BREVE SINOSSI ARCHIVISTICA ARCHEOLOGICA E BIBLIOGRAFICA
Il nostro interesse per la storia di Racalmuto ebbe inizio allo spirare degli anni ’Settanta ed esordimmo con alcune ricerche presso l’Archivio Segreto Vaticano. Consultando le “relationes ad Limina” dei vescovi agrigentini, c’imbattemmo immediatamente nella questione della tassazione ecclesiastica di Racalmuto. Ne trattava il vescovo spagnolo Orozco Covarruvias nell’agosto del 1598: in una tabella figurava l’arcipretato racalmutese con proventi di ben 250 once annue ([2]). Le ricerche d’archivio vennero, quindi, allargate ai libri e rolli della Matrice e da qui ai fondi degli archivi di Stato di Palermo, Roma ed Agrigento, nonché a quelli della Curia Vescovile di Agrigento. Il materiale acquisito ci ha portato ad abbozzare una prima ricostruzione storica della natia Racalmuto, che col passare degli anni si è via via modificata, aggiustata, integrata, corretta, riformulata. Una fatica di Sisifo! Nello scrivere queste note iniziamo con una versione che ci accingiamo a sunteggiare. Alla fine dello scritto, la nostra narrazione apparirà invero già modificata. Non ce ne voglia l’eventuale lettore.
La primordiale presenza umana potrebbe venire attestata dalla grotta di Fra Diego che ci riporta sino ai tempi dell’uomo di Cro-Magnon (30 mila anni fa) ([3]). Ma sono i Sicani quelli che per primi consolidarono il loro insediamento nelle plaghe del nostro altipiano: le tombe a forno che suggestivamente fanno da corona alla grotta di Fra Diego sono la palpabile testimonianza di quella civiltà preistorica risalente a quattro mila anni fa.
Nel 1880, nel corso dei lavori per la costruzione della ferrovia Licata-Porto Empedocle, si rinvenivano nel territorio di Racalmuto, a 10 km. da Canicattì, altre tombe a forno con corredi di ceramica del secondo millennio a. C., sufficientemente investigati dagli archeologi dell’Ottocento. Purtroppo, successive indolenze impediscono tuttora la seria conoscenza della ricca e peculiare archeologia racalmutese.
Casuali rinvenimenti di monete greche (con il granchio agrigentino o col cavallo alato siracusano) comprovano presenze siciliote nella zona di Casalvecchio-Grotticelle.
L’iscrizione latina in una “diota” della Roma repubblicana rievoca un intenso commercio vinario di quel tempo ad opera di un mercante della “Famiglia” dei “Fuscus”.
Fa spicco una serie di “tegulae sulphuris” (gàvite) rinvenute in varie località di Racalmuto, una delle quali documenta l’esistenza di miniere di zolfo nei pressi di Santa Maria durante l’impero di Comodo (180-190 d.C.), come si avventò a dire il Salinas.
Per Biagio Pace, le Grotticelle sarebbero un ipogeo cristiano e l’importante ritrovamento di un tesoretto di monete bizantine del VI-VII secolo d. C. nella contrada della Montagna contrassegna un’operosa presenza cristiana sin dagli albori della diffusione del verbo di Cristo in Sicilia.
Ultimamente sono affiorate “strutture murarie abitative” molto latamente riferite ad “epoca ellenistica-romano-imperiale” nella zona di Grotticelle il cui studio è rinviato al tempo in cui i “programmi dei BB.CC. di Agrigento” potranno snodarsi “con maggiore continuità”.
La pagina più buia della storia di Racalmuto è quella del dominio arabo. Può dirsi una storia quasi trisecolare completamente oscurata.
Di certo sappiamo che, caduta Agrigento attorno all’ 829 in mano dei Musulmani, quella che dovette essere la popolazione bizantina sparsa per il territorio racalmutese finì sotto il dominio arabo. Di sicuro, verso l’840 i nuovi e più stabili padroni furono i Berberi, gente della famiglia camitica della stessa schiatta dei moderni marocchini. Distrussero costoro religione, usi, costumi, tradizioni, cultura, superstizioni dei nostri progenitori racalmutesi di lingua greca? Noi pensiamo di no.
Pochi, di religione non missionaria, necessitanti di imposte a carico dei ‘rum’ (romani o cristiani che dir si voglia), alieni da commistioni ed in un certo senso razzisti, non avevano alcun interesse a consumare genocidi nella nostra landa o a imporre il loro modo di essere maomettani a quelli cui quella ‘grazia’ non era stata concessa, perché militarmente sconfitti. Allah non poteva essere anche il Dio dei vinti. Ed i vinti servivano - come in ogni tempo - per lo sfruttamento, per il discrimine sociale, per il supporto schiavistico su cui, in modo mascherato e variegato, si radicano le leggi della economia.
Così poté esservi convivenza tra le due religioni e i due popoli, anche se mancano testimonianze per comprovarlo. Ma non ve ne sono neppure di segno contrario. Propendiamo a credere che gli indigeni bizantini di Racalmuto rimasero sul luogo al tempo della conquista saracena; essi continuarono a coltivare grano e vite nelle zone alte del territorio. I vincitori, intere famiglie di coloni, si assestarono nelle valli, vicino alle fonti d'acqua della Fontana, del Raffo ed anche di Garamoli e della Menta, in zone appunto propizie alle loro colture d'ortaggi, in cui erano maestri e che i rum (i cristiani) ignoravano. Dai rum, l'emiro di Girgenti esigeva la tassa capitaria della Gezia, il soldo per mantenere il culto dei Padri e la fedeltà alla propria religione.
Forse semplici congetture, ma ci appaiono fondate: i Berberi, insediatisi da noi, introdussero sistemi di coltivazione degli ortaggi alla stregua di quanto avviene ancor oggi. Certi autori riportati dall'Amari descrivono la coltura delle cipolle con porche e zanelle come tuttora si usa negli orti sotto l'attuale Fontana. ([4]). I secoli dal Nono all'Undicesimo sono sicuramente secoli di dominazione araba sull’intero altipiano di Racalmuto.
Un documento greco del 1178, che purtroppo non può riferirsi al nostro paese, diversamente da quello che sostiene l’autorevole Garufi, riporta un toponimo che richiama l’etimologia araba di Racalmuto: Rachal Chammoùt. Nulla però può ricavarsi che possa tornare utile alla storia (quella veridica) del paese agrigentino.
Per quanto buia sia la pagina araba racalmutese, arabo è indubitatamente il toponimo. Già nel XVI secolo il colto Fazello attestava l’origine saracena di Racalmuto. «Castello saraceno - lo definiva - dove è una Rocca edificata da Federico Chiaramonte». Più in là non andava. Tra il 1757 e il 1760, il monaco benedettino Vito Maria Amico, nel suo “Lexicon topographicum siculum” rivestiva purtroppo di patina scientifica la funerea etimologia di paese “diruto, morto” e simili. L’avv. Giuseppe Picone accenna ad una derivazione da due termini arabi: Rahal (‘villaggio’ e sin qui correttamente) e Maut (‘della morte’ e qua invece arbitrariamente). Il nostro Tinebra Martorana, con fervore giovanile, vi correva dietro. Leonardo Sciascia, ovviamente poco incline alle pignolerie etimologiche, vi dava plurimo ed autorevolissimo avallo.
Diviene difficile per chicchessia procedere ora alle debite rettifiche. Vi tentò, ma flebilmente, il compaesano gesuita padre Antonio Parisi: «... emerge la probabilità, se non la certezza - scrive il dotto gesuita - che fosse stato un Hamud [...] a dare il nome all’abitato. Rahal, pronunziato Rakal [ ...]; Hamud, pronunziato Kamud o Kamut [...] dava Rakal-kamut; ed a togliere la cacofonia si soppresse il secondo “ka” e rimase “Rakal-mut” = Ralmanuto!».
Con la sua indiscussa autorità, il Garufi debella la fantasiosa etimologia di Racalmuto quale lugubre “Paese dei Morti”, come si è potuto vedere in precedenza. Va detto che la lezione del Garufi, purtroppo, non è stata recepita dai moderni storici alla Henri Bresc. Un grandissimo arabista contemporaneo si è data la briga di riesaminare il toponimo. Non accetta la versione tradizionale. E ci dà una nuovissima lettura: Racalmuto quale ‘paese del moggio’. ([5]) Per il grande arabista, infatti, il paese: «deriva dall'arabo Rahl al Mudd = uguale Casalis Modi (Cusa 24, 25 e 221) 'sosta, casale’ del Mudd <latino modium 'Moggio’». "Paisi di lu Munnieddu", dunque, alla siciliana. Ma di modii e mondelli Racalmuto non ha la configurazione. L'immagine potrebbe valere per il vicino monte “Formaggio” di Sutera. Del resto, può escludersi qualsiasi vecchio fonema che suoni simile a Racalmuddo o Racalmullo ed analoghi. Comunque sia, almeno niente più accenni mortuari che ci tornano infausti. E’, dunque, un passo avanti.
Dipanata in qualche modo la questione del significato, nasce quella del periodo in cui si ebbe ad affermare quel nome arabo. Fu durante il periodo della dominazione berbera, come propende il p. Antonio Parisi? O va spostato nei tempi immediatamente successivi alla caduta dell’Emiro di Girgenti, Hamùd (25 luglio del 1087), oppure si collega alla signoria di uno degli emiri di Naro, come noi siamo inclini a credere? Mancano dati ed elementi per aggrapparsi ad una di queste ipotesi.
La conquista da parte di Ruggero il Normanno del territorio agrigentino, nella primavera del 1087, non pare abbia trovato un Racalmuto popoloso e prospero.
Un piccolo barlume potremmo forse trovarlo nelle cronache del Malaterra. Facendo anche noi ricorso alle congetture, una volta propendevamo ad identificare Racalmuto in un toponimo, evidentemente corrotto nelle tante trascrizioni del testo malaterrano, che si rifà ad un impreciso “Racel....”. Goffredo Malaterra fu un cronista normanno dell’XI secolo. Il manoscritto malaterrano che fu trafugato dall'Italia dallo spagnolo Zurrita, fu pubblicato a Saragozza nel 1578. Del manoscritto originale si sono perse le tracce. Michele Amari ovviamente se ne serve e riduce in Rahl il Racel che si trova nel punto in cui si parla della conquista dell’agrigentino e che potrebbe riguardare proprio il nostro paese: Racalmuto.
In effetti il Malaterra parla di undici castelli nei dintorni di Agrigento conquistati dal conte Ruggero «.. Platonum, Missar, Guastaliella, Sutera, Racel .., Bifar, Muclofe, Naru, Calatenixet, [che nella nostra lingua significa “Villaggio delle donne”], Licata, Remunisce». Tra Sutera. Bifara, Milocca, Naro e Caltanissetta, quell’incompleto “Racel....” potrebbe essere proprio Racalmuto. Ma il limite di mera congettura, resta.
Incrostano le origini di Racalmuto due falsi storici, peraltro in contrasto fra loro. Da un lato, si indica Racalmuto insediato a Casalvecchio con questo improbabile nome in lingua volgare sin dai tempi post-arabi; dall’altro, si vuole il centro sito nei pressi di Santa Maria per volontà di Roberto Malconvenant, sin dal 1108.
L’Assessorato Turismo Comunicazioni e Trasporti della Regione Sicilia nel n.° 39 del 22 dicembre 1991 de “L’Amico del Popolo” si reputa in grado di affermare: «Distrutto Casalvecchio, come riferisce Michele Amari, il nuovo centro abitato venne spostato di alcuni chilometri e dagli Arabi venne denominato Rahal Maut...». Il passo dell’Amari non è citato ed è quindi impossibile accertarne la correttezza del richiamo letterario. Noi crediamo che ci si riferisca alla Storia dei Musulmani, vol. II, pag. 64. Là si parla, invero, di Castel Vecchio ma è località a quattro miglia da Agrigento, in arabo chiamata Raqqâdah (Sonnolenta). Comunque la si giri, non mi sembra proprio che Racalmuto c’entri proprio. Ritrovamenti archeologici provano magari insediamenti greci e romani in quelle parti. Nulla di arabo finora è emerso. Men che meno reperti attestanti presenze abitative collocabili nel Basso Medio-Evo. L’arcidiacono Bertrando Du Mazel, che ebbe a fare censimenti nel 1375 (29 marzo) proprio a Racalmuto, nella documentazione rimessa ad Avignone, attesta l’esistenza di un centro abitato (appena 136 “fuochi” in case per la gran parte coperte di paglia) che appaiono sparse nei dintorni della fortezza, denominata “lu Cannuni”.
L’altro falso è l’erezione di una chiesa nel 1108 là dove oggi stanno i ruderi di Santa Maria di Gesù, su cui già abbiamo fornito accenni.
Del tutto singolare è l’assoluta assenza di una qualsiasi località chiamata Racalmuto nelle più antiche carte capitolari del vescovado di Agrigento per il periodo che va dal 1092 al 1282. Si suol dire che il silenzio nella storia equivale al nulla. In questo caso, però, si deve ammettere che per un paio di secoli Racalmuto non fu tributario in modo esplicito della potente curia agrigentina, né ebbe a pagare censi, canoni e livelli agli ingordi canonici del capitolo della cattedrale di San Gerlando. Basta scorrerle, quelle carte, per rendersi conto di quanto fiscali fossero il prelato e la sua corte agrigentina sin dal tempo in cui Ruggero il Normanno istituì - o si pensò che avesse istituito - quella diocesi affidandola al santo, o santificato, consanguineo di Bretagna: Gregorio, uomo di bell’aspetto e di copiosa dottrina, secondo quel che vogliono le cronache. Se nessuna terra delle pertinenze agrigentine, che si richiami ad un toponimo che magari vagamente rassomigli a Racalmuto, figura trubutaria in quel periodo, ciò lascia intendere che non esisteva, almeno come centro organizzato suscettibile di imposizione.
Entriamo, ora, nella storia documentata di Racalmuto.
Nei primi decenni del XIII secolo, riusciva ad impossessarsi di Racalmuto tal Federico Musca. Questi tradisce al tempo di Carlo d’Angiò e costui lo priva del dominio di Racalmuto nel 1271 per conferirlo a Pietro Nigrello di Bellomonte (vedi quanto segnalato prima.)
La signoria di tal uomo della corte napoletana durò però poco e, nel corso del Vespro, Racalmuto appare un comune autonomo
[2] ) Archivio Segreto Vaticano. Relationes ad limina - Agrigentum - 18/A f.18
[3]) Cro-Magnon (Francia), località del Périgord, nel dipartimento della Dordogne. Uomo di Cro-Magnon. Razza di Homo sapiens sapiens, cui appartengono i resti scheletrici rinvenuti nella località omonima e risalenti al Paleolitico superiore.
[4]) Michele Amari: Biblioteca Arabo-Sicula, Torino 1880 - pag. 305-306, dal Kitab 'al Falah, Libro dell'Agricoltura di Ibn 'al Awwam
[5]) Giovan Battista Pellegrini, in Dizionario di Toponomastica - i nomi geografici italiani - UTET 1990.
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