LIUNI DI RACARMUTO GIUSTIZIA
L’EBREO SADIA DI PALERMO
Attorno alla metà del secolo, subentra nella baronia di
Racalmuto Federico del Carretto. Il 3 agosto 1452 ne viene
ratificata l’investitura stando agli atti del
protonotaro del Regno in Palermo. Un grave episodio di intolleranza
religiosa contro gli ebrei - in cui però preminente è l’aspetto di comune
criminalità - si verifica nelle immediate adiacenze di Racalmuto nell’anno
1474. E’ l’efferata esecuzione dell’ebreo locale Sadia di Palermo. In un documento del 7 luglio
1474 VII Ind., vengono narrate le circostanze raccapriccianti del crimine.
Leggiamo: Il Vicere' Lop Ximen Durrea da'
commissione ad Oliverio RAFFA di
recarsi a Racalmuto per punire coloro che uccisero
il giudeo Sadia di Palermo, e di pubblicare un bando a Girgenti per la
protezione di quei giudei.
Abbiamo sopra accennato ad alcuni interessanti atti
dell’archivio di Stato di Palermo: vi dedichiamo ora una trattazione un po’ più
lunga per l’interesse che rivestono., citati la volta scorsa, ci riportano un
efferato fatto di cronaca avvenuto in Racalmuto nel XV secolo. Lasciamo la
parola ai funzionari di polizia dell’epoca, che così rapportano, in vernacolo
siciliano, sui criminosi eventi, di sapore antigiudaico:
diviti sapiri comu quisti iorni prossimi
passati Sadia di Palermo iudeu lu
quali habitava in lu casali di Raxalmuto
actendendo ad alcuni soy fachendi li quali fachia in lu dictu casali fu primo locu mortalmenti feruto
da uno Liuni figlastro di mastro Raneri; et dapoy alcuni altri di lu dictu casali quasi
a tumultu et furia di populu dediru infiniti colpi a lu dictu iudeu
non havendu timuri alcuno di iusticia. Immo, diabolico
spiritu ducti, tagliaro la lingua et altri menbri et ruppiro
li denti usando in la persuna di
lu dictu iudeu multi crudelitati et demum lu
gettaru in una fossa et copersilu
di pagla et gictaru foco petri
et terra. La qual cosa essendo di malo
exemplo merita grande punicioni et nui tali commoturi di popolo
et delinquenti volimo siano ben puniti
et castigati a talchi ad ipsi sia pena et supplicio et a li altri terruri et
exemplo. E pertanto confidando di la
vostra prudencia ydonitay et sufficiencia havimo provisto per
sapiri la veritati e quilli foru a tali malici participi et culpabili. et per la presenti vi dichimo
commictimo et comandamo che vi digiati personaliter conferiri in lu dictu
casali et cum quilla discrepcioni
lu casu riquedi digiati inquisiri et investigari cui dedi a lu dictu et
li persuni li quali si trovaro a lu dictu tumultu et actu. Et eciam si lu
populu fra loru accordaru amazari lu dictu iudeu et cui si trovau presenti et partechipi a la dicta morti et delicto. Et
de tucti li sopradicti cosi fariti
prindiri in scriptis informacioni et in reddito vestru li portariti a nui.
Comandanduvi chi cum diligencia et cum quilla discrecioni da vui confidamo
digiati prindiri de personis tucti quilli foru culpabili et si
trovaro alo dicto acto et quilli digiati
minari in la chitati di Girgenti et carcerarili in lu
castellu di la dicta chitati in modo chi non si
pocza di loro fuga dubitari. E perche
siamo informati che a lu dictu iudeu fu prisa certa roba et intra
li altri uno gippuni in lu quali si
dichi erano cosuti chentochinquanta pezi d’oro, farriti di lo
dicto gippuni e di tucta laltra roba libri et
scripturi diligenti
investigacioni et perquisicioni
cui li prisi et in
putiri di chi persuna sono.
Quel
tesoro non fu più ritrovato. Non valsero neppure gli anatemi del sacerdote ad
indurre alla restituzione dei 150 pezzi
d’oro trafugati dallo “jppuni” del povero ebreo Sadia di Palermo, racalmutese di vecchia data.
Lo spaccato della società racalmutese non appare molto esaltante. Non possono
comunque da un singolo episodio trarsi valenze generali che sarebbero solo generiche
e fuorvianti. Ma l’indignazione rimane e la tentazione alla condanna di tutta
la comunità ecclesiale dell’epoca è piuttosto irrefrenabile. Alcuni tratti, un
marchio, un DNA, riconducibili alle famiglie citate nel quattrocentesco
dispaccio, qualcuno potrebbe ravvisarli ancora in taluni personaggi locali.
PARTE TERZA
PROFILI DEI DEL CARRETTO DI RACALMUTO
Non c’è dubbio che una potente famiglia denominata “DEL CARRETTO” si sia
affermata a Finale Ligure sin dal dodicesimo secolo o giù di lì: essa estese i
propri domini anche a Savona e poté fregiarsi del magniloquente titolo di
Marchesi di Finale e Savona. A cavallo tra i secoli tredicesimo e
quattordicesimo, i del Carretto liguri erano al vertice del loro potere ma
erano costretti a suddividere il feudo in quote tra i numerosi figli. Le
ricerche storiche indigene, però, non dimostrano l’esistenza di un certo
Antonino del Carretto che in qualche modo avesse titolo di marchese nel primo
decennio del ’300. Rimbalza dalla Sicilia l’esistenza di un tale titolato,
evidentemente spurio, e l’autorità storica di un Pirri o di un Inveges o di
Barone è tale che gli odierni araldisti di Finale inframmettono questo
personaggio nella ricognizione delle tavole cronologiche dei loro marchesi.
Diciamolo subito: un marchese Antonio I del Carretto che nei primi del trecento
lascia Finale Ligure per approdare ad Agrigento e sposare l’avvenente Costanza
figlia di Federico II Chiaramonte, semplicemente non esiste.
ANTONIO I DEL CARRETTO
Questo non significa che un avventuriero ligure si sia potuto accasare
con la giovane figlia del cadetto della potente famiglia Chiaramonte. Ed è
proprio così che è andata: dopo il Vespro la Sicilia fu meta del commercio
marittimo dei Liguri. Uno di questi, ricco ma anche in là con gli anni, ebbe a
sposare Costanza Chiaramonte. E’ appena imparentato con la altezzosa famiglia
dei del Carretto, marchesi di Finale e di Savona. Il mercante forse porta quel
cognome, forse no. Fa comunque credere di essere Antonio del Carretto, marchese
di quei due centri lontani. Il matrimonio dura il tempo necessario per generare
un figlio cui si dà lo stesso nome del padre. Il vecchio Antonio decede e la
vedova sposa un altro avventuriero ligure che questa volta dice di essere
Bancaleone Doria. Da questo secondo matrimonio nascono vari eredi che si
affermano, e talora violentemente, nella storia siciliana. Ma mentre il ramo
dei del Carretto sembra subito acquisire un qualche diritto su Racalmuto -
escludiamo però che si trattasse di diritti genuinamente feudali: erano forse
solo possessi appena “burgensatici” - quello dei Doria non nutre interesse
alcuno per quelle terre, paludose ed impenetrabilmente boschive, che
circondavano il nostro centro, specie nella parte vicino Agrigento.
ANTONIO II DEL
CARRETTO
Antonio II del Carretto non lascia traccia di sé: di lui si parla solo
negli atti notarili di fine secolo, a proposito della sistemazione successoria
tra due dei suoi figli, il primogenito Gerardo e l’irrequieto Matteo.
In quel documento - che trova ampio spazio in questo lavoro - emerge che
Antonio II del Carretto passò la fine dei suoi giorni nientemeno che a Genova.
Ciò fa pensare che l’orfano di Antonio I non era bene accolto in casa del
patrigno Brancaleone Doria, di tal che appena gli si presentò il destro ritornò
in Liguria nella terra dei propri padri, ma non a Finale o a Savona - terre
delle quali secondo gli agiografi sarebbe stato marchese - ma a Genova. Questo
la dice lunga sul fatto che il preteso titolo era precario, forse del tutto
inconsistente.
A Genova Antonio II fa fortuna: l’atto transattivo tra i due figli
Gerardo e Matteo rendiconta su partecipazioni in compagnie navali, oltre che su
beni immobili e mobiliari di grossa valenza economica, persino strabocchevole
rispetto al lontano, piccolo feudo che a quel tempo era Racalmuto.
Non sappiamo dove sposa una tal Salvagia di cui ignoriamo ogni altra
generalità. E’ certo che entrambi gli sposi erano defunti alla data di un
importante documento del 12 marzo 1399.
Antonio II - pare certo - lascia in eredità ai figli:
«loca vigintiocto et dimidium que
dicuntur loca de comunii ex compagnia que dicitur di “Santu Paulu” civitatis
Janue in compagnia Susgile pro florenis auri duobus milibus qui faciunt summa unciarum quatringentarum».
In altri termini si sarebbe trattato di quote nella compagnia di
navigazione genovese di San Paolo per un valore di duemila fiorini pari a
quattrocento onze siciliane (una somma enorme per l’epoca). Antonio II aveva
raggranellato anche molti beni in Sicilia ed in particolar modo a Racalmuto sia
per diritto successorio dalla madre Costanza Chiaramonte sia per lascito del
fratellastro Matteo Doria, morto piuttosto giovane. L’inventario completo può
essere quello che traspare dalla transazione tra i due figli Gerardo e Matteo e
cioè:
«casale et feuda Rachalmuti ac
omnia et singula iura et bona feudalia et burgensatica predicta» posti,
cioè in
«territorio Garamuli et Ruviceto,
in Siguliana, ....»
Antonio II del Carretto ebbe per lo meno tre figli: Gerardo primogenito,
Matteo arrampante cadetto che inventa la baronia di Racalmuto e Giacomino
(Jacobinus) morto piuttosto giovane.
GERARDO DEL CARRETTO
Gerardo del Carretto è il primogenito di Antonio II del Carretto: non
sembra che questi abbia mai messo piede in Sicilia. Il suo centro d’interessi è
Genova e là ha famiglia e ricchezze. Finge di avere interesse alla successione
nel titolo feudale della baronia di Racalmuto solo per consentire al fratello
minore Matteo del Carretto di sistemare la pendenza con la causidica e venale
curia dei Martino a Palermo. Se leggiamo attentamente i termini di quell’atto
transattivo ci accorgiamo che trattasi di espedienti e cavilli giuridici che
nulla hanno a che fare con la vera possidenza dei due fratelli.
Avrà ragioni da vendere Giovan Luca Barberi, un secolo dopo, a mettere in
discussione la legittimità del titolo baronale di Racalmuto che sarebbe passato
da Gerardo al fratello Matteo, non solo a pagamento - cosa non ammessa secondo
il diritto feudale allora vigente - ma addirittura con un concambio tra beni
allogati nella lontana Genova e prerogative giuspubblicistiche sui nostri
antenati racalmutesi. Un volpino imbroglio che ancor oggi è ben lungi
dall’avere una persuasiva esplicazione da parte degli storici locali. Quello
che scrive Pirri, Inveges, Barone e poi Girolamo III del Carretto e poi il
Villabianca e poi San Martino de Spucches (ed altri moderni araldisti) e prima
il Tinebra Martorana (tralasciando gli inverosimili Acquista, padre Caruselli,
Messana, lo stesso Sciascia, i tanti preti da Morreale a Salvo) è semplicemente
cervellotica congettura. Invero anche il Surita incorre in un errore: per lo
meno fa uno scambio di persona tra i due fratelli Gerardo e Matteo del
Carretto.
Gerardo del Carretto sposa una tal Bianca da cui ebbe una caterva di
figli: si sa di Salvagia primogenita (e portante il nome della nonna paterna),
Antonio, Nicolò, Luigi Caterina e Stefano.
Nell’atto del 1399 che qui si va citando, il titolo riservato a Gerardo
è solo “egregius vir dominus”. Per converso il titolo di marchese viene
appioppato a Matteo del Carretto designato come “magnificus et egregius d.nus Matheus miles marchio Saone”.
In un atto dell’anno prima ([1]) era tutto l’opposto: Gerardo viene
contraddistinto con il titolo di “nobilis marchio Sahone familiaris et amicus
noster carissimus”; Matteo viene relegato in secondo ordine e segnato solo come
“nobilis miles, consiliarius noster dilectus”.
MATTEO DEL CARRETTO, primo barone di Racalmuto
Figlio di Salvagia e Antonio II del Carretto è il vero capostipite della
baronia dei del Carretto di Racalmuto. Da lui prende le mosse un titolo feudale
effettivo e debitamente riconosciuto che sarà sufficientemente attivo nel
quindicesimo secolo, assillante nel sedicesimo (alla fine del secolo, la
baronia sarà elevata a contea), parassitario nel diciassettesimo secolo e
finirà nel primo decennio del diciottesimo secolo in modo miserando.
Matteo del Carretto sposa una tal Eleonora e sembra averne avuto un solo
figlio maschio: Giovanni, personaggio di spicco che eredita e consolida la
baronia di Racalmuto. Pare che abbia anche avuto diverse figlie.
Prima del 1392 non vi sono dati certi comprovanti la presenza in Sicilia
di Matteo del Carretto, ma già in quell’anno l’irrequieto barone di Racalmuto
si attira le rampogne del duca di Montblanc, il futuro Martino il Vecchio. Un
liso diploma di Palermo ([2]) ne
fornisce indubbia testimonianza.
Il trambusto storico che attanaglia gli anni 1392-1396 è ben complesso e
non è questa la sede per dipanarlo: Matteo del Carretto vi si trova impigliato
in tutte le salse. Dapprima è cauto ma è palesemente condizionato dai potenti
Chiaramonte di Agrigento. Gli aragonesi che bussano alla porta non sono
graditi. Si è visto sopra come orde di militari famelici e predoni scorrazzassero
per le campagne: le terre racalmutesi del barone Matteo del Carretto ne sono
infestate. Ci si difende come si può. Ma il Duca di Montblanc è già un duro:
esige riparazioni, restituzioni; opera dunque come un conquistatore spagnolo
spietato ed ingordo.
Matteo del Carretto - stando anche a testi di storia rigorosi - è
alquanto amletico: prima blando con gli Aragonesi, ha momenti sediziosi, si
riappicifica, torna alla ribellione, ma alla fine ha modo di riconciliarsi con
i Martino e ne diviene fedele (ma prodigo e pertanto ultraricompensato)
suddito. A suon di once, solleticando oltre misura (evidentemente a spese dei
subalterni racalmutesi) ”l’avara povertà di Catalogna”, riesce a farsi
riconoscere per quello che non è mai stato: barone di Racalmuto, il primo della
serie, l’usurpatore di una condizione giuridica che Racalmuto sin allora era
riuscito ad aggirare.
Certo il predace Matteo del Carretto ebbe a vedersela brutta incastrato
tra l’incudine del duca di Montblanc ed il martello del vicino Andrea Chiaramonte
prima che questi finisse proprio male.
La storia di Andrea Chiaramonte parte, invero, da lontano e noi qui
vogliamo farne un accenno per meglio comprendere il ruolo di Matteo del
Carretto.
Alla morte di Manfredi III Chiaramonte spunta un Andrea Chiaramonte di
dubbia paternità. Nel 1391 eredita tutti i beni ed i titoli dei Chiaramonte
comprese le cariche di Grande Almirante e dell’ufficio di Vicario Generale
Tetrarca del Regno; rifiuta obbedienza a Martino duca di Montblanc e organizza
la resistenza di Palermo all’assedio delle truppe catalane.
Promuove la riunione dei baroni siciliani a Castronuovo nel 1391. Cerca
di impegnarli alla difesa dell’Isola contro i Martino. L’anno dopo (1392)
arresosi ad onorevoli condizioni, viene preso con inganno e decapitato dinanzi
allo Steri il 1° giugno dello stesso
anno. Matteo del Carretto, con sangue chiaramontano nelle vene, prima parteggia
per Andrea ma poi l’abbandona al suo destino, trovando più conveniente
fiancheggiare i nuovi regnanti venuti dalla Spagna. Racalmuto può finire - o
ritornare - nel pieno dominio di questo cadetto della famiglia originaria di
Savona, destinata nel Quattrocento a nuovi protagonismi feudali.
Un figlio naturale di Matteo Chiaramonte, Enrico, appare sulla scena
politica siciliana per lo spazio di un mattino: nel 1392 si sottomette a
Martino dopo la morte di Andrea e si rifugia con aderenti e amici nel castello
di Caccamo, che successivamente dovette abbandonare per andare esule in Gaeta,
dove sembra abbia finito i suoi giorni.
La nobile prosapia scompare dall’Isola e non vi torna mai più a dominare.
La sua storia è quasi tutta la storia di Sicilia nel Trecento ed ingloba la
dominazione baronale su Racalmuto. In quel secolo non sono i del Carretto ad
avere peso sull’umano vivere racalmutese; forse una intermittente incidenza la
ebbero i Doria (in particolare, Matteo Doria); per il resto il potere porta il
nome dei Chiaramonte, il potere sul mondo contadino; quello delle grassazioni
tassaiole; quello delle cariche pubbliche; quello stesso che investe i pastori
delle anime: preti, religiosi, chiese, confraternite, decime e primizie. Oggi,
i racalmutesi, fieri delle loro due belle torri in piazza Castello, non serbano
ricordo - e tampoco rancore - per quei loro antichi dominatori e gli dedicano
strade, con dimesso rimpianto, quasi si fosse trattato di benefattori.
La turbolenta vita di Matteo del Carretto emerge da un diploma ([3]) del
1395 (die XV° novembris Ve Inditionis) che fu al centro
dell’attenzione anche del grande storico siciliano Gregorio ([4]): « Matheus de Carreto miles baro
terre et castrorum Rahalmuti - vi si annota in latino - ultimamente si rese non ossequiente
verso la nostra maestà.» Certo quel “castra” al plurale starebbe a dimostrare
che sia “lu Cannuni” sia il “Castelluccio” erano appannaggio di Matteo del
Carretto. Poi, il Castelluccio, quale sede di un diverso feudo denominato
Gibillini passa nelle mani di Filippo de
Marino, fedelissimo vassallo del Re
(1398); non abbiamo la data precisa della concessione; per quel che vale il de
Marino figura possessore del feudo di Gibillini nel ruolo del 1408 dello pseudo
Muscia. ([5])
Le note storiche che riusciamo a cogliere nel cennato diploma del 1395
concernono i seguenti passaggi dell’andirivieni opportunistico del nostro primo
barone: su istigazione di alcuni baroni, Matteo del Carretto si dà alla
ribellione contro i Martino; tardivamente fa credere (il re spagnolo ha voglia
di credere) che non fu per sua cattiva volontà (voluntate maligna) ma per la
minaccia che gli avrebbero diversamente occupate le terre. Matteo è pronto a
prosternarsi dinanzi ai nuovi regnanti spagnoli e fa intercedere l’altro
ribelle - rientrato nell’ovile - Bartolomeo d’Aragona, conte di Cammarata.
Questi viene ora accreditato dalla corte panormitana “nobile ed egregio nostro
consanguineo, familiare e fedele”. La riconciliazione - non sappiamo quanto
costata al neo barone di Racalmuto - è contenuta in capitoli che strutturati “a
domanda ed a risposta” così recitano:
"Item peti chi a misser
Mattheu di lu Carrectu sia fatta plenaria remissioni et da novu confirmationi a
se et soi heredi de tutto lo sò, tanto castello quanto feghi quantu
burgensatichi, li quali foru e su de sua raxuni, et chi li sia confirmatu lu
offitio de lu mastru rationali lu quali
per lu dictu serenissimu li fu donato et concessu, oy lu justiciariatu dilu
Valli di Iargenti" - Placet providere de officio justiciariatus cum fuerit
ordinatus, quousque officium magistri rationalis vacaverit, de quo eo tunc
providebit eidem.”
Matteo del Carretto vorrebbe dunque essere riconfermato nell’officio di
“maestro razionale”, cioè a dire vuol ritornare ad essere l’esattore delle
imposte; ma l’ufficio è ora occupato irremovibilmente da altri; il nostro
barone allora si accontenta dell’ufficio del giustiziariato di Girgenti. Il re
acconsente.
Il diploma prosegue:
"Item peti chi lu dictu misser
Mattheu haia tutti li beni li quali ipso et so soru [2] havj a Malta".
Placet.
Notiamo il fatto che Matteo aveva anche una sorella con la quale
condivideva proprietà a Malta.
Item peti "Lu dictu misser
Mattheu chi in casu chi, perchi ipso si reduci ala fidelitati, li soi casi,
jardini oy vigni chi fussero guastati oy tagliati, chi lu ditto serenissimo
inde li faza emenda supra chilli chi li farranno lo dannu oy di li agrigentani".
Placet.
E’ uno squarcio altamente rivelatore: Racalmuto dunque era stato
assediato e assoggettato ad angherie militari come saccheggi e distruzioni.
Case, giardini e vigne del barone erano stati pesantemente danneggiati
(“guastati”, alla siciliana, recita il testo). Se ne attribuisce la colpa agli
agrigentini.
Item peti "lu ditto misser
Mattheu chi in casu chi lu so castello si desabitassi chi quandu fussi la paci
li putissi constringiri a farili viniri a lu so casali." Placet.
Il feudo di Racalmuto si era spopolato, dunque. Tanti villani erano
fuggiti; la servitù della gleba - allora sotto diversa forma drammaticamente
imposta - aveva trovato uno spiraglio per empiti di libertà. Con la forza, ora
il barone poteva andare all’inseguimento di quei fuggiaschi e ricondurli alle
pesanti fatiche del lavoro dei campi coatto.
La formula, dunque, fu assolutoria, ampia, faconda, onnicomprensiva,
rassicurante. Ancora una volta ci domandiamo: quanto è costata? Chi ha pagato?
Quale ripercussione sulle esauste finanze racalmutesi?
La chiosa finale fu ulteriormente munifica per l’avventuriero ligure che
prende inossidabile possesso delle nostre terre, dei nostri antenati, della
giustizia che è possibile praticare nelle plaghe del nostro altipiano. Storia
appena “descrivibile” per Sciascia: materia di riprovazione politica ed
accensione passionaria per noi. Sciascia non amava i sentimenti (forse faceva
eccezione per i risentimenti). Più che per il “tenace concetto” (che poi era
solo testardaggine) di fra Diego La Matina, gli stilemi sciasciani avrebbero
avuto più valore civico se rivolti a stigmatizzare questo trecentesco
impossessamento dei liguri del Carretto di noi tutti racalmutesi.
Non tutto è negativo però nella storia di Matteo del Carretto: pare che
s’intendesse di letteratura e addirittura di letteratura francese (sempreché
questo vuol dire un ordine ricevuto da Martino nel 1397). Ne parla Eugenio
Napoleone Messana; ma la fonte è Giuseppe Beccaria ([6]) che ha
modo di narrare:
«Costoro [armate spagnole guidate da Gilberto Centelles e Calcerando de
Castro] e con cui era anche Sancio Ruis de Lihori, il futuro paladino della
seconda moglie di Martino, la regina Bianca, approdavano in Sicilia nello
scorcio del 1395; e nel 1396 ultima a cedere tra le città appare Nicosia,
ultimo tra i baroni Matteo del Carretto, signore di Racalmuto [pag. 17] ...
Il 5 giugno, infatti, nel 1397 egli [il re] scriveva da Catania a un
certo Matteo del Carretto chiedendogli in prestito la Farsaglia di Lucano in lingua francese, di cui costui teneva un
bello esemplare, allo scopo di leggerla e studiarla e metterne a memoria alcune
delle storie.» ([7])
Matteo del Carretto ebbe quindi a subire le vessazioni della curia che
non voleva riconoscergli i titoli nobiliari che i Martino in un primo momento
sembravano avergli consentito. E’ costretto a scomodare il fratello Gerardo
della lontana Genova, notai di Agrigento, deve oliare abbondantemente le ruote
della corte e quando sta per riuscire nell’impresa ecco arrivare la morte.
Tocca al figlio Giovanni I continuare le beghe legali. E se in un atto del 13
aprile del 1400 il barone capostipite appare ancora in vita, il 22 agosto del
1401 risulta già defunto. Gli succede Giovanni I del Carretto
GIOVANNI I DEL CARRETTO
Nato nella seconda metà del Trecento, muore attorno al 1420: eredita dal
padre la baronia di Racalmuto quando ancora irrisolti erano certi inceppi
giuridici che la corte frapponeva, e riesce a definirli. Con lui non vi sono
più dubbi che Racalmuto fosse feudo dei del Carretto: manca però un tassello;
non è certo se spetti a questi trapiantati liguri il sovrano diritto del mero e
misto imperio. La questione si riproporrà a fine ’500. Apparentemente risolta a
favore dei del Carretto, saranno preti irriducibili quale il Figliola e l’arciprete
Campanella che la revocheranno in dubbio nella seconda metà del Settecento e
l’avranno vinta, forse perché allora spirava l’aria illuminista del viceré
Caracciolo.
Nel processo d’investitura del successore di Giovanni, Federico del
Carretto, abbiamo vaghi dati biografici di questo barone di Racalmuto. Vi si
legge tra l’altro:
magnificus dominus Mattheus di lu
Garrettu fuit et erat verus dominus et baro dictorum casalis et castri
Rayalmuti percipiendo fructus reditus et proventus paficice et quiete et de
hoc fuit et est vox notoria et fama
publica et ..
dictus quondam magnificus dominus Mattheus de Garrecto et quondam magnifica
domina Alionora fuerunt et erant ligitimi maritus et uxor ex quibus iugalibus
natus et procreatus fuit magnificus quondam dominus Joannis de Garrecto qui
subcessit in dicto casali et castro Rayalmuti tamquam filius legitimus et
naturalis percipiendo fructus reditus et proventus usque ad eius mortem et de
hoc fuit vox notoria et fama publica et ..
ex dicto magnifico domino Johanne et
magnifica domina Elsa jugalibus natus et procreatus fuit dominus magnificus
dominus Federicus de Garrecto ad presens baro dictae baronie Rayalmuti et qui
tamquam filius legitimus et naturalis subcessit in baronia predicta percipiendo
fructus reditus et proventus et de hoc fuit et est vox notoria et fama
publica etc. ..
Giovanni del Carretto nasce dunque da Matteo ed Eleonora del Carretto; da
una certa Elsa procrea quello che sarà il suo erede nella baronia, Federico del
Carretto.
Fu un legittimo matrimonio? La formula del processo non lascia adito a
dubbi (filius legitimus et naturalis) ma un vallo di tempo troppo lungo (dalla
presunta morte di Giovanni I, attorno al 1420, sino alla data del processo
d’investitura di Federico caduta nel 1452 passano ben 32 anni) induce a
dubitare, specie se si dà credito allo Bresc che vuole la nostra baronia
passata di mano agli Isfar, sia pure per una inverosimile dissipazione dei beni
da un Giovanni I del Carretto, inopinatamente divenuto sperperatore - secondo lo
stesso Bresc - delle proprie fortune.
Dagli archivi di Stato di Palermo emerge il ruolo di Giovanni I del
Carretto nella gestione della baronia racalmutese: in data 17 agosto 1401
giungeva una lettera da Catania per la
sistemazione delle pendenze fiscali.
Martino segnalava che era stata fatta un’inchiesta tributaria relativa ai
riveli ed alle decime per il tramite di Mariano de Benedictis. Questa la
situazione del giovane barone di Racalmuto:
v’era la successione della baronia da Matteo al medesimo Giovanni I; al
contempo si erano accumulate due annualità scadute, quella relativa alla
settima indizione (1399) e l’altra riguardante l’ottava (1400), nonché quella
in corso (1401); ne conseguiva un carico di 40 once d’oro. Il diploma che ha il
sapore di una quietanza attesta che la posizione era stata sistemata come
segue: 30 once in contanti e dieci a
compensazione di un mutuo a suo tempo
approntato da Matteo del Carretto alla curia regale.
Nella «Storia di Sicilia» vol. III, Napoli 1980, pag. 503-543 Henri Bresc
scrive (sia pure in una traduzione dal francese rinnegata) : «Il basso costo della terra - che si segue
sulla curva dei prezzi medi dei feudi venduti dalla nobiltà - obbliga ad un
indebitamento sempre più pesante ed ad una gestione molto rigorosa del
patrimonio residuo. E ci si avvia all’intervento della monarchia e della classe
feudale nell’amministrazione dei domini fondiari e delle signorie: Giovanni del
Carretto è così privato nel 1422 della sua baronia di Racalmuto, affidata in
curatela a suo genero Gispert Isfar, già padrone di Siculiana». Non viene
però citata la fonte, per cui la notizia va presa con le molle.
Nella nuova opera, invece, “Un monde etc” altrove citata, vi è qualcosa
in più: viene precisata la fonte.
Racalmuto viene menzionato a pag: 64; 798; 803; 880; 893. La sua baronia
a pag: 417 e 872. L’argomento che qui interessa è trattato a pag. 880. La parte
narrativa non mi pare fraintesa dal traduttore del 1980. In francese, recita: «La baisse du prix de la terre - que l’on suit sur la courbe des prix
moyens des fief vendus par la noblesse - oblige à un endettement toujours plus
grave et à une gestion très rigoureuse du patrimoine résiduel. Et l’on
s’achemine vers l’intervention de la monarchie et de la classe féodale dans
l’administration des domaines fonciers et des seigneuries: Giovanni del
Carretto est ainsi dépouillé en 1422 de sa baronnie de Racalmuto, confiée en
curatelle à son gendre Gispert d’Isfar, déjà maître de Siculiana.» E qui la
nota che non trovasi nel testo del 1980: «ACA
Canc. 2808, f. 54: le bon baron vivait joyeusement, et mangeait son blé en
herbe, ce qui passe, aux yeux de l’avide catalan, pour “simplicitat ... fora de
enteniment rahonable”». ([8])
Sarebbe da rintracciare il foglio 54 (in calce citato) al fine di ben
ricostruire questa vicenda della curatela della baronia di Racalmuto affidata a Gispert d’Isfar.
Una quadratura del cerchio noi la tentiamo pur sapendo che è molto
sdrucciolevole: forse attorno al 1420 Giovanni I del Carretto cessò di vivere
lasciando piuttosto imberbe il suo primogenito Federico. Gispert Isfar,
l’intraprendente genero brigò facendo apparir miseria là dove non c’era per
sottrarre l’eredità e la successione baronale di Racalmuto alle pesanti
tassazioni spagnole (donde gli incerti diplomi appena abbozzati dal Bresc).
Resta anche saliente il fatto che il caricatoio di Siculiana, antico retaggio
dei del Carretto, passa di mano e finisce in preda degli Isfar (una dote della
figlia di Giovanni del Carretto o un’usurpazione avallata da Barcellona?).
FEDERICO DEL
CARRETTO
Singolare quel nome che come quello di Ercole figura una sola volta nella
genealogia dei baroni del Carretto di Racalmuto. Di Federico del Carretto
abbondano però le cronache agrigentine, ma trattasi di figure dei vari rami
cadetti.
Non possiamo dubitare che sia il figlio legittimo e naturale di Giovanni
I del Carretto. Con Federico si iniziano i processi palermitani
dell’investitura del titolo feudale di Racalmuto e lì - in diplomi a ridosso
degli eventi - la sequenza genealogica è inequivocabile (come abbiamo visto dai
passi in latino sopra riferiti).
“Filius legitimus et naturalis” di Elsa e Giovanni I del Carretto è,
invero, dichiarato ma non si accenna neppure larvatamente al requisito
(indispensabile nel diritto feudale dell’epoca) della primogenitura. Giovan
Luca Barberi - quanto pignolo Dio solo sa - non ha però dubbi ed avalla
l’investitura nei seguenti termini:
«E morto Giovanni, successe Federico del Carretto, suo
figlio primogenito, legittimo e naturale, il quale Federico ottenne dal condam
Simone arcivescovo palermitano l’investitura della detta terra per sé ed i suoi
eredi sotto vincolo del consueto servizio militare e con riserva dei diritti
della regia curia e delle costituzioni del signor Re Giacomo e degli altri
predecessori regali edite sui beni demaniali, come risulta nel libro grande
dell’anno 1453 nelle carte 565. » ([9])
Nel 1410 la Sicilia visse la svolta del vuoto di potere determinatosi per
il decesso senza eredi legittimi dei due Martino e subì i traumi
dell’interstizio determinato dalla contrastata reggenza della regina Bianca.
Con il 1416 si apre la lunga gestione di Alfonso d’Aragona che dura ben 42
anni. Ed è verso la fine del regno alfonsino che Federico del Carretto s’induce
a sborsare i quattrini per avere il riconoscimento della baronia di Racalmuto.
Alfonso d’Aragona gli accorda quella investitura ma a queste condizioni:
n
presti il cosiddetto servizio militare e cioè
corrisponda 20 once ogni anno;
n
renda l’omaggio nelle forme solenni del tempo;
n
restino salvi i diritti di legnatico dei
cittadini racalmutesi;
n
e del pari restino riservate alla Corona le miniere, le saline, le foreste
e le antiche difese;
n
resti salvaguardata la libertà di pascolo nel
casale e nell’annesso feudo per gli equipaggiamenti regi.
Per il resto possesso assoluto sino al mare.
Una cosa è certa; Federico del Carretto era saldamente insediato nella
baronia di Racalmuto ben prima che avesse l'investitura da Alfonso d'Aragona
l'11 febbraio 1453. Reperibile presso l'archivio di Stato di Palermo il
contratto che lo vedeva associato nel 1451 con Mariano Agliata per uno scambio
di grano delle annate del 1449 e 1450 contro quello di Girardo Lomellino
consegnabile a luglio. Il Bresc [op.
cit. pag. 884] commenta: «ce qui permet une fructueuse spéculation de soudure».
In termini moderni si parlerebbe di outright
in grano. La domiciliazione sarebbe stata pattuita presso il
"caricatore" di Siculiana. ([10])
Sempre il Bresc fornisce un'altra interessante notizia: secondo quello
che appare nella tavola n.° 200 di pag. 893, Federico del Carretto sarebbe
stato coinvolto in una rivolta antifeudale estesasi anche a Racalmuto. Questa
volta la fonte citata è un libro: «Luigi Genuardi, Il
Comune nel Medio Evo in Sicilia, Palermo, 1921».
GIOVANNI II DEL
CARRETTO
La rivolta a Racalmuto del 1454 di cui parla il Genuardi dovette essere
cosa seria se da quel momento sino al 1519 i processi d’investitura tacciono.
Dalla ficcante indagine del Barberi sappiamo - e non c’è motivo di
dubitarne - che a Federico successe Giovanni II del Carretto. Non sappiamo
quando e come. Il Baronio, lo storico di famiglia del Carretto del 1630, ne sa
ben poco: «Ioannes natus maior, cum familiam rebus praeclare gestis aeternitati
commendasset. Herculem, ac Paulum
habuit sibi, nec maioribus dissimilem suis. In unoquoque semper avitae
nobilitatis fulgor eluxit.» Parole di circostanza per colmare evidenti carenze
di notizie. Quali fossero quelle gesta che affidarono la famiglia alla memoria
dei tempi futuri, non ci dice e noi non ne abbiamo nessuna ... memoria.
Accontentiamoci del fatto che fosse il figlio maggiore [natus maior] e che avesse partorito il
successore Ercole, il celebre falso conte della venuta della Madonna del Monte,
e Paolo di cui gli archivi vescovili di Agrigento ci hanno tramandato qualche
dato sulla sua litigiosità con i sindaci di Racalmuto ([11]).
Apprendiamo dalla valida ricerca del Sorge su Mussomeli ([12]) che «lu fegu di Rabiuni lu teni lo Mag.co Baruni
di Regalmuto per anni ... vinduto per lo Mag.co Signuri Pietro lo Campo unzi
trentacincho, uno vitellazzo, una quartara di burru, uno cantaro di formaggio.»
Quando sia avvenuta quella vendita non ci è noto; il rendiconto è del
1486 e come si è visto, non è neppure detto a quali precedenti anni si
riferisse la vicenda di cui alla posta contabile. Da quel che si legge nel
Sorge (op. cit. pag. 209 e segg.) potrebbe trattarsi degli anni attorno all’11
ottobre 1467 (data in cui “venne stipulato il contratto col quale il
procuratore di Ventimiglia rivendette a Pietro del Campo la baronia di
Mussomeli, col suo castello ...”). Le nostre successive indagini presso gli
Archivi di Palermo (in particolare “Archivio Campofranco, Fatto delle cose notabili etc.” e “Conservatoria, Privilegia, confiscationes bonorum et
investiturae, 1459 e 1489, foglio 536”, di cui in Sorge) non ci hanno
sinora consentito di chiarire alcunché quanto ai del Carretto e
specificatamente a chi si riferisse l’atto di vendita del feudo Rabiuni di
Mussomeli. Azzardiamo il nome di Federico del Carretto. Sembra dunque appurato
che dal 1459 al 1489 la famiglia del Carretto si sia bene ripresa dalla crisi
del 1454 ed abbia avuto fondi sufficienti per acquistare il costoso feudo
Rabiuni di Mussomeli e mantenerlo anche se notevolmente oneroso. Del resto, in
quel tempo, Racalmuto dovette divenire un centro di abbienti: nello stesso
“conto del segreto Bonfante del 1486” (di cui in Sorge pag. 386) si accenna al
possesso feudale di un altro racalmutese. «Lu
fegu di Santu Blasi - vi si annota - lu
teni Mazzullo di Alongi di la terra di Regalmuto per anni 3 videlicet quinte
Ind. 6 Ind. E 7 Ind. Et pri unzi quattordichi quolibet anno uno crastatu, uno
cantaro di formaggio, et una quartara di burru quolibet anno da pagarsi la
mitati a menzu Septembru et la mitati a la fera di Santu Juliano intentendosi
quindici anni primi poi di Pasqua.» ([13])
Il Barberi, che l’inchiesta - piuttosto acidula contro i del
Carretto - la fa a ridosso degli anni
della baronia di Giovanni II, ha questi appunti critici:
«E morto il cennato
Federico, gli successe Giovanni del Carretto, suo figlio, il quale, come appare
dall’ufficio della regia cancelleria, non prese giammai l’investitura della
detta terra.»
ERCOLE DEL
CARRETTO
E subito dopo abbiamo Ercole del Carretto, quello che le
saghe sulla venuta della Madonna del Monte chiamano “conte”. Il Barberi annota
su di lui:
«Morto il detto
Giovanni, gli successe Ercole del Carretto figlio legittimo e naturale e
maggiore del detto Giovanni, del quale del pari non risulta investitura alcuna
ed al presente si possiede quella terra per lo stesso Ercole del Carretto, con
un reddito annuo superiore ad once 700.»
Il Baronio, come si
è visto, quasi non lo cita: un accenno trasversale, come si fosse trattato di
un riflesso sbiadito del gran fulgore che era stato il padre.
Il Barberi ebbe a
conoscerlo giacché è proprio sotto Ercole del Carretto che visita Racalmuto
come lascia intravedere il passaggio : al presente si possiede quella terra per lo stesso Ercole
del Carretto, con un reddito annuo superiore ad once 700.
Settecento once di reddito - a meno che non
trattisi di esagerazioni fiscali alla stregua delle mirabolanti cifre dei
moderni accertamenti degli agenti tributari - sono un’enormità. Sia quel che
sia, Racalmuto dunque in esordio del ‘500 - e proprio sotto Ercole del Carretto
- ha un salto quantitativo, un sussulto verso il grande centro. Nostri
precedenti studi ([14]) hanno
messo in evidenza questo significativo passaggio demografico e sociale. Dal
rivelo del 1505 (un paio d’anni dopo la venuta della Madonna) emerge una
popolazione aggirabile sui 1600 abitanti: un secolo prima (nel 1404) erano poco
più di 750. Certo, la baronia dei del Carretto non era stata molto felice e
varie strozzature demografiche e sociali si erano verificate. Le abbiamo notate
in quello studio, ma tutto sommato si poteva essere abbastanza soddisfatti.
La venuta
della Madonna del Monte
Era persino sorto
un clima messianico per cui era potuta allignare la saga della Madonna del
Monte. Sciascia è caustico: «correva l’anno 1503, ed era signore di
Regalpetra Ercole del Carretto ... C’è poi da dire che la statua è della scuola
dei Gagini, e appare molto improbabile sia finita in Africa; ma di più di ogni
altra è inquietante la considerazione sulla scelta della Madonna tra il Gioeni
e il del Carretto, tra i castronovesi e i regalpetresi; inquietante come
l’apparizione dell’immagine di Cristo su una parete al professor Pende, perché
proprio al professore, perché al del Carretto,
perché tra i regalpetresi la Madonna ha voluto fermarsi, la popolazione
di Castronovo essendo in egual misura fatta di uomini onesti e di delinquenti,
di intelligenti e di imbecilli.» ([15]) Ma è
proprio lui che poi negli Amici della
Noce se la prende con l’incolpevole padre Morreale, reo a suoi occhi di
avere cercato un po’ di luce (storica) su questa saga cui tutti i racalmutesi
siamo legati.
Ma neppure, a ben vedere, riusciamo a concordare del tutto con il valente
padre gesuita sui motivi che avrebbero spinto gli odiati Requisenz ad
inventarsi la leggenda della Madonna del Monte «per fare apparire i Conti del
passato, ma intenzionalmente quelli del presente, quali grandi benefattori del
paese: così il barone Ercole del Carretto, e con lui tutta la sua famiglia,
cominciò ad essere presentato nella leggenda come insigne benefattore del culto
della Vergine del Monte, costruttore della sua prima chiesa nel 1503.» ([16]) Osta
se non altro il fatto che i Requisenz si appropriano di Racalmuto il 28 gennaio
1771 ed a quella data la saga era ben
salda nei cuori e nella fede dei racalmutesi, come dimostra l’ex voto che si
ammira al Monte. Precedente era anche lo scritto di Francesco Vinci (pubblicato
secondo lo stesso padre Morreale, pag. 35) nel 1760 e forse anche quello di
Nicolò Salvo. Ma soprattutto appare dirimente il fatto che già nel 1686 la
curia vescovile di Agrigento considerava “miracolosissima imago” (immagine
molto miracolosa) quella che si venerava nella chiesa di S. Maria del Monte di
Racalmuto. ([17]) Il nostro spirito laico ci è d’intralcio nel
chiarire questioni come questa, che coinvolgono aspetti di sì rilevante
delicatezza religiosa. Ci limitiamo a pensare che Ercole del Carretto ebbe
davvero a costruire la prima chiesa del Monte (di una precedente chiesetta
intestata a S. Lucia, non abbiamo alcun documento probante) ed ebbe a
corredarla facendo venire da Palermo una statua di marmo. Fu evento memorabile:
quella Vergine marmorea, così somigliante alle giovani madri di Racalmuto,
brevilinee e rotondette, dovette impressionare e sbalordire gli ingenui occhi
dei contadini locali. Legarvi il senso del portento, del miracolo, fu semplice
e coinvolgente. Già nel 1608, in una visita pastorale, quel simulacro era
maestosamente eretto sull’altare maggiore della Chiesa del Monte: il vescovo -
recita il testo episcopale - “Visitavit altare maius super quo est imago
marmorea S.mi Virginis, ornata et admodum deaurata”.
Tratti
anagrafici di Ercole del Carretto
Scarne sono le notizie che abbiamo su Ercole del Carretto. Non sappiamo
quando nasce: la morte cade invece nel gennaio del 1517. Sposò tal Marchisa di
cui ignoriamo il casato.
Dal processo d’investitura del figlio Giovanni III possiamo abbozzare
questi altri dati: fu “signore e barone della terra di Racalmuto e tenne e
possedette quella terra di Racalmuto con il suo castello e fortilizio, nonché
con tutti i suoi diritti e pertinenze”. “Vi cambiò tutti gli ufficiali tutte le
volte che gli piacque”. “Ebbe a percepire o far percepire frutti, redditi e
proventi della baronia di Racalmuto quale vero signore e padrone”. “Tenne il
figlio Giovanni come figlio primogenito, legittimo e naturale e per tale lo
trattava e come tale lo reputava così come veniva ritenuto, trattato e reputato
dagli altri.”. “In qualità di signore e padrone della predetta terra e padre
del signor Giovanni, piacendo a Dio morì e fu seppellito nel castello della
terra di Racalmuto nel mese di Gennaio VI indizione del 1517, dopo avere
redatto solenne testamento per mano del notaio Giovanni Antonio Quaglia della
città di Agrigento il 16 del predetto mese di gennaio, ove ebbe ad istituire
suo erede universale il detto magnifico signore Giovanni”.
Nel suo processo
d’investitura si legge che: a «Johanni
de Carrectis» successe «quondam magnificus Hercules, unicus filius legitimus et
naturalis.» ([18])
Crediamo che il
noto giurista operante a Racalmuto, Artale de Tudisco, fosse già al servizio di
Ercole del Carretto. Altro notabile del suo
entourage fu il nobile Alonso
de Calderone che così testimonia: «stando
ipsu testimonio como uno degli domestichi di lo quondam magnifico Herculi lu
Garretto baruni di Rayalmuto, vidia dicto magnifico regiri et governari la
dicta terra et in quella permutari li officiali et rescotirisi et fachendosi
rescotirj li renditi et proventi di dicta terra comu veru signuri et patruni et
canuxi lo dicto don Joanni de
Carrectis esseri figlo primogenito et unico di dicto quondam signuri Erculi lu
Garrecto a lu quali lo dicto quondam magnifico Herculi tenia et reputava per
figlio unico et primo genito et da tucti accussi era tenuto, trattato et reputato;
lu quali dicto quondam magnifico Herculi baruni fu mortu in lo castello di
dicta terra et lo presenti lo vitti sepelliri et secondo intisi dicto magnifico
Herculi innanti sua morti fichi testamento.»
Testimoniò anche
certo Francesco Maganero come intimo del defunto barone, così come il “nobile”
Andrea de Milazzo. Personaggi egualmente di risalto furono i “nobili” Antonino
Palumbo, Alfonso de Silvestro e Gaspare Sabia.
Il cennato processo
include anche uno stralcio del testamento di Ercole del Carretto che qui
riportiamo in una nostra traduzione dal latino:
«E’ da sapere come
fra gli altri capitoli del testamento del quondam spettabile Ercole del
Carretto, barone della terra di Racalmuto, vi è l’infrascritto capitolo.
«Nel nome del
Signore nostro Gesù Cristo, amen. Nell’anno dall’incarnazione 1517, nel mese di
gennaio, il giorno 27, VII^ indizione, in Racalmuto e nel castello del
magnifico e spettabile signor Ercole del Carretto [si raccolgono le ultime
volontà testamentarie], accese tre candele verso la quinta ora della notte.
«E poiché capo e
principio di ogni testamento fu ed è l’istituzione dell’erede universale, così
il detto magnifico e spettabile signor Ercole, testatore, istituì, fece ed
ordinò suo erede universale il magnifico e spettabile signor D. Giovanni del
Carretto, suo figlio legittimo e naturale, nato e procreato da lui e dalla
quondam magnifica e spettabile donna Marchisa del Carretto, un tempo prima
moglie dell’illustre e spettabile testatore sopraddetto.
«E tale eredità si
estende sopra tutti i beni suoi, mobili e stabili, presenti e futuri, amovibili
ed inamovibili, nonché in ordine a tutti i debitori ovunque esistenti e meglio
individuabili e designati, e principalmente nella baronia, nei feudi e nei
territori di Racalmuto, con tutti i suoi diritti, redditi, emolumenti,
proventi, onori ed oneri della detta baronia a giusto titolo spettanti e
pertinenti, secondo la serie ed il
tenore dei suoi privilegi e dei suoi indulti e concessioni, in una con
l’amministrazione della giustizia giusta la forma dei suoi privilegi.
«Dagli atti miei,
notaio Antonino Quaglia agrigentino.
«26 marzo - VI^
Ind. - 1518.»
Il testamento ci
svela come Ercole del Carretto abbia sposato in prime nozze la citata Marchisa
madre del primogenito Giovanni III. Ercole poté avere contratto altre nozze ma
non ne sappiamo nulla.
Paolo del Carretto
Di quale madre
fosse, ad esempio il terribile Paolo del Carretto, non è dato sapere. Abbiamo
un inghippo che non è facile districare. Alcuni testi dichiarano Giovanni III
del Carretto figlio unico di Ercole (vedi testimonianza del Tudisco così come
del Calderone), ma nel testamento del Quaglia questo aspetto viene glissato.
Supposizioni se ne possono fare tante, ma il dubbio resta. Ed allora va creduta
la rutilante storia che il Di Giovanni ci fornisce, oltre un secolo dopo, nella
rinomata Palermo restaurata? Siamo
propensi ad avvalorare l’ipotesi affermativa. Va qui allora ricordato che nel
1630 circa quello strano personaggio che fu il cavaliere Di Giovanni scrisse per sé secentesche memorie che oggi
sono una miniera di notizie. Discendente per via laterale dai del Carretto e
addirittura dal padre di Ercole del Carretto - almeno a suo dire - confezionò
un racconto truculento in cui non è facile distinguere il loglio dal grano.
Investe la Racalmuto dei primi del ‘Cinquecento e noi non possiamo esimerci dal
reiterare quel racconto, quanto bizzarro ed inventato Dio solo sa.
«Nel tempo che fu
Lotrecco [Lautrec] a Napoli successe in Sicilia lo caso di Barresi, il qual si
nota dopo quel di Sciacca. E fu il predetto caso, che essendo nella città di
Castronovo D. Paolo Carretto, mio avo paterno, uomo di gran valore, e avendo
differenza con uno di casa Barresi, gli diede il Carretto uno schiaffo; onde ne
successe fra loro gravissima inimicizia, in modo che la città si ridusse a
parte.
Un giorno volle il
Carretto andar a visitare suo fratello D. Ercole, signor di Racalmuto, e vi
andò con 25 cavalli. Ma saputo ciò per le spie da’ nemici, lo assaltâro alla
piana di santo Pietro. Vide egli da lungi venire i nemici; e potendosi salvare
nella chiesa di santo Pietro, gli parve viltà, e si risolse piuttosto morire,
che far gesto di sé indegno. Si venne tra loro alle mani; ché animosamente il
Carretto investì, e ne morsero dall’una e dall’altra parte.
Ma il Carretto,
investendo il suo nemico, era con un pugnale a levargli la vita, avendolo preso
per il petto, quando uno de’ compagni con una saetta lo percosse in fronte e lo
mandò morto a terra.
Satisfatti perciò
i nemici, attesero a salvarsi, e se ne andâro alle guerre del Trecco [Lautrec]
a servire Sua Maestà, perché erano due fratelli; e gli successe in una giornata
di adoperarsi valorosamente sotto la condotta del conte Borrello, figlio del
viceré, perché mantennero un ponte tutti e due, tanto quanto gli arrivasse il
soccorso; dal che si evitò gran danno, che poteva succedere agl’Imperiali.
Del che fattosene
relazione a Sua Maestà, spedita la guerra, fûro i predetti due fratelli
indultati in vita, e fûro fatti capitani d’armi per il regno.
Sentì gravemente
il successo D. Giovanni Carretto, nepote del predetto D. Paolo; e più per
vedersi i nemici, in quel momento favoriti, stargli innante gli occhi, e perché
era di gran valore e chimera, procurò quello, che non avea procurato il padre
D. Ercole.
In quel tempo era
nella città di Naro Enrico Giacchetto, uomo valorosissimo e potente, consobrino
di mia ava paterna, il quale, per avere inimicizia con il barone di Camastra,
anco della città di Naro, manteneva a sue spese cento cavalli, ordinariamente
di gente scelta e valorosa, con li quali faceva allo spesso gesti eroici e singolari. Di costui ne
temeva tutto il regno.
D. Giovanni del
Carretto, figlio del predetto D. Ercole, si fé chiamare il predetto Enrico, che
gli era amicissimo, a cui conferì il suo pensiero, e lo richiese che si volesse
adoperare per lui in satisfarlo di quell’oltraggio.
Gli promise buona
opera Enrico; e perché si sentiva che i Barresi si volevano levar le mogli e le
case da Castronovo, e portarsele alla città di Termine, li appostò Enrico con
quaranta cavalli, e, venendo quelli a passare per il fundaco delle Fiaccate,
per quel cammino assaltò i predetti fratelli con molta compagnia. I quali non
prima si videro Enrico addosso, che sbigottiti si posero a fuggire, e furono
finalmente giunti, presi ed uccisi.
E se ne presero le
teste, che furono portate al predetto D. Giovanni, il quale, benché prevedesse
gran travagli di giustizia, ne fu pure assai satisfatto e contento; tanto si
estimava l’onore in quei tempi.
N’ebbe al fine
gran travagli: ma col tempo ne riuscì con vittoria, grandissimo onore e
reputazione.»
“Più solidità e più stabilità” Eugenio Napoleone Messana
(op. cit. pag. 95) pensa che possa avere il suo congetturare sulla genesi della
saga della Madonna del Monte, quale trasfigurazione dei fatti sopra narrati.
Francamente non ce la sentiamo di seguirlo. Non siamo neppure certi, come si è
visto, che Paolo del Carretto fosse racalmutese e fosse davvero fratello del
barone Ercole.
Probabile invece che
una volta conosciuta la tresca di Paolo, Ercole e Giovanni del Carretto, nelle
prime decadi del Seicento, abbia preso corpo a Racalmuto la sublimazione della
vetusta e pia memoria della “venuta” di
quella adoratissima immagine marmorea della Madonna del Monte.
Il canto popolare
che la prof.ssa Isabella Martorana ha saputo recuperare dalla viva voce delle
locali vecchiette non è coevo certo alla venuta della Madonna del Monte, ma ha
insiti spunti storici che sia pure postumi meglio rispecchiano la genesi della
saga. Venuta da Trapani - più verosimile che si fosse parlato di Punta Piccola
- , “intranno a Racarmuto pi la via/ vonzi ristari cca la gran Signura”, sono
scisti con qualche valenza storica. Ma visto che “a lu conti cci arrivà
mmasciata”, il riferimento è decisamente postumo, databile dopo il declinare
del XVI secolo. Il carme dialettale, bello esteticamente, lascia nelle brume
anch’esso l’origine della pia tradizione del miracoloso evento della Madonna
del Monte che sceglie la sua dimora nel nostro paese, in cima alla panoramica
altura della omonima chiesa.
GIOVANNI III DEL CARRETTO
Figura centrale nello snodo dei feudatari di Racalmuto, fu
anche colui che seppe portare all’apice la signoria carrettesca della nostra
terra. Alla morte del padre s’insedia nel castello baronale con puntiglioso
rispetto della liturgia feudale. Invia a Palermo come suo procuratore il
magnifico Artale Tudisco - di cui sopra - ed il 28 gennaio 1519 ottiene la
rituale investitura.
Giovanni III del Carretto, appena barone, si sarebbe
macchiato della committenza di un delitto contro i Barresi di Castronuovo. Così
racconta il suo lontano pronipote Vincenzo di Giovanni. Ma sarà stato poi vero?
Si dà il caso che gli atti disponibili ce lo raffigurano - per quel che vedremo
- un uomo religiosissimo, al limite del bigottismo, prodigo con preti, monaci e
chiese. Anche con il suo notaio, quel Jacopo Damiano che finì sotto tortura
nelle segrete del Santo Uffizio. Per eresia, si scrisse. Per eccessiva
indulgenza verso gli eccessivi empiti di sperperatrice religiosità del suo
assistito in punto di morte, abbiamo voglia di pensare noi.
Il Baronio ce lo descrive ovviamente in termini
esageratamente elogiativi. Traducendo dal latino, per quello storico di casa
del Carretto: «da Ercole si ebbe Giovanni III, singolare figura per prudenza e
per intemerata virtù. Carlo V quando fu a Palermo lo coprì di mirabili onori.
Di tal che, sia per la propria che per l’avita nobiltà, fu degno di stare con
grande onore tra i Dinasti. Giovanni ebbe due figli: il primogenito Girolamo ed
il glorioso Federico che divenne barone di Sciabica.» (vedi op. cit. §§ 75 e
76)
[1] ) Datis
Cathanie anno dominice incarnationis Millessimo trecentesimo XCVIIII die primo
Januari VIII Ind. Rex Martinus . - Dominus Rex mandat m. Jacobo de Aretio
Prothonotaro [ARCHIVIO DI STATO - PALERMO - RICHIEDENTE NALBONE GIUSEPPE - REAL CANCELLERIA - BUSTA N. 38 - Anni 1399-1401]
[2] ) ARCHIVIO DI STATO DI
PALERMO - REAL CANCELLERIA - BUSTA N.° 28 - F. 117 VERSO
[3] ) Noi
utilizziamo la copia che trovasi nel Fondo Palagonia volume 630.
[4] ) Rosario Gregorio fu storico
e paleologo di grandi meriti: non si riesce a capire perché Sciascia ce l’abbia
con lui. Ecco alcune denigrazioni contenute nel “Consiglio d’Egitto”: «Un uomo,
il canonico Gregorio, piuttosto antipatico, caso personale a parte, fisicamente
antipatico: gracile ma con una faccia da uomo grasso, il labbro inferiore
tumido, un bitorzolo sulla guancia sinistra, i capelli radi che gli scendevano
sul collo, sulla fronte, gli occhi tondi e fermi; e una freddezza, una quiete,
da cui raramente usciva con un gesto reciso
delle mani spesse e corte. Trasudava sicurezza, rigore, metodo,
pedanteria. Insopportabile. Ma ne avevano tutti soggezione.» (Op. cit. edizione
Adelphi Milano 1989, pag. 47).
[5] ) MUSCIA, Sicilia Nobile,
pag. 72
[6] )
Giuseppe Beccaria - Spigolature sulla vita privata di Re Martino in Sicilia -
Palermo - Salvatore Bizzarilli 1894 - pag. 15.
[7] ) [Documenti pag. 97 - I (F.72 e segg.) - 5
giugno 1397.]
Dirigitur
matheo de carrecto.
Dominus rex mandavit mihi notaro furtugno.
(Registro -
Lettere Reali, num. I anni 1396-97, Vª Ind. - Archivio Stato Palermo)
[8] ) Per ACA
Canc. s’intende: “Archivio de la Corona de Aragòn, Barcellona - Cancileria. Il fondo 2808 riguarda: Comune Siciliae, n.° 2801 à 2880 (1416-1458) op. cit. pag. 29.
[9]) vedi anche ARCHIVIO DI STATO
DI PALERMO - PROTONOTARO REGNO - SERIE INVESTITURE N. 1482 - PROC. 21 - ANNO 1452.
[10] ) Fonte citata: ASP ND G.Comito; 18.1.1451,
cioè Archivio di Stato di Palermo - Notai Defunti - Giacomo Comito (1427-1460)
- n.° 843 a 850
[12] ) Giuseppe Sorge - Mussomeli, dall’origine all’abolizione della
feudalità, edizioni ristampe siciliane Palermo 1982 - vol. I - pag. 386 e
segg.
[13] ) Il conto enne presentato
in Palermo il 18 maggio 1502. “Presentate Pa. 18: Maij 1502 in M: R: C: de m.to
D. Salv.ris Aberta p.te per Vincenzu Pitacco Post.m.”
[14] ) Giuseppe Nalbone e
Calogero Taverna, Racalmuto in Microsoft
- dattiloscritto 1995 c/o Biblioteca Comunale di Racalmuto.
[15]) Leonardo Sciascia, Le
parrocchie di Regalpetra - Morte
dell’Inquisitore - Laterza Bari 1982 pag. 82 e pag. 83.
[17] ) Archivio Vescovile di
Agrigento - Registro Vescovi 1686 - f. 785.
[18]) Archivio di Stato di
Palermo - Protonotaro Regno - Investiture - busta 1487 processo n.° 1175 - anno
1518-21 (Foto 13/b del retro infra pubblicata).
Nessun commento:
Posta un commento