venerdì 26 giugno 2015
Calogero Restivo, poeta racalmutese, racconta
Calogero Restivo, il poeta ora alle prese col racconto. Prosa trepida e contenuta, poetica insomma. Capacità affabulatrice impressionante, profili tracciati con abile ma efficacissima essenzialità. Ed ogni suo racconto è un piccolo singolare mondo che rivive, nella malinconia del suo autore. Partecipe ma computo, rispettosamente distaccato. Di tanto in tanto affiora l’ironia ma lieve, trepida umanissima. E dalla raffigurazione rappresa un guizzo e talora eccovi anche una sorta di espressionismo metafisico. Si può andare a bussare nel gran portone del paradiso per non venirvi ammessi e quindi ritornare nelle dimesse plaghe della terra delle miniere, del paese del sale. Simbolismo soffuso che dà senso a ciò che senso non ha, che crea il miracolo laddove non vi è nulla di sublime, di ultraterreno. A leggere questo racconto – mirabile – i nostri canoni interpretativi si sono dissolti. Non sappiamo trovare più una chiave ermeneutica, schiacciati dalla soavità di un racconto che mentre ci porta nel mondo della nostra vetusta fanciullezza ci disorienta con guizzi metafisici in un mondo arcano, a noi del tutto alieno.
Ci va pertanto di pubblicare in anticipo questo complesso affresco di Calogero Restivo. Un esempio di paratattico scrivere di intricate valenze immanenti e trascendenti, di realistici disegni e di pindarici voli nel mondo delle cose divine. Un passaggio repentino da rappresentazioni di umilissima follia ad un surreale finale: in esordio si arriva “ alla fine di questo giorno [con] la fatica che impediva di consumare la cena, [un] … giorno di non vita, finito” e sorprendentemente la dissolvenza finale: “c'era chi diceva che Fofò Incardona faceva l'eremita in un posto sconosciuto, chi diceva di averlo incontrato vestito con grande eleganza dato che si era messo a fare il santone di professione, che era diventato ricco assai, che abitava in un palazzo di cinquanta stanze, ma nessuno vide più Fofò Incardona in paese”.
Il sole nel cortile
di Calogero Restivo
“Fofò Incardona si alzò, come ogni mattina, al primo canto del gallo del vicinato. Uscì in cortile che era ancora buio. Dalle parti del castello si intravedevano fasci di luce nel cielo scuro come lampioni squassati dal vento della recente burrasca che invece di illuminare la strada, sparavano la luce verso l'alto, inutilmente. Riempì la bacinella di acqua gelida, se ne spruzzò un poco sul petto come aveva imparato a fare quando era stato a lavorare in Germania. Pronto per andare a lavorare, come ogni giorno, come sempre ,nella miniera di sale a cui era legato come da un cordone ombelicale. Anche di domenica, ci andava ,per arrotondare la paga e per vederla, quella cupola lucida sopra la testa e fredda come il ghiaccio.
Gli ricordava la chiesa della Madonna di Altomonte ma questa era più luminosa e misteriosa senza avere le luci della chiesa.
Uscì di nuovo fuori in cortile, raccolse qualche ramoscello delle piante in vaso che forse il gatto aveva rotto nella sua furia amorosa della notte. L'aveva sentito miagolare e litigare per mettersi d'accordo e nonostante il rumore di tegole smosse e di miagolii, che sembravano lamenti, alla fine si era addormentato. La stanchezza l'aveva avuta vinta sugli amori notturni del gatto. Bisognava rivedere e sistemare le tegole, si ripromise, perché altrimenti alle prime piogge l'acqua la si sarebbe dovuta raccogliere con secchi e bacinelle.
Il cielo si era schiarito. Era ora andare. Si avviò senza troppa fretta. C'era ancora tempo e comunque l'autobus qualche minuto oltre il tempo previsto aspettava, nel caso ci fossero ritardatari.
Niente di nuovo al lavoro, le solite cose: il capomastro che si lamentava della lentezza del lavoro, il padrone della miniera che avrebbe voluto che i camion volassero invece di camminare con quei motori che sa solo Dio come reggevano ancora ed i meccanici che dovevano fare miracoli per metterli in grado di camminare, trenini da smuovere e le pulegge che consentivano il carico dei camion di scarsa qualità che si rompevano appena i motori incominciavano ad andare al massimo. Anche questo giorno di lavoro era finito, anche alla fine di questo giorno la fatica che impediva di consumare la cena, anche questo giorno di non vita, finito.
Prima di addormentarsi, Fofò, ebbe un pensiero triste che lo costrinse a ritardare di chiudere gli occhi “che ci vado a raccontare ai morti, quando giunge l'ora, solo che ho scavato, raccolto e caricato sale? E nient'altro ?”
L'indomani era lunedì, incominciava un'altra settimana. Bisognava alzarsi, il gallo cantava sempre alla stessa ora, puntuale come se avesse una sveglia dentro la testa. Fofò, usci come al solito in cortile per lavarsi e si accorse allora che alcuni vasi dei fiori erano caduti,alcuni rotti e anche qualche tegola era per terra. “I gatti” pensò Fofò perché non aveva sentito il vento che durante la notte aveva soffiato così forte da scoperchiare i tetti delle case e sradicare gli alberi del viale che portava al Padreterno. Fu mentre si lavava che cadde la tegola che stava in bilico, forse l'aveva toccata il gatto ma cadde sulla testa di Fofò che stava per immergere la testa nella bacinella di acqua gelida come faceva ogni mattina.
L'autista dell'autobus che portava i lavoratori in miniera, quel giorno, partì in ritardo. Aveva suonato il clacson un paio di volte, aveva chiesto se qualcuno aveva notizie di Fofò ma nessuno sapeva, niente di niente. Il vicino di casa azzardò l'ipotesi che si fosse ubriacato e non riusciva ad alzarsi dal letto, ma l'ipotesi non reggeva. Era vero, Fofò qualche volta beveva qualche bicchiere in compagnia degli amici, ma nessuno l'aveva mai visto ubriaco.
“Purtroppo bon tiempu e malu tiempu non dura sempre un tiempu” le cose nella vita cambiano non sono sempre le stesse, sentenziò qualcuno e tutti tacquero come se fosse stata detta una grande verità che non ammetteva repliche né commenti. Per tutto il percorso non si sentì altro che il gracchiare del motore dell'autobus che nelle salite soffiava peggio di un asino carico di sale. Fofò viaggiava in un mare di luce. C'erano tante persone e nessuno sembrava facesse caso a lui. “Come mai così impegnati a discutere se sono in paradiso?” pensava “Se fossimo alla piazzetta nel periodo della trebbiatura, capirei. Bisogna parlare per mettersi d'accordo, trattare, stabilire. Vuoi vedere che anche qua vi sono miniere di sale e mi mandano là a lavorare? Non può essere”, pensava, Don Giuseppe , il parroco della chiesa della Madonna della Rocca, aveva parlato di grandi viali alberati, di angeli che suonano violini e la luce, sempre, come se fosse mezzo giorno anzi più forte. Anche il sagrestano, che era li vicino , assentiva. E allora.. “non può essere”. Si avvicinò ad uno di quei gruppi di persone e restò meravigliato a guardare: quella gente non stava discutendo, non parlava. Avevano lo sguardo rivolto verso l'alto ed il viso sereno , gli occhi lucidi, ridenti.
“Scusatemi” disse facendo il gesto di toccare uno di quelli con un dito, timidamente “scusatemi, io sono nuovo di questo posto. Sono un morto recente, Mi sapreste dire a chi rivolgermi per sapere che debbo fare e dove andare?” Dentro era perplesso, quando aveva fatto il gesto di toccare l'uomo che gli voltava le spalle era come se avesse immerso il dito nell'acqua.
“Vai sempre diritto, per questo viale” rispose gentilmente “quando arrivi davanti ad una città recintata con tanto di mura merlate e di torri, bussa. Chiedi a quello che viene ad aprirti che cosa devi fare. Ma c'è da aspettare. Che cosa credi che stiamo facendo, noi?”
“Grazie” disse e si avviò a passo lento, guardandosi intorno, lieto finalmente di camminare senza fretta, senza l'affanno del lavoro, camminare per svago, insomma. “Che fretta ho? E correre per andare dove, poi. È questo il punto d'arrivo, non c'è il cartello ma oltre non si va” si diceva Fofò più per convincersene che convinto.
Camminando arrivò davanti ad una città cintata da alte mura, le pietre perfette, squadrate a regola d'arte e lisce come se fossero di marmo e di colore giallo come d'oro. “Qui le cose le fanno per bene” pensò Fofò “non badano a spese”. In fondo al viale di alberi c'era un grande portone di bronzo e vi si diresse. Cercò un campanello o altro e visto che non c'era si decise a bussare, piano da principio, con le nocche, ma visto che nessuno veniva ad aprire, diede un paio di colpi a pugno chiuso. Piano piano il portone si apri, senza cigolare. “Si vede che è oleato bene” pensò “segno che qui le cose funzionano bene non come alla miniera che è un miracolo se la montagna non ti casca addosso”.
Apparve un vecchio tutto bianco, tunica, mantello e barba che gli copriva quasi la bocca.
Disse “Tu chi sei?”
“Fofò Incardona .. scusi.. voglio dire .. Incardona Francesco. È che mi conoscono tutti come Fofò” rispose.
Il vecchio si diresse al tavolo che si reggeva su tre piedi, si sedette e incominciò a sfogliare un libro enorme. “Hai detto Incardona Francesco ?” “Si” rispose con una certa apprensione, e non sapeva perché. Il vecchio continuò a cercare, ripassò rigo per rigo tutto l'elenco di nomi aiutandosi con un dito
“Tu non ci sei “ disse chiudendo il libro “ in quelli del mese in corso, non ci sei”.
“Ma come è possibile” disse Fofò un po' frastornato “se sono morto di recente. Ci vuole anche qua la raccomandazione?”.
“Tu non sei morto, tu non muori... Via che bussano alla porta” disse il vecchio. Si muoveva con la vitalità di un ragazzo. “Si vede che non ha mai lavorato in una miniera di sale” pensò Fofò. Voleva insistere, non sapeva cosa fare e il vecchio lo spingeva fuori, aveva altro da fare.
“ Ma allora che faccio?” incominciò Fofò ma il vecchio sempre più impaziente “che ma e ma non lo senti che bussano alla porta?”
In effetti bussavano alla porta, Fofò aprì gli occhi, cercò di capire, di rendersi conto.
“Come stanno, le cose?” disse tra se toccandosi il bozzo che aveva sulla testa. Gli faceva un male cane, ma bussavano alla porta e bisognava andare ad aprire. Si alzò a fatica, la testa continuava a fargli male e andò ad aprire la porta a stento perché anche la porta girava. Da fuori giungevano delle voci di donne “È in casa, sta venendo ad aprire” Finalmente riuscì a fermare la porta che si spostava come tirata di qua e di là dal una molla. Tirò il chiavistello e cadde a terra svenuto.
Quando aprì gli occhi era circondato da camici bianchi. “È amnesia conclamata ma sono certo che si risolverà fra qualche giorno”. I “camici” parlavano tra di loro come se lui non fosse lì presente.
“Di nuovo?” disse e richiuse gli occhi. I “camici” continuavano a parlare fra loro.
“È amnesia… di essere amnesia è amnesia ma non sono certo che si risolva così presto. Un mio vecchio professore diceva un po' scherzando e un poco seriamente che in questi casi un altro trauma, certamente più leggero, a volte risolve il caso”. diceva uno.
“Bisogna vedere quali altri danni non ancora accertati ha prodotto questo trauma” disse uno di quelli con tono stizzito, calcando la voce sul “questo” Fofò aprì gli occhi, capì che parlavano di lui.
“ Che è successo?” Chiese “Come sono arrivato fin qui?”
Il capo dei camici “Ha avuto un incidente” disse “Siamo in ospedale e ci stiamo occupando del suo caso”. Credevo di essere di nuovo in paradiso” disse Fofò.
“ Perché c'è già stato, in paradiso... prima intendo” disse uno di essi. I camici si guardavano e lo guardavano con un risolino sulle labbra. Fofò, si resero conto i medici, stava ormai bene, potevano dimetterlo ma c'era qualche cosa che non riuscivano a capire. Quell'accenno al paradiso li inquietava, ma più ancora quello che aveva confidato all'infermiera di notte “Sono stato in paradiso e m'hanno detto che non muoio”. “Ora?” chiese l'infermiera, ma Fofò non rispose, anzi chiuse gli occhi e finse di dormire.
Dopo qualche giorno Fofò fu dimesso dall'ospedale e se ne andò direttamente in campagna senza passare da casa per non dare spiegazioni anche perché non aveva spiegazioni da dare. Non lo capiva nemmeno lui, come poteva spiegarlo agli altri? Era stato semplicemente in paradiso e gli avevano detto che non moriva. Era tutto qua. “Chi lo sa perché hanno scelto proprio me?”
La decisione di recarsi in campagna, stare solo a riflettere senza l'incubo di dare risposte ai vicini e parenti che chiedevano perché, sempre perché. Gli volevano bene e volevano essere assicurati sul suo stato di salute. “Non siamo tutti cristiani?”
Un colpo di vento, una tegola che cade e la vita di un uomo viene stravolta” diceva la gente che la voce di questa andata e ritorno dal paradiso incominciava a circolare”.
“Poveraccio” pensavano le brave donne “e non ha nemmeno una famiglia sua”.
Voleva far crescere il gruzzolo prima di sposarsi, voleva essere certo di non ricadere nello stato di miseria che conosceva per averla vissuta e da cui si era tirato fuori onestamente con il suo lavoro. Non poteva e non voleva spiegare queste cose alla gente che gli diceva di rallentare, di riposarsi almeno la domenica per essere vigile sul lavoro. Un errore , anche minimo, si paga caro, sotto terra, a centinaia e centinaia di metri tra gallerie e passaggi che si allungavano ogni giorno di più come un serpente che striscia tra l'erba al sole. Finalmente la decisione di rientrare in paese. Quando la gente lo vide in piazza quasi quasi non lo riconosceva. Compare Gaspare, che era amico e compare, Fofò gli aveva battezzato il figlio, lo guardava come se fosse un forestiero e quando riconobbe che sotto la barba era Fofò stese le braccia per abbracciarlo ma si fermò subito che tra paesani questi abbracci non usano. Era veramente contento di vederlo e, a quanto sembrava, in buona salute. Alla piazzetta sembrava si fossero radunati tutti gli amici e conoscenti e tutti con le stesse domande e tutti con le stesse facce sorprese quando Fofò decise di spiegare come stavano le cose.
Ora non restava che stabilire che fa uno che non deve morire, a cui è stato detto a chiare lettere “Tu non muori”. La gente rideva sotto i baffi, faceva la faccia contrita, assentiva di apparente comprensione. Fofò se ne rendeva conto ma non poteva farci niente. Decise di andare in chiesa e parlare con don Giordano, il prete della parrocchia del Monte Carmelo a cui apparteneva.
Certamente lui in queste cose ci capiva di più e meglio di tanti altri. Il prete era in confessionale. C'erano alcuni ragazzi in fila che aspettavano il turno ed alcune vecchie che non avevano più l'età per peccare. Quando il prete vide Fofò si sporse dal confessionale e gli fece cenno di aspettare che si sbrigava subito. Aveva avuto sentore di quelle voci che parlavano delle andate in paradiso e ritorno e voleva vederci chiaro. “Si fa presto a creare problemi ed una volta uscite le pecore dall'ovile è difficile ripescarle e portarle dentro” pensava il prete che nella sua vita aveva sempre scansato i problemi”. In verità non aveva né “sciusciatu” né “chiavatu” come dicevano gli antichi in questi casi ma era vissuto tranquillo senza soffiare sulla brace e senza aggiungere legna al fuoco, aveva sempre evitato di prendere decisioni e parte e quando la conversazione si faceva pericolosa sempre lasciava la compagnia e faceva finta di recitare preghiere e giaculatorie per non dover dare spiegazioni. Così il suo allontanarsi non era assenso o dissenso di quello che si discuteva anche se la discussione concerneva la sua chiesa ed il modo in cui aveva speso i soldi che aveva ricevuto per fare delle riparazioni che non erano state fatte perché non necessarie.
Fece presto a sbrigare le persone in attesa e andò incontro a FoFò che se ne stava in fondo alla chiesa, appoggiato alla porta pronto a scappare se qualche cosa fosse andata male.
“Andiamo in sacrestia?” disse il prete avviandosi senza aspettare risposta. Fofò parlò del suo arrivo in paradiso, di quello che gli aveva detto il vecchio e poi parlò della curiosità della gente che non gli dava respiro. Pure del male di testa continuo e delle orecchie che gli ronzavano e sbattevano come se in testa ci avesse una bacinella piena a metà d'acqua che andava di qua e di là appena muoveva la testa ma più che altro parlò di questa cosa strana che gli era capitata, che era capitata proprio a lui. Il prete ascoltava e aspettava la fine del discorso ma davanti agli occhi aveva la faccia burbera del monsignore che si presentava alla porta della canonica appena correva voce della “ santificazione” di Fofò e l'accusava col dito che quasi toccava gli occhi di non aver saputo spegnere quelle fiamme sacrileghe. “Non lo sapeva forse che solo i santi sono immortali ma immortali nella memoria della gente e che essi stessi , i santi, si ingegnavano a fare qualche miracolo ogni tanto altrimenti la loro immortalità se ne andava a farsi benedire?” gli sembrava di sentirle le parole del vescovo e, guardando Fofò negli occhi, le due figure nella sua mente si confondevano
Perché, è meglio dirlo subito, la gente, e in special modo le donne tutte casa e chiesa che andavano alla prima messa mattutina appena suonava la campana, già parlavano di Fofò Santo. “Che uno che va in paradiso e torna indietro e gli dicono che non muore, santo lo deve essere per forza.” Addirittura qualcuno, non si sapeva chi, vox populi diceva che Fofò aveva già fatto dei miracoli. Non era miracolo il fatto che compare Gerlando era caduto da cavallo della mula, che la mula si era imbizzarrita e quando si avvicinò Fofò, “calmati non è successo niente” disse “e solo allora la mula si calmò e si lasciò accarezzare nel collo da Fofò come se fosse un agnellino e compare Gerlando, in perfetto stato, quasi ringiovanito, si alzò da terra agile come un ragazzino”. In miniera, il capo mastro e lo stesso padrone non avevano permesso che Fofò andasse a lavorare come prima, non volevano che andando a mettere le cariche, anche se piccole, potesse succedere qualche incidente e poi la gente si sarebbe riversata a chiedere, a scoprire e scoperchiare le pentole, che pentole tappate e con il coperchio sopra ce n'erano tante. “Si poteva essere perfetti, perfettamente in regola con il sale che scendeva e saliva di prezzo come un ascensore che ha rotto il sistema di controllo?”
I compagni si fermavano, volevano che raccontasse come erano andate le cose, il lavoro andava a rilento. Bisognava finirla ed era finita, infatti con una lettera di licenziamento che dietro a belle parole, che sanno trovare i datori di lavoro quando debbono mettere in mezzo alla strada un povero cristo, c'era il fatto che Fofò rimaneva senza lavoro e con il gruzzolo accumulato negli anni che si assottigliava ogni giorno di più.
La lettera arrivò con la prima distribuzione, quella della mattina. Quando don Giordano vide la busta e lo stemma del vescovado in alto a sinistra, capì di cosa si trattava senza bisogno di leggere. Si mise in tasca la busta chiusa e si diresse verso la chiesa del Calvario, ove per tanti anni aveva detto messa e dove conosceva bene tutte le “pecore”. Si inoltrò in uno di quei vicoli stretti e quasi senza uscita che sembravano tanti vecchi che si stringevano fra di loro per ripararsi dal freddo, e quando trovò la porta che cercava bussò con mano sicura. La donna che gli venne ad aprire, poco più alta di una nana, grassoccia e piuttosto bruttina gli rivolse uno sguardo indagatore lo guardò, il volto corrucciato.
“Che voleva? “ chiese. Teneva la mano destra appoggiata allo stipite e l'altra teneva la porta accostata come ad impedire all'estraneo di entrare in casa.
“ Cercavo a Filippo” disse il prete “ho bisogno di parlargli di una cosa... è piuttosto urgente” aggiunse. La donna lo informò che Filippo, suo marito era uscito per certe faccende e che sarebbe ritornato a casa nel primo pomeriggio.
“ Chi debbo dire…?”
“Gli dica che l'ha cercato don Giordano” e si toccò il petto come ad assicurarsi ed assicurare che lui fosse veramente quello che diceva. “L'aspetto in giornata per una cosa piuttosto urgente, in parrocchia”. Salutò la donna che appena lui ebbe girato l'angolo, chiuse la porta sbattendola così forte che suscitò un sorriso nel prete “Non le piacciono i preti” commentò con sé stesso.
Quando tutto era finito da un pezzo e di Fofò Incardona non si parlava più o se se ne parlava come di fatti che accadevano un tempo ed ora non più, che queste cose a volte accadono ma poi fortunatamente tutto si aggiusta e come in un mosaico tutte le poste vanno nel loro posto, giunse una telefonata , una di quelle mattine di sole che sembrano una tortura,infuocate di giorno e di notte e la mattina uno si alza dal letto, nervoso stanco per avere passato la notte in bianco “Sono Don Pasquale della Valle... della segreteria di Monsignore il Vescovo. Lei è don Giordano?” senza attendere riposta continuò “La volevo avvertire che giovedì otto, del mese corrente Monsignore sarà nella sua parrocchia per una visita pastorale. Ci si aspetta da lei un'accoglienza ed una organizzazione dell'evento degni del rango di Monsignore”.
“Farò del mio meglio, certo...” farfugliò, sentì un clic, segno che la conversazione era terminata e la comunicazione interrotta.
“Figlio mio” disse il Vescovo prima di entrare in chiesa e mentre don Giordano si genufletteva per baciargli l'anello e la mano “sono contento che le cose si siano risolte nella maniera migliore. Bisogna stare attenti che il diavolo è sempre pronto a fare la sua parte e si introduce appena vede una piega, una crepa... ma non parliamone più. Piuttosto sappia che non mi sono dimenticato di lei, di tutto il lavoro e la fatica che le costa badare, che dico badare, curare questa parrocchia come se fosse una pianta preziosa. Ho pensato di consentirle un periodo di riposo in una nuova parrocchia, piccola certo che le consenta un po' di riposo ma che sono certo lei saprà custodire, curare e far crescere secondo la volontà divina. Ma adesso non parliamo più di queste cose, entriamo in chiesa a compiere il sacrificio della santa messa, che è il nostro compito e nostro dovere a cui con umiltà ci accingiamo come figli devoti ed obbedienti della santa chiesa”.
Di tanto in tanto arrivavano voci in paese, le portavano i venditori ambulanti che facevano il mercatino settimanale nei diversi paesi. C'era chi diceva che Fofò Incardona faceva l'eremita in un posto sconosciuto, chi diceva di averlo incontrato vestito con grande eleganza dato che si era messo a fare il santone di professione, che era diventato ricco assai, che abitava in un palazzo di cinquanta stanze, ma nessuno vide più Fofò Incardona in paese.
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