La svolta del 1374
Si accredita autorevolmente la tesi di un Mafredi
Chiaramonte, bastardo, nelle cui mani «per via di fortunate combinazioni, si
venisse a riunire .. l’ingente patrimonio della casa.» [1] Non
sembra potersi revocare in dubbio che «al 1374 in fatti egli [Manfredi
Chiaramonte] ereditava dal cugino Giovanni il contado di Chiaramonte e Caccamo;
dal cugino Matteo, al ’77, il contado di Modica; inoltre le terre e i feudi di
Naro, Delia, Sutera, Mussomeli, Manfreda, Gibellina, Favara, Muxari,
Guastanella, Misilmeri; in fine campi, giardini, palazzi, tenute in Palermo,
Girgenti, Messina ...». Racalmuto non viene nominato, ma si dà il caso che in
documenti coevi che si custodiscono nell’Archivio Vaticano Segreto anche il
nostro paese appare sotto la totale giurisdizione del potente Manfredi.
Nel 1355 dilagò in Sicilia una peste che, «se non fu
con certezza peste bubbonica o pneumonica, fu pestilentia nel senso allora corrente di gravissima epidemia». [2] Già vi
era stata un’invasione di lacuste che provocò forti danni nell’Isola. Racalmuto
ne fu certamente colpita, ma pare non in domodo grave. Maggiori danni si ebbero
per un ritorno dei focolai epidemici di una ventina d’anni dopo. Operava
frattanto la scomunica per i riverberi del Vespro. Preti, monaci e bigotte
seminavano il panico facendo collegamenti tra le ire dei papi che in quel tempo
erano emigrati ad Avignone e la vindice crudeltà della natura: era facile
additare una vendetta divina, ed anche il potente Manfredi Chiaramonte era
propenso a credervi.
I nostri storici locali raccolgono gli echi di quei
tragici eventi ed imbastiscono trambusti demografici per Racalmuto: nulla di
tutto questo è però provabile. Un fatto eclatante viene inventato di sana
pianta: un massiccio trasferimento da Casalvecchio all’attuale sito della
residua, falcidiata popolazione. Già, subito dopo la conquista di Garibaldi, il
locale sindaco - pensiamo a Michelangelo Alaimo - faceva scrivere ad un dotto
professore del Continente che: «Antica è
l'origine di Racalmuto: il suo nome è di origine arabica. Fu distrutto dalla
peste del '300, indi nel ripopolarsi non occupò il luogo primitivo, che si
trova ora alla distanza di un chilometro, e si chiama Casalvecchio.
Nell'occasione dei lavori eseguiti ultimamente per stabilire una carreggiabile,
si rinvennero ivi dei sepolcreti e ruderi di edifici. Questo borgo fu sotto il
dominio della famiglia Chiaramonte, passò quindi in feudo della famiglia
Requisenz, principi di Pantelleria. (Alcune delle surriferite notizie debbonsi
alla cortesia dell'on. Sindaco di questo Comune).» [3]
L’apice della visionarietà si ha naturalmente nel
Messana, [4] secondo
il quale: «A Racalmuto le cose andavano bene, la
popolazione cresceva, sempre attorno al castello. Vista insufficiente la
cappella del Palazzo che nei primi tempi dopo il 1355 fu aperta al culto dei
pochi superstiti alla calamità, si costruì la chiesa dedicata a S. Antonio
Abate, eletto patrono del paese, alla periferia del nuovo centro abitato, verso
l'odierno cortile Manzoni. Intanto gli anni passavano, e al barone Antonio Del
Carretto erano succeduti i figli Gerardo e Matteo. La baronia di Racalmuto con
altri possedimenti era toccata a Matteo, a Gerardo invece Siculiana col resto dei feudi. I due
germani non rimasero estranei agli avvenimenti politico militari del regno.
Essi seguirono, come aveva fatto il padre, i loro parenti, i Chiaramonti, anche
perché questi avanzavano rivendicazioni sulla baronia, tutte le volte che non
vedevano i Del Carretto al loro fianco con entusiasmo e dedizione. Negli anni
di grazia tra il 1374 ed il 1377 in più luoghi storici infatti Racalmuto è
annoverata fra i beni chiaramontani. E' chiaro che i Del Carretto erano i
signori di Racalmuto negli affari interni, ma tanto legati e dipendenti dai
Chiaramonti che all'esterno apparivano come valvassori dei potentissimi
parenti. Gerardo e Matteo, alla caduta di andrea Chiaramonti, che avevano
seguito nell'assedio di Palermo, riuscirono a sfuggire all'ira di Martino e
ricoverarono all'interno. » In
questa pagina del Messana c’è del vero, ma tanto da rettificare, almeno se si
dà in qualche modo credito alla lezione da noi sopra esposta.
I traumi che la Sicilia ebbe a soffrire tra il 1361 ed
il 1375 ebbero indubbiamente a coilvolgere Racalmuto, ma in che modo non è
possibile documentare su basi certe. Gli scontri tra le parzialità - solo
vagamente definibili latine e catalane - continuano a scoppiare nel 1360.
L’anno successivo giunge in Sicilia Costanza d’Aragona per sposare Federico I,
il quale, sfuggendo a Francesco Ventimiglia che lo teneva sotto sequestro, può
solo nell’aprile convolare a nozze in quel di Catania. Manfredi Chiaramonte con
9 galeee attacca nel maggio la piccola flotta catalana (6 galeee) che aveva
scortato Costanza e ne cattura una parte presso Siracusa. Nel 1362 Federico IV
si dà da fare per rappacificare e rappacificarsi con i potentati del momento:
nell’ottobre ratifica la pace di Piazza fra Artale d’Alagona ed i suoi seguaci
da una parte e Francesco Ventimiglia e Federico Chiaramonte (che sono a capo di
nutrite fazioni) dall’altra. Nel biennio 1262-1363 si registra una
recrudescenza della peste. Nel 1363 muore la regina Costanza. Nel 1364 si
riesce a recuperare il piano di Milazzo e di Messina e finalmente nel 1372 si
può parlare di pace con gli Angioini di Napoli.
Ma quando agli inizi del 1373 Palermo e Napoli ebbero
per certe le condizioni di pace, divenne più agevole definire il concordato con
il papato che manteneva sulla Sicilia il suo irriducibile interdetto. La corte pontificia, ancora ad Avignone,
versava in ristrettezze economiche: se la Sicilia si mostrava disponibile ad
una tassazione straordinaria aveva possibilità di una rimozione del gravame
papale. Fu così che si fece strada la soluzione della controversia con il papa:
bastava assicurare il pagamento di un sussidio il cui peso sarebbe finito
direttamente sulle vessate popolazioni dell’Isola, compreso Racalmuto
naturalmente.
E qui la minuscola vicenda racalmutese si aggancia ai
grandi eventi della storia medievale di quel torno di tempo. Affiora, ad
esempio, un nesso tra papa Gregorio XI e la reggenza di Racalmuto nel 1374.
Gregorio XII era inffetti Pietro Roger de Beaufort nato a Limoges nel
1329; morirà a Roma nel 1378. Eletto papa nel 1371, ristabilì a Roma la
residenza pontificia ponendo fine alla cosiddetta "cattività
avignonese". La fine del suo pontificato fu contraddistinta dalla rivolta
generale delle province italiane. Nel 1375 e nel 1376, nel momento in cui
Firenze ingaggiava contro la Santa Sede la guerra degli «8 santi», novanta
citta e castelli dello Stato pontificio si sollevavano contro gli ufficiali
apostolici e demolivano le fortezze edificate antecedentemente dal cardinale
Albornoz. La rivolta può venire considerata causa del definitivo tracollo del
papato francese in Italia, che non riesce più a percepire i sussidi
straordinari imposti dal 1370 al 1375 nei domini della Santa Sede.
Negli ultimi anni della loro dominazione in Italia, i
papi avignonesi ricorsero molto spesso alla generosità dei loro sudditi con
richiesta di sussidi straordinari, tanto da trasformarsi in imposte ordinarie.
Quanto al consenso dei parlamenti, divenuto alla lunga puramente formale, a
partiva dal 1374 esso tendeva a sparire del tutto. Dal 1369 al 1371 si trascina
la guerra di Perugia e diviene controversa l’esazione dei sussidi della Tuscia
in favore del patrimonio della Santa Sede. [5] Scoppia
quindi la guerra milanese ed insorgono difficoltà per l’acquisizione dei
sussidi relativi agli anni 1372-1373. L’Italia conosce, nel 1374 e nel 1375, la
devastazione della peste e della fame. L’epidemia di peste bubbonica affiorata
a Genova nel 1372 si diffonde a poco a poco per il resto d’Italia, e nel 1374
raggiunge la Francia meridionale. Una grande siccità imperversò alla fine del
1373. Dopo, nel seuccessivo aprile, cominciarono piogge torrenziali e protratte
che rovinarono la mietitura e provocarono la carestia. Un coacervo dunque di
circostanze per le quali Gregorio XI si vide costretto a sollecitare un nuovo
aiuto economico da parte dei sudditi italiani per sostenere la guerra che
continuava più furibonda e più rovinosa che mai, contro il signore di Milano.
All’inizio del 1375, la Camera apostolica non incontra
difficoltà soltanto in alcune province dell’Italia centrale. La carenza
contributiva si estende alla Cristianità intera. Salvo forse la Francia, la
percezione dell’obolo è un totale falimento nel reame di Napoli e,
specialmente, in Sicilia. L’Inghilterra si era sollevata contro le pretese di
Gregorio XI. Il clero di Castiglia e di Lione e quello del Portogallo rifiutava
ogni aiuto. Il papa fu allora costretto a revocare le vecchie tasse e
dichiarare che si accontentava di somme relativamente modeste (qui 20.000 e là
25.000 fiorini). Nella stessa Italia, gli ecclesiastici fanno orecchi da
mercante e rifiutano di consegnare al collettore Luca, vescovo di Narni, i
contributi che pure avevano promesso. I mercenari non sono pagati e, per
calmarli, Gregorio XI deve conferire terre della Chiesa ai loro capi.
La guerra milanese è frattanto prossima a concludersi.
Il 4 giugno 1375, la tregua con i Visconti è conclusa. Lungi dal riassettare
una situazione fortemente compromessa, la fine delle ostilità aggrava le
tensioni. I mercenari, privi del loro soldo, sono lì lì per costituirsi in
compagnia e rifarsi con i saccheggi. Non basta, certo, un’ipotetica
retribuzione a frenarli. Solo degli espedienti possono salvare provvisoriamente
la Camera apostolica. Gregorio XI si fa
prestare somme enormi.
L’incapacità del papato di procurarsi il denaro
necessario al finanziamento della guerra contro Bernabò Visconti è il segno del
fallimento finale della fiiscalità avignonese. Questo fallimento deborda dai
limiti dello Stato pontificio e si estende atutta la Cristianità, come mostra
il rifiuto pressoché generale di pagare i “sussidi della carità” sollecitati da
Gregorio XI nel 1373.
Per un sussidio di carità può però la Sicilia torgliersi
da dosso l’interdetto, conseguenza del Vespro: lo può l’intera Sicilia ed è
perdonata; lo può Manfredi Chiaramonte e tutte le sue terre sono
perdonate; lo può Racalmuto ed il 29
marzo 1375 viene solennemente assolto con un cospicuo “sussidio della carità”
di una colpa mai commessa.
Storici di acuto intelletto scrivono che «c’è un
elemento comune del mondo moderno che è stato considerato come il fondamento
del suo processo evolutivo, nelle forme di stato e Chiesa, costumi, vita e
letteratura. Per produrlo le nazioni occidentali dovettero formare quasi un
unico stato spirituale e temporale insieme.» [6] Ma ciò
per un breve momento. Sorgono quindi le lingue nazionali; si sfalda il
precedente mondo monolitico e «un passo dopo l’altro, l’idioma della Chiesa si
ritirò dinanzi all’impellanze delle varie lingue delle varie nazioni.» L’universalità perse terreno; l’elemento
ecclesiastico che aveva sopraffatto le nazionalità entra in crisi; i popoli si
mettono in cammino lungo percorsi nuovi,
in incessante trasformazione, e sempre più accentuatamente distinti e separati.
La potenza dei papi era assurta ad altissimi livelli in un mondo coeso. Ma ecco
che nuovi momenti cominciano ad eroderla. Furono i francesi che opposero la
prima decisa resistenza alle pretese dei papi. Si opposero, in concordia
nazionale, alla bolla di condanna di Bonifacio VIII; tutti i corpi di quel
popolo espressero il loro consesso agli atti del re Filippo il Bello.
Seguirono i tedeschi. L’Inghilterra non rimase estranea
per lungo tempo a questo movimento; quando Edoardo III non volle più pagare il
tributo al quale i re suoi predecessori si erano impegnati, ebbe l’assenso dei
suo parlamento. Il re prese allora misure per prevenire altri attacchi della
potenza papale.
Una nazione dopo l’altra si rende autonoma; le pubbliche autorità rigettano le idee di
sudditanza ad una autorità superiore, sia pure a quella del papa. Anche la
borghesia si discosta dall’umile sottomissione ai papi. E gli interventi di
costoro vengono respinti dai principi e dai corpi statali.
Il papato cade allora in una situazione di debolezza e
di imbarazzo che rese possibile ai laici, che sinora avevano cercato di
difendersi, di passare al contrattacco. Si ebbe addirittura lo scirma. I papi
poterono essere deposti per volontà delle nazioni. Il nuovo eletto doveva
adattarsi a stabilire concordati con i singoli stati.
E così da Avignone il papa dovette tornarsene a Roma.
E’ questo un momento ulminante della crisi che abbiamo fugacemente additata. Ed
in questa congiuntura, cade appunto la remissività papale verso la Sicilia. In
cambio di un obolo supplemante si può procedere alla revoca di un interdetto,
frutto di potenza, arroganza ed al contempo di remissività verso la Francia.
La meridiana della storia passa allora anche per il
modesto, gramo paesetto di Racalmuto. Altro che isola nell’isola, nell’isola -
scrivemmo una volta in pieno disaccordo con Sciascia.
Le decime del 1375
Nel contesto della politica fiscale di papa Gregorio XI
un personaggio acquisisce contorni di rilievo e diviene memorabile nell’ambito
nostro, cioè della microstoria racalmutese del XIV secolo: Bertrand du Mazel.
Originario della diocesi di Mende, in Francia, fu uno dei valenti agenti
dell’amministrazione finanziaria della Santa Sede sotto i pontificati di Urbano
V e di Gregorio XI. Si distinse come collettore in Germania (1366-1367) e
quindi nella Penisola Iberica (1368-1371). A questo punto il suo destino si
lega a quello della Sicilia ed investe a Racalmuto ove ebbe a recarsi il 29
marzo del 1375. La sua carriera in Sicilia si dispiega lungo gli anni dal 1373
al 1375. Svolge diligentemente i suoi compiti e fra l’altro redige come
collettore apostolico carte e registri contabili che, conservati negli Archivi
del Vaticano, sono giunti sino a noi. Vi troviamo Racalmuto.
Bertrand du Mazel era “archidiaconus Tarantone in ecclesia Ilerdensi, cappellanus pontificis”
(Reg. Vat. 268, f. 67) cioè a dire un diacono maggiore che aveva
l’amministrazione dei beni di taluni settori della chiesa (canonica, etc.). Oggi
il titolo è meramente onorifico e viene attribuito ad un componente capitolare
delle cattedrali. Du Mazel , come tutti i collettori, dovette tenere un
registro delle sue operazioni per sottometterle al controllo dei chierici della
Camera apostolica. Pare che si stato un uomo preciso e motodico: conservo una
copia della sua corrispondenza. Una parte di tale corrispondenza riguardava,
pernostra fortuna, la Sicilia e risulta custodita in Vaticano. Ciò si deve al
fatto che per il diritto di spoglio tutte le carte di Bertrand du Mazel
dovettero essere versate in blocco alla Camera apostolica alla morte del
proprietario.
Du Mazel curò un carteggio con le autorità siciliane
dell’epoca nella sua qualità di collettore del sussidio riscosso dal popolo
siciliano. Inoltre conservò i documenti contabili tra cui quietanze, conti dei
sotto-collettori, minute e bella copia dei conti. Nel Reg. Av. 192, fol.
414-419v, abbiamo la minuta autografa, cancellata e corretta, del conto del
sussidio raccolto dal popolo siciliano.
La visita in Sicilia (e a Racalmuto) di du Mazel si
colloca nel quadro degli eventi sopra abbozzato. In particolare occorre tener presente che
all’inizio del 1373, dopo laboriosi negoziati, il re Federico IV di Sicilia e
la Regina Giovanna di Napoli concludevano la pace sotto l’egida del papato.
Riconosciuto come sovrano legittimo della Trinacria, Federico IV accettava la
signoria di Giovanna I, e quella di Gregorio XI. Egli si impegnava a pagare un
censo di 3.000 once alla regina che doveva trasmette alla Santa Sede questo
canone. I siciliani dovevano giurare la pace e prestare giuramento di fedeltà
al re. La Chiesa riacquistava tutti i diritti e privilegi che godeva prima del
Vespro del 1282. Il papa prometteva di levare l’interdetto che gravava nell’isola
da lunghi anni.
L’accordo si rendeva necessario per le ristrettezze
finanzierie pontificie a seguito della lotta contro i Visconti di cui abbiamo
detto. Si è anche visto come i “sussidi caritativi” chiesti al clero di molti
paesi fossero risultati fallimentari.. In Sicilia la percezione di tale
sussidio fu decisa prima della ratifica della pace, nel dicembre del 1372; la
promessa di abolire l’interdetto è uno strumento di pressione fiscale. Vengono
chiamati anche i laici a contribuire. Si decidono madalità di esazione
contemplanti censure ecclesiastiche per gli evasori o per i riottosi. Le bolle
del dicembre del 1372, chiedendo un aiuto per la lotta contro i nemici della
Chiesa in Italia, imponevano che questo venisse dato “prima dell’abolizione
dell’interdetto”. Evidente l’intento dissuasivo.In virtù di una clausola
apparentemente anodina, i delegati pontifici potevano esigere da chi si voleva
liberare dall’interdetto, non solamente il giuramento di rispettare la pace e
d’essere fedele al re, secondo i termini del trattato, ma anche un aiuto
pecuniario alla Chiesa. Il sussidio “caritativo” e volontario si trasformava in
imposta pura e semplice. Bertrand du Mazel non esita a parlare della tassa
riscossa “ratione amotionis interdicti”, come nel caso di Racalmuto, ove invero
si parla ancora più esplicitamente di “subsidio auctoritate apostolica imposito” . E ci siamo dilungati proprio perché
in definitiva ciò ci illumina sulla storia “narrabile” del nostro paese.
Illuminato Peri
chiarisce gli aspetti storici di siffatta atipica tassazione pontificia.
«La esazione fu affidata a collettori pontifici, e fu convenuto che 1/3 sarebbe
andato alle finanze regie. Nella forma Federico IV si presentò mediatore fra
popolazione e autorità ecclesiale. Tanto che l’atto del maggio del 1374, con il
quale egli fissò la misura della sovvenzione, fu dichiarato “moderatio regia”.
Con tale atto si cercò di sedare le reazioni piuttosto violente suscitate dalla
prima richiesta (“rumori, rivolte, novità, assembramenti e molte indicibili e
turpi parole contro la chiesa romana e noi”, sintetizzava il collettore
Bertrand du Mazel). Il sussidio fu ripartito in ciascun abitato per case, in
rapporto alla condizioni economiche: 1 tarì per le famiglie povere, 2 per le
“mediocri”, 3 per le agiate (“qualsiasi fuoco di ricchi abbondanti in
facoltà”). Si computarono in ciascuna località metà delle famiglie nella
categoria inferiore, ¼ nella mediana, ¼ tra le benestanti: se le condizioni
economiche fossero omogenee, sarebbe stata distribuzione equa. Furono esentati
i preti, i giudei e i tatari “che sono nell’isola infiniti” e le “miserabili
persone” che non era prefigurato fossero.» [7]
Intensa è la fase preparatoria del sussidio. Il papa
scrive a destra e a manca per spingere i notabili siciliani ad accedere alle
nuove istanze impositive della Santa Sede. Da Avignone invita, nel 1372,
giurati ed università a recarsi presso “Federico d’Aragona” - non lo chiama re
- perché lo convincano a fare pace con “la regina di Sicilia”, cioè Giovanna di
Napoli. Gli inviti sono mandati a Calascibetta, Licata, Agrigento e
Sciacca (reg. Vat. 268, f. 295-297).
Sempre da Avignone, il 1° ottobre del 1372, si officia
Guglielmo affinché interponga “partes suas consolidationi Agrigentinae
civitatis efficaciter et, cum consummata fuerit, Francisco de Aragonia impendat
obedientiam et reverentiam, sicut decet.” (Reg. Vat. 268, f. 298 v.° 299 v.°). Si ripristini ad Agrigento la
fedeltà a Francesco d’Aragona, che risultava infranta.
Vediamo questo diploma: «Al nostro diletto figlio,
nobiluomo Guglielmo di Peralta, conte di Caltabellotta della diocesi di
Agrigento, salute. Ed al magnifico
diletto figlio, nobiluomo Giovanni
Chiaramonte, signorotto (domicellus)
della diocesi di Agrigento, nonché ad Emmanuele Doria, signorotto (domicellus) della diocesi di Mazara, a
Manfredi Chiaramonte, (domicellus) della diocesi di Siracusa, a
Benvenutode Graffeo, signore di Partanna della diocesi di Mazara.» Il pontefice
mostra di conoscere molto bene la mappa del potere feudale in quel frangente storico,
come dimostra il dosaggio dei titoli nobiliari nella missiva di cui abbiamo
citato l’indirizzario.
Ma particolare attenzione viene rivolta a Giovanni
Chiaramonte che ancora nel 1372 è vivente e domina sull’intera provincia
agrigentina, Racalmuto compreso (il papa ignora i Del Carretto, argomento ex silentio, quanto si vuole, ma pur
sempre circostanza rivelatrice). Sottolineamo questa lettera del 20 gennaio
1372: «a Giovanni Chiaramonte per i suoi
buoni offici tra la Regina di Sicilia e Federico d'Aragona - secondo il tenore
delle lettere per Nicolò de Messana,
Pietro d'Agrigento custodi delle custodie di Messina e di Agrigento dell' O.F.M.»
(Reg. Vat. 268, f. 247). In
ben sei lettere papali a Giovanni Chiaramonte, questi viene chiamato “domicellus panormitanus”. Nello stesso
periodo sono sette le missive papali a Manfredi Chiaramonte. I due sono dunque
personaggi di rilievo sino alle soglie del 1374. Il 6 febbraio 1372, per il
papa avignonese Giovanni Chiaramonte è cresciuto d’importanza: viene chiamato
“domicello dell’isola di Sicilia”. In
appendice citami altri diplomi vaticani ad ulteriore esemplificazione
dell’importanza rivestita dai due Chiaramonte, succedutisi nella signoria di
Racalmuto in quel torno di tempo tra il 1371 ed il 1375.
Il 9 febbraio 1375, da Caccamo, Manfredi Chiaramonte,
nella sua qualità anche di ammiraglio di Sicilia ordina ai suoi ufficiali di
percepire nelle sue terre il denaro del sussidio dovuto alla Chiesa e di
consegnare il frutto della loro raccolta al collettore apostolico che subito
toglierà l’interdetto. Il precedente 18 novembre 1374, Menfredi è a Mussomeli
nel suo castello che ora si denomena dal suo nome “Manfreda”: là si redige un
processo verbale che attesta che egli, ammiraglio del regno di Trinacria,
presentandosi davanti al re Federico III gli ha prestato fedeltà e devoto
omaggio. Il ribellismo del conte, di illegittimi natali, si era dunque
quietato. Al vescovo di Sarlat, nunzio apostolico, che accompagnava il re,
Manfredi ha solennemente promesso sul Vangelo di osservare il trattato di pace,
come è stato steso nelle lettere reali sigillate con una bolla d’oro e finché
il re l’osserva lui stesso. Egli ha promesso di fare versare il sussidio dovuto
alla Chiesa dagli abitanti delle su terre di Spaccaforno, Scicli, Modica,
Ragusa, Chiaramonte, Comiso, Dirillo, Naro, Delia, Montechiaro, Favara,
Racalmuto, Guastanella, Muxaro, Sutera, Gibellina, Castronovo, Mussomeli,
Camastra, Bivona, Prizzi, S. Stefano, Caccamo, Misilmeri, Cefalà, Palazzo
Adriano, Calatrasi, Cazonum (?), Camarina, la torre di Capobianco, Pietra Rossa
e Misilendino. Osserva il Glénisson: «si è potuto dire delle proprietà dei
Chiaramonti che esse formavano un piccolo regno nel grande. Le proprietà di
Manfredi Chiaramonte colpiscono veramente per la loro estensione. Esse sono
distribuite in quattro gruppi principali: 1) Esse comprendono buona parte
dell’attuale provincia di Ragusa, con Ragusa stessa, Modica, Spaccaforno,
Scicli, Comiso, Camariano, Dirillo; 2) Nella regione di Agrigento e di Caltanissetta,
Manfredi possiede Mascaro, Racalmuto, Montechiaro, Camastra, Naro, Delia,
Favara, Sutera. 3) Le località del centro: Mussomeli, S. Stefano, Castronovo,
Prizzi, Cefalà, Palazzo Afriano ... 4) Le proprietà della regione di Palermo:
Misilmeri, Caccamo ...» [8] Il
processo verbale è stato redatto su domanda del re e del nunzio apostolico
nella casa dove risiede il re da Francesco da Treviso, notaio apostolico e
imperiale «presentibus reverendo padre Rostagno abbate monasterii Sancti
Severini Majoris de Neapoli et nobilibus et circumspectis viris Jacobo
Pictingna de Messana milite, Georgio Graffeo de Mazaria, Bonaccursio Maynerii
de Florencia, Manfredo de la Habita de Panormo, Raynerio de Senis, Reynerio
Pictngna de Messana et aliis.» [Copia di Bertrand du Mazel: Reg. Av. 192. Fol.
4.]
Dalla lettera circolare che Manfredi Chiaramonte dirama
da Caccamo il 9 febbraio 1375 riusciamo a cogliere alcuni tratti della veridica
storia di Racalmuto: esclusa ogni effettiva ingerenza dei Del Carretto, il
casale è evidentemente assoggettato al Chiaramonte, nell’occasione conte di
Chiaramonte, signore e ammiraglio del regno di Trinacria. L’Universitas ha un suo governo locale che
fa capo ad un capitano, ad un baiulo, a dei giudici, a degli ufficiali
subalterni ed ha una popolazione che costituiisce un soggetto giuridico (universi homines). Rientra tra le terrae nostrae, cioè di Manfredi. Se
dovessimo credere agli araldisti (ed agli storici locali), Racalmuto sarebbe
dovuta essere terra di Antonio II del Carretto: il diploma in esame smentisce
in pieno.
«Cum zo sia cosa
ki - soggiunge il conte di Chiaramonte con un siciliano cancelleresco che
ha il suo fascino - a nuy sia debitu
procurari vostru beneficiu et universali saluti, cossì di l’anima comu di lu
corpu, idcirco vi significamu ki pir tali ki vuy putissivu aviri lu divinu
officiu et la celebracioni di li missi, sì comu ànnu la plu parti di li altri
terri di quistu Regnu, et maxime per consideracioni di la malvasa epithimia ki
vay discurrendu per diversi terri et loki, in presencia di lu R[e]... prestamu
et fichimu juramentu di observari la pachi facta per lu signur Re comu [illu]
... observirà et hannu juratu li altri baruni, et lu simili avimu factu fari a
la universitati di Palermu et di Girgenti; per la quali concordia esti commisu
a lu venerabili misser Bertrandu, capellanu et nunciu apostolicu et collecturi
deputatu per nostru signuri lu papa di lu subsidiu impostu per la relaxioni di
lu interdictu, ki pagandu vuy chauna universitati oy locu la taxa imposita et
consueta, comu ànnu pagatu li altri terri di lu predictu Regnu, ipsu per la
auctoritati a ssì commissa relassi lu dictu interdictu et restituiscavi lu
divinu officio et la celebracioni di li missi, ut predicitur; et impirò vulimu
et comandamu ki vuy, officiali predicti, ordinati tri boni homini un chascuna
terra et locu predicti ki aianu a recogliri la dicta munita, et ki incontinenti
si pagi a lu dictu collecturi perkì puzati consiquiri tanta gratia et beneficiu
supradictu. Et pirkì siati plu certi di la supradicta nostra voluntati, fachimu
fari quista nostra patenti lictera, sigillata di lu nostru sigillu consuetu,
cum li nomi di li terri et loki infrascripti. Datum in castro nostro Cacabi, VIIII° Februarii XII
indictionis [rectius: XIII indictionis = 1375].
«Nomina terrarum
et locorum sunt hec, videlicet:
Spackafurnu
- Naru - lu Mucharu - Sanctu Stephanu - la Petra d’Amicu
Sicli - la Delia - li Glubellini - Perizi - Calatrasi
Modica - la Favara - Sutera - lu Palazu Adrianu - lu Misilendinu
Ragusa - Monticlaru - Manfreda - Cacabu - Camarana
Claromonti
- la Licata - Camastra - Chifalà - Petra Russu
Odorillu - Rachalmutu - Castrunovu
- Misilmeri - ____Ç____
Terranova
- Guastanella - Bibona - la turri di Capublancu - Et cetera
Copia di B. du Mazel: Reg. Av. Fol. 431-431v.»
Ancora una volta le singole università dievono dunque
nominare tre probiviri (tri boni homini)
i quali devono assolvere il poco gradito compito di spillare denari a tutti gli
abitanti (nelle diverse misure che prima abbiamo detto). Non sappiamo chi siano
stati i prescelti di Racalmuto: ma sappiamo che vi furono e svolsero a puntino
la ficcante tassazione.
L’elenco delle università ha una sua logica: Racalmuto
si trova in mezzo ad un itinerario che, partendo da Gela (Terranova) punta su
Naro, da qui a Delia e da lì si torna a Favara (ammesso che si tratti
dell’attuale Favara e non di un centro nel nisseno); da Favara a Palma di
Montechiaro, quindi a Licata per convergere sul nostro Racalmuto. Da qui a Guastanella
(una rocca sul monte omonimo a poco più di 2 km. A Nord di Raffadali), per
toccare S. Angelo Muxaro. Da qui per una località vicina: Gibillini (Glubellini) che non può essere Gibellina
(come si ostinano a dire anche storici di alto livello) ma che potrebbe essere
davvero il nostro Castelluccio, al tempo chiamato Gibillini. Se è così, la
storia del paese di arricchisce di unaltro importante tassello. Da Gibillini si
va a Sutera e quindi a Mussomeli. Si passa a Camastra. Ma subito dopo tocca a
Castronovo e quindi a Bivona, Santo Stefano, Prizzi, Palazzo Adriano. E’ quindi
la volta di Caccamo e di altri centri, ma a questo punto il nostro interesse
per la dislocazione trecentesca dei paesi diviene nullo.
Fin qui si è trattato di maneggi burocratici: ora è il
tempo delle tasse vere. L’arcidiacono du Mazel decide di tassare l’agrigentino
a partire dai primi di marzo del 1375. Inizia da Palma di Montechiaro (6
marzo); il 18 dello stesso mese può
togliere l’interdetto a Bivona; il 19 a Santo Stefano; il 20 a Pietra d’Amico;
il 21 a S. Angelo Muxaro; il 29 a Guastanella.
Lo stesso giorno è la volta di Racalmuto. Dal nostro paese si passa a Castronovo (8
aprile 1375). La raccolta del sussidio s’interrompe e verrà ripresa l’8 giugno
con la rimozione dell’interdetto che incombeva su Castellammare del Golfo:
altra regione, lontana da Agrigento. Per noi ha particolare rilievo ovviamento
Racalmuto.
Disponiamo di un paio di annotazioni che riguardano il
nostro paese e che naturalmente svelano tratti storici diversamente ignoti. Il
Reg. Coll. N. 222 dell’Archivio Segreto Vaticano ci degna della sua attenzione
al foglio 249 con questa nota:
«Item eadem die
fuit amotum interdictum in casali Rahalmuti dicte Diocesis in quo fuerunt domus
coperte palearum CXXXVI que ascendunt et quas habui VII uncias XXVII tarinos.»
Traducendo: «Del pari lo stesso giorno (29 marzo 1375) fu rimosso l’interdetto
nel casale di Racalmuto della predetta diocesi, nel quale furono rinvenute 136
case coperte di paglia; queste hanno reso una tassa da me percetta che ascende
ad onze 7 e 27 tarì.» Ad essere precisi la tassa avrebbe dovuto essere di onze
7 e tarì 27 (anziché 27) dato che così andava ripartita:
|
|
quota individuale
|
totale in tarì
|
pari ad onze
|
e tarì
|
numero fuochi
|
136
|
|
238
|
onze 7
|
tarì 28
|
ceto medio (1/4)
|
34
|
2 tarì
|
68
|
|
|
benestanti (1/4)
|
34
|
3 tarì
|
102
|
|
|
poveri (1/2)
|
68
|
1 tarì
|
68
|
|
|
Con i suoi 136
fuochi Racalmuto aveva dunque una popolazione abbiente di circa 544 (in media 4
componenti per ogni nucleo familiari): ma bisogna considerare i non abbienti (i
miserabili), i preti (tassati a parte), gli ebrei, gli immancabili evasori e
quelli che dipersi per le campagne non era possibile includerli nel censimento;
un venti per cento, come abbiamo calcolato per l’analoga tassazione del Vespro.
Nel 1375 Racalmuto contava dunque circa 650 abitanti.
Come si è visto le case erano di paglia: segno di
grande indigenza. Eppure i racalmutesi o per solerzia degli scherani pontifici
o per vero timore di Dio (e della peste) furono solerti e puntuali nel dare il
sussidio caritativo al papa. Non così in altre zone della Sicilia, come ebbe a
lamentarsi quello straniero di Francia, Bertrando du Mazel.
Le carte del du Mazel non vanno minimamente confuse con
rilievi censuari. Abbiamo solo muneri simboli da cui possiamo dedurre solo
qualche ipotesi di lavoro di carattere demografico. Non è dato asserire che nel
1375 a Racalmuto vi erano davvero 136 case con tetto a paglia; che 34 di queste
(1/4) erano abitate da benestanti in grado di corrispondere la tassa pontificia
in misura massima (3 tarì a fuoco); che altre 34 appartenevano a ceti medi
(tassati per 2 tarì a famiglia); la metà (n.° 68) ospitava famiglie di
dignitosi coltivatori e mastri, in grado solo di corrispondere il minimo (1
tarì per ogni nucleo). Evidente è la tecnica della tassazione induttiva, per
stima aprioristica. Certamente in misura più limitata dovette essere la densità
delle famiglie veramente facoltose. Più estesa quella del ceto medio; ancor più
vasta quella della classe che oggi chiameremmo operaia. E poi i tanti religiosi
(tassati a parte, come rivelano le stesse carte del du Mazel), i “miserabili”
(nullatenenti e non imponibili per le legge o per dato di fatto), gli
irrecuperabili che si occultavano nelle vicine zone inaccessabili o nei
contigui boschi all’epoca molto folti, coloro che con gli armenti vivevano in
stato di relativo benessere ma al di fuori di ogni reperibilità impositiva.
Possiamo, però, dire che almeno 136 fuochi c’erano davvero a Racalmuto nel
1375, che il centro (snodantesi nelle scoscesi avvallamenti sotto le grotte
dell’ordierno Calvario Vecchio) raccoglieva non meno di 600 abitanti, che tutto
considerato non si può andare oltre il numero di mille abitanti (ricchi e
poveri, tassati ed esenti, stanziali e saltuari, preti e “miserabili”). Una
popolazione già falcidiata dalle tante ondate della ricorrente peste
trecentesca ed ancora non incisa dagli sconvolgimenti che con l’avvento dalla
Catalogna del duca di Montblanc ebbero a verificarsi, come vedremo.
Racalmuto alla fine del Trecento
L’ultimo quarto di secolo coinvolge la Sicilia in un
groviglio di eventi più narrati che spiegati. Sono mutamenti genetici
dell’intero tessuto sociale e politico siciliano: sono sconvolgimenti del
periferico fluire della vita paesana racalmutese. Storia del paese e storia di
Sicilia hano ora un tale contiguità da rasentare la coincidenza. Non è questa
la sede per affrontare l’intero ordito storico siciliano di quel torno di
tempo, ma un qualche aggancio si rende indispensabile.
Il 27 luglio 1377, a 36 anni, moriva Federico IV,
quello della diplomatistica avignonese coinvolgente la tassazione papale di
Racalmuto. Per gli storici, quella morte avveniva tra l’indifferenza del ceto
nobile. «Come i supoi predecessori - Scrive il D’Alessandro [9] - e
certo molto più che Pietro II e Ludovico, aveva avuto coscienza della realtà
che affliggeva il regno, degli ostacoli alla Corona; più di quei sovrani aveva
desiderato riportare l’isola ad una normalità di vita ormai tanto lontana dalla
passata storia. Il suo proponimento, dopo tanti anni di regno, restava solo una
aspirazione. Nel suo testamento, dopo la parte dedicata alla successione, egli
disponenva anche una revoca di tutte le concessioni sul patrimonio demaniale
sin’allora erogate e confermate: un “impeto di giusto dispetto” come poi fu
detto, ma che poco prima di morire annullava con un codicillo.»
Il regno passa alla figlia Maria - troppo giovane e
troppo inesperta per essere regina sul serio - ma solo pro forma visto che è Artale I Alagona a succedere nella gestione
del potere regio come Vicario. Ciò è per volontà testamentaria del defunto re.
L’Alagona non si reputa sicuro e chiede subito l’appoggio, in un convegno a
Caltanissetta, degli altri maggiori baroni Manfredi III Chiaramonte, Francesco II
Ventimiglia e Guglielmo Peralta.
La vita riprendeva apparentemente normale, ma
trattavasi di fittizia regolarità. In effetti si aveva una equiparazione dei
poteri fra costoro e cioè fra i cosiddetti quattro Vicari: il governo del regno
isolano era in mano loro. Per Racalmuto non cambiava alcunché dato che da tempo
era assoggettato a Manfredi Chiaramonte. Pensare ad una qualche influenza dei
Del Carretto, oltreché storicamente non documentabile, sembra esulare da ogni
logica: tutto lascia intendere che costoro se ne stesserro ancora a genova a
curare i nuovi loro affarri in seno a compagnie marittime.
Racalmuto scade però in una vera e propria terra
feudale «ove tutto era il signore: la legge e la giustizia, l’economia e la
vita sociale.» [10] Solo che il signore era
Manfredi Chiaramonte e non certo i Del Carretto.
La tregua cessa con l’insorgere di un nuovo
personaggio: il conte di Augusta Guglielmo III Moncada: riesce costui a
strappare dalla sorveglianza degli alagonesi, dal castello Ursino di Catania,
la regina Maria. Il conte ha l’appoggio di Manfredi III Chiaramonte. La regina
viene mercanteggiata come un oggetto da baratto. Le trattative sono con Pietro
IV d’Aragona, il quale viene messo alle strette, non lasciandogli altra via che
quella di una spedizione in Sicilia per riannetterla alla monarchia iberica.
Rientrava in scena la chiesa di Roma: Urbano VI
(1378-1389), attraverso gli arcivescovi di Messina e Monreale e il vescovo di
Catania, sobillava i nobili siciliani in contrapposizione agli intenti della
corte aragonese.
Ribolliva l’intrico di corte spagnola con il dissidio
fra re Pietro ed il primogenito Giovanni che ricusava le nozze con la regina
Maria per amore di Violante di Bar. Il re pietro finiva allora col pensare
all’Infante Martino per dar copo alle pretese sulla Sicilia: un matrimonio fra
l’omonimo figlio dell’Infante Martino con la regina Maria avrebbe consentito
una sostanziale riappropriazione della Sicilia, anche se formalmente sarebbero
rimaste distinzioni ed autonomie. In tale quadro, toccava al vecchio Martino
curare gli affari di Sicilia della corte aragonese. Fervono quindi i
preparativi per una spedizione militare. Tanti sono i maneggi tra i nobili e
Martino il Vecchio. Nel 1382 Filippo Dalmao di Rocaberti riesce senza ostacoli
a liberare dall’assedio Maria e portarla
in Sardegna, pronta per le nozze con il figlio di Martino.
Nel 1389 moriva Artale I Alagona, considerato il capo
della “parzialità” catalana. Per l’Infante Martino quella morte suonava di buon
auspicio. Fin qui i rapporti tra l’emissario spagnolo e Manfredi Chiaramonte
possono dirsi del tutto amichevoli e consociativi.
Morto anche Pietro IV (gennaio 1387), succedeva
Giovanni con il quale si iniziava un periodo di scabrosi movimenti in seno al
regno: tra l’altro veniva riconosciuto l’antipapa Clemente VII (1378-1394) e di
conseguenza scoccava la scomunica e l’opposizione della Chiesa di Rma e del
papa legittimo Urbano VI. L’Infante Martino era però ora tutto dalla parte del
fratello asceso al trono.
Nel 1389, allo scoppio di tumulti in Sardegna, il
vecchio Martino, nuovo duca di Montblanc, si adoperò subito per iltrasferimento
della regina Maria in Aragona. Cresceva frattanto la posizione egemone di
Manfredi Chiaramonte. Il duca di Montblanc, anche se scemavano le difficoltà
d’Aragona, non trascurava di apprestare un’armata che egli concepiva comunque
necessaria all’insediamento del figlio sul trono di Sicilia. Ma le forze della
Corona aragonese non sembravano atte a finanziare quel progetto. Nel 1390, ad
ogni modo, si potevano celebrare a Barcellona le nozze tra il giovane Martino e
Maria, evento nodale della storia di Sicilia.
Si giunge così al 1391 quando nel marzo viene a morire
Manfredi III di Chiaramonte, personaggio di grossa statura politica e gran
signore di Racalmuto. Sul suo successore e su altri nobili di Sicilia - punta
il nuovo pontefice romano Bonifacio IX (1389-1404): si rassoda un movimento
isolano tendente a contrastare gli scismatici aragonesi. Le vicende della
Chiesa romana si riflettono dunque anche nella periferica terra di Racalmuto.
In quell’anno si dava incarico al giurisperito Nicolò Sommariva di Lodi «per
frenare le bramosie dei magnati e coagulare attorno agli arcivescovi di Palermo
e Monreale un fronte d’opposizione ai Martini.» [11]
Nel frattempo Martino raccolse un esercito promettendo
feudi e vitalizi in Sicilia a spagnoli impoveriti e scontenti. Barcellona e
Valenza aderiscono con generosità ed entusiasmo al progetto martiniano. Una
famiglia avrà poi fortuna a Racalmuto: la denomineranno “Catalano”, in evidente
collegamento a quel lontano approdo dalla Catalogna. Ai nostri giorni, gli
ultimi eredi diverranno personaggi di inobliabile folklore. Chi non ricorda Tanu Bamminu? Pochi rammentano che il
cognome era appunto “Catalano”. Ai tempi in cui il padre di Marco Antonio
Alaimo era apprezzato medico racalmutese (fine del ‘500) i Catalano, ottimati
rispettati, abitavano proprio all’incrocio tra l’attuale corso Garibaldi e la strada intestata al celebre medico
racalmutese.
Nel 1392 gli spagnoli sbarcarono finalmente in Sicilia,
guidati dal loro generale Bernardo Cabrera. Due dei quattro vicari passarono
subito dalla parte dei conquistatori: anche in Sicilia ed anche a quel tempo il
vizietto tutto italico di correre in soccorso dei vincitori - avrebbe detto
Flaiano - era piuttosto diffuso. Ma Andrea Chiaramonte - succeduto a Manfredi
Chiaramonte - continuò a credere nel Papa e nella possibilità di resistere ai
catalani. Asserragliatosi a Palermo, resistette per un mese agli attacchi
spagnoli. Racalmuto venne coinvolto nelle azioni di guerriglia con distruzioni,
fughe in massa, ribellismi, violenze, grassazioni, furti e ladronecci. Palermo
finì con l’arrendersi ed Andrea Chiaramonte fu decapitato. Le sue vaste
proprietà furono arraffate da nuovi nobili. E qui rispunta finalmente la
famiglia Del Carretto che, prima a fianco dei Chiaramonte e subito dopo a
sostegno del vittorioso Martino, si riappropria di Racalmuto e dà inizio al lungo periodo della sua baronià
vera e storicamente documentata.
Si dissolveva così il quadro politico che si era
riusciti a stabilire il 10 luglio 1391 quando si era celebrato il convegno di
Castronono in cui si era giurata fedeltà alla regina Maria ma in opposizione al
giovane Martino non riconosciuto né legittimo sovrano né legittimo marito.
Allora i vicari, fautore il Chiramonte, erano ancora uniti. Ma non passò
neppure lo spazio di un mattino ed ecco alcuni convenuti inziare intese occulte
con il duca di Montblanc, «del quale, evidentemente, si volevano forzare
progetti e profferte; e più di prima isolatamente procedevano tali
patteggiamenti che rinnegavano i giuramenti. Era del 29 luglio la risposta
[stracolma di suasive profferte] ad Antonio Ventimiglia ed a Bartolomeo Aragona
che avevano mandato un’ambasceria.» [12] Bartolomeo Aragona di lì a poco riappare
nella diplomatistica dei Del Carretto come colui che riesce a riaccrediatare
presso i Martino il neo barone di Racalmuto Matteo Del Carretto, che si era
lasciato coinvolgere dai soccombenti nemici dei catalani invasori, per “necessità”
finge di credere la nuova triade regale di Palermo.
Ancora nell’ottobre del 1391 Manfredi e Andrea II
Chiaramonte ritenevano opportuno di mandare propri inviati a Barcellona. Il
duca di Montblanc poteva fondatamente ritenere che i nobili di Sicilia erano
dopo tutto non alieni dall’accogliere la spedizione militare aragonese.
Gli eventi precitano: il 22 marzo 1392 approdava la
spedizione all’isola della Favignana presso Trapani. Il duca, a nome dei
sovrani, ingiungeva ai baroni di portarsi entro sei giorni a Mazara per il
dovuto omaggio. I due vicari Antonio Ventimiglia e Guglielmo Peralta ed altri
nobili quali Enrico I Rosso non
mancavano di prestare giuramento e dare l’omaggio ai nuovi sovrani il giorno stesso
del loro arrivo. Tripudiava la popolazione di Trapani al passaggio dei giovani
regali. Sembrava andare tutto liscio, sennonché la notoria instabilità sicula
cominciò ad affacciarsi: Andrea II Chiaramonte mutava atteggiamento. Dopo
essersi rivolto favorevolmente a Guerau Queralt, rappresentante della corona,
era indi passato ad un attendismo ed a moti di diffidente attesa verso il
Montblanc ed al figlio Martino il giovane. Il duca si irritiva a sua volta nei
confronti del Chiaramonte. Il 3 aprile 1392 l’altezzoso e crudele duca di
Montblanc dichiarava ribelli il Chiaramonte e con lui Manfredi e Artale II
Alagona. Venivano confiscati ed ascritti alla Curia tutti i loro beni che
passavano di mano venendo assegnati a Guglielmo Raimondo III Moncada. Vi
rientrò Racalmuto?
Chiaramonte si asserragliava, come detto, a Palermo. Il
17 maggio 1392 si induceva a prestare omaggio ai sovrani. Il giorno successivo
Andrea Chiaramonte, insieme all’arcivescovo di Palermo, l’agrigentino Ludovico
Bonit (eletto dal Capitolo palermitano per volontà degli stessi Chiaramonte),
chiedeva di conferire con i sovrani per trattare dei suoi beni. Ma Martino il
vecchio non indugiava: li faceva prontamente imprigionare. La sorte di Andrea
Chiaramonte si concludeva il primo
giugno 1392, quando viene decapitato nel piano antistante il suo stesso palazzo
di Palermo, il celebre Steri. Il Chiaramonte si sarebbe sporcato anche di una
delazione ed avrebbe incolpato, per cercare di avere salva la vita, Manfredi
Alagona delle passate vicende. Il 1° giugno 1392, con quella decapitazione,
Racalmuto cessava definitivamente di essere un feudo chiaramontano.
I Martino e la regina Maria riescono a divenire gli
incontrastati padroni della Sicilia. Ma c’erano da fronteggiare decenni di
anarchia. Restaurare la legge e le prerogative regali era impresa ardua ma non
impossibile. I registri erano stati smarriti o distrutti e le antiche
tradizioni e consuetudini obliate. Martino, con l’aiuto di talune città, può
armare un esercito regolare che lo affranca dai nobili. Per le peculiarità
siciliane, era indispensabile un registro feudale: la corte si adoperò per una
riedizione critica. Vedremo come i Del Carretto devono fornire carte e prove
per far valere la loro titolarità del feudo di Racalmuto ... e sobbarcarsi a
pesantissimi oneri finanziari. Per di più Martino dichiarò abrogate le clausole
del tratto del 1372 e si dichiarò Rex
Siciliae. Approfittando di uno
scisma del papato, ripudiò la signoria feudale del papa e ribadì il proprio
diritto al titolo di legato apostolico, che comportava la potestà di nominare
vescovi e di sovrintendere alla chiesa siciliana.
Il re convocò due parlamenti a Catania nel 1397 e a
Siracusa nel 1398: riprendeva la peculiare tradizione parlamentare di Sicilia
che si era interrotta nel 1350. Le assemblee convocate da Martino
testimoniavano che era ritornata un’autorità centrale. Il parlamento presentò
una petizione al re perché nominasse meno catalani in posti nevralgini e perché
applicasse leggi siciliane e non quelle aliene di Catalogna.
Martino I rimase fortemente sotto l’influenza di suo
padre anche quando quest’ultimo divenne re d’Aragona. Martino il vecchio
continuava a sorvegliare l’amministrazione della Sicilia fini nei più minuti
aspetti. Questa sudditanza attira ancora l’attenzione degli storici che ne
danno spiegazioni persino di sapore psicanalitico. Scrive Denis Mack Smith
«Martino, perciò, rimase più un infante d’Aragona che un re di Sicilia, e fu in
qualità di generale spagnolo che, nel 1409, guidò una spedizione a spese
siciliane per domare una insurrezione in Sardegna.» [13] Martino
il giovane trovò la morte proprio in Sardegna e la Sicilia finisce in
successione insieme ad ogni altra proprietà personale al vecchio Martino: le
corone di Aragona e di Sicilia perdono ora ogni distinzione, si ritrovano così
nuovamente riunificate. Ancora lo Smith: «Non si verificarono nuovi Vespri per
dimostrare che questo era sgradito, né vi furono molti segni di malcontento,
sia pure di minore rilievo, poiché una parte sufficiente della classe dirigente
era ormai o di origine spagnola o legata da interessi materiali alla dinastia
aragonese. Durante l’unico anno in cui Martino II regnò, la Sicilia fu perciò
governata direttamente dalla Spagna.» [14]
Note e dettagli sull’avvento dei
Del Carretto
Il
grandissimo storico spagnolo Surita ha una pagina che ci coinvolge, che attiene
proprio ai Del Carretto fiancheggiatori del Duca di Montblanc. Essa recita [15]:
Antes que la armada lle gasse a Sicilia; el
Rey dio su senteçia contra el Conde de Agosta, como contra rebelde, è in
gratissimo a las mercedes y beneficios que avia recebido del y del Rey fu
padre, y se confiscaron a la corona las islas de Malta, y del Gozo, y las
vallas de Mineo y Naro, y otros muchos lugares de los varones que se avian
rebelado, y el Conde murio luego: y con la llegada de la armada la execucion se
hi zo rigorosamente contra ellos, y di se entonces el officio de maestre
justicier al Conde Nicolas de Peralta, que vivio pocos meses despues. Murio
tambien en este tiempo Ugo de Santapau, y quedo en servicio del Rey de Sicilia Galceran
de Santapau su hermano: y por este tiempo embio el Rey a don Artal de Luna,
hijo de don Fernan Lopez de Luna a Sicilia, para que se criasse en la casa del Rey su hijo, que era
su primo, y sucedio despues en la casa de Peralta, que era un gran estado en
aquel reyno. Sirvio tambien al rey de Sicilia en esta guerra, que duro
algunos annos, Gerardo de Carreto Marques de Sahona: y haziendose la guerra muy cruel contra los rebeldes, el Conde de
Veyntemilla, que sucedio en el Contado de Golisano al conde Francisco su padre
se reduxo a la obediencia del Rey ...
Per
il Surita, dunque, fu Gerardo del Carretto, Marchese di Savona, che si mise al
servizio del re di Sicilia, Martino, in questa guerra che durò alcuni anni. Lo
spagnolo desunse questa notizia dagli archivi aragonesi, senza dubbio, ma
abbiamo il dubbio che ad ispirarlo siano state le cronache cinquecentesche,
specie quella del Fazello. Se del tutto attendibili, queste note di cronaca ci
svelano il fatto che Gerardo del Carretto attorno al 1392 si faceva passare
come marchese di Savona, il che non collima proprio con la storia di quella
città ligure. Più che il fratello Matteo del Carretto, è Gerardo che si dà da
fare in un primo tempo per accattivarsi le simpatie dei Martino. E’ sempre
Gerardo che si mette a guerreggiare in difesa dei catalani nella lotta contro
la parzialità latina di Sicilia. Quanto credito si possa concedere è questione
ardua, non rirolvibile allo stato delle attuali conoscenze.
Una
documentazione probante della titolarità su Racalmuto i Del Carretto sono,
comunque, costretti a darla alla fine del secolo, quando la cancelleria dei
Martino diviene intrensigente e vuole prove certe delle pretese feudali. Alle
prese con la corte non è più però Gerardo ma Matteo, il fratello cadetto. Fu
vero l’atto transattivo tra i fratelli che fu presentato alla corte in quello
che può considerarsi il primo processo per l’investitura della baronia di
Racalmuto? Davvero avvenne il riparto dei beni tra i due fratelli? Fu solo
formalizzata l’assegnazione delle possidenze genovesi al primogenito Gerardo e
l’attribuzione dei beni feudali e burgensatici di Sicilia - in particolare il
castro di Racalmuto - al cadetto Matteo Del Carretto? Interrogatvi cui non
siamo in grado di dare risposte certe.
[1] ) G.
Pipitone-Federico - I Chiaramonti di Sicilia - Appunti e documenti - Palermo
1891, pag. 14.
[2] )
Illuminato Peri, La Sicilia dopo il Vespro, op. cit., pag. 176.
[3] ) DIZIONARIO
COROGRAFICO DELL'ITALIA a cura
del prof. Amato AMATI - Milano
(Vallardi) - (1869) - vol. VI pagg. 712-713.
[4] ) Eugenio
Napoleone Messana - Racalmuto nella storia della Sicilia - Atec -
Canicattì - Giugno 1969. pag. 77.
[5] ) Jean
Glénisson: les origines de la revolte de l’état pontifical en 1375, in Rivista
di Storia della Chiesa in Italia, Anno V
. n. 2 1951, pag. 147 e segg.
[6] ) L. von
Ranke - Storia dei Papi - Sansoni Firenze 1965, vol. I pag. 34.
[7] ) I.
Peri - La Sicilia dopo il Vespro, .. op. cit. pag. 235.
[8] ) J.
Glénisson: Documenti dell’Archivio Vaticano relativi alla collettoria di
Sicilia (1372-1375) in Rivista di Storia della Chiesa in Italia II - Roma 1948, p. 246 e ss.
[9] )
Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonerse - U.
Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 107.
[10])
Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonerse - U.
Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 108.
[11] )
Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonerse - U.
Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 120.
[12] )
Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonerse - U.
Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 121. Continua il D’Alessandro: «ascoltati
gli emissari, i quali “latius narraverunt”, il duca rispondeva che “super
praedictis providebimus et providere curamus taliter quod gratias et alia quae
per dictos nuncios a nobis postulata fuerunt celerem sortientur effectum et
proinde vos, et alii nostri servitores, dante Deo, merito contentari.»
[13] ) Denis
Mack Smith - Storia della Sicilia medievale e moderna - Bari 1972, vol. I pag.
115.
[14] ) Denis
Mack Smith - Storia della Sicilia medievale e moderna - Bari 1972, vol. I pag.
116.
[15] ) ÇURITA GERONYMO, CHRONISTA DE ISTO
REYNO: ANALES DE LA CORONA DE ARAGON -
ÇARAGOÇA 1610 - Libro X de los Anales - Rey don Martin - 1398 Pag. 429.
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