un accordo di ferro era stato concertato: niente squadre marocchine in Sicilia. La diffidenza sicula in materia di salvaguardia della giovinezza intemerata delle proprie figlie in età da marito era acuminata ed angosciante. Già di giovani in paese c’erano pochi per via della guerra voluta da quel “cornutazzu” di Mussolini.

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 Aveva in bel da fare Giuggiu Agrò ad impedire discorsi disfattisti al Circolo del mutuo soccorso tra i sedentari che qualcosa dovevano avere per le loro interminabili discussioni. Qualcuno lo prese e se lo portò in gattabuia. Brav’uomo in definitiva Giuggiu Agrò – lo dice anche Sciascia. Aveva comunque un fanatismo  fascista in corpo che se lo portò sino alla tomba. Prematuramente, purtroppo. Quando ritornò dalla deportazione in Algeria, cercò una sistemazione. Tutto il suo servizio come segretario del fascio ora non solo non serviva a niente, ma era da ostacolo ad un impieguccio al municipio. Allora non c’era l’attuale scorciatoia dei LSU o dei posticini a contratto. Bisognava essere di intemerata fede “democratica”. Giuggiu Agrò l’attestato di intemerata fede democratica ovviamente non poteva esibirlo, neanche con carte false. Cercò allora di farsi dare una dichiarazione di civile convivenza dal Mutuo Soccorso. Lì, però insorsero pingui maldicenti, usi al male e l’attestato gli si doveva negare per la faccenda dell’incarcerazione di un socio reo di mormorazioni disfattiste. Giuggiu Agrò altezzosamente prevenne lo smacco, ritirò la richiesta: a dire il ci aveva pensato un astro nascente della politica di sinistra, piissimo e neo comunista per dissidio da un compagno di letto omo. Giuggiu Agrò fu regolarmente assunto. Pensate un po’, da un “comunista”. A Racalmuto sappiamo tutto sommato essere ilari.

La sorella del “cadetto” dunque destava qualche preoccupazione per via degli evanescenti marocchini. Ragazza già donna all’Anouk Aimée (per mia palese mistificazione), era prima cugina di mia madre. Soprattutto era nipote di mia nonna materna, scheletrica per troppa vedovanza. C’era pure mia zia monaca, venuta dal trapanese per sfuggire ai terrificanti bombardamenti americani. La monaca, allora caruccia anche se traccagnotta con i suoi sei o sette cinquine, portava un nero integrale e si diceva che gli americani dove vedevano nero vedevano fascisti e sparavano ed ammazzavano, Ma c’era soprattutto l’apprensione marocchina. Mia zia monaca il saio nero non volle assolutamente levarselo. Quanto all’altra faccenda, non era Claudia Cardinale del Gattopardo per farsi quella sconcia risata. Noi nipotini in fin dei conti la consideravamo asessuata, come asessuate consideravamo tutte quelle vedove di vecchia data che a Racalmuto (ed altrove, penso) brulicavano.

In un primo tempo, alla fine di giugno, ci radunammo tutti in casa mia vecchia casa che mio padre aveva fatto aggiustare dal Mussumulisi sperperando tanti suoi risparmi sudati, letteralmente parlando, con i suoi viaggi a Palermo per rifornirsi di “roba” che poi forniva lucrosamente a tanti venditori ambulanti. Un altro mio zio faceva quel mestiere, aveva la “bardanella” che un aiutante, quando non faceva il facchino, portava a tracollo girovagando per i paesi vicini: Milocca, lu Naduri, Castrufllippu e soprattutto Montedoro. Aveva purtroppo scarsa fortuna. Bellissimo quel mio zio, vestiva “allicchittatu”, lo ricordo in eterno lucidarsi le scarpe. Le donne, sedicenti zie, venivano anche da Palermo per corteggiarlo. Salivano in un terrificante solaio della casa paterna di mia nonna. La quale aveva di che strillare. Lassù figlio e  “parente” palermitana facevano i loro comodi. Così pensava mia nonna ed io penso che pensasse giusto. Mio zio giovanissimo cominciò ad avere disturbi di stomaco: Vomitava tanto. Non voleva, però, curarsi; aveva terrore dei ferri. Morì di cancro nel ’50 a soli trent’anni. Era mio “pipino”. Gli volevo un bene dell’anima. Me ne voleva di più. Ave, carissimo zio, ovunque tu sia!

 

Mia zia monaca sembrava l’esperta di bombardamenti. All’improvviso a Racalmuto, sul cielo di Racalmuto, cominciarono a volteggiare aerei, pareva che giostrassero: in picchiata e poi s’inerpicavano, rumori assordanti. Le sirene che preannunciavano aerei già in sorvolo, che dovevano segnare la fine  ed invece gli apparecchi militari americani ancora lì stavano, dal Castelluzzo alla montagna, da dietro il Serrone sino al mare e dal mare in paese. Luccichii, lampi in cielo. Mitraglie che dannatamente crepitavano lassù in alto, senza senso … fortunatamente.  Veramente non ce ne davamo più apprensione, tutto divenne consueto, insenso ma non preoccupante. Mia zia sosteneva che quando suonava la sirena nel rifugio dovevamo andare … ma rifugio a Racalmuto non c’era. Almeno di notte, disse mia zia sotto in cantina dovevamo dormire. Scendemmo tutti i parenti stretti nella nostra cantina che era ampia ed aveva archi di supporto che secondo mia zia ben potevano proteggerci da improvvisi lanci di bombe. Cunzarunu letti. Per noi bambini era più un divertimento che un rifugiarsi. La novità appariva gradevole, spezzava la monotonia dei giorni a scuola chiusa. Mia nonna paterna, però, non volle venire: nella sua alcova, quella antica alla siciliana si sentiva più al sicuro. Mio zio Pietro la seguì. Mia nonna Concetta venne un paio di notti, non si trovava a suo agio. Se ne tornò nel suo catoio. Mia zia monaca non poté lasciare la mamma sola e melanconicamente andò a dormire nel mono ambiente della mamma.  La festa evaporava. Giunti così ai primi di luglio mio padre decise che il tempo orami era caldo e ben si poteva andare “ fori” a la Curma. Si prese il solito carretto; il carrettiere, il solito, sistemò tanta di quella roba su quei pochi metri quadrati del tavolato del carro che sembrava un miracolo. Le lunghe tavole del letto matrimoniale di mia nonna – che su quello ancora dormiva con me bambino accanto a farle compagnia - fuoriuscivano dietro, con i trispa a cavalcione. Il marito le era morto da oltre trent’anni. E lei vedova rimase con il nero del lutto perennemente addosso. Jppuni nero, falletta nera, calze nere, scarpe – ineleganti tappini – nere; il fazzoletto largo in testa come soggolo, però, era bianco, candido. Aveva la dentiera ed ogni sera se la levava. Io bambino non capivo  e ormai vi avevo fatto l’abitudine. Quando a tarda età mi sono messo a rimembrare ed  a cercare di capire mi sono chiesto che tipo di femminilità vivevano tutte queste vedove in giovane età; e di allegria la retriva società siciliana poco gliene concedeva; divenivano proprio asessuate, neppure discorsi alacri si concedeva. Tante, quasi tutte assurgevano però a matriarche, il dominio dell’intera famiglia avevano e le maggiori vittime erano le altre donne del clan; i maschietti ci guadagnavano, un occhio di riguardo veniva loro elargito; qualcuno diveniva il cocco di nonna ed in famiglia conseguiva scandalosi ed invidiati privilegi. Sciascia ebbe a dire una volta che in Sicilia vigeva il matriarcato; la Maraini lo fulminò.

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Fu così che ai primi caldi di luglio 1943 ci trovammo a la Curma. Mia nonna aveva ereditato una piccola proprietà, manco due tumoli di terra, bonificati, però, con alberi di pero, di pesco, di fico. Grande il castello di fichidindia che faceva da pudica cortina alla “robba”. C’era un casolare siciliano con feritoie per scrutare e se del caso sparare. Era dell’Ottocento. Tre ambienti si direbbe oggi: la cammara, tre metri per tre metri, l’ingresso giù con scala d’accesso e sotto la scala la mangiatoia; di fronte, la cucina all’antica; adiacente una stalla grande. L’ingresso era parte su pietra gessosa – la chiamavamo balata – e parte sulla nuda terra, battuta comunque e con sopra residui di paglia da tempo immemorabile; frammisti rami secchi di pruni.  Amplissima la mangiatoia. Proveniva dall’ampia proprietà di mio bisnonno. Questi nell’ottocento si era dato alla speculazione zolfifera. Non aveva avuto molta fortuna. Bucava la terra, cercava zolfo. Quasi mai lo trovava, debiti contraeva. Sul letto di morte fece testamento, lo dettò al notaio che riservò per se stesso una buona fetta della nostra terra alla Curma. Una parte comunque pervenne a mia nonna. A quella casa non piccola, non grande, ero affezionato. Pervenuta a mia madre, fu venduta in un momento di nostre difficoltà economiche. Non sono riuscito a recuperarla. Ora, spalla; i proprietari attuali sparsi per il mondo non hanno tempo e voglia di buttar l’acqua fuori, come si dice.

Appena si arrivava si faceva subito la “ittena”, una rudimentale panca in pietra; v’era dentro una sorta di nicchia grande e vi si affiggeva una immagine sacra grande; di solito il sacro cuore di Gesù. Il miracolo avveniva nella “cammara”. In quei pochi metri quadri mia nonna faceva disporre il suo grande letto matrimoniale. Nell’angolo di fronte si apparecchiava il lettino per mia zia monaca che aveva per paravento due lenzuola legate ad un filo ad L  che partiva da un chiodo alla parente di fronte, si attorcigliava ad un bastone che faceva da angolo e si fissava ad un altro chiodo alla parete di lato. Un lettino a terra nel mezzo ci usciva. Vi si coricava la sorella del cadetto di cui abbiamo parlato. Nel letto grande dormivano mia nonna due nipoti accanto e due altri ai piedi del letto. Mia nonna il suo materasso lo voleva di lana, per gli altri il materasso era un ripieno di paglia che si andava a prendere dalle aie fresche della tradizionale trebbiatura con le bestie. La raccolta era già alle spalle.

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Fu così che nella notte del 10 luglio 1943 facemmo la tremenda esperienza di una bomba americana esplosa là vicino, a Piru. Si disse che a tarda notte avevano acceso il fuoco per cuocere i pomodori nel grande pentolone di rame e farne poi l’ “astratto”.  Non morì nessuno per quell’incauto richiamo del volteggiante aereo americano, pronto a sganciare una bomba su innocui contadini alle prese con le conserve di pomodoro. Dopo guerra, a dignità nazionale ripresa, una denuncia penale occorreva fare contro quei nostri liberatori, figli o imparentati di emigranti compaesani.

Svegliati di soprassalto, nulla capendo, stropicciandoci gli occhi impauriti, non avemmo neppure il tempo di farci dire da mia zia monaca cosa era successo. Subito, subito, iusu, intimò con voce strozzata mia zia monaca. Bommi ittaru, bummi ittaru, soggiunse la zia che dicemmo essere esperta.

Ci sdraiammo giù, all’ingresso, sopra la paglia antica frammezzata da pruni pungenti. I culetti di noi bambini ebbero dolorose pizzicate. Le anziane per decenza tacquero. Stemmo alquanto in attesa di chissà quale nuova deflagrazione. Per fortuna nulla ebbe a seguire. Allora, mia zia salì sopra, prese coperte e lenzuola. Sotto, tutto aggiustò al fioco lume di una “lumera” ad olio. Risistemati da cristiani, mia zia monaca prese il suo rosario e cominciò a biascicare le solite avemaria. “Ave Maria, piena di grazie, il Signore è teco. Tu sei la benedetta” ….. e noi di seguito: Santa Maria madre di Dio, prega per noi peccatori …Il salmodiare ad un tratto cominciò a venire frammezzato dalla sorella del cadetto che con stridulo pianto istericamente lamentava “mammuzza mia can un ti viiu cchiu”. Quando poi raccontavano la vicenda, a noi bambini piaceva celiare: “ Santa Maria Madre di Dio  … Mammuzza mia can un ti viiu chhiu”.

Mia nonna ebbe un moto di stizza. “U cafè vuogliu”. Aveva voglia mia zia monaca a dire: Madre mia, non si può!. Se accendiamo il fuoco, ci bombardano. Mia nonna, perentoria: u cafè vuogliu. Paziente e remissiva mia zia monaca, salì di sopra, prese il caffè scese giù e lo versò nel pentolino di acqua. Ristoratici in qualche modo, la tardissima ora ci portò tutti in un sonno che almeno per noi bambi fu profondo e tranquillo.

Alle prime luci del giorno, giunse il fratello della cuginetta di mia madre e se la portò via. Subito dopo, giunsero mio zio Pietro e mio padre e tutti quanti, nonna e nipoti, ci riportarono in paese. A Sant’Antonino, mio fratello Luigi, il bambino di manco tre anni e lo zio Pietro videro volteggiare sopra di loro gli impazziti aerei americani. Scesero da cavallo, e ripararono sotto un rovo ai bordi della strada. Sopra gli aerei sparavano a vuoto, in continuazione. Quei piloti saranno stati drogati, che non vi era bisogno alcuno di sparare. Non c’erano militari, e lo sapevano, non c’erano tedeschi e lo sapevano.  Vero è che Mussolini, o chi per lui, aveva fatto piazzare sopra il fortilizio del Castelluccio un gran cannone. Non vi erano però artificieri, non vi erano soldati. Anche a lu “Cannuni” avevano piazzato un cannone. Lì, i soldati c’erano, ma neppure un colpo ebbe a sparare. Inettitudini? Ordini segreti? Intesa col nemico? Mah! Un dubbio mi assale. Non c’era alcun bisogno di bruciare tanto carburante, di sprecare tante munizioni, di mettere a repentaglio tante vite umane; tanti loro soldati, anche e far tanto spreco di apparecchi, come a quel tempo li chiamavamo. Ed allora, nessuno mi toglie dalla mente che tutto dipese dagli interessi delle grandi industrie di armi americane. Cui si aggiunse, strategicamente, l’intento di tenere impegnate forze tedesche in Sicilia. Cui dopo seguì la folla sfida tra Patton e Montgomery a chi arrivava prima a Palermo. Tutta roba da tribunale di guerra. Ma gli americani vinsero e furono eroi e liberatori, i tedeschi persero ed ebbero l’ignominia di Norimberga. Poi il fratello piccolo di tre anni andava salmodiando “ bum bum bum … mi spararu ccà (a quel posto) m’acchiapparu”. Erano state, però, le spine del rovo.


 






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Dice Sciascia all’atto dell’entrata degli americani, i siciliani erano “servi che finalmente si liberano da un padrone ed un altro attendono che sperano più largo, più generoso, più stupido”. Noi non abbiamo tanto pessimismo, pensiamo semplicemente che i siciliani a cominciare dai loro “fasci” si scrollarono di dosso questa abitudine a considerarsi servi e furono cittadini dignitosi, magari un po’ accorti nei confronti della giustizia “romana”. Con la democrazia cristiana – bisogna riconoscerlo – Roma non fu più “nemica”, lo Stato non più nemico. Un pizzico di diffidenza, non guasta ma senza mai esagerare. Simile sentire non è perspicuo e la letteratura abbisogna di forti tinte. Ritornare, dopo millenni, alla “servitù della gleba” fa molto scic e fa vendere. Per quel che ricordiamo nella congiuntura dello sbarco americano a Gela, c‘era molto senso della congiuntura, molto prammatico senso del presente, del vivere giorno per giorno. Non si pensava più né a Roma né a Mussolini. Sicuramente non si sapeva di Stevens e neppure più “la voce di Palazzo Venezia manteneva una sua tenue ragnatela d’incanto”. Alla radio non ci si toglieva più il berretto al comunicato di mezzogiorno: c’era il problema del mezzogiorno da risolvere. Accortamente dai Racalmutesi, desolatamente per i tanti “sfollati” venuti soprattutto da Palermo. Suonarono davvero “sirene e campane a martello [per annunciare] l’emergenza”? Noi non ricordiamo, francamente ci pare svolazzo poetico.  Non saremmo tanto propensi a vedere i siciliani celebrare una strana kermesse quella «dei servi che finalmente si liberano da un padrone ed un altro ne attendono che sperano più largo, più generoso, più stupido.» Non si attaglia a Racalmuto. Racalmuto fu sinceramente anche se in modo indolente fascista. La creme dirigenziale era in mano a galantuomini del primo liberalismo giolittiano e facevano più o meno bene i medici o gli insegnanti elementari. Ronzavano un po’ troppo i giovinastri venuti su dal basso, ma velleitari erano, dopo tutto innocui, note folkloristiche. Non abbiamo avuto martiri fascisti (e manco comunisti). Il fascismo a Racalmuto lo introdusse – sì, proprio così – Calogero Vizzini con don Ciccu Burruano, i figli di costui e Agostino Puma. Nacque da esigenze padronali: quelle dei conduttori di miniere associatisi in un sindacatino confindustriale per fronteggiare l’incipiente rivolta dei laboratori delle miniere. Calogero Vizzini non tardò, però, a subire l’onta della repressione del prefetto Mori, la cui sovrastima di sé ebbe a perderlo per diffidenza di Mussolini in persona. In quella caduta fu coinvolto il fascista della prima ora il tenentino Burruano, che per diventare colonnello, a tarda età, dovette aspettare la caduta del regime. Dopo, fu più che altro celebre per le sue suadenti doti di gran cerimoniere nei veglioni (promiscui) del Circolo Unione.

Diviene qui ancor più sapida la prosa mirabile di Sciascia. Dilettiamoci insieme a leggerla: «La mattina del dieci gli americani erano sulla costa tra Gela e Licata. Il paese in cui mi trovavo, e che era il mio, distava da Licata una cinquantina di chilometri: ma era compreso in una zona rimasta alle semplici operazioni di rastrellamento. Così gli americani non giunsero che una settimana dopo. Giungevano alla spicciolata i feriti di un reggimento di bersaglieri che, nel punto più vicino della costa, erano entrati in contatto isolato con gli americani. Non erano siciliani, ma in gran parte veneti. I siciliani non si erano fatti cogliere, sapevano dove andare, si sbandarono al primo urto: che era in realtà urto insostenibile e grottesco, se si pensa che si contava su fossi mal scavati e in gran fretta per arrestare i carri armati; e che soltanto un paio di aerei si videro timidamente sorvolare i margini della zona. Dunque i feriti giungevano: e finivano proprio là dove il regime in vent’anni non aveva speso una lira né sostenuto i muri poco saldi. Finivano nell’inutile e vuoto ospedale del paese dove un medico frettolosamente fasciava le loro ferite, ma in quanto a mangiare, proprio niente da fare.

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 Non avevano niente le suore, niente sapeva che fare il podestà, ancor meno il segretario politico. C’era, sì, una colonia della Gil piena di buone cose e dotata di buone somme; ma via, proprio in quel momento, per dei solati che perdevano la guerra – mica si poteva perdere di vista il futuro, che era ben altrimenti nero che l’orbace.

     

 

Allora i giovani cercarono di rimediare alla meglio, quei pochi giovani del paese che ancora erano capaci di sentire qualcosa d buono [ …] Così i feriti poterono mangiare qualcosa, fino all’arrivo delle gallette e del corned beef americano.»

 

Riteniamo autobiografica l’ultima parte del nostro stralcio. Spiega bene come i commilitoni feriti a Racalmuto poterono aspettare, tutto sommato, la loro liberazione ‘americana’. Qualche chiosa: il podestà non c’era perché sotto le armi. Non si poteva destituirlo e così si pensò ad un Vice Podestà. So che fu fatta offerta ad uno zio di Sciascia: questi celestinianamente rifiutò. L’abbiamo scritto e tanto basta. La faccenda della Gioventù italiana del Littorio e soprattutto la faccenda delle buone cose e buone somme, ha purtroppo riscontri sgradevoli. Personaggi squallidi ebbero in mano quei beni e ne locupletarono. Nefasti prima, durante e dopo l’epoca fascista. Furono delatori fiscali e fecero impoverire certa brava gente su cui caddero strali tributari per inesistenti profitti di guerra. Di converso spalleggiarono quelli che i profitti di guerra li avevano davvero conseguiti. Comunque, figli e nipoti, dopo, condussero e o conducono vita esemplare e i meriti dei figli ricadano sui loro immeritevoli padri. Cose che comunque potranno venire alla luce solo ad apertura degli archivi per la caduta dell’attuale riserbo settantennale. Quei baldi giovani qualche peso sulla coscienza dovevano sentirlo: parlavano ancora di patria, di onore, di dedizione e se ne stavano caldi e sicuri mente i loro coetanei o poco più che coetanei perdevano sì la guerra ma con tanto onore e ne uscivano anche malconci nel corpo quando non perdevano le loro giovani vite. Io sono tutt’altro che patriottardo ma onore al merito … ed alla verità storica.

Sciascia, quando scriveva, non poteva disporre di informazioni come quelle che qui ritraiamo da WIKIPEDIA. Se avesse saputo, prudente com’era, sarebbe stato più accorto e puntuale. Accordiamogli di  buon grado l’esimente della buonafede. Ma rileggiamo le note oggi disponibili in Internet.

Dopo una serie di bombardamenti dalle navi e di attacchi aerei la settima armata americana, comandata dal Generale Patton, sbarcò la 3ª Divisione fanteria comandata dal generale Truscott. Alle 2,45 della notte tra il 9 e il 10 luglio 1943 iniziò lo sbarco di 20 000 uomini a Licata, Spiaggia o Baia di Mollarella e Poliscia ore 2,57. Gli altri sbarchi avvennero a Gela, dove tremila paracadutisti furono lanciati nell'entroterra, e a Scoglitti, nel ragusano. In 24 ore 160 000 uomini furono sbarcati. Tra il 10 e l'11 luglio la divisione tedesca "Hermann Goering" e quella italiana "Livorno" contrattaccarono gli americani nella piana di Gela, dove fu combattuta una terribile battaglia: i contrattacchi dei "gruppi mobili" italiani, reparti di formazione motocorazzati costituiti ciascuno da circa 1.500-2.000 uomini, una dozzina di carri o semoventi ed una batteria d'artiglieria misero in seria crisi le posizioni alleate; significativa la carica dei circa 20-30 carri Renault R-35 di preda bellica del 131º Reggimento carri, che da soli attraversarono quasi tutta la testa di ponte americana mettendo, insieme ai vigorosi contrattacchi della "Livorno" (l'unica fra le divisioni italiane parzialmente motorizzata) e della "Hermann Goering", a serissimo rischio tutto il piano d'invasione della 5ª Armata USA; tutta l'operazione di sbarco fu salvata solo dall'imprevista efficacia del tiro navale, che si abbatteva inesorabile sugli italotedeschi. Anche gli assalti di un raccogliticcio ma coraggioso CCCCXXIX battaglione costiero, male armato, poco addestrato e addirittura deficiente nelle dotazioni di base (ad esempio, non tutti avevano scarpe, che si passavano a chi doveva fare i turni di guardia) furono così energici da arrestare l'impeto americano.

E qui riprendiamo il bello e puntuale ricordo di Sciascia:

«Gli americani ancora non venivano. Passarono due autocarri carichi di soldati tedeschi, bagnati di sudore e con le armi al piede, seduti per quattro avevano lo sguardo fisso in avanti, stanco ed allucinato. L’indomani a mezzogiorno passarono ancora due tedeschi con una automobile munita di radio. Fecero sentire il bollettino trasmesso da Roma che da più giorni non sentivamo; mangiarono tranquillamente, fumarono i loro sigari. Due ore dopo la loro partenza, cinque soldati col lungo fucile abbassato sbucarono improvvisamente nella piazza, indecisi. Videro, davanti una porta semiaperta, qualche uomo in divisa; e si mossero sicuri. I carabinieri si trovarono puntati addosso i fucili senza capire che gli americani erano finalmente arrivati. Le loro pistole penzolarono nelle mani di uno della pattuglia. Un applauso scoppiò. Una voce chiese sigarette; e il caporale americano tastò le tasche del brigadiere dei carabinieri, ne tirò un pacchetto di Africa e lo lanciò agli spettatori. Come in un salotto quando fiorisce una battuta di spirito, un senso di amenità si diffuse al gesto del caporale.»

Questa singolare sincronia tra due tedeschi, quasi pacifici, che se ne vanno e cinque americani che “sbucano improvvisamente nella piazza”, lascerebbe perplessi se non si sospettasse che tra invasori americani e tedeschi belligeranti intesa c’era. Qualcuno mi dice che per un certo tempo carri armati tedeschi bivaccarono sotto l’arco di Tulumello, mentre fanti in gran numero stazionavano ai bordi del Purgatorio, finché non giunsero autocarri a prelevarli. Subito dopo, come avvisati, arrivò la ronda americana liberatrice.

Soggiunge Sciascia: «La festa era cominciata. Da tutte le strade la popolazione affluiva. Non si sa come cannate di vino passate di mano in ano sorvolarono la folla, bicchieri si arrubinarono, pieni e grondanti venivano offerti con dolce violenza alla pattuglia che li rifiutava. L’inglese degli emigranti sciamava goffo e servile intorno a quei cinque uomini stupefatti: tutti coloro che in America avevano guadagnato quel po’ di denaro che in patria era divenuto casa o podere, erano corsi come ad un appuntamento felice. Una enorme bandiera di seta lacera, la bandiera degli Stati Uniti, fu tolta di mano a quel pover’uomo che l’aveva tirata fuori: passò saldamente nelle mani di un altro che per caso, proprio in quei giorni, aveva lasciato le carceri regie. Fu allora il momento di passare alle insegne della casa del fascio. Tirate giù, furono accompagnate a calci per tutte le strade: e l’indomani si trovarono galleggianti dentro un abbeveratoio. Sembravano di bronzo, ma in realtà erano di latta. »

Aggiunge sempre Sciascia: «La kermesse era al suo vertice. Camionette e carri blindati affluivano tra ali plaudenti di popolo. Alquanto nervoso, e nervosamente sorridendo, un soldato dalla faccia di meticcio puntava dall’alto di un carro, la mitragliatrice sulla folla. In cambio ne riceveva un sorriso cordiale riflesso su centinaia di facce, un ammicco di intesa: ‘vuoi scherzare, lo sappiamo, ma domani mangeremo tutte le buone cose che ti porti dietro, i biscotti salati e gli spaghetti in scatola’. Qualche sigaretta pioveva sulla generale letizia, e alla mischia che ne seguiva la macchina fotografica di qualche soldato scattava. »

«Nel frattempo – soggiunge Sciascia – un contadino che, vedendo in campagna spuntare una pattuglia di americani, tentava chissà perché di fuggire, veniva raggiunto ed ucciso da una scarica di mitra: ma la notizia non incrinò la generale allegria.»

 

A questo punto per Sciascia scatta il represso ricordo di ingiustizie patite. «..la danza di circostanza era in preparazione. Si chiamava il ballo delle spie. Le spie. Mentre il popolo si scatenava nella ebbrezza, il vecchio avvocato C. [e forse doveva dire B.], con mano tremante di gioia intestava una specie di supplica: ‘Onorevole Comando Militare Alleato di  …’ [intendeva dire di Canicattì?], e chiedeva la testa di una cinquantina di fascisti locali [noi pensiamo oltre duecento] che, da ex massone passato al fascismo, mai l’avevano tenuto nella dovuta considerazione. [Diciamo gli avevano fatto torto, o così pensava, lui]. Il segretario politico, il podestà [rectius, il vice podestà che quello era ancora lontano, sotto le armi], il maresciallo dei carabinieri  furono l’indomani prelevati: e loro notizie giunsero alle famiglie qualche mese dopo, da Orano.» Venenum in cauta, una stilettatina a Ballassaru Tinebra. Non molto tempo dopo, finito sotto i colpi di lupara in piena piazza, da Centoeddeci, disse il processo; innocente, invece, per Sciascia e per Tanu Savatteri. Sul debito di Sciascia per questo primo sindaco, imposto dagli americani, abbiamo già detto e non vogliamo ripeterci. Oltretutto potremmo avere torto.

Ci pare che qualche ripensamento Sciascia lo abbia avuto, prossimo alla morte, in Fuoco all’Anima. Parlando con Porzio, taluni ricordi di kermesse sembrano perduti, altri ne affiorano. Qualche rettifica ci pare di coglierla. Al lettore il confronto ed il giudizio.

 


Se ben leggiamo, come si vede la storia è ondivaga; dipende agli umori, dalle idee, dalle convinzioni, dalle età. C’è chi ricorda una ronda di tre americani che scendono dalla guardia, per San Giuliano, svoltando per via Fontana all’insù e chi è certo di una pattuglia di cinque militari che sbucano all’improvviso. E questo è solo un dettaglio. Chi è certo di occhi corruschi e di placidi sguardi di graduati tedeschi e chi presume avieri drogati delle Forze Alleate. Ma tanto collima e tanto basta per varare uno squarcio di storia racalmutese.

Noi licenziamo il nostro rincorrere i nostri ricordi infantili. Valgano per i nostri compaesani senza fisime letterarie, senza voglia di avere la certezza in tasca, senza assumere atteggiamenti censori, senza volere violentare chi la pensa diversamente. Soprattutto senza idolatrie preconcette e senza sarcasmi stiosi.

Per chi la storia la vuole come sta nella carta stampata (a dire il vero, oggi, prevale quella leggibile in Internet) forniamo una raccolta di appunti e contrappunti informatici.

 Chiediamo scusa per la noia che nolenti, ma incapaci, vi abbiamo arrecato.

Calogero Taverna

 

APPENDICE

 


 [da WIKIPEDIA]

Le forze in campo

Perdite circa 167.000 perdite totali: Germania:  12.000 morti e prigionieri  8.000 feriti[4]

 Regno d'Italia: 147.000 perdite (soprattutto prigionieri)[4] 24.846 perdite

 (5.837 morti, 15.683 feriti, 3.326 prigionieri)[5]:

USA:  2.899 morti e dispersi  6.471 feriti  598 prigionieri

 Regno Unito:  2.376 morti  7.548 feriti  2.644 prigionieri

 

 Canada:  562 morti  1.664 feriti  84 prigionieri

L'operazione Husky (colosso) fu la prima invasione alleata del suolo italiano che durante la seconda guerra mondiale permise, con l'utilizzo di sette divisioni di fanteria (tre britanniche, tre statunitensi e una canadese) l'inizio della campagna d'Italia. L'operazione Husky costituì una delle più grandi azioni navali mai realizzate fino ad allora. Le grandi unità impegnate appartenevano alla 7ª Armata USA al comando del generale George S. Patton, e l'8ª Armata britannica al comando del generale Bernard Law Montgomery, riunite nel 15º Gruppo di Armate, sotto la responsabilità del generale inglese Harold Alexander.

 

La campagna ebbe inizio con lo sbarco in Sicilia (a Licata, tra Gela e Scoglitti e tra Pachino e Siracusa) delle forze alleate, tra il 9 e il 10 luglio 1943, a cui presero parte circa 160 000 uomini.

La pianificazione dello sbarco 

L'attacco all'Italia fu deciso da americani ed inglesi durante la Conferenza di Casablanca del 14 gennaio 1943 (a tal proposito, celebre rimase la definizione dell'Italia di Winston Churchill: «L'Italia è il ventre molle dell'Asse») e la pianificazione e l'organizzazione venne affidata al generale Dwight Eisenhower.

 

Accordi preliminari 

La preparazione allo sbarco interessò una trattativa tra i rappresentanti del governo alleato e chi realmente aveva in Sicilia una grande influenza, ovvero la mafia[6]. Dalla relazione conclusiva della Commissione parlamentare Antimafia presentata alle Camere il 4 febbraio 1976: “Qualche tempo prima dello sbarco angloamericano in Sicilia numerosi elementi dell'esercito americano furono inviati nell'isola, per prendere contatti con persone determinate e per suscitare nella popolazione sentimenti favorevoli agli alleati. Una volta infatti che era stata decisa a Casablanca l'occupazione della Sicilia, il Naval Intelligence Service organizzò un'apposita squadra (la Target section), incaricandola di raccogliere le necessarie informazioni ai fini dello sbarco e della “preparazione psicologica” della Sicilia. Fu così predisposta una fitta rete informativa, che stabilì preziosi collegamenti con la Sicilia, e mandò nell'isola un numero sempre maggiore di collaboratori e di informatori. Ma l'episodio certo più importante è quello che riguarda la parte avuta nella preparazione dello sbarco dal gangster Lucky Luciano, uno dei capi riconosciuti della malavita americana di origine siciliana, il quale stava scontando una condanna a 15 anni[7]. Si comprende agevolmente, con queste premesse, quali siano state le vie dell'infiltrazione alleata in Sicilia prima dell'occupazione. Il gangster americano, una volta accettata l'idea di collaborare con le autorità governative, dovette prendere contatto con i grandi capimafia statunitensi di origine siciliana e questi a loro volta si interessarono di mettere a punto i necessari piani operativi, per far trovare un terreno favorevole agli elementi dell'esercito americano che sarebbero sbarcati clandestinamente in Sicilia per preparare all'occupazione imminente le popolazioni locali. “Luciano” venne graziato nel 1946 “per i grandi servigi resi agli States durante la guerra”, tornò a Napoli a fare contrabbando di sigarette e traffico di eroina.

 E un fatto che quando il 10 luglio 1943 gli americani sbarcarono sulla costa sud della Sicilia, il generale Patton raggiunse Palermo in soli sette giorni. Scrisse Michele Pantaleone: “...è storicamente provato che prima e durante le operazioni militari relative allo sbarco degli alleati in Sicilia, la mafia, d'accordo con il gangsterismo americano, s'adoperò per tenere sgombra la via da un mare all'altro...”[7]. Ancora la Commissione antimafia: "la mafia rinascente trovava in questa funzione, che le veniva assegnata dagli amici di un tempo, emigrati verso i lidi fortunati degli Stati Uniti, un elemento di forza per tornare alla ribalta e per far valere al momento opportuno, come poi effettivamente avrebbe fatto, i suoi crediti verso le potenze occupanti”[7].

 

Accordi fra Allen Dulles e Lucky Luciano 

La trattativa fra servizi segreti americani e criminali mafiosi passò attraverso l'Office of Strategic Services, (OSS), diretto dal generale William Donovan: gerarchicamente, l’OSS in Europa dipendeva da Allen Dulles[8], che aveva la propria sede in Svizzera, il suo diretto dipendente in Italia era l’italoamericano Massimo Corvo, di origini siciliane, noto come "Max" e detto in codice "Maral", numero di matricola 45[9].

 Max Corvo incominciò ad organizzare i propri uomini formando un'unità militare che, fra le forze armate americane era nota come the mafia circle (il circolo della mafia). Stabilì quindi ulteriori contatti con Victor Anfuso, Lucky Luciano, Vito Genovese, Albert Anastasia e altre persone delle organizzazioni criminali italoamericane inserite nell’operazione Underworld, un giovane raccomandato dallo stesso Luciano, Michele Sindona, e anche un certo Licio Gelli[9].

 Max Corvo e la sua squadra vengono sbarcati in Nord Africa a maggio 1943. Poi tre giorni dopo l’attacco, l’unità prende terra a Falconara, vicino a Gela, e si stabilisce nel castello della cittadina. A Melilla Corvo incontra padre Fiorilla, parente di uno dei suoi uomini e parroco di San Sebastiano, poi è ad Augusta, sua città natale, per reclutare collaboratori locali. Intanto gli agenti dell’OSS occuparono le isole piùà piccole intorno alla Sicilia, fra cui Favignana e liberarono dalla prigione numerosi boss della mafia, che furono arruolati nel servizio dell’OSS, circa 850 "uomini d'onore" raccomandati dai capi mafiosi siciliani, che dopo l'occupazione assunsero cariche pubbliche nell’amministrazione militare del colonnello Charles Poletti: in provincia di Palermo ci furono 62 sindaci mafiosi.[9].

 

Le forze contrapposte erano sulla carta di consistenza quasi pari, dato che la Sesta Armata italiana (generale Alfredo Guzzoni) poteva contare su circa 220.000 uomini, solo 170.000 dei quali erano però combattenti. Le grandi unità italiane erano inoltre carenti sotto tutti i punti di vista (armamento e motorizzazione soprattutto), e molte erano unità costiere prive di armamento pesante. Alcune eccezioni erano costituite da un battaglione di artiglieria semovente aggregato alla Divisione Livorno, che aveva in carico un certo numero di semoventi da 90/53, in grado di mettere fuori combattimento qualunque mezzo corazzato alleato. Il contingente tedesco, forte di 30.000 uomini circa ed al comando del generale Frido von Senger und Etterlin (sostituito il 15 luglio da Hans-Valentin Hube), a differenza degli italiani era perfettamente equipaggiato ed aveva sotto il suo controllo anche la Fallschirm-Panzer-Division 1 "Hermann Göring", dotata di alcuni carri pesanti Tiger I.

 

Pantelleria si arrende

I primi segnali dell'invasione si ebbero già un mese prima (11 giugno 1943), con la presa dell'isola di Pantelleria[10], primo lembo di terra italiana a cadere in mano alleata, seguita dalla caduta dell'isola di Lampedusa il 13 giugno.

 A Pantelleria, dopo un violentissimo bombardamento aereo, il comandante italiano chiese e ottenne da Mussolini il permesso di arrendersi, facendo credere di non avere scorte idriche. In realtà le capaci caverne dell'isola, che già ospitavano degli hangar per l'aviazione, erano in grado di offrire un riparo sicuro a tutta la popolazione civile e militare dell'isola, e le scorte idriche e alimentari erano tutt'altro che esaurite. Gli alleati fecero circa 11.000 prigionieri tra le forze italiane.

 

 

Le forze navali [modifica]

 

Le forze da sbarco, precedute da uno sfortunato lancio di paracadutisti (nessuna delle unità scese nel luogo stabilito e molti parà vennero catturati; inoltre 23 dei 144 Dakota, lungo la rotta di ritorno, sorvolarono le navi alleate e vennero abbattuti perché scambiati per bombardieri dell'Asse) erano protette e scortate da una formidabile flotta combinata.

 

Supermarina non si assunse la responsabilità di inviare la flotta a difesa dell'isola, rischiandone la totale distruzione, quindi chiese capo di stato maggiore di prendere tale decisione; ne segui una serie di discussioni che non portarono ad alcuna azione operativa.[11] La decisione fu in qualche modo giustificata dal fatto che, in assenza di adeguata copertura aerea, le corazzate e gli incrociatori italiani sarebbero salpati per una missione suicida. Tuttavia neppure i numerosi sommergibili in agguato a sud della Sicilia ottennero risultati: nel corso della campagna di Sicilia la Regia Marina perse i sommergibili Ascianghi, Bronzo, Flutto, Nereide, Argento ed Acciaio con la morte in tutto di 152 uomini, ottenendo come unica contropartita i gravi danneggiamenti degli incrociatori leggeri Cleopatra e Newfoundland e l'affondamento della motocannoniera MGB 641[12][13].

 

La flotta alleata contava quattro navi da battaglia (Nelson, Rodney, Warspite e Valiant, quest'ultima appena rientrata in servizio dopo l'attacco di Alessandria), più altre due di riserva ad Algeri ("Forza Z" con le corazzate Howe e King George V), le portaerei Formidable e Indomitable, gli incrociatori Orion, Newfoundland, Mauritius e Uganda, gli incrociatori contraerei Aurora, Penelope, Euryalus, Cleopatra, Sirius e Dido, e 27 cacciatorpediniere. Le forze di appoggio diretto contavano 2 monitori, l'incrociatore Dehly, 8 cacciatorpediniere, 4 cannoniere, 5 mezzi da sbarco trasformati in batterie galleggianti, e 6 mezzi da sbarco con lanciarazzi. La US Navy per parte sua schierava cinque incrociatori (USS Boise, USS Savannah, USS Philadelphia, USS Brooklyn e USS Birmingham), oltre a 25 cacciatorpediniere e a un monitore britannico. Da notare anche la presenza tra queste forze di unità appartenenti a paesi occupati, come Olanda e Grecia. Con l'appoggio di queste forze le prime truppe toccarono terra nelle prime ore del 10 luglio.

 

Le forze terrestri [modifica]

 

 

 

 

 

Nave inglese colpita da un bombardiere tedesco durante lo sbarco a Gela l'11 luglio.

Le forze dell'8ª Armata (il XXX Corpo d'armata formato dalla 1ª Divisione canadese, la 51ª Divisione e la 231ª Brigata Malta, e il XIII Corpo d'armata costituito dalla 5ª e dalla 50ª Divisione) sbarcarono nei tratti di costa compresi tra la penisola di Pachino e la piazzaforte di Siracusa-Augusta, sul versante ionico, ad eccezione della 1ª Divisione canadese che sbarcò più a sud. Due brigate, la 1ª Brigata Paracadutisti e la 1ª Brigata Aviotrasportata (su alianti), distaccate dalla 1ª Divisione Aviotrasportata britannica furono aviosbarcate dietro le linee italiane per conquistare dei punti chiave.

 

La 7ª Armata di Patton sbarcò dapprima tre divisioni nel tratto di costa compreso tra Licata e Gela[14]. La 3' divisione sbarcò nella costa a ovest di Licata, località Torre di Gaffe e baia di Mollarella, 5-8 chilometri a ovest di Licata. La 1ª divisione sbarcò nei pressi di Gela e la 45ª divisione nei pressi di Scoglitti. L'82ª Divisione Aviotrasportata o paracadutisti fu invece aviosbarcata tra Gela e Scoglitti. Di fronte a queste forze c'erano le divisioni denominate costiere dell'Asse Germania Italia, in particolare la 206ª nell'estremo sud-est dell'isola, la 207ª a Licata in località Sant'Oliva o San Oliva o S.Oliva, e la 18ª Brigata costiera sulla costa di Gela. Furono queste unità, oltre alle batterie costiere, a sopportare l'urto dello sbarco americano. Il fuoco di controbatteria delle navi da guerra e l'appoggio aereo favorirono la rapida attestazione delle forze di invasione, anche se nei punti maggiormente muniti di artiglieria costiera la lotta fu piuttosto aspra. Nei numerosi tratti di costa privi di difesa le truppe alleate poterono avanzare dai punti di sbarco senza difficoltà. Tuttavia a Licata furono combattute aspre battaglie porta a porta e la città fu interamente conquistata dagli Alleati il 21 luglio 1943 e quindi fu fatta sbarcare anche la 2' divisione corazzata. Nell'entroterra erano presenti la divisione Livorno e la divisione Hermann Göring, oltre alla male armata Napoli. In riserva momentanea la 15ª Divisione Panzergrenadier tedesca, divisa in gruppi tattici, non aveva più di 60 carri. A ovest erano schierate le divisioni italiane Aosta e Assietta. Al comando delle forze dell'Asse, da Berlino fu inviato Hans-Valentin Hube.

 

La Sicilia si arrende [modifica]

 

I combattimenti [modifica]

 

 

 

 

 

Il generale Patton a Palermo riceve il 28 luglio 1943 il gen. Montgomery all'aeroporto

Dopo una serie di bombardamenti dalle navi e di attacchi aerei la settima armata americana, comandata dal Generale Patton, sbarcò la 3ª Divisione fanteria comandata dal generale Truscott. Alle 2,45 della notte tra il 9 e il 10 luglio 1943 iniziò lo sbarco di 20 000 uomini a Licata, Spiaggia o Baia di Mollarella e Poliscia ore 2,57. Gli altri sbarchi avvennero a Gela, dove tremila paracadutisti furono lanciati nell'entroterra, e a Scoglitti, nel ragusano. In 24 ore 160 000 uomini furono sbarcati. Tra il 10 e l'11 luglio la divisione tedesca "Hermann Goering" e quella italiana "Livorno" contrattaccarono gli americani nella piana di Gela, dove fu combattuta una terribile battaglia: i contrattacchi dei "gruppi mobili" italiani, reparti di formazione motocorazzati costituiti ciascuno da circa 1.500-2.000 uomini, una dozzina di carri o semoventi ed una batteria d'artiglieria misero in seria crisi le posizioni alleate; significativa la carica dei circa 20-30 carri Renault R-35 di preda bellica del 131º Reggimento carri, che da soli attraversarono quasi tutta la testa di ponte americana mettendo, insieme ai vigorosi contrattacchi della "Livorno" (l'unica fra le divisioni italiane parzialmente motorizzata) e della "Hermann Goering", a serissimo rischio tutto il piano d'invasione della 5ª Armata USA; tutta l'operazione di sbarco fu salvata solo dall'imprevista efficacia del tiro navale, che si abbatteva inesorabile sugli italotedeschi. Anche gli assalti di un raccogliticcio ma coraggioso CCCCXXIX battaglione costiero, male armato, poco addestrato e addirittura deficiente nelle dotazioni di base (ad esempio, non tutti avevano scarpe, che si passavano a chi doveva fare i turni di guardia) furono così energici da arrestare l'impeto americano.

 

Sul fiume Simeto fu combattuta un'altra durissima battaglia che impegnò gli inglesi dell'VIII Armata, bloccando la loro avanzata verso Catania. Il 16 luglio gli americani arrivarono ad Agrigento. Nonostante la combattività e il valore di gran parte delle forze dell'Asse (non solo le efficienti unità tedesche)[senza fonte], la Sicilia fu occupata in soli 38 giorni quando, il 17 agosto, le truppe Alleate entrarono a Messina, dopo aver conquistato Palermo il 22 luglio e Catania il 5 agosto.

 

I tedeschi con un ponte di barche riuscirono a trasferire in Calabria la gran parte delle loro truppe e dei loro mezzi, a differenza degli italiani che abbandonarono molti dei loro.

 

Lo sbarco a Licata [modifica]

 

Lo sbarco a Licata avvenne la notte tra il 9 e 10 luglio 1943 mediante la 7ª Armata statunitense comandata dal generale Patton che sbarcò la 3ª Divisione Fanteria (3rd Infantry Division), comandata dal Maggiore Gen. Lucian King Truscott (Joss Force). Lo sbarco avvenne nelle spiagge vicino Licata, poiché il Porto di Licata costituiva obiettivo strategico e quindi occupato dai militari dell'Asse (Germania nazista e Italia). L'ora "H" ebbe inizio alle ore 2.45 del 10 luglio 1943 e quindi iniziarono le operazioni di sbarco nelle spiagge prestabilite. Alle 2,57 nella spiaggia di Mollarella e Poliscia toccarono terra i primi carri armati americani. La 3ª divisione sbarcò contestualmente a ovest della città di Licata, nelle spiagge di Torre di Gaffi e Mollarella e ad est di Licata nelle spiagge di Falconara e nelle spiagge della Playa. Gli Alleati sbarcati a Licata furono bombardati dalle forze dell'Asse e furono colpite e affondate la nave Maddox e Sentinel delle forze Alleate. Gli Alleati comunque riuscirono a sbarcare tutti gli uomini dalle navi e conquistata completamente Licata già nella mattinata del 10 Luglio 1943, proseguirono verso Palma di Montechiaro e Campobello di Licata. Il faro del porto di Licata, data la notevole altezza, ha una portata di circa 21 miglia marine, costituiva un sicuro riferimento. Il porto di Licata nei giorni successivi allo sbarco, assicurava l'arrivo dei rifornimenti. Gli alleati la mattina del 10 luglio 1943, alle ore 8 circa, avevano già messo la bandiera stelle e strisce degli Stati Uniti d'America, a Licata, sulla montagna di Sant'Angelo. Il giorno 12 luglio gli Alleati erano nelle campagne circostanti la città, in località S.Oliva o Sant'Oliva o San Oliva, nei pressi dell'omonima stazione ferroviaria, distante circa 7 chilometri dalla città di Licata. Nella piana di Licata gli Alleati approntarono qualche giorno dopo lo sbarco, una pista di atterraggio.

 

L'occupazione alleata [modifica]

 

A capo dell'amministrazione militare alleata della Sicilia occupata, di competenza dell'AMGOT che venne battezzata in questa occasione, fu indicato Charles Poletti.

 

Solamente il 3 settembre iniziò lo sbarco e quindi l'invasione alleata nella penisola italiana con l'Operazione Baytown, in concomitanza con la firma dell'armistizio. Armistizio che fu firmato a Cassibile, in provincia di Siracusa.

 

Attanasio, S. Sicilia senza Italia. Luglio-Agosto 1943. Milano, Mursia 1983.

 Alfio Caruso, Arrivano i nostri, Longanesi, 2006, ISBN 978-88-502-1100-5

 Bartolone Giovanni, Le altre stragi. Le stragi alleate e tedesche nella Sicilia 1943-1944, Bagheria (Palermo), Tipografia Aiello & Provenzano, 2005.

 Carloni Fabrizio Gela 1943 Le verità nascoste dello sbarco americano in Sicilia Mursia ISBN 978-88-425-4742-6

 Costanzo Ezio Sicilia 1943. Le nove muse.

 Costanzo Ezio, Mafia e Alleati, Le Nove Muse Editrice, Catania 2006

 D'Este, C. 1943. Lo sbarco in Sicilia. Milano, Mondadori 1990. ISBN 978-88-04-33046-2

 Li Gotti, C. Gli americani a Licata. Dall'amministrazione militare alla ricostruzione democratica (capitolo I - L'operazione Husky). Civitavecchia, Prospettiva editrice 2008. ISBN 978-88-7418-377-7

 Maltese, P. Sbarco in Sicilia. Milano, Mondadori 1981.

 Mangiameli, R. "La regione in guerra (1943-1950)" in Storia d'Italia - Le regioni dall'Unità ad oggi, a cura di M. Aymard e G. Giarrizzo. Torino 1987

 Pantaleone M., Mafia e politica, Einaudi, Torino 1978

 Renda F., Storia della Sicilia (1860-1970), Sellerio, Palermo 1987

 Santoni, A. Le operazioni in Sicilia e Calabria. Roma, S.M.E. 1983.

 Tranfaglia N., Mafia, politica , affari nell’Italia repubblicana (1943-1991), Laterza, Roma 1992

 Zingali, G. L'invasione della Sicilia. Catania 1962.

 Zangara Carmela 10 Luglio 1943 Lo sbarco degli Americani nelle testimonianze dei Licatesi. "La Vedetta" Editrice.

 

 

 

 

 

 

 

 

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